Da Pietro al Papato
di Fausto Salvoni

CAPITOLO QUINDICESIMO

IL PROBLEMA DELL'INFALLIBILITA' PAPALE
dalle origini all'odierno dissenso teologico (parte prima)


INDICE PAGINA

Infallibilità papale nei primi dieci secoli
Esaltazione del vescovo romano
La chiesa romana non ha mai errato
La metamorfosi di papa Liberio
Il caso di Onorio
L'infallibilità dal XII secolo al Concilio Vaticano
Il caso di un papa eretico
Bonifacio VIII eretico?
Tendenze antinfallibiliste
L'infallibilità al Concilio Vaticano
Chiesa e vescovi sono sottoposti alla Bibbia
Reazioni moderne
Il papato ai nostri giorni
Spirito critico della nuova generazione cattolica
Il problema del collegio episcopale
Risposta di Paolo VI
Una voce onesta


L'infallibilità papale nei primi dieci secoli

In questo ultimo secolo il papato cercò di passare alla riscossa facendo approvare dal Concilio Vaticano I l'infallibilità papale e cercando, nel Vaticano II, di riconquistare le masse che vanno sempre più distaccandosi dal cattolicesimo e dalla religione in genere.

Traccerò l'evolversi di questa idea dalle origini del cristianesimo ad oggi (1) .

La Chiesa viene presentata quale depositaria della verità, in quanto essa, nel suo insieme, trasmette la verità ricevuta dagli apostoli. E' Suggestiva al riguardo la seguente pagina di Ireneo:

« La Chiesa tutta, avendo ricevuto questa predicazione e questa fede, le preserva come se occupasse una casa sola pur essendo diffusa per tutto il mondo. Essa perciò vi crede e come se avesse un'anima sola e un unico cuore le proclama, le insegna e le trasmette con perfetta armonia, quasi avesse una sola forza. Benché le lingue del mondo siano diverse, unico è il contenuto della tradizione. Infatti le chiese piantate in Germania non credono né trasmettono qualcosa di diverso da ciò che hanno le chiese di Spagna, della Gallia, d'Oriente, d'Egitto, della Libia o della regione centrale del mondo (vale a dire d'Italia e di Roma). Come il sole, creatura di Dio, è unico e identico in tutto il mondo, così anche la predicazione della verità brilla dovunque e illumina tutti gli uomini che vogliono pervenire alla conoscenza della verità » (2) .

Non vi è ancora il concetto di una chiesa superiore alle altre, perché in caso di contestazioni Ireneo suggerisce di ricorrere « alle chiese più antiche » (3) La successione episcopale garantisce l'origine apostolica della fede, ma la dottrina è preservata da tutta la Chiesa e non solo dai vescovi (4) .

Se Ireneo parla della «preminenza » della chiesa romana, lo fa solo perché data la sua cosmopoliticità, a motivo dei fratello che vi si radunano dalle più disparate parti del mondo, il conoscere la fede romana equivale a conoscere rapidamente, senza doversi spostare, la fede di tutte le chiese che vi sono rappresentate dai loro membri. La chiesa di Roma vale più delle altre solo perché è una chiesa universale in miniatura, fondata per di più dai due massimi apostoli Pietro e Paolo (5) .

Gioviniano condannato come «maestro di lussuria» da un sinodo romano diretto da papa Siricio, per il suo rifiuto di riconoscere la verginità di Maria durante il parto, ricorse ad Ambrogio. Nella lettera, che il vescovo milanese inviò a Siricio, afferma chiaramente:

« Sappi che pure noi abbiamo condannato in accordo con il tuo giudizio coloro che tu hai condannato » (6) .

Ciò non significa che Ambrogio abbia condannato Gioviniano perché era già stato riprovato dal vescovo di Roma, ma solo che il suo giudizio si era trovato in armonia con quello di Siricio. Che tale sia il giusto valore del passo appare dal fatto che la sede di Milano brillava allora di un duplice splendore: quello che le conferiva Ambrogio stesso con la santità, la scienza e le doti personali da lui possedute e la presenza abituale della corte. Perciò, tutte le grandi questioni ecclesiastiche dell'Oriente come dell'Occidente, venivano sottoposta ad Ambrogio, il quale radunava concili, esprimeva opinioni e prendeva decisioni. Siricio non protestava, anzi permetteva che le sette province dell'Italia settentrionale fossero direttamente sottoposte all'autorità del vescovo di Milano (7) .

La famosa frase di Agostino «Roma locuta causa finita » ha ben altro valore di quell'infallibilità che si vorrebbe attribuirle, poiché occorre citarla completamente e nella sua forma genuina, che così suona:

« Su questo argomento sono già state inviate le decisioni in due concili alla sede apostolica, di là pure sono arrivati i rescritti. La causa è finita, possa ora finire anche l'errore » (8) .

L'eresia pelagiana, già condannata da due concili generali dell'Africa, veniva ora condannata anche da Roma l'unica chiesa d'origine apostolica; tutto l'Oriente era quindi d'accordo; ogni discussione doveva perciò finire e l'errore cessare. Ma nonostante tale desiderio, l'errore fu assai duro a morire (9) .

Quando Agostino dice: «Non crederei al Vangelo se a ciò non mi movesse l'autorità della Chiesa» (non del papa), non pensa ad una decisione infallibile della Chiesa, bensì al fatto che la Chiesa aveva con cura trasmesso a lui i vangeli che di fatto provenivano dagli apostoli contro il pullulare di tutti gli apocrifi che, falsamente, erano stati attribuiti a loro (10) .

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Esaltazione del vescovo romano

Nel Concilio di Calcedonia (a. 451) nonostante che i vescovi, dopo aver letto la lettera di Leone I a Flaviano, avessero detto: « E' Pietro che ha parlato per bocca di Leone », di fatto però non la ritennero un documento infallibile, approvandola solo dopo aver constatato la identica veduta con tali vescovi e la considerarono valida solo dopo la loro approvazioni (11) .

Occorre ben distinguere la rettorica dalla dottrina: quando Agatone inviò una lettera al Concilio di Costantinopoli III (Ecumenico IV, 681) per condannare il monotelismo che ammetteva un'unica volontà di Cristo anziché due, i padri dichiararono all'imperatore che lo presiedeva:

« Una confessione scritta dal dito di Dio, ci fu data dall'antica Roma; la splendida lice della fede sfolgorò a noi dall'Occidente. Qui non vediamo un foglio scritto: ma è Pietro che ha parlato per bocca di Agatone » (12) .

Che si trattasse di pura rettorica, suscitata dal fatto che Agatone appoggiava la tesi della duplice volontà in Cristo, una umana e l'altra divina, appare dal fatto che si fecero poi degli studi per studiare i passi addotti dai monoteliti (unica volontà in Cristo), tratti dal IV e V Concilio Ecumenico, dal tomo di Leone e da molti altri padri della Chiesa allo scopo di conoscere se fossero genuini e se favorissero o condannassero il monotelismo. Fu così documentato che le ragioni dei contradditori poggiavano su testi falsificati o male intesi, con l'esclusione di altri, i quali non si accordavano con le loro idee. Nessuno dei vescovi quivi riuniti ha mai pensato che la lettera di Agatone fossa norma infallibile di fede per conto suo.

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La chiesa romana non ha mai errato

Questa idea fu affermata per la prima volta da Ormisda nel 519 quando inviò a tutti i vescovi orientali, perché la sottoscrivessero, una professione di fede contro lo scismatico Acacio, che sosteneva la somiglianza (òmoios) del Figlio con il Padre Divino, anziché la sua perfetta uguaglianza (omoúsios). Egli pretendeva sostenere tale richiesta con la pretesa che nella chiesa romana: « la vera fede fu sempre mantenuta senza macchia » (13)

Tuttavia ciò non fu condiviso dagli orientali che, tramite l'imperatore Anastasio, avversarono la formula romana, la quale fu imposta forzatamente, e non senza opposizione anche cruenta, dall'imperatore Giustino. A Tessalonica un legato papale, recatosi per ottenere l'adesione del vescovo, fu malmenato e due suoi servi uccisi; il vescovo, dopo un breve esilio, fu riammesso alla sua sede senza essere obbligato a firmare la formula romana (14) .

Più tardi la pretesa di Ormisda, destinata ad aver successo, fu ripetuta da Agatone, vescovo di Roma tra il 678 e il 681, con la aggiunta che la chiesa romana, non solo non aveva mai errato, ma non avrebbe mai errato nemmeno in futuro (15) . Tale dottrina, riconfermata da Leone IX (16) e da Gregorio VII (17) , fu poi accolta anche da due concili ecumenici (18) . Naturalmente le affermazioni precedenti non furono condivise dagli Orientali, ed erano state già in anticipo biasimate da Basilio che così lamentava la boria prepotente degli ignoranti vescovi romani:

« Che aiuto possiamo avere dall' orgoglio e dal fatto degli Occidentali, che ignorano la verità e non vogliono imparare, impediti a riconoscere il vero per le loro false opinioni? » (19) .

Le affermazioni di Roma erano poi in contrasto con il precedente pensiero di molti vescovi, sia orientali che occidentali, i quali si ricordi Cipriano non ebbero timore a difendere idee in aperto contrasto con l'insegnamento di Roma.

La storia poi smentisce apoditticamente la pretesa precedente in quanto ci presenta un Liberio tentennante, un Onorio scomunicato, come la smentisce pure l'insegnamento comune della teologia medioevale secondo cui il papa può cadere in errore ed essere deposto, in tal caso, dalla Chiesa.

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La metamorfosi di papa Liberio

Per essersi opposto alla deposizione di Attanasio, vescovo di Alessandria e campione dell'ortodossia asseriva infatti l'identica natura tra il Padre e il Figlio – papa Liberio (352-366) per ordine imperiale fu catturato nel 355 dal prefetto della città ed esiliato nella Tracia. Ne fu poi liberato l'estate del 357 dopo aver sottoscritto una delle varie formule siriache, in cui si asseriva una certa subordinazione del Figlio al Padre.

Quella del 357 così suonava: «Nessun dubbio al riguardo: in onore, dignità, maestà, nel nome stesso, il Padre è più grande del Figlio... Nessuno ignora che la fede cattolica insegna esservi due persone: quella del Padre e quella del Figlio, e che il Padre è più grande, mentre il Figlio è minore e sottomesso» (20) .

Queste lettera scritte in esilio documentano la sottomissione di Liberio alle imposizioni imperiali. La prima Studens pacis , diretta agli Orientali, ricorda che già nel 352 lui aveva convocato Atanasio a un concilio, ma quegli non vi si era recato; per cui, ora, meglio informato sugli eventi, condannava Atanasio. Nella seconda Pro deifico timore , pure destinata agli Orientali, Liberio informa i suoi corrispondenti d'aver aderito alla condanna di Atanasio, di averne avvertito l'imperatore, e d'aver sottoscritto la professione di fede da poco formulata a Sirmio da parecchi vescovi e domanda loro di intervenire presso Costanzo onde ottenere il suo ritorno a Roma. (21) . Nella terza Quia scio vobis , inviata a Ursacio, Valente e Germinio, Liberio esprime gli stessi voti e presenta le medesime dichiarazioni già attuate nella precedente lettera agli Orientali. Nella quarta Non doceo , indirizzata a Vincenzo di Capua, lo prega di provocare un passo collettivo dei prelati della Campania presso Costanzo in suo favore. Queste lettere del 357 gli ottennero dapprima  l'autorizzazione di cambiare l'esilio di Berea con la città di Sirmio e poi di tornare a Roma. P. Batiffol (22) ha tentato di dimostrare la falsità di tali lettere senza addurre però delle ragioni plausibili. Alla stessa conclusione è giunto pure Francesco di Capua, che pretende documentarne la falsità studiando il loro cursus prosaico differente dalla stile di Liberio; esse sarebbero quindi dei probabili falsi ariani (23 ). Tuttavia questi sforzi non sarebbero sufficienti; per stabilire il ritmo di Liberio occorrerebbe prima dimostrare che lui in persona (e non un addetto alla cancelleria) abbia scritto le precedenti lettere genuine di Liberio, e, in caso affermativo, che una persona debilitata dopo un periodo di esilio tanto doloroso possa possedere la stessa facoltà di scrivere con l'arte precedente.

Di più la defezione di Liberio è chiaramente attestata da altri documenti.. S. Atanasio sa che Liberio sottoscrisse tale formula solo perché spaventato da minacce di morte. S. Ilario scrive: « Tu (o Costanzo) hai portato la guerra sino a Roma, ne hai strappato il vescovo, e, disgraziato, non so se sei stato più empio rinviandolo che esiliandolo ». S. Girolamo scrive: « Liberio, vinto dal tedio dell'esilio, sottoscrivendo alla gravità eretica, entrò vittorioso a Roma » (24) . È un complesso di testimonianze che ben difficilmente si può eliminare..

Tuttavia anche in questo caso non sarebbe stata in discussione l'infallibilità pontificia, in quanto non si trattava di un insegnamento ufficiale per tutta la Chiesa, bensì solo di un errore personale compatibile con l'infallibilità papale, per cui non insisterò su questo argomento, come purtroppo fanno tanti protestanti.

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Il Caso di Onorio

Al tempo di Onorio (vescovo di Roma dal 625 al 638) si discuteva se Gesù Cristo, persona unica ma con due nature umana e divina, avesse anche corrispondentemente due volontà o una sola. Corifei delle tesi opposte erano Sergio, patriarca di Costantinopoli e difensore del monotelismo, vale a dire dell'unica volontà in Cristo, e Sofronio, patriarca di Gerusalemme, sostenitore invece della duplice volontà. Entrambi gli oppositori ricorsero a Roma, ma Onorio diede ragione a Sergio, biasimando Sofronio. 

Nella sua lettera a Sergio, il papa così afferma: « Noi riconosciamo una sola volontà (én thélema) di Nostro Signore Gesù Cristo, perché non è la nostra colpa, ma la nostra natura, che è stata assunta dalla divinità, e una natura sana e pura com'era prima del peccato... Il Cristo non aveva dunque nei suoi membri altra legge, o altra volontà opposta alla sua (Rom. 7, 23) poiché era nato in modo soprannaturale (25) . E se la Scrittura dice: «Io non sono venuto per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha mandato» (Gv 6, 38) e «non come io voglio, ma come tu vuoi, o Padre» (Mt 26, 38), ciò non indica una volontà umana opposta, ma solo l'abbassamento volontario mediante l'assunzione della natura umana. Ciò è detto per noi, affinché abbiamo a camminare sulle sue tracce, in quanto egli voleva mostrare a noi, suoi discepoli, come ciascuno debba preferire non la sua propria volontà, bensì quella del Signore. E se qualcuno, per così dire, balbetta e pretende spiegare meglio la cosa e si dà come maestro per determinare il senso di ciò che si ode, non ha il diritto di erigere a dogma della Chiesa la sua opinione sull'unico o doppio principio d'operazione nel Cristo, poiché né il Vangelo, né le lettere degli apostoli hanno fissato alcunché di tale » (26) .

L'imperatore Eraclio, allo scopo di mantenere salda l'unità politica dell'impero, promulgò allora l' Ectesi con la quale imponeva  il documento Onorio, che però morì prima di conoscere l'editto imperiale. Il documento papale sconfessato anche dall'imperatore Severino, successo ad Eraclio suscitò la derisione e la condanna sia da parte dei monofisiti, fautori dell'unica natura in Cristo, sia da parte di Sofronio che ammetteva due volontà in Cristo. Frattanto la dottrina della duplice volontà andò sempre più imponendosi e fu sancita dal Concilio di Costantinopoli (VI Ecumenico del 28 marzo 681), che con il consenso dei legati di papa Agatone, anatematizzò gli aderenti alla tesi opposta tr a cui lo stesso papa Onorio.

«Dopo aver letto le lettere di Sergio di Costantinopoli a Ciro di Fasis e al papa Onorio e quelle di quest'ultimo a Sergio, abbiamo trovato che questi documenti contraddicono i dogmi apostolici, le dichiarazioni dei santi concili e di tutti i padri celebri e che seguono le dottrine erronee degli eretici. Noi li condanniamo dunque del tutto e li respingiamo come dannosi per le anime. I nomi stessi di questi uomini devono essere banditi dalla Chiesa, vale a dire quello di Sergio che scrisse su tale empia dottrina, quello di Ciro d'Alessandria, quelli di Pirro, di Paolo, di Pietro di Costantinopoli e di Teodoro di Faran che sono scomunicati tutti da papa Agatone nella sua lettera. Noi li colpiamo tutti di anatema, e a loro fianco deve essere escluso dalla Chiesa e anatemizzato – tale è il nostro sentimento comune – il già papa Onorio della vecchia Roma, poiché abbiamo trovato che nelle sue lettere a Sergio ne condivise in pieno le idee e ne approvò le dottrine empie » (27) .

Papa Leone II confermò l'anatema nel 682 in una lettera all'imperatore Costantino dicendo:

« di scomunicare tutti gli eretici, tra cui Onorio che non fece risplendere la dottrina apostolica in questa chiesa di Roma, ma che per un tradimento profano tentò di sovvertire la fede immacolata, e tutti coloro che morirono nel suo errore » (28) .

Più o meno lo stesso biasimo fu ripetuto dallo stesso Leone in due lettere inviate rispettivamente al re di Spagna Ervig e ai vescovi spagnoli, dove rimprovera Onorio di aver macchiato la regola immacolata della tradizione apostolica (29) e d'aver favorito per negligenza la fiamma dell'eresia (30 ) .

Secondo il Liber Diurnus , formulario ad uso della cancelleria papale composto verso quest'epoca nella chiesa di Roma, ogni papa doveva all'inizio del suo pontificato, una professione di fede con cui anatematizzava Onorio che aveva dato il suo consenso e il suo incoraggiamento agli errori monoteliti (31) . Fino al secolo XVII i sacerdoti nella recita del breviario ricordavano tale condanna, che, con il nuovo clima favorevole all'infallibilità pontificia, fu poi rimossa. In Occidente tale grave fatto venne presto dimenticato, mentre i canonisti e gli annalisti bizantini lo ricordano spesso.

Per eliminare l'ostacolo che ne deriva contro l'infallibilità papale, il card. Baronio dichiarò che le lettere di Onorio e gli atti conciliari furono falsificati; ma come dichiarare spuri tali documenti? (32) . Altri (Bellarmino, Assemani) dissero che la condanna del Concilio era stata dovuta ad un errore di interpretazione degli scritti papali; altri (Garnier, Pagi) vi videro la condanna non della sua eresia, bensì dell'attitudine fiacca con cui il papa si comportò verso l'errore.

Al Concilio Vaticano – dove questo problema fu studiato – il vescovo Hefele si dichiarò favorevole a condannare Onorio di eresia, benché poi, dopo la definizione dell'infallibilità del papa nella sua Conciliengeschichte, abbia modificato il suo precedente pensiero nel senso che Onorio usò delle espressioni ambigue, senza aderire totalmente alla eresia. È tuttavia ben difficile accogliere tutte queste ipotesi: i contemporanei, che ben conoscevano il problema e lessero le lettere di Onorio, erano meglio al corrente di noi del pensiero di Onorio e lo condannarono. È un fatto che egli forse senza individuarne bene le conseguenze aderì alla dottrina di Sergio e condannò Sofronio, il campione dell'ortodossia. Di Più è ben difficile affermare che qui Onorio parlasse solo da privato e che quindi il suo fosse un errore individuale, simile a quello precedente di Liberio. Infatti l'asserzione di Onorio assume un valore più ampio, se si meditano le espressioni: « Noi dobbiamo ammettere ... noi confessiamo », che sembra includere l'esercizio della sua autorità come vescovo universale. Anche gli studiosi più leali devono riconoscere che il caso Onorio crea delle difficoltà non ancora ben chiarite (33) , il che non milita certo a favore dell'infallibilità pontificia.

Si può quindi concludere che nel primo millennio della Chiesa, nessuno affermò l'infallibilità del papa. Anche dove si sostiene che: « Roma non ha mai errato » non si intende riferirsi all'infallibilità individuale del suo vescovo, dal momento che in quel primo periodo le decisioni venivano prese collettivamente mediante un sinodo, senza un intervento diretto e personale del vescovo di Roma.

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L'infallibilità dal XII secolo al Concilio Vaticano

La prima espressione esplicita dell'infallibilità papale si ebbe con Tommaso d'Aquino, il quale, trattando il problema della canonizzazione dei santi, afferma che costoro devono essere in cielo, perché «l a Chiesa universale non può errare in quel che concerne la fede ». Poi, identificando l'autorità dottrinale della Chiesa con quella del papa, sostiene che occorre attenersi alle decisioni papali per determinare quanto appartiene alla fede (34) .

Ne trova la conferma biblica nelle parole di Cristo a Pietro: « Ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno, e tu, dopo essere convertito, conferma i tuoi fratelli » (Lc 22, 32). L'autorità del papa deve quindi stabilire gli articoli di fede, affinché tutti li possano ritenere con fede incrollabile (35) , anche lo stesso simbolo atanasiano «fu accettato per autorità del sommo pontefice (36) . L'infallibilità papale è richiesta per garantire l'unità di tutti i cristiani:

« È necessario per l'unità che tutti i cristiani siano in pieno accordo nella fede, ma è possibile che su qualche soggetto sorgano delle questioni. La Chiesa sarebbe allora divisa per la divergenza delle opinioni, qualora tale unità non fosse sostenuta dalla decisione di una persona. È quindi necessario che, per l'unità della Chiesa, una persona sola abbia a presiedere l'intera Chiesa » (37) .

Però « nei fatti particolari, come la possessione di demoni, delitti ed altre simili cose, la Chiesa può errare a causa della finzione dei testi» (38) .

Va tuttavia ricordato che la facoltà di Parigi nel 1388 condannò le opere di Tommaso, perché contenevano vari errori, tra cui l'infallibilità pontificia. Se ciò fosse vero non si potrebbe più appellare dal papa al concilio, come si è sempre ammesso; di più ogni vescovo fu sempre autorizzato dal diritto divino e umano a giudicare ciò che riguarda la fede ( 39 ).

Giovanni de Torquemada (creato cardinale nel 1468) affermò che secondo la tradizione « il giudizio della sede apostolica (= Roma), per quel che riguarda la fede ed è necessario alla salvezza, è immune da errore » (40) . Sisto IV il 9 agosto 1479 condannò la preposizione di Pietro da Osma secondo cui la « Chiesa di Roma può errare » (41 ).

Tutti costoro, oltre che su testimonianze patristiche adducono a favore dell'infallibilità pontificia, i soliti tre passi biblici, già studiati, che riportano i detti di Gesù a Pietro (42 ) .

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Il caso di un papa eretico

Il problema di un papa che insegni un'eresia e che quindi possa venire deposto dalla Chiesa, è stato discusso dai canonisti medioevali, più che dai teologi, Il cardinale Deusdedit (Deodato 1087) attribuisce a s, Bonifacio, apostolo dei Germani, la seguente confessione:

« Quand'anche un papa fosse odioso al punto di trascinare con sé innumerevoli popoli all'inferno, pure, nessuno avrebbe il diritto di biasimarlo, poiché colui che ha il diritto di giudicare tutti gli uomini non può essere giudicato da questi, a meno che egli scosti dalla fede » ( 43) ,

Tale asserzione, certamente posteriore, poiché al tempo di Bonifacio (m. 754) il papato non esisteva e non poteva quindi trascinare seco molti popoli, passò poi nel decreto di Graziano:

« Nessuno può giudicare i peccati del papa, perché lui può giudicare gli uomini, ma non essere giudicato da alcuno a meno che sia trovato colpevole di eresia » (44) .

Innocenzo III (1198-1216), prima di divenire papa, pur essendo restio ad accettare facilmente un simile caso, ammette che la Chiesa possa deporre il papa qualora erri nella fede:

« Per motivi di fornicazione la Chiesa può deporre il Romano pontefice. Parlo qui di fornicazione spirituale, non carnale. Non crederò tuttavia facilmente che Dio abbia a permettere che il romano pontefice abbia ad errare contro la fede » (45) .
Eletto pontefice disse: «
La fede mi è così necessaria, poiché pur avendo solo Dio a giudice dei miei peccati, per una colpa riguardante la fede, posso essere giudicato dalla Chiesa » (46) .

I teologi non hanno espressamente trattato il problema, tuttavia dall'analogia con quel che Tommaso d'Aquino afferma per un vescovo divenuto eretico, sembra logico dedurre che un papa eretico cessa d'essere vero papa(47) . I canonisti, accettando come scontato che il papa può divenire eretico, discussero il modo con cui poteva e doveva essere giudicato dalla Chiesa. Alcuni, anzi, giunsero persino ad ammettere che la Chiesa possa giudicare il papa anche per altri peccati, qualora questi riguardassero la collettività cristiana (48) . Usualmente però i canonisti limitano tale condanna all'eresia pertinace, nonostante previe ammonizioni (49) . Uguccio (1210) disse chiaramente che in caso di eresia pertinace il papa diviene inferiore a qualsiasi altro cristiano (minor quolibet catholico) (50) .

Lo stesso Giovanni Torquemada, che fu un valido testimone dell'infallibilità del papa, afferma tuttavia che il papa può errare non solo come persona privata, ma persino nel definire il credo. Tuttavia tale suo errore non può servire a dimostrare che il papa è fallibile, poiché in quel momento egli non è più papa (!!). Il Concilio Ecumenico non farà altro che deporre colui che è già decaduto per conto suo a motivo di tale eresia (51) .

Pietro d'Ailly (m. 1420) afferma esplicitamente che il papa può errare in materia di fede, come fece Pietro quando Paolo gli resistette in faccia (Ga 2, 11) perché «non camminava rettamente secondo la verità del Vangelo» (52) , L'infallibilità promessa in Mt 16, 18 riguarda la Chiesa universale quando si esprime in un concilio ecumenico purché poggi su passi biblici (53) .

Secondo Gersone (m. 1429), gran cancelliere dell'Università parigina dal 1395, la infallibilità è stata conferita direttamente alla Chiesa; il papa può errare, come Pietro e perciò da lui si può appellare al Concilio, ciò non contrasta con la Bolla di Martino V del 10 marzo 1418 che proibisce di appellarsi dal papa al concilio, poiché quivi si suppone che il papa abbia agito bene, dopo matura riflessione, cercando di seguire nei limiti del possibile la verità del Vangelo (54) . Diversa è invece la situazione di un papa che sbagli: in tal caso egli è inferiore al concilio ecumenico e perciò può essere giudicato, condannato e deposto dalla Chiesa (55) .

Nicola Tudeschi (m. 1445), pure detto Nicola di Sicilia o Palermitano, sostenne che il papa non può agire contro la decisione del concilio, a meno che presenti delle ragioni migliori. Anzi in materia di fede «l 'asserzione di un privato dovrebbe preferirsi a quella del papa, qualora poggiasse meglio di questi su ragioni e passi del Nuovo e del Vecchio Testamento» (56) .

Il Concilio di Costanza (sess. V, 6 aprile 1615) sancì l'obbligo, anche per il papa, di accettare le decisioni del concilio in materia di fede e di morale: « Chiunque, papa incluso, rifiutasse ubbidienza agli ordini, alle leggi e ai decreti di questo santo concilio ecumenico regolarmente adunato, sarà sottoposto a penitenza e punito secondo le sue colpe se non si pente » (Can. 6).

Dalle asserzioni precedenti si vede come alcuni teologi abbiano positivamente esclusa l'infallibilità pontificia (Torquemada, Gersone, Tudeschi), e tutti abbiano ammesso la possibilità di una eresia da parte del papa, che in tal caso può essere deposto o corretto dal concilio.

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Bonifacio VIII eretico?

Vogliamo qui ricordare la bolla Unam Sanctam (18 novembre 1302) di Bonifacio VIII dove il papa, tra l'altro, afferma:

«Dichiariamo, diciamo, definiamo e pronunciamo essere assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana il sottostare al Pontefice di Roma». Di più si afferma che i due poteri «spirituale e civile» sono in mano della Chiesa (57) .

Ora, secondo la dottrina posteriore della Chiesa cattolica, il potere civile non è sottoposto alla Chiesa, ma direttamente deriva la sua autorità da Dio; e le persone possono salvarsi anche se non stanno sottoposte all'autorità papale. Non si vede quindi come la definizione di Bonifacio – che fu certo una proclamazione ex cathedra e fu tanto combattuta dal potere civile – non sia errata e quindi in contrasto con l'infallibilità pontificia. La bolla è contraddetta da Cristo stesso che dice di dare a Dio ciò che è di Dio e a Cesare ciò che è di Cesare, insegnando la netta distinzione tra i due poteri (Mt 22, 21) e dal fatto che per la salvezza occorre solo avere fede nel Cristo, senza sottostare ad alcun uomo (Gv 20, 30-31; 1 Co 3, 21-23). Confesso che per me tale bolla ostacola l'ammissione dell'infallibilità pontificia.

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Tendenze antinfallibiliste

Gli Orientali, pur riconoscendo l'infallibilità dei concili ecumenici, negano che tale privilegio sia continuato nella Chiesa o nel papa dopo la separazione delle due Chiese d'Oriente e d'Occidente. Anche secondo l'anglicanesimo, specialmente nel movimento di Oxford, l'infallibilità tornerà a regnare dopo che torneranno a riunirsi in un concilio generale le tre chiese: anglicana, greca e romana. I protestanti invece, con Lutero e Calvino, ammettono che la Chiesa è infallibile solo quando trasmette la Parola di Dio, non quando afferma degli i9nsegnamenti propri (58) .

La lotta antinfallibilista in seno al cattolicesimo acquistò particolare asprezza con il Giansenismo – giunto sino alla scisma di Utrecht, – e politicamente con il dispotismo religioso del parlamento regalista francese e poi con la Rivoluzione francese. L'errore che ebbe ripercussioni politiche nel Giuseppinismo, fu teorizzato dal Febronianismo (59) e si diffuse abbondantemente, oltre che in Francia, in Olanda, Austria, Germania e perfino in Italia, specialmente nel Granducato di Toscana sotto Leopoldo I, dove avvenne il famoso Sinodo di Pistoia (60) .

La controversia continuò anche nel Concilio Vaticano I ad opera di Ketteler, Strossmayer, ma finì con la decisione conciliare dell'infallibilità pontificia, che provocò la secessione dei Vecchi Cattolici guidati dal grande teologo Döllinger.

Nonostante il continuo progresso dell'idea infallibilista, prima del 1870 tale dottrina era un dato discutibile, spesso negato dagli stessi cattolici. In Scozia fu pubblicato un catechismo chiamato Keenan's Catechism, edito con l'imprimatur scozzese e raccomandato in Irlanda.
Alla domanda:
D. Sono i cattolici tenuti a credere che il papa è infallibile?
esso così rispondev a:
R. Questa è un'invenzione protestante: non è articolo della chiesa cattolica. Nessuna decisione del papa è vincolante sotto pena di scomunica, a meno che non sia accettata e convalidata dall'Istituto docente, vale a dire dai vescovi della Chiesa (61)

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L'infallibilità al Concilio Vaticano

Nel 1870 Pio IX cercò di far ratificare l'infallibilità papale nel Concilio Vaticano I, inaugurato l'8 dicembre 1869 alla presenza di oltre 700 vescovi, usando dei procedimenti che indussero i dissidenti a chiamare tale concilio il «Ludibrium Vaticanum» (62) .

Essi addussero le ragioni seguenti:

a) Non vi sussisteva una adeguata rappresentanza dei fedeli : trecento vescovi erano solo titolari (e quindi non rappresentavano alcuna parte della Chiesa), altri erano missionari in luoghi dove vivevano ben pochi fedeli; dodici milioni di cattolici tedeschi erano rappresentati solo da quattordici vescovi, mente i settecentomila abitanti degli Stati Pontifici da settantadue. Tre vescovi della minoranza contraria – Colonia, Parigi, Cambray, – rappresentavano cinquemilioni di fedeli. I vescovi napoletano e siciliani erano al contrario ben più di settanta.

b) Diversità di cultura : mentre i contrari (in maggioranza tedeschi) avevano una cultura adeguata in quanto essi per divenire dottori dovevano saper consultare il Nuovo Testamento in greco e gli scritti dei padri greci e dei primi concili nel loro testo originale, in Italia non si esigeva nulla di tutto ciò. Tra i tedeschi circolava con disprezzo il motto « Dottor romanus asinus germanus ». In Inghilterra, Germania e America del Nord si stampavano più libri teologici in un anno, che non in Italia durante mezzo secolo. Ora la maggioranza dei vescovi al Vaticano era costituita appunto da gente che conosceva molto bene il diritto ecclesiastico, ma assai poco il Vangelo, la storia e la teologia.

c) Interessi materiali : circa trecento vescovi avevano accettato il vitto e l'alloggio offerto dal papa, che ne pagava quindi tutte le spese di permanenza. Si disse che il papa, scherzando sul numero di quelli che avevano accettato la sua ospitalità, dicesse: « Costoro per farmi infallibile, finiranno per farmi fallire », al che si rispose con una adeguata offerta in occasione del giubileo della sua ordinazione sacerdotale da parte di altri vescovi più benestanti. Ma è un fatto che essi, anche senza volerlo, erano portati a favorire il papa sotto ogni aspetto. Oltre a ciò erano già pronte quindici nomine cardinalizie per premiare gli ubbidiente, e, come sempre accade, coloro che si lasciarono influenzare dalla speranza di acquistare i favori papali, furono certamente più numerosi di quelli che in realtà li ottennero. Inoltre il papa stesso cercò di mostrare, senza alcun ritegno, che gli stava a cuore tale proclamazione; a qualche vescovo renitente si accostava dicendo: « Petre amas me? Pietro mi ami tu? ». Molti erano quindi indotti ad acconsentire per non dare dispiacere al papa.

d) Scarsa libertà di parola : è un fatto che furono favoriti gli infallibilisti a scapito dei fallibilisti. L'acustica era infelice, i riassunti scritti non furono permessi se non a favore degli infallibilisti. Alcuni discorsi contrari furono aboliti, così avvenne per il cardinale americano Kenrick, che non parlò, per cui si scrisse: « concio habenda at non habita ». A lui e al cardinale italiano Guidi, contrari all'infallibilità, non fu possibile farsi udire perché i vescovi gridavano: « Via i protestanti! Via i protestanti! ». Inoltre il principio del card. Manning era questo: « Non preoccupatevi dei ragionamenti, ma fate di tutto per assicurarvi un voto in più ».
La vigilia della votazione centocinquantacinque vescovi dell'opposizione lasciarono Roma in segno di protesta, dopo aver sottoscritto una dichiarazione in cui affermavano che, in segno di rispetto per il papa, preferivano astenersi dalla votazione pubblica anziché pronunziare dinanzi al papa il « non placet ». Il 18 luglio si ebbe la solenne proclamazione del dogma, in cui tutti i 535 Padri presenti (eccetto due che per un malinteso dissero non placet ) furono concordi nell'approvare la costituzione dogmatica, a cui Pio IX appose la sua infallibile sanzione (63) ,

e) La costituzione dogmatica così suona :

« Definiamo essere dogma divinamente rivelato che il pontefice romano, quando parla ex cathedra, cioè quando, nell'esercizio del suo ufficio di Pastore e Maestro di tutti i cristiani, definisce, con la suprema autorità apostolica, che una dottrina intorno alla fede o ai costumi deve essere ritenuta da tutta la Chiesa, gode, in virtù dell'assistenza divina, promessagli nella persona del beato Pietro, di quell'infallibilità, di cui il divino Redentore volle fosse dotata la sua Chiesa nel definire la dottrina circa la fede e i costumi; e che perciò tali definizioni del romano Pontefice sono irreformabili per se stesse, non già per il sommo consenso della Chiesa » (64) .

Occorre aggiungere due semplici parole per chiarire a chi lo ignora l'esatta portata dell'infallibilità: essa va distinta dall'impeccabilità (il papa può peccare), dalla inerranza (il papa può errare nei suoi insegnamenti, dall'ispirazione (il papa non è ispirato da Dio nello scrivere, come lo furono invece gli autori degli scritti sacri). Il papa è infallibile solo quando vuole imporre a tutta la Chiesa (e non a una persona sola) una dottrina che riguardi la morale e la fede (65) . come nel caso di Urbano VIII che condannò Galileo (66) . Si vede quindi che i casi in cui il papa esercita l'infallibilità sono ben rari anche per i cattolici e spesso, specialmente per i papi più antichi, è ben difficile determinare quando l'infallibilità si sia di fatto esercitata. Di più è infallibile solo la decisione, vale a dire la conclusione e non le prove addotte, per cui, anche se queste fossero del tutto errate, il dogma sancito sarebbe ugualmente vero, in quanto lo Spirito Santo se ne rende garante impedendo l'errore in varie maniere (magari facendo anche morire il papa prima di sancirlo!). Oggi vi è la tendenza presso molti teologi a ridurre sempre più l'esercizio dell'infallibilità sia papale che della Chiesa; nemmeno quando il papa o il concilio proibiscono sotto pena di scomunica una dottrina, parlano sempre ex cathedra e infallibilmente dichiarano ciò che è eresia e ciò che è verità (67) .
(continua)

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NOTE A MARGINE

1. Acta Conc. Vaticani , ed. Lacensis t. VII, Denz. B. Ind. syst, II, c.f. (Chiesa), III f (papa). Per i Padri cfr PL 219, 665 ss C. Kirch , Enchiridium fontium historiae eccl. antiquae , indice sotto: «infallibilità». Per i testi: oltre a quelli di dogmatica si vedano: D. Dublanchy , Infallibilità in «Dict. Théol. Cath.», 7 coll, 1638-1717; F. Spedalieri , De Infallibilitate Ecclesiae in Sanctorum canonisatione , in «Antonianum» 22 (1947), pp. 3-22; P. Santini , Il primato e l'infallibilità del R. Pontefice in S. Leone M. e negli scrittori greco-russi , Grottaferrata 1935; A. Landgraf , Scattered Remarks on the Development of Dogma and on Papal Infallibility in Early Scholastic Writings , in «Theological Studies» 7 (1946), pp. 577-582; Ignazio von Doellinger , Il papato dalle origini fino al 1870 , versione italiana ad opera di Elena Corsi Ferri, Mendrisio, Casa Editrice di Cultura Moderna, 1914; George Salmon , L'infallibilità della Chiesa , Roma 1960 (traduzione S. Corazza). Titolo originale, The infallibility of the Church, Dublin 1888. torna al testo

2. Ireneo , Adv. Haer. , 1,10,2 PG 7, 551-554. torna al testo

3. Ivi 3, 4, 1 PG 7, 855 B. torna al testo

4. Anche il cattolico J. Leboulier (Le Problème de l'Aversus Haerese, 3, 2, e de S. Irénée, in «Rev. Sc. Théol.» 43 (1959), pp. 261-272) a p. 269 dice che i vescovi « non sono un'autorità unica ed esclusiva nella preservazione della fede ». torna al testo

5. Ireneo , Adv. Haer. 3, 3, 2; cfr F. Salvoni , Il primato della Chiesa di Roma secondo Ireneo , in «Ricerche Bibliche e Religiose» 1 (1966), pp. 266-291. torna al testo

6. « Quos Sanctitas tua damnavit, scias apud nos quoque secundum judicium tuum esse damnatos » Ambrogio , Epist, 42, 14 PL 16, 1128. torna al testo

7. Fliche-Martin , Storia della Chiesa , vol. IV, p. 305. Si ricordi che, quando nel 404 l'imperatore Onorio trasferì la sua residenza a Ravenna, era in Ravenna che si trattavano le grandi questioni ecclesiastiche « in attesa che Aquileia divenisse a sua volta centro d'influenza » (ivi). Tutto ciò dimostra che quando una città diveniva imperiale anche la chiesa locale assumeva una speciale preminenza nelle questioni ecclesiastiche. torna al testo

8. Sermo 131, 10 PL 38, 734. « Jam enim de hoc causa duo concilia missa sunt et sedem apostolicam, inde etiam rescripta venerunt. Causa finita est, utinam aliquando finiatur error ». Cfr P. Batiffol , Le Ctholicisme de St. Augustin , Paris 1920, T. II, pp. 404-405. torna al testo

9. Interessante e giusto il commento che ne fa il cattolico G. de Plinval ( Le lotte del Pelagianesimo in Fliche-Martin, Storia della Chiesa, vol. IV, Torino, p. 130 nota 163).  « Da questo testo oratorio si son tratte conclusioni eccessive » (P. Batiffol, Le Catholicisme de St. Augustin, p. 403). Qui si tratta soprattutto di un argomento speciale, destinato ai pelagiani che inclinavano a dolersi di Roma (cfr l''appello di Celestino nel 411; la risoluzione della conferenza di Gerusalemme del 415; S. Agostino, Epist, 177, 15). Nella lettera a Paolino (Epist. 186, 2) in cui riprende quasi letteralmente le parole della perorazione del Sermp 131, 10 S. Agostino – che temeva una decisione affrettata di Zosimo – non dice più: Causa finita est ma soltanto: « Il papa Innocenzo, di beata memoria... ci ha risposto... come è giusto da parte di un vescovo della sede apostolica » (quo fas erat atque oportebat)... (Agostino). Egli credeva soprattutto alla inerranza della Chiesa considerata nel suo insieme (Contra Crescionum III, 77). Roma, come ogni altra gloriosa metropoli gli sembrava l'interprete della tradizione apostolica. Ma il De gestis Pelagii , ch'egli voleva porre sotto una protezione autorizzata è dedicato ad Aurelio (vescovo di Cartagine); nella sua lettera a Paolino invoca la Chiesa di Gerusalemme (Epist, 217, 2, 3 e passim.). Invece, rivolgendosi a Giuliano, vescovo italiano, giustifica la condotta e la dottrina di Roma (Contra duas epistulas Pelagianorum OO, 5 e 6). Cfr Gaspar, Geschichte des Papsttums, vol. I, pp. 332-338, 606. torna al testo

10. Cfr. Agostino , Contra Epistulam Fundamenti 5 , in Corpus Vindobonense XXV, 1, Wien 1887 PL 42, 176. torna al testo

11. Cfr sopra le pagine riguardanti Leone Magno. torna al testo

12 Cfr. A. Saba , Storia dei Papi , Milano 1936, pp. 271; Liber Pontificalis , Ediz, Cantagalli, vol. V, Siena 1934, pp. 89-110. torna al testo

13. Cfr. Denzinger-Bannawart , Enchiridion Symbolorum , n. 171; PL 63, 460. torna al testo

14. Cfr. Ormisda , Epist, 134 , Ediz, Thiell; Dict. Th. Cath, VII, 169. torna al testo

15 « Questa chiesa, essendo fondata sulla ferma rocca di Pietro, il principe degli apostoli, con il suo aiuto e grazia, rimane perpetuamente senza errore » (Apò pàses plànes àkrantos diamènel, PL 87, 1207 a). torna al testo .

16. Leone IX (papa 1049-1054) nella sua lettere " In terra pax hominibus ", inviata a Michele Cerulario, imperatore di Costantinopoli (2 sett. 1053), ripetè che « la chiesa (di Roma) non sarà mai sconfitta dall'opposizione degli eretici » (Denz. 8, 350, PL 143, 748). torna al testo

17. Cfr. il suo Dictatus papae, n. 22, PL 148, 408. Si adduce usualmente la prova di Lc 22, 32, torna al testo

18. Conc. Ecumenico VIII, Costantinopoli IV, Denz. 336 e Conc. Vaticano I, Sess. IV, c. 4, ivi 1832 ss. torna al testo

19 Ep. 329 PG 32, 894 B (con questa lettera Basilio diassuadeva Eusebio di Samosata dal recarsi a Roma); Marcello fu vescovo di Ancira (m. ca. il 375), che fu condannato dagli Orientali come infetto di Sabellianismo, mentre i latini (papa Giulio nel 340; Concili di Sardica e Milano nel 343 e 345) lo dichiararono ortodosso. torna al testo. torna al testo

20. L'originale latino è citato da Ilario (De Synodis 11 PL 10, 489). torna al testo

21. La formula accolta da Liberio fu forse quella Sirmiana del 351, poiché quella del 357 fu presentata solo dagli occidentali. Liberio sottoscrisse pure la formula del 358 dichiarando che « il Figlio è simile al Padre secondo la sostanza e in tutto ». torna al testo

22. P. Batiffol , la paix constantinienne , pp. 509-518. torna al testo

23. F. Di Capua , il ritmo prosaico e le lettere attribuite a papa Liberio , Castellamare di Stabia 1927; Il ritmo prosaico nelle lettere dei Papi e nei documenti della cancelleria romana dal IV al XIV secolo , Vol. I, p. I Leone Magno; p. II Da Cornelio a Damaso in «Lateranum» 3 (1937), 7-8. 213-223. Cfr. pure Glorieux , Hilaire et Libère in «Mélanges de Science Religeuse» (Lilla), 1 (1924), pp. 1-34. torna al testo

24. Atanasio , Histor, Arian. 41; Apol. contra Arianos 89 ; Ilario, Ad. Constant. III ; Girolamo , Chronic.a. 349 « Liberius, taedio victus, haeretica pravitate subscribens, Romam quasi victor intraverat ». Cfr. De Viris inlustr.. 97; quae gesta sunt inter Liberium et Felicem, in «Collectio Avellana» I. torna al testo

25, Ma Cfr. Eb 4, 15. torna al testo

26. Hefele , Hist. de Conc III ed, 2, p. 149; Epistola 4 e 5 al patriarca Sergio PL 80, 470-476. torna al testo

27. Mansi , Conc. Coll. Ampl. XI , 554; katà pantà gnôme exakolouthésante kai tà aoutoù asebe korôsanta dògmata . torna al testo

28. Mansi, XI, 726 ss. PL 96, 408 (greco 410 A) «qui hanc apostolicam sedem non apostolicae traditionis doctrina lustravit sed profana proditione immaculatam fidem subvertere conatus est (greco: subverti, permisit) et omnes qui in suo errore defuncti sunt» torna al testo

29. Anatemizzò pure Onorio «qui immaculatam apostolicae trditionis regulam quam a praedecessoribus suis accepit maculari consensis» Mansi XI, 1050 ss. torna al testo

30 Negligentia confovit, Mansi XI, 1057, torna al testo

31. Liber Diurbus , PL 105, 52 qui pravis eorum assertionibus fomentum impedit. Ciò si attuò sino al IX secolo. torna al testo

32. Si ricordi che la condanna di Onorio fu ripetuta anche nel Conc. Ecum. VII, Nicea II del 787 al tempo di Adriano II. torna al testo

33. Così E. Aman , Honorius in «Dict. Théol. Cath,» VII, 130-132; Cfr. Hefele-Leclercq , Hist. des Conciles III , 347-397; C.J, von Hfele , De causa Honorii Papae , Napoli 1870; Chapman , Condemnation of Pope Honorius , London 1907. torna al testo

34. Quodibeta IX , q. VII, a. 16. torna al testo

35. Summa Theol. IIa, IIae q, 1, a. 10; cfr. In Sent. 4, Dist. 20 q. 1 a 3. torna al testo

36. Summa Theol. IIa, IIae q 11, a. 2, ad 3um «auctiritate summi pontificis est recepta». torna al testo

37. Contra gentes IV, 76. Cfr. Summa Theol. IIa, IIae, q, 1, a. 10. torna al testo

38  Quodibeta 9, c. 16. torna al testo

39. «Hoc continet manifestam haeresim... Prima Haeresis: primo quod per illam conclusionem excluditur universalis ecclesia et generale concilium eam repraesentans, quod est haereticum, quia in causa fidei a summo pontefici appellari potest ad concilium generale ». Cfr Du Plessis D'Argentre , Collectio judiciar , 1, 2, 84 (Döllinger, p. 218). torna al testo

40. Giov de Torquemada , Summa Theologica de Ecclesia c. II c. XIX, Roma 1489, senza impaginazione. Qod sedis apostolicae judicium in his quae fidei subt et ad humanam salutem necessaria, errare non possit . Ma si vedano poi le limitazioni; se un papa diviene eretico egli cessa ipso facto d'essere papa. torna al testo

41. Denz, B. n. 730 ; ecclesia urbis Romae errare potest . torna al testo

42. Mt 16; Gv 21 e specialmente Lc 22, 32. torna al testo

43. Collectio Canonum , c. 1, c. 231 (Dölliger, pp. 160 s.). torna al testo

44. Decretum Gratiani , Divis, 1 Dist, XI c. 6 PL 187, 215; « Cujus culpas istic redarguere praesumit mortalium nullus quia cunctos ipse judicaturus a nomine judicandus, nisi forte deprebendatur a fide devius ». torna al testo

45. Döllinger p. 664. Ego tamen facile non crediderim ut Deus permittet Romanunm Pontificem contra fide errare. torna al al testo

46. Sermo II in Consacratione Pontificis Maximi PL 217, 656 «in tantum enim fides mihi necessaria est, ut cum de caeteris peccatis solum Deum judicem habeam, propter solum peccatum, quod in fide committitur, possem ab Ecclesia Dei judicari. Nam qui non credit jam judicatus est» (cfr, pure Sermo IV, 1 PL 217, 217, 670). torna al testo

47. Summa Theol. IIa, IIae, q. 39, a. 3. torna al testo

48. «Il papa non può essere giudicato per i peccati commessi contro l'intera Chiesa, ma non per quelli che riguardino una o più persone sole ». Rufino , Summa Decretorum , edita da K. Singer, Paderbon, 1902. torna al testo

49. L'eresia « è il solo peccato su cui il papa può essere giudicato », così Enrico de Segusio (m. 1271), Summa Lipsiensi , scritta prima del 1190. torna al testo

50. Citato da Aman , Infallibilité du pape , in «Dict. Théol. Cath», VII (Paris b1922), coll. 1714-15. Cfr. F. Schulte, Die Stellung der Concilien, Päpste und Bischöfe , Praga 1871, pp. 118-205, 253-268. torna al testo

51. Summa de Ecclesia II, 112 (ed. Ven., p. 259). Cfr. J. Schwane, Histoire des Dogmes , Traduction A. Degert, vol. V, Paris 1903, pp. 376 s. torna al testo

52. Non recte ambulans ad veritatem evangeli, in Tractatus de Ecclesia, Concilii Generalis, romani pontificis et cardinalium auctoritate , p. III, c. IV in Gersonis opera, Anversa 1706, p. II, col. 958. torna al testo

53. l. c. Questo lo dà tuttavia non come una conclusione definitiva (non definitive determinando sed doctrinaliter suadendo). torna al testo

54. Quomodo et an liceat in causis fidei a summo pontifice appellare seu eius judicium declinare (fu scritto nel 1418) in Gersonis Opera, Anversa 1706, t. II, coll. 303 ss. e 308. Si veda il modo con cui, mediante il ragionamento, si annullano le leggi e le decisioni precedenti. torna al testo

55. Si veda il suo libro De auferbilitate papae . Egli svolse un'attività di primo piano al Concilio di Costanza (1414) rappresentandovi il re e l'Università di Parigi, egli preparò la rinunzia dei tre papi coesistenti. Cfr. N. Valois, La France et le grand scisme d'Occident , Paris, 4 voll., 1896-1902. torna al testo

56. dictum unius privati praeferendum dieto papae; si ille moveretur melioribus rationibus et auct oritatibus Novi et Veteris Testamentis quam papa, Comment in Decretalia 1, 1, dist. VI, c. IV, n. 3, Venezia 1617, t. I, p. 108. torna al testo

57. Denz B. 469 «Uterque ergo est in potestate Ecclesiae, spiritualis scilicet et. Porro subesse Romano Pontifici omni humanae creaturae declaramus, dicimus, definimus et pronuntiamus amnino esse de necessitate saluti». torna al testo

58. Cfr J. Koble, Luthers Stellung zu Concil und Kirche bis zum Wormser Reichstag 1521 , Guterloh; Küng, Strutture della Chiesa, Borla, Torino 1965, pp. 320-327. torna al testo

59. Giustino Febronio, pseudonimo corrispondente ai nomi delle sorelle Giustina al secolo e Febronia da Uligosa, del convento Giovanni Nicola von Wontheim, autore del libro posto all'indice del 1764; De statu Ecclesiaque legtima potestate Romani Pontificis liber singularis ad reuniendos dissidentes in religione Christiana compositus (1763). Il papa è solo primus inter pares ; egli deve essere spogliato anche con la forza dal potere temporale di tutti i diritti che si è acquisito nel corso dei secoli. torma al testo

60. Il Sinodo avvenuto nel 1786 sotto la presidenza del vescovo Scipione del Ricci, sostenne solo una supremazia onorifica e non giurisdizionale del papa. torna al testo

61. Naturalmente dopo il 1870 tale risposta fu eliminata e modificata secondo le decisioni ecclesiastiche. Come si vede, tale catechismo ammetteva la tesi conciliare della supremazia della Chiesa sul papa. torna al testo

62. Cfr. G. Salmon, L'infallibilità della Chiesa, traduzione ad opera di Sandro Corazza, Roma 1960, pp. 321-326. torna al testo

63. Vaticano Concilio di A. Piolanti, in «Encicl. Cattol.», XII, c. 1144. Strano questo «per un malinteso»; si trattava del Kenrick e del Giusti, già noti per la loro opposizione! torna al testo

64. Sess. 4, c. 4, Denz. B. 1839. torna al testo

65. È ciò che vuol dire la parola tecnica «ex cathedra». Gli antichi magistrati nell'emettere una sentenza con autorità si sedevano sulla loro cattedra, segno del loro alto ufficio (cfr. Gv 19, 13): così con l'espressione ex cathedra si vuol affermare che la cecisione presa dal papa si attuò con tutta l'autorità propria della sua posizione di capo della Chiesa universale. torna al testo

66. Va tuttavia notato che quivi di fatto era in questione l'interpretazione della Bibbia, poiché Urbano III condannò Galileo poggiando su passi biblici malamente intesi. Galileo, laico, comprese la Bibbia meglio dei teologi del suo tempo. Oggi i papi hanno accettato in pieno la tesi di Galileo. torna al testo

67. Così Küng, Strutture della Chiesa, Torino, Borla 1965, pp. 319-364; Y ves M. J. Congar, Sainte Eglise , Editions du Cerf, Paris 1963, pp. 360-367; R. Favre , La condemnation avec anathème in «Bull. Lett. Ecclés.» 47 (1946), pp. 226-241; P. Fransen, Réflexions sur l'anathème au Concile de Trente (Boulogne, 10-24 sept. 1547), in «Ephem. Theol. Lovan» 29 (1953), pp. 657-672. torna al testo