LE  EPISTOLE  PASTORALI
1, 2 TIMOTEO e TITO
Problemi introduttivi
Analisi e contenuto

a cura di Italo Minestroni - articolo tratto da Ricerche Bibliche e Religiose, n. 2-3, II e III Trimestre 1972 pp. 53-65


INDICE
Introduzione
I. La prima Timoteo
II. La seconda Timoteo
III. La lettera a Tito
IV. La dottrina delle tre lettere
    1. Chi sono «gli spiriti menzogneri» e quali le «dottrine diaboliche»?
    2. «Custodisci il deposito»
    3. La comunità di Dio «colonna e sostegno della verità»
V. La struttura organizzativa della comunità di Dio
VI. L'insostituibile funzione delle Sacre Scritture nella comunità di Dio
VII. Altre dottrine delle tre lettere
Conclusione

Introduzione

Queste tre lettere, , che non sono né tra le più lunghe né tra le più brevi di quelle paoline, si compongono di 242 versetti (113 e 83 rispettivamente la 1 e la 2 Timoteo e 46 quella di Tito) e di 897 parole.

Le comunità, che ci presentano, sono sostanzialmente identiche a quelle di Atti e di altri scritti di Paolo, diversi però ne sono l'ambiente, le situazioni e i problemi. Devono essere trascorsi alcuni decenni dalla loro fondazione: le comunità si sono sviluppate, i credenti aumentati, i giovani cresciuti d'età e nuove idee infiltratesi nell'ambiente circostante, diverso per religione e filosofia, hanno fatto presa e stanno turbando gli animi di alcuni fratelli. Bisogna correre ai ripari. Per questo Paolo, dovendo partire per la Macedonia, lascia Tito a Creta (Tt 1, 5) e Timoteo a Efeso (1 Ti 1, 3), come suoi delegati, con la missione di mettere ordine alle cose.

Costretto però dalle circostanze a dover ritardare più del previsto il momento di rivederli (1 Ti 3, 14-15; 2 Ti 4, 16-17.21; Tt 3, 12), sente il bisogno di precisare per iscritto le istruzioni già date loro verbalmente (Tt 1, 5; 1 Ti 1, 3), affinché i due discepoli, ancora così giovani, possano averle sempre sott'occhio e avvalersene eventualmente presso i sorveglianti e le comunità.

torna all'indice pagina


I. La prima Timoteo

Questa lettera manca di un disegno preciso, per cui non è facile dividerla secondo un piano ben ordinato. Ha un prologo ed un epilogo e comprende sei brevi istruzioni a Timoteo, divisibili in due parti, circa i doveri che gli incombono. Nel Prologo (1, 1-2), dopo essersi qualificato come « inviato di Gesù Cristo», Paolo saluta Timoteo «suo figlio genuino nella fede » e gli augura « grazia, misericordia e pace».

Nella prima parte (1, 3 - 4,5) vengono date a Timoteo alcune istruzioni generali per il buon andamento della comunità:

— deve combattere i falsi maestri (vv. 3-20);
— deve vigilare sul buon svolgimento delle pubbliche preghiere e sul contegno degli uomini e delle donne nelle assemblee (2, 1-15);
— deve ammaestrare la comunità circa le doti da richiedersi in coloro che essa  elegge al servizio di sorveglianti (vescovi) e servitori (diaconi) (3, 1-16).

Nella seconda parte (4, 6 - 6, 21) dà al discepolo istruzioni di carattere più personale: come deve comportarsi:

— con i maestri di errore (4, 1-16);
— con le diverse classi di persone, componenti la comunità (giovani e vecchi, uomini e donne, vedove, sorveglianti, schiavi: 5, 1 - 6, 2);
— quali virtù deve praticare e quali vizi fuggire (6, 3-30).

torna all'indice pagina


II. La seconda Timoteo

Questa lettera, che fu ritenuta «il testamento spirituale di Paolo». è stata scritta durante una sua prigionia e in un suo particolare momento psicologico. Paolo si rende conto della sua grave situazione e, presentendo prossima la sua fine, sente il bisogno di rivolgere al discepolo le sue ultime raccomandazioni. In essa si notano un prologo, una esortazione, una istruzione e un epilogo.

Il prologo ( 1, 1-5) reca l'indirizzo, il saluto (vv. 1-2) e un ringraziamento a Dio (vv. 3-5).

Nella prima parte (1, 6 - 2, 13) esorta Timoteo a stare saldo nella fede, a essere costante nel servizio, ravvivando il carisma (1, 6-8) e ricordando i benefici ricevuti dal Signore (vv. 6-10), a sopportare con coraggio, dietro l'esempio di Paolo (vv. 11-18), le sofferenze insite nella predicazione della lieta notizia (2, 1-13).

Nella seconda parte (2, 14 - 4, 18) istruisce Timoteo sulla condotta da tenere con gli attuali maestri d'errore (vv. 14-26) e con quelli che verranno in seguito (3, 1-17).

L'epilogo (4, 9-22) che dà notizie di carattere personale (vv. 9, 21), si chiude con l'augurio e i saluti (v. 22).

torna all'indice pagina


III. La lettera a Tito

E' molto simile alla prima Timoteo, identici ne sono l'argomento, le circostanze, l'incarico e il tempo di stesura. Differiscono nel fatto che questa è più concisa, mentre quella a Timoteo è più intima e familiare.

Può dividersi in tre parti, oltre al prologo e all'epilogo.

Nel prologo (1, 1-4), affermata solennemente la sua missione di inviato, Paolo presenta il piano di salvezza, concepito da Dio e realizzato mediante «la sua predicazione » a augura a Tito, che definisce « suo figlio vero », « grazia e pace ».

La prima parte (1, 5-16), dopo la menzione dell'incarico affidato da Paolo al suo discepoli, reca istruzioni circa le doti che debbono possedere coloro che la comunità elegge al servizio di sorveglianti (vescovi o anziani).

La seconda parte (2, 1-15) contiene istruzioni particolareggiate su ciò che Tito deve insegnare alle varie classi di cristiani (vecchi, donne attempate, giovani e schiavi).

La terza parte (3, 1-11) accenna ad alcuni particolari insegnamenti che Tito deve impartire ai cristiani di Creta: obbedienza alle autorità civili (3, 1), amore del prossimo (vv. 2-7), esercizio delle buone opere (v. 8), fuga dalle questioni vane (v. 9) e dai settari (10-11).

Nell' epilogo (3, 12-15) ci sono alcune istruzioni di carattere personale (vv. 12-13), gli auguri di grazia (v. 14) e i saluti (v. 15).

torna all'indice pagina


IV. La dottrina delle tre lettere

Loro tema costante è la trasmissione fedele del messaggio cristiano e la sua buona conservazione. Paolo vede addensarsi sulle comunità le nubi minacciose dell'errore, proprio mentre egli sta per giungere al termine della sua vita, e scorge la possibilità di superare la prova solo nella fedeltà alla buona notizia e nella efficiente struttura organizzativa delle comunità.

1) Chi sono «gli spiriti menzogneri» e quali «le dottrine diaboliche»?

a) Codesti « spiriti menzogneri», appartenenti « ai circoncisi » (Tt 1, 10), sono probabilmente individui di origine ebraica o che avevano accettato alcuni elementi del giudaismo (giudaizzanti) e lo integravano con dottrine gnosticizzanti (1) Paolo li qualifica come «boriosi » «pretendono infatti di essere dottori della legge senza neppure sapere ciò che dicono né ciò che affermano» (1 Ti 1, 7) — come turbolenti ciarloni e seduttori (Tt 1, 10), corrotti di mente e pervertiti nella fede (2 Ti 3, 8), impostori e ipocriti (1 Ti 4, 2), affetti da mania (1 Ti 6, 3-4) e avidi di guadagno (Tt 1, 11; 1 Ti 6, 5), fomentatori di divisioni (1 Ti 6, 4-5). Una vera peste!

b) Rifiutano la verità per attenersi a favole giudaiche(2) e a comandamenti di uomini (Tt 1, 14). Provocano dispute e polemiche intorno alla legge(3) (Tt 3, 9), alle genealogie(4) (1 Ti 1, 4), insegnano novità (5) (1 Ti 1, 3) che abbagliano col falso splendore dei loro sofismi, provocando in seno alla comunità prima questioni oziose, poi obiezioni sciocche e arguzie sterili, quindi la perdita della fede. Tale è la via dell'errore, a cui si può porre rimedio « custodendo il deposito» (1 Ti 6, 20; 2 Ti 1, 14).

torna all'indice pagina


2) «Custodisci il deposito»

« Deposito» è il messaggio della buona notizia, la verità cristiana che Dio ha affidato a Paolo e che questi ha trasmesso a Timoteo e ai cristiani (6) Si tratta quindi di qualcosa di ben definito, di preciso che deve essere conservato integro come un tesoro.

Fondamento di questo deposito è la missione di testimoni e maestri affidata da Gesù ai suoi inviati (Gv 15, 26s; At 1, 8.12) che li rende « fondamento» della Comunità di Dio (Mt 16, 18; Ef 2, 20). «Il deposito » perciò è completo fin dalla morte degli inviati, e le verità, che lo costituiscono, trasmesse da loro alla Comunità di Dio(7) non possono subire aggiunte, detrazioni o innovazioni, devono essere sempre le stesse nei secoli, affinché « il deposito» sia sempre tale. Non per nulla la Provvidenza nelle sue disposizioni mirabili ha provveduto a non lasciarlo esclusivamente in balia dei pericoli della trasmissione orale, ma che fosse fissato per scritto, ammonendo espressamente a « non andare oltre ciò che è scritto » (1 Co 4, 6).

Non è la Comunità nei suoi «presidenti o vescovi » che ha ricevuto questo «deposito », ma tutta la Comunità nei suoi credenti in tutto il mondo. Essi lo custodiscono e conservano integro per l'azione dello Spirito Santo nel cuore di ciascuno (2 Ti 1, 13-14).

Potranno anche essere meravigliose le organizzazioni chiesastiche, grandiose le loro apparenze esteriori, millenarie le loro tradizioni, non sono però esse la norma della verità cristiana; « il sacro deposito » (8) è dato dall'insegnamento di Cristo e dei suoi inviati come sta fissato negli scritti del Nuovo Testamento. Solo accettando ed ubbidendo a questa divina norma si può essere e dirsi « cristiani»!

torna all'indice pagina


3) La comunità di Dio «colonna e sostegno della verità»

Paolo dà in questi scritti alcuni chiari e basilari insegnamenti circa la natura e la missione della Comunità di Dio, che, se ben compresi e giustamente seguiti, sono il più efficace antidoto contro ogni forza disgregatrice e sovvertitrice.

a) La Comunità viene definita « la famiglia di Dio» (1 Ti 3, 15). Come tale, essa ha un Padre, una norma di vita e uno scopo. Il Padre è Dio. Egli è un Padre «vivente » (1 Ti 3, 15), cioè che esiste veramente e opera di continuo in mezzo ai suoi figli, i quali formano « il puro popolo, che Dio si è preparato » (Tt 2, 14).

b) Il saldo fondamento della Comunità di Dio è Cristo (2 Ti 2, 19) e «nessuno può porne un altro» (1 Co 3, 11), fossero pure Pietro, Paolo o qualche grande maestro di religione. Come sulla pietra d'angolo degli antichi edifici venivano scritti i nomi del fondatore e costruttore assieme a formule di buon auspicio, così sul fondamento della Comunità di Dio è inciso il nome di Cristo Gesù e sono scritte parole della buona notizia rassicuranti i credenti che Dio ha cura di coloro che gli appartengono. Non si può pertanto cancellare dal fondamento della Comunità il nome di Cristo senza demolire la Comunità stessa.

c) Missione della Comunità è quella di essere «colonna e sostegno della verità » (1 Ti 3, 15). Come la colonna che sostiene una statua o un edificio non è la statua o l'edificio, così la Comunità che sostiene la verità cristiana non può confondersi con la verità che sostiene; la chiesa non può di conseguenza divenire fonte di verità, con il suo magistero. Dio solo è fonte di verità, e sua norma è l'insegnamento di Cristo trasmessoci dai suoi inviati negli scritti neotestamentari. La Comunità, nata dalla predicazione del messaggio della buona notizia, deve essere a sua volta « colonna e sostegno» perché ad essa è affidato il compito di farlo conoscere a tutti gli esseri umani, di difenderne la purezza e l'integrità, affinché il Regno di Dio si dilati dovunque. Fondata sulla verità, la Comunità deve continuamente nutrirsi di essa per crescere nella sua conoscenza e nella sua pratica. Verità che è sempre la stessa in ogni tempo, perché sempre lo stesso «ieri, oggi e in eterno » è il Cristo, suo fondamento (Eb 13, 8), e quindi non suscettibili di adattamenti o aggiornamenti alle mutate condizioni di vita del consorzio umano.

torna all'indice pagina


V. La struttura organizzativa della comunità di Dio

Affinché la Comunità di Dio possa svolgere nel modo più efficace la sua missione di « colonna e sostegno della verità», Paolo traccia in queste lettere la sua struttura organizzativa congregazionale, che è in sé molto semplice ma veramente efficiente.

1) Deve riconoscere innanzi tutto l'autorità degli inviati di Cristo. E' il Cristo che ha dato alla sua Comunità «gli uni come inviati » (Ef 4, 11) e che ha voluto fosse edificata « sul fondamento degli inviati» (Ef 2, 19), facendo della loro predicazione lo strumento di salvezza: « Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me, e chi sprezza me sprezza Colui che mi ha mandato » (Lc 10, 16)

Le prime comunità cristiane furono tutte apostoliche, non tanto perché fondate dagli inviati stessi, quanto invece perché « erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli inviati » (At 2, 42). Questa e non altra è la vera successione apostolica. Questo è il motivo per cui Paolo inculca alle comunità di Efeso e Creta di accogliere Timoteo e Tito, che invia loro come suoi delegati, come acciglierebbero lui stesso, inviato di Cristo.

2) Le comunità devono darsi dei sorveglianti o anziani qualificati. vedendo diminuire lentamente in seno alle Comunità i carismi straordinari dello Spirito e infiltrarsi errori di vario genere, Paolo vuole che le congregazioni si scelgano per sorveglianti dei cristiani veramente qualificati (1 Ti 3, 1-7; Tt 1, 5-9) che siano soprattutto « attaccati alla vera dottrina e in grado di esortare con sano ammaestramento e confutare i contraddittori» (Tt 1, 9; ! Ti 3, 2; 5, 17; 2 Ti 2, 2)(9) Essi devono essere sempre più di uno e costituire il presbiterio o gruppo di anziani (1 Ti 4, 14), a cui è demandato il servizio del presiedere (1 Ti 5, 17), di prender cura della famiglia di Dio (1 Ti 3, 5). perciò devono essere tenuti in sommo onore dai cristiani (1 Ti 5, 17).

3) Per i servizi amministrativi e caritativi la comunità deve scegliere dei servitori ( diaconi ) in possesso di doti ben precise che Paolo elenca in 1 Ti 3,8-13 (10) Essi sono a servizio della comunità e non degli anziani, ma la comunità non deve considerarli alla stregua di « anziani più giovani». Gli assistenti, che servono bene, «si acquistano un grado onorevole e molto prestigio nella fede » (1 Ti 3, 13)(11) .

4) Nel particolare bisogno le comunità di Efeso e di Creta avevano degli evangelizzatori, Timoteo e Tito, inviati da Paolo: «Fai opera d'evangelizzatore », inculca Paolo a Timoteo (2 Ti 4, 5), e Tito ha lo stesso incarico. Questo è il dono che Timoteo deve « ravvivare» (2 Ti 1, 6) e che fu riconosciuto a lui sia da Paolo che dagli anziani della comunità di Listra mediante l'imposizione delle mani (2 Ti 1, 6; 1 Ti 4, 14) (12) E' il Signor Gesù che ha voluto nelle comunità « gli altri come evangelizzatori» (Ef 4, 11)(13) e per questo Paolo traccia per i due discepoli la figura del buon evangelizzatore in queste lettere.

Timoteo e Tito non furono in Efeso e a Creta come vescovi o pastori (così opinano la Chiesa cattolica e le Chiese protestanti). Non avrebbero dovuto esserlo, data la loro giovane età e mancando della qualifica di buoni reggitori della loro famiglia. La loro presenza a Creta segna piuttosto il necessario passaggio tra il periodo della diretta e personale autorità degli inviati (apostoli) sulle comunità, a quello in cui il gruppo degli anziani sarà in grado di compiere tutte le funzioni necessarie alla prosperità della comunità (14) .

torna all'indice pagina


VI. L'insostituibile funzione delle Sacre Scritture nella Comunità di Dio

Strumento a disposizione della Comunità per arginare e debellare gli errori e guidare i fratelli al progressivo perfezionamento nella vita cristiana sono le Sacre Scritture. Paolo ne afferma chiaramente in queste lettere l'origine divina, la sufficienza e la funzione pedagogico-formativa per « l'uomo di Dio» (2 Ti 3, 14-17).

1) La divina origine. Dice Paolo: « Ogni parte della Scrittura è ispirata da Dio » (ib. 3, 16), cioè è opera del soffio di Dio, di un particolare influsso divino, che ha sospinto gli agiografi a scrivere « da parte di Dio » mossi dallo Spirito Santo ( 2 Pt 1, 21). Essa quindi non è parola di uomini, ma parola di Dio (1 Te 2, 16). Con questa affermazione, che suppone come dato di fatto indiscutibile per tutti, Paolo intende riferirsi specialmente al Vecchio Testamento (ricordato nel versetto precedente) ma indirettamente anche agli scritti del Nuovo Testamento, perché l'espressione è di portata generale (15) Questa divina origine fa della Bibbia un libro unico al mondo.

2) La sufficienza delle Scritture. Dice Paolo che «le Sacre Scritture hanno il potere di rendere saggio a salvezza, mediante la fede che è in Cristo Gesù, l'uomo di Dio» (2 Ti 3, 15). Ora sappiamo che il Nuovo Testamento è stato scritto perché abbiamo fede in Cristo Gesù (Gv 20, 31). Poiché il Vecchio Testamento (cioè le Sacre Scritture) ci salva « mediante la fede in Cristo Gesù», e poiché questa la si ottiene mediante gli scritti neotestamentari, possiamo concludere che il Vecchio Testamento più il Nuovo Testamento (cioè la Bibbia) hanno il potere, se lo vogliamo, di insegnarci la via della salvezza.

3) Ma le Sacre Scritture (probabilmente l'A.T. qui!) sono anche «utili per rende l'uomo di Dio perfetto e pienamente equipaggiato per ogni opera buona » (2 Ti 3, 16-17). Quindi il cristiano (l'uomo di Dio) trova nelle Sacre Scritture ogni aiuto didattico (« istruire»), polemico (« confutare»), correttivo (« correggere»), pedagogico (« educare alla giustizia»), cioè tutto quanto gli abbisogna per essere perfetto in tutte « le opere buone» (Tt 3, 8).

torna all'indice pagina
VII. Altre dottrine delle tre lettere

1) In queste lettere Paolo parla sovente di Dio, di Gesù Cristo e menziona anche lo Spirito Santo.

DIO è il «vivente » (1 Ti 3, 15) e il salvatore di tutti (ib. 4, 10; Tt 1, 3ss). E' « il Re dei re e il Signore dei signori », il solo che possieda l'immortalità assoluta e incondizionata (1 Ti 6, 18). Egli «abita una luce inaccessibile » che lo rende invisibile all'uomo (1 Ti 1, 17; 6, 16). E' un essere «unico » (ib. 1, 17), datore e creatore di ogni vita (ib. 6, 13). Tutte le cose da lui create «sono buone », se usate per gli scopi e nei limiti da lui assegnati (ib. 4, 4).

GESÙ CRISTO è «uomo » (1 Ti 2, 5) e insieme «Signore », il «nostro grande Dio », è un epiteto che va riferito a lui e non al Padre (Tt 2, 13; 1 Ti 1, 12; 2, 5; 2 Ti 1, 2.8). Manifestatosi in terra per essere « il salvatore degli uomini » (Tt 1, 4; 2 Ti 1, 10), egli ha offerto se stesso come prezzo di riscatto (1 Ti 2, 6; Tt 2, 14). Perciò è « il solo mediatore tra Dio e gli uomini» (1 Ti 2, 5), che ha infranto il potere della morte e fatto rifulgere la vita e l'immortalità per gli esseri umani (2 Ti 1, 10; 1 Ti 3, 16). Egli si manifesterà di nuovo alla fine dei tempi (1 Ti 6, 14) per dare agli eletti che lo attendono con amore, « la corona di giustizia» (2 Ti 4, 8; Tt 2, 13) e punire i cattivi secondo le loro opere (2 Ti 4, 14).

Circa lo SPIRITO SANTO, sebbene le lettere non dicano molto, tuttavia si ha in esse un chiaro suo riconoscimento. In una di quelle espressioni pregnanti che il cuore di Paolo sa coniare per esprimersi in breve, Lo Spirito Santo è presentato come un elemento in cui il credente ravveduto fa il suo bagno, come un'acqua spirituale in cui l'anima si immerge nell'atto in cui il corpo è immerso nell'acqua naturale, uscendone giustificato e rinnovato: «Mediante il bagno di rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo » (Tt 3, 6).

2) In riferimento all'« immersione» (battesimo), Paolo ne dà una bellissima definizione descrittiva tanto ricca di motivi di considerazione spirituale; essa è « il bagno di rigenerazione» che rinnova il credente mediante lo Spirito, rendendolo giustificato ed erede della vita eterna (Tt 3, 5s).

3) Secondo queste lettere la vita cristiana ha per fondamento la fede sincera (1 Ti 1, 5) e perseverante (ib. 1, 19), che fa sovrabbondare nei credenti la grazia di Dio (ib 1, 14). Perciò il cristiano deve perseguire la fede (ib. 6, 11), conservarsi in essa (Tt 1, 13), se non vuole fare naufragio (1 Ti 1, 19). La fede consiste essenzialmen- te nella «pietà », intesa nel più completo senso di culto interiore ed esercizio di tutte le virtù (Tt 2, 12; 2 Ti 3, 5.12; 1 Ti 2, 2; 4, 7-8; 6, 3.5.6.11), particolarmente della saggezza o moderazione (Tt 1, 8 ecc.; 1 Ti 2, 9 ecc.; 2 Ti 1, 7). La pietà è sotto tutti gli aspetti di grande vantaggio e fonte di guadagno (1 Ti 6, 6). Donde il dovere del cristiano di perseguirla (ib. 6, 11).

La fede deve però essere anche caratterizzata dall'«amore » che è l'anima delle « opere buone» che tutti i cristiani devono compiere (Tt 2, 7; 3, 14). Queste « opere buone » non vanno confuse con le opere meritorie o supererogatorie (Tt 3, 5), ma sono la manifestazione naturale di un cuore rigenerato e pieno di fede, che si esplica nell'ospitalità (1 Ti 5, 10), nel soccorrere chi è nel bisogno (Tt 3, 14), nella generosità e liberalità (1 Ti 6, 18), nella bontà non litigiosa (1 Ti 3, 3), non iraconda ed arrogante (Tt 1, 7). E' solo in questa armonia tra condotta e professione della fede che il cristiano può conseguire quella « buona coscienza », che lo fa vivere « piamente, giustamente e temperatamente » (Tt 2, 12).

torna all'indice pagina
Conclusione

Queste lettere, che rappresentano quasi «il testamento spirituale di Paolo», ci mostrano tutto il suo amore per Cristo, per la causa della buona notizia e per la salvezza delle anime. Egli ha la sicura coscienza di essersi speso completamente a questo scopo e può dire tranquillo « Signore, vieni!». Ma il suo cuore trepida per le nubi che si addensano sulle congregazioni da lui fondate, sulle anime da lui salvate. per questo le tre lettere ci fanno sentire le vibrazioni del suo cuore, tutto teso a salvare quante più anime possibile, anche quando non sarà più vivente su questa terra.


NOTE A MARGINE

1. Diciamo «dottrine gnosticizzanti » e non «gnostiche » perché la «gnosi », di cui si parla in queste lettere, non è quella che poi si sviluppò in un sistema ben definito nel 2° secolo. Cf. lo studio di F. Salvoni qui pubblicato. torna al testo

2. « Favole giudaiche » erano leggende senza fondamento storico e senza contenuto religioso-morale, che abbondarono nel giudaismo della decadenza, come mostra il Talmud, che ne contiene parecchie. Ad esse indulgevano soprattutto i giudeo-cristiani. Questa tendenza porterà, in seguito, a creare leggende sulla nascita, infanzia e discesa all'Ades di Gesù, che nel 2° secolo diedero vita ai Vangeli apocrifi. torna al testo

3. Queste «dispute intorno alla legge » non riguardavano la funzione della legge come di pedagogo a cristo né la necessità della sua osservanza per la salvezza (cf. At 15, Romani, Galati), ma cibi e bevande, e forse anche certe strane interpretazioni su alcune sue disposizioni. torna al testo

4. « Genealogie » non sono quelle bibliche tanto care ai giudei, né la mania di trovare sensi allegorici in esse, né tanto meno la serie delle successive emanazioni degli eoni dalla divinità immaginate dai sistemi gnostici del 2°-3° secolo. Si tratta invece di discussioni sulla origine dei diversi ordini angelici, di cui si occupavano i libri segreti degli Esseni e alle quali sembra alludere Paolo in Cl 2, 18, oppure (con più verosimiglianza) di speculazioni campate in aria ad opera di persone desiderose di spaziare nell'ignoto per dare soluzioni nuove al problema delle origini delle cose. torna al testo

5. Il termine greco «eterodidaskalèin » (1 Ti 1, 3), usato da Paolo, è di difficile traduzione. Noi lo abbiamo reso «insegnare dottrine diverse », cioè novità. torna al testo

6. Tutti gli studiosi concordano nel ritenere che tale è il significato di « deposito » in 1 Ti 6, 20; 2 Ti 1, 14. Divergenze ci sono per quanto riguarda invece 2 Ti, 1, 12 « il mio deposito »: alcuni con i Padri greci intendono l'aggettivo « mio » in senso oggettivo e spiegano: il deposito che da Dio è stato affidato a Paolo, cioè il messaggio della buona notizia; altri con i Padri latini l'intendono in senso soggettivo, spiegando: il deposito che Paolo ha affidato a Dio, cioè la retribuzione gloriosa, o la sua anima, oppure il capitale dei meriti accumulato per il cielo (cattolici). Noi riteniamo più giusto il primo senso, tenendo presenta la preoccupazione costante di Paolo di essere un « amministratore fedele» (1 Co 4, 2) e la sua consonanza col linguaggio della giurisprudenza romana. torna al testo

7. Per «Comunità di Dio » intendiamo la Comunità in senso universale, che sola è. secondo Paolo, «colonna e sostegno della verità» (1 Ti 3, 15) e non la Chiesa docente o Magistero, secondo l'insegnamento cattolico, che fa dei vescovi gli unici depositari della dottrina apostolica (Constit. Dogm., «Dei Verbum», 5, 25 del Vatic. II). torna al testo

8. Anche la Chiesa Cattolica parla di «deposito della fede» (Conc. Vat. I: Constit. «De fide Cathol. IV» e Constit. «De Ecclesia IV» Denz. 1800 e 1836; Conc. Vat II: Contist. Dogmat. «Dei Verbum» 2, 10), ma esso comprende con La Sacra Scrittura anche la Sacra Tradizione e il Magistero. Circa la natura poi della «tradizione» è da notare la palese divergenza esistente tra Tridentino e Vaticano I da una parte e il Vaticano II dall'altra. Infatti, mentre il Vaticano I, riecheggiando il Tridentino, afferma: «La rivelazione soprannaturale... è contenuta nella Scrittura e nelle TRADIZIONI NON SCRITTE che gli apostoli hanno ricevuto da Gesù direttamente oppure per influsso dello Spirito Santo, e hanno trasmesso in modo che, COME DI MANO IN MANO, pervenissero fino a noi » (Constit. «De fede cathol. 2»; Denz. Enchir. Symbol. 1787), facendo così intendere che codeste « tradizioni non scritte » sono un corpo ben definito di dottrine. Il Vaticano II, per contro (cf. Constit. Dogm. «Dei Verbum, 2»), dice che «questa tradizione di origine apostolica PROGREDISCE NELLA CHIESA... sia con la riflessione e lo studio del credenti... sia con l'esperienza, data da una profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità (ib. n. 8)... sia per l'interpretazione autentica della Parola di Dio scritta o trasmessa affidata al Magistero vivo della Chiesa» (ib. n. 10). Questo diverso parlare di due consessi infallibili ci lascia non poco perplessi. torna al testo

9. L'unione, che tende a diventare normale, del servizio dell'insegnamento con quello di sorvegliante è l'unica differenza che scorgiamo tra questi e i precedenti scritti paolini. Il sacerdozio di casta e l'episcopato monarchico sono deviazioni del 2° sec. Né abbiamo qui traccia di distinzione tra clero e laici e di assimilazione del sacerdozio cristiano con quello ebraico, anzi qui si insegna che tutti possono pregare nel culto pubblico e anche predicare durante le assemblee, ad eccezione questo delle donne (1 Ti 2, 11-15; cf. 1 Co 10, 2-12). Di più, non riscontriamo in questi scritti paolini alcuna distinzione tra il sorvegliante (vescovo) e il presbitero (anziano): tali termini infatti vengono usati intercambiabilmente (1 Ti 2, 1; 5, 17-20; Tt 1, 5-7). torna al testo

10. I sette cristiani qualificati, di cui si parla in At 6, 1-6, eletti per servire alle mense (diakonèo ) dalla comunità di Gerusalemme non possono essere considerati « assistenti » come quelli di cui scrive Paolo ai Filippesi (1, 1) e a Timoteo  (1 Ti 3, 8-13). Infatti il loro servizio non fu stabile come lo è questo, tanto è vero che vediamo alcuni di loro dedicarsi poi alla evangelizzazione (Stefano At 7; Filippo At 8; 8, 21). Né d'altra parte Luca chiama « assistenti » questi sette, pur usando per loro il verbo « servire » ( diakonèo ). I « sette » potrebbero essere stati il primo passo verso la costituzione in seno alle comunità di uno stabile servizio di « assistente » ( diaconato ). torna al testo

11. Per lo studio sulle Diaconesse rimando allo studio apposito, qui pubblicato. torna al testo

12. L'imposizione delle mani, di cui sopra si parla, non fu la consacrazione di Timoteo a prete, a vescovo o a pastore (come pensano cattolici e protestanti), ma fu riconoscimento del carisma ricevuto, invocazione di aiuti divini, segno di comunione spirituale. torna al testo

13. Questa divina origine del servizio di « evangelizzatore » in seno alla comunità è troppo spesso dimenticata e trascurata da alcuni fratelli, i quali vorrebbero emarginare, o addirittura fare a meno, dell'evangelizzatore nella comunità, in virtù del principio biblico che tutti i fratelli possono predicare all'assemblea. Tutti «possono» predicare, è vero, ma l'evangelizzatore «deve» predicare dentro e fuori la comunità. Se non lo facesse, non adempirebbe al suo mandato! torna al testo

14. Per questo le lettere a Timoteo e Tito, più che « lettere pastorali», dovrebbero essere chiamate «lettere agli evangelizzatori ». torna al testo

15. Il greco «pasa graphé » viene spiegato in tre modi sostanzialmente identici ma diversamente sfumati:
Il primo : « Tutta la Scrittura », ma non sembra essere questo il pensiero di Paolo, il quale, quando vuole intendere tutta la Scrittura, usa sempre l'articolo;
il secondo : « Ogni passo della Scrittura » che può essere una traduzione legittima, confortata da Gv 19, 24.37; At 1, 16; 8, 35, ecc.;
il terzo : « Ogni parte della Scrittura », che è la traduzione che meglio si adatta al contesto e perciò la più seguita.
Inoltre, è da chiedersi: dove va collocato il verbo sottinteso « è»? prima o dopo la frase « ispirata da Dio »? Origene e non pochi moderni lo pongono dopo e spiegano: « Ogni Scrittura (essendo) ispirata da Dio è utile... », come se Paolo abbia voluto porre l'accento sull'utilità pratica della Scrittura e accennare solo di passaggio alla sua ispirazione, che è il fondamento di questa utilità. Questa spiegazione però, oltreché sottintendere due volte lo stesso verbo (« essendo, è» incorre in una tautologia in quanto quel che è Scrittura è divinamente ispirato e non può esserci Scrittura che non sia ispirata. Sembra quindi preferibile l'altra spiegazione che sottintende il verbo « è» prima di « ispirata da Dio» e che spiega: « Ogni parte della Scrittura è ispirata da Dio e utile... », ponendone meglio in risalto l'autorità e giustificandone la multiforme utilità.
Infine, il verbo «theòpneustos » ha senso attivo (cioè, « che Dio ispira») oppure passivo (cioè, «che è ispirata da Dio »)? per quanto etimologicamente il verbo greco possa avere entrambi i sensi, tuttavia quello passivo è più aderente al contesto prossimo e remoto che presenta la Scrittura come dono di Dio per la salvezza e il perfezionamento del cristiano; al senso di voci affini (ad es. theògnostos) e all'uso passivo presso gli antichi, cf. E. Zorelli, Novi Testam. lexicon graecum, Parigi 1961, p. 586. torna al testo