LE  EPISTOLE  PASTORALI
1, 2 TIMOTEO e TITO
Spunti esegetici e di attualità
Il diacono

a cura di Dino Galiazzo - articolo tratto da Ricerche Bibliche e Religiose, n. 2-3, II e III Trimestre 1972 pp. 97-114


INDICE

Introduzione
I. Diakonos nel mondo greco
II. Diakonos nel mondo giudaico
III. Diakonos nel N.T.
IV. L'elezione dei sette (At 6, 1-6)
V. Diakonos: tecnicità e specialità dell'ufficio in Fl 1,1 (gli episcopoi ed i diakonoi)
VI. 1 Ti 3, 8-13
VII. Conclusioni
Bibliografia


Introduzione

La spinta fondamentale che diede origine alla formazione della comunità, con una posizione contraddittoria alla concezione sociale del tempo, ebraica da una parte e greco-gentile dall'altra, prese l'avvio dalla particolare enfasi posta sul concetto di prossimo e il nuovo punto di vista nel quale viene inserito, vale a dire in una posizione antinomica col pensiero del tempo. E' la rivolta del comandamento cristiano dell'amore. Questa antitesi ha la sua forza portante nel concetto di servizio inteso nella proiezione d'amore totale verso l'umanità ed ha in Cristo il suo più squisito e perfetto iniziatore. Dalla sicurezza e dalla certezza del suo messaggio si è quindi concretata la fase storica della sua chiesa.

Oltrechè da una accettazione per fede del primo annunzio dell'evangelo, il moto vero e proprio partiva da considerazioni non solo storiche ma addirittura cronachistiche che confermano senza ombra e possibilità di smentita l'essenza stessa della predicazione.

Dice il Küng che bisogna

« vedere sempre l'essenza della chiesa nella sua forma storica e cercar di comprendere la forma storica sempre a partire dall'essenza e in funzione di essa» (1) .

Infatti consideriamo fondamentale la sua stabilità dipendente dall'unione che essa ha con la sua origine: Gesù Cristo e il suo messaggio.

Tralasciando di entrare nel merito delle affermazioni di Ernst Käsemann sui problemi della ricerca neotestamentaria e la discussione da lui inaugurata fra i discepoli del Bultmann sulla riscoperta attuale del « Gesù storico», è importante notare « la preoccupazione essenziale della fede cristiana » (2) .

« Questa deve considerare come della più alta importanza il fatto che il Kérigma non è una produzione religiosa della comunità primitiva, ma che ha il suo fondamento in una persona storica completa, che c'è dunque una continuità fra il Gesù storico e il Cristo predicato dalla comunità primitiva e che per conseguenza la fede si riattacca al Cristo e confessa con ragione: Gesù è il Cristo. Se questa relazione non esistesse, si rischierebbe di cadere in un pericoloso docetismo, e ci sarebbe, all'origine del cristianesimo, al posto del fatto storico un mito, al posto del Nazareno Terrestre un essere celeste come nella gnosi» (3) .

A questa grave preoccupazione di concretezza, di sicurezza di innestarsi e basare la propria predicazione su un avvenimento ed un personaggio che abbia tutti i crismi della autenticità storica, si è risposto con una riproposta di assemblea (chiesa) che si sostanzializzi e prenda le mosse dalla lettura attenta  e fedele del Nuovo Testamento.

Dice ancora il Küng, osservando a malincuore le deviazioni della chiesa romana che:

« la riflessione nella chiesa del Nuovo Testamento non significa che il Nuovo Testamento autorizzi ogni sviluppo a piacimento; ci sono evoluzioni storiche sbagliate ed involuzioni. Infatti è il messaggio del Nuovo Testamento, quale testimonianza originaria, l'istanza critica a cui rifarsi col mutare dei tempi. Esso è la norma critica cui la chiesa di ogni tempo deve riferirsi. Allora la chiesa del Nuovo Testamento, in cui la chiesa esiste già nella pienezza della sua essenza così come è nata da Gesù Cristo, è il progetto originario, che di certo non deve essere copiato, ma certamente tradotto per il nostro tempo. La chiesa del Nuovo Testamento e nessun'altra può essere questo progetto originario » (4) .

Su questa strada a ritroso, per verificare l'essenza della chiesa, un problema non indifferente è rappresentato dall'organizzazione dei ministeri (servizi-incarichi) comunitari del primo secolo.

Difficoltà dovute ad assenza di spiegazione, cenni che paiono essere buttati là per caso, affermazioni che presuppongono una conoscenza già acquisita e che se risultavano completamente chiare ai destinatari degli scritti del tempo, creano delle perplessità agli studiosi di oggi.

« Inoltre, molte teorie sviluppate sull'organizzazione della chiesa primitiva e la natura dei ministeri che vi sono esercitati, sono più o meno influenzate da interessi tutt'altro che storici. Si è inclini, anche inconsciamente, a legittimare con la Scrittura le operazioni alle quali si tiene di più in virtù delle sue implicazioni confessionali »(5) .

La composizione ministeriale, anche se appare fluida in certe sue sfaccettature, ha già tuttavia delle distinte e pregiudizievoli imprescindibilità, delimitazioni, requisiti, ambiti di pertinenza, che vincolano ad un esame che tenga assolutamente conto dei dati di fatto, per generale consenso, già acquisiti. La chiesa del Nuovo Testamento, particolarmente negli scritti di Paolo, nella duplice accezione semantica di assemblea, quando questa si trovi riunita, e di comunità, sopporta una concezione di universalità, partendo però da presupposto di preminenza e interdipendenza e della « chiesa domestica» e della « chiesa locale» (6) .

Il cristianesimo prende avvio su basi saldamente concrete, ed anche le istituzioni devono rispondere categoricamente a questi presupposti. La comunità primitiva è una cellula sociale oltre che un gruppo religioso, che si sostiene attraverso la sclerotizzazione di funzioni base. L'amore di Dio viene filtrato o meglio estrinsecato nell'amore verso il prossimo che si ritrova prima di tutto nei fratelli dell'assemblea. C'è alla base un'istanza pratica dell'amore che non conosce gli individualismi e gli intimismi posteriori, e che si realizza solamente in questa visione terrena, nell'anticipo comunitario terrestre di quella che sarà l'assemblea dei santi escatologicamente intesa.

« Leggendo il Nuovo Testamento, appare impensabile un cristianesimo individuale, che poi — per ragioni pratiche — sia divenuto comunitario. Non c'è incontro con Cristo se non nella comunità: questa coscienza risale alle origini. C'è una seconda convinzione primordiale: c'è un unico popolo di Dio, il «nuovo» Israele. Pure questa consapevolezza risale alle origini, anche se il contenuto di quel «nuovo» andrà via via precisandosi e imponendosi. Non c'è posto per diversi gruppi che poi — solo in un secondo tempo — hanno scoperto di essere un'unica chiesa » (7) .

In questa visuale la comunità è un trait-d'union che ci lega a Dio nel rapporto costante e continuo con il prossimo-fratelli. In questa evidente connotazione « amorosa » si incastra magistralmente il concetto « diaconico » inteso prima in senso lato di servizio, di servitù del proprio simile per arrivare ad una sua specificità intimamente connessa con la formazione e la struttura della chiesa locale, prefigurazione e quintessenza dell'unione spirituale di tutte le «assemblee del Cristo »

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I. Diakonos nel mondo greco

La parola deriva dal verbo diakoneo che viene usato con significati implicanti varie sfumature. Così si va dal servire a tavola e particolarmente mescere , ad apparecchiare il pranzo nuziale o al senso più lato di provvedere al sostentamento.

Con ciò si spiega il senso generico acquisito di servire (8) .

Per i greci tale attitudine era considerata indegna per un uomo. Il fine della vita umana era inteso nello sviluppo della propria personalità, perciò in netto contrasto con qualsiasi tendenza al servizio del prossimo. Il termine diakonos si applica dapprima a persone di condizioni sociali inferiori, impiegato, salariati, artigiani, domestici, ma comprende anche i commercianti, e da ultimo anche i preti, coloro che servivano al tempio. Usi sinonimi dello stesso termine in latino sono stati resi con minister . Diakonos è anche il servitore in una famiglia ed è usato soprattutto per l'incaricato della cucina, oggi diremmo il cuoco, e il « cameriere».

La lingua greca usa diakonos indifferentemente anche quando si tratta di donne .

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II. Diakonos nel mondo giudaico

La LXX utilizza pochissimo la parola diakonos . Fatta eccezione per Pr 10, 4, dove la parola vuole indicare il lavoratore subordinato, contraddistingue generalmente il servitore o il valletto di corte o del re .

« Giuseppe Flavio e Filone impiegano questo termine nel senso preciso che abbiamo già trovato di « servitore» ad un banchetto. La parola può essere usata anche in senso figurato ed essere applicata pure agli angeli. Più generalmente designa il servitore, l'assistente personale di un grande personaggio: Così Eliseo , « discepolo e servitore di Elia ». Achimas e Gionathan , pisto diakonoi di Davide » (9) .

A differenza del popolo greco, il giudaismo comprese molto più profondamente il senso del servizio. Nonostante che nel tardo giudaismo « Ama il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18) sia andato man mano perdendo di pregnanza e sia stato concepito piuttosto come servizio reso a Dio anzichè come dedizione al bene del prossimo, all'inizio il pensiero orientale non vedeva nel servire qualcosa di indegno di per se stesso.

«Il rapporto del servitore con il signore è un dato di fatto che esso accetta, specie quando si tratta di servire un gran signore: Ciò vale particolarmente per i rapporti dell'uomo con Dio» (10) .

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III. Diakonos nel N.T.

Con la sua predicazione Gesù mette in discussione e attacca ferocemente le concezioni correnti del mondo a lui contemporaneo capovolgendone il credo e i valori. Quello che per l'uomo libero era abiezione, in Cristo diventa condizione sine qua non della sequela. Nel servizio del prossimo e della comunità innanzitutto il discepolo e seguace del Cristo trova l'atteggiamento richiesto.

Diakoneo pertanto assume una gamma variegata di significati che va dal servizio vero e proprio a tavola ad un generico senso di essere servizievole (Mt 25, 42-44).

In Lc 17, 8 diakoneo ha il suo significato proprio di servire a mensa: «Non gli dirà invece: Preparami la cena e cingiti a servirmi finché io abbia mangiato e bevuto ».

Gesù capovolge l'idea del primato legato al ricevere onori e all'essere serviti. Egli è venuto tra noi come un servitore e il più grande tra gli apostoli è ò diakonos , il servitore.

Lc 22, 26: « Ma tra voi non ha da essere così; anzi, il maggiore tra voi sia come il minore e chi governa come colui che serve »

In un senso più aperto diakonein vuol dire: provvedere al pasto . E' il caso di At 6, 2 dove il diakonein trapezais, oltre a voler indicare l'atto di portare le vivande, accenna alla preparazione e direzione giornaliera dei pasti.

« Anche la sollecitudine di Marta per Gesù, suo ospite, viene indicata in Lc 10, 40 come un diakonein che si affianca al senso più ristretto di Gv 12, 2. Similmente la suocera di Pietro provvede agli ospiti (Mc 1, 31). Anche il modo in cui gli angeli servono Gesù dopo la tentazione (Mc 1, 13; Mt 4, 11) si deve intendere nel senso che, dopo il periodo di digiuno, essi gli provvedono il cibo» (11) .

Ancora diakonos usato liberamente nel Nuovo Testamento significa colui che serve al banchetto : Gv 2, 5-9; il servitore di un re : Mt 22, 13; ministri (servitori) di Cristo : 2 Co 1, 23. Diaconi sono chiamati Timoteo (1 Ti 4, 6), Epafra (Cl 1, 7), Tichico (Ef 6, 21; Cl 4, 7). Lo stesso Paolo si definisce servo della comunità in Cl 1, 25 e si considera, assieme ad Apollo, «servitore di Dio » e al tempo stesso della comunità in quanto aiutava quest'ultima ad arrivare alla fede (1 Co 3, 5).

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IV. L'elezione dei sette (At 6, 1-6)

Un problema a sé stante rappresenta l'episodio, narrato da Luca, al quale comunemente ci si riferisce come la prima elezione i nomina dei diaconi. Esaminiamo il passaggio.

I dodici della chiesa di Gerusalemme vedono accrescere sempre più i loro compiti di predicazione e di assistenza alla comunità e poiché gli ellenisti si lamentano della trascuratezza in cui vengono lasciate le loro vedove, invitano l'assemblea a scegliersi sette di loro, godenti la generale stima e con i requisiti necessari, affinché svolgano tale incombenza.

Tradizionalmente la pericope veniva intitolata: «Elezione dei primi diaconi», ma ci sembra che, alla luce della critica più recente, tale assunto sia da rifiutare.

L'uso del verbo diakonein e di diakonia non costituisce indizio sufficiente, altrimenti bisognerebbe dire che anche Mattia in At 1, 15-26 deve essere considerato un diacono.

Luca poi non usa mai la parola diakonos e tale assenza è significativa: descrivendo l'elezione dei dodici ci tiene a giustificare l'interpretazione del suo tempo che vedeva nell'elezione la nascita dell' « apostolato » (« ai quali dette anche il nome di apostoli» Lc 6, 12).

Se avesse voluto descrivere qui l'istituzione dei primi «diaconi » avrebbe usato il termine tecnico diakonos!

Inoltre, più avanti, al cap. 21, 8 sempre di At, ci presenta Filippo, uno dei « sette» con l'appellativo di evangelista.

« Se Luca ha evitato di dare ai sette il nome di «diaconi», che a suo tempo designava comunemente uno speciale ufficio (cf. Fl 1, 1), ciò si deve al fatto che non lo trovò attestato nella tradizione per l'epoca precedente. Solo a partire da Ireneo (verso il 180) i «sette» vengono considerati diaconi, nel senso di funzionari consacrati per servizi di second'ordine, per lo più di natura caritativa. Gli scrittori più antichi parlano, si, di diaconi, ma non li mettono in relazione con i «sette». Perciò converrà non far coincidere le origine del diaconato ecclesiastico con la loro creazione » (12) .

Per quanto concerne il numero «sette» e la sua attinenza col consiglio sinagogale delle comunità ebraiche di provincia (sette membri che personalmente o per mezzo di altri organizzavano l'assistenza ai poveri), vedere A. Lemaire, o.c., pp. 51-58.

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V. Diakonos: tecnicità e specialità dell'ufficio in Fl 1, 1 (gli épiskopoi e i diakonoi)

Come in 1 Ti 3, 8-13, il passo dove troviamo l'elenco delle qualità necessarie per esercitare l'incarico di diacono (servitore) e di vescovo, nell'introduzione della sua lettera ai Filippesi, Paolo saluta i santi e nomina in stretta connessione i diaconi con i vescovi e precisamente dopo di quest'ultimi.

Sembra dunque che all'epoca della lettera ai Filippesi vi siano già in seno alla comunità due classi d'ufficio tra di loro coordinate. Paolo affida il termine a chi riveste un ufficio comunitario preciso nella costituzione ecclesiastica in via di formazione. Fa notare il Lemaire (13) che le due parole unite in questo ordine, épiskopoi kai diakonoi, si trovino solo tre volte nella letteratura dei primi secoli e su documenti che si datano dalla seconda metà del primo secolo: la Lettera ai Corinzi di Clemente Romano, la Didaché e il versetto di Filippesi.

Secondo lo stesso autore è esatta l'interpretazione di Giovanni Crisostomo che vuole vedere in épiskopoi e diakonoi un sinonimo complessivo di présbytéroi e conclude indicando nei diakonoi in discussione i primi collaboratori di Paolo, coloro cioè che genericamente (ad esempio Epafrodito) facevano parte dei responsabili della comunità di Filippi(14) .

Con sicurezza non si può dedurre dalla lettera ai Filippesi in quale preciso ambito si realizzasse l'attività di questi servitori e tentare di ricavarlo dal contesto della lettera appare allo stesso modo impossibile (15) Il compito dei servitori pertanto apparirà meglio chiarito dalla loro successiva attività e dalla designazione del loro mandato, dai requisiti necessari e dalle modalità di « aspirazione». Chiarimenti che troveremo puntuali nelle Pastorali e precisamente nelle raccomandazioni a Timoteo.

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VI. 1 Timoteo 3, 8-13

Questo passo attesta chiaramente che l'ufficio del diacono è strettamente connesso con quello del vescovo. Tale connessione è stata interpretata, soprattutto dai cattolici, in chiave di dipendenza e di subordinazione perché il termine, quando si trova insieme a episcopo viene sempre secondo. Concetto che si spiega solo con l'evoluzione gerarchica posteriore e che non trova solidità alcuna nel testo neotestamentario (16) Le funzioni, anche se non del tutto definite, devono essere più che altro di diversa competenza e se subordinate, non certamente su gradi istituzionalizzati di assoluta dipendenza, cosa questa che avverrà solo in epoca più tarda con l'episcopato monarchico.

Come fa notare giustamente C. Spicq(17) il termine diacono (diacre) è una trascrizione o traslitterazione, l'esatta traduzione si ha in italiano con «inservienti, servitori ». Il vocabolo ha effettivamente perduto il senso originario grazie principalmente all'uso fattone dalla chiesa romana, significando oggi un ordine intermedio nell'iter al sacerdozio.

Requisiti . Nei versetti precedenti, parlando di « vescovi», Polo si sofferma ad enumerare ben 16 requisiti che completati con quelli di Tt 1, 5-9 arrivano a 19. Se consideriamo che molte di queste doti richieste ai vescovi sono abbastanza generali e comuni anche a tutti i cristiani (18) osserviamo che tra le rimanenti, di specifiche per ricoprire le mansioni di vescovo, ve ne sono altre che si differenziano per gli aspiranti all'una e all'altra carica. In particolare notiamo quali sono dall'elenco delle 19 doti «episcopali », quelle che mancano e quali invece sono specifiche per l'incarico diaconale.

«I versetti seguenti 8-13 concernono i diakonoi e si è subito colpiti dalla somiglianza delle qualità richieste: sembra difficile discernere qualche differenza tra ciò che ci si aspetta dall' épiskopos e ciò che ci si aspetta dal diakonos e dunque stabilire il ruolo esatto degli uni e degli altri. Analizziamo queste piccole differenze. Di primo acchito sembra che si sia meno esigenti con i diaconi che con gli episcopi; in particolare, non si esige dai primi che siano « ospitali », « capaci di insegnare », che abbiano una «buona testimonianza da quelli di fuori » e che non siano « neofiti »» (19) .

Si sottolinea più avanti che i diaconi non debbono essere falsi , né interessati , qualità queste che si ritengono necessarie a uomini che si recano, a motivo del loro ufficio in diverse case, per soccorrere malati, poveri, per preparare àgapi ed altre incombenze amministrative. Per lo stesso motivo, mentre Paolo esige che il « vescovo » sia sobrio , qui invece insiste maggiormente, prescrivendo che non siano dediti all'eccessivo vino (20) .

« Che nella comunità i diaconi dovessero attendere principalmente a compiti amministrativi e ad attività caritative si può dedurre: a) dal significato originario del nome, indicante chi attende alla mensa e poi genericamente chi serve ad altri; b) dalle suddette qualità in essi richieste; c) dalla loro subordinazione all'episcopato; d) da quanto si ricava da altri passi del N.T. in merito al dono e all'ufficio della diakonia » (21) .

Sulla natura della prova menzionata al v. 10 o del periodo di questa, Paolo non si esprime chiaramente né dice in che cosa consista. Molto probabilmente si tratta dell'approvazione da parte della comunità dopo aver vista la idoneità dei soggetti incaricati di tale ufficio. Forse è da far coincidere con la buona testimonianza richiesta ai « vescovi ». Troppo macchinosa l'esegesi proposta dallo Spicq (22) , secondo il quale tale prova-esame era necessaria dato l'elevato numero degli aspiranti al «diaconato ». Gli esempi portati di Lisia, Isocrate, Senofonte, e altri non hanno alcun valore in un contesto greco-cristiano. Personale ci sembra anche la tesi del Lamaire che vorrebbe vedere nei diakonoi di 1 Ti 3, 8-13 dei semplici collaboratori di Paolo, visto che questi spesso erano chiamati diakonoi . Tale soluzione permetterebbe di comprendere meglio, secondo tale autore:

« l'assenza del requisito dell'ospitalità per questi diakonoi: questi si spostano facilmente e hanno dunque più sovente l'occasione di beneficiare dell'ospitalità offerta che di farne beneficiare gli altri. Noi raggiungiamo qui la situazione descritta nelle «lettere giovannee» e l'Apocalisse dove da una parte, Gaio è felicitato d'aver ascoltato i xénous che si sono messi in viaggio per la parola (3 Gv 5-7) e dall'altra, l'àggelos della chiesa d'Efeso è elogiato per avere «provato» quelli che si dicevano apostoli (Ap 2, 2) » (23) .

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Conclusioni

E' indubitabile che lo studio dell'origine del diaconato debba partire dalla sua stretta correlazione con l'épiscopato dato che è sempre nominato gemellarmente. Questa coppia di funzioni, diverrà un'istituzione fondamentale nelle chiese locali. Il diacono pertanto, oltre che essere il servitore dei membri della comunità, appare guidato nella sua azione dalla cooperazione dei «vescovi». Si giunse alla formazione nella comunità di questi due uffici distinti probabilmente per l'ispirazione larvata che veniva dagli uffici e dalla regolamentazione sinagogale. Ma bisogna tuttavia riconoscere al cristianesimo la forza e la capacità di mutuare sì dall'ambiente circostante formule, riti e uffici preesistenti, ma di saperle adottare e plasmare in una fisionomia nuova.

« Nella comunità giudaica vi sono quindi vari punti di contatto con uffici simili a quegli degli episcopi e dei diaconi, ma un'istituzione che potesse direttamente essere presa a modello non esiste né nel mondo ebraico né in quello pagano» (24) .

Il Nuovo Testamento perciò non ci offre un modello rigoroso secondo il quale la chiesa debba o dovesse essere organizzata, con i criteri e le accumulazioni che si possono vedere ancora oggi, causate dell'«evoluzione» del pensiero pseudo -  cristiano. La sua fluidità, fatta astrazione per le formule inalterabili di fede e di credo, indica necessariamente la sua adattabilità alle mutevoli condizioni della società umana, adattamento che non vuol dire incertezza, indifferenza, tentennamento a qualsiasi nuovo postulato chiunque volesse proporre, ma una strutturazione essenziale nel suo fondamento, il N.T. calato di volta in volta sul modello umano in cammino. L'essenzialità della chiesa del N.T. è anche la sua capacità, nella sua verità basilare ed immutabile, di saper dare in ogni momento la giusta direttiva, l'indicazione sicura a coloro che al suo interno vivono ed operano.

Nonostante che per i cattolici il diaconato sia stato ridotto ad una fase intermedia (25) sulla strada del sacerdozio e si sia tentato addirittura una reinterpretazione del suo significato e delle sue finalità, soprattutto dopo il motu proprio papale (26) sul ripristino permanente, esso rimane ancora un « ministero» ecclesiale valido quanto quello dell'episcopato e da porsi sullo stesso piano d'importanza.

La chiesa primitiva non conosce né la consacrazione né tutta la trafila, né gli attuali requisiti aggiuntivi dai cattolici.

E' naturale che se vogliamo restaurare o ripristinare nell'essenza questo nobile « servizio» non possiamo prescindere dalla parola di Dio e dobbiamo prescindere d'altro canto da tutte le aggiunte che pervennero posteriormente alla fase neotestamentaria. Tutte le condizioni e le funzioni del diaconato cattolico alterano la prospettiva del suo significato reale inquadrandolo in un contesto culturale e liturgico che non ha niente a che vedere con l'evangelo(27) .

Solamente recuperando il concetto di assemblea si può ritrovare il giusto inserimento di quella semplice ma importante funzione di « serviziato» nelle opere pratiche che non ha bisogno di codificazioni ed elencazioni rigorose. Il servitore è colui che aiuta il vescovo, dipendendone, in tutte quelle necessità pratico-ecclesiali che hanno a che vedere con la fratellanza, l'amore reciproco dei fratelli, le incombenze di natura varia per la cena del Signore, l'assistenza ai bisognosi della comunità, l'ordine durante le comuni adunanze.

Nell'attuale significato di fedeltà al messaggio divino anche il servizio, in tutte le accezioni del termine, trova la giusta collocazione accanto agli anziani di cui Paolo ci parla, e collabora a rendere sempre più perfetta sulla terra quella assemblea dei santi che è la prefigurazione della chiesa celeste.

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Bibliografia

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NOTE A MARGINE

1. H. Küng, La chiesa, Queriniana, Brescia 1969, p. 6. torna al testo

2. H. Zahrnt, Alle prese con Dio, Queriniana, Brescia 1969, p. 283. torna al testo

3. Ivi, p. 283. torna al testo

4. H. Küng, o.c., p. 25. L'autore è già stato largamente attaccato soprattutto dagli stessi cattolici, cf. J. Coppens, La chiesa e l'origine delle strutture ministeriali, in «Vita e Pensiero» n. 45, 1971, p. 29. «Concediamo senza riserve che l'opera di Küng contiene delle riflessioni valide, ispirate dal desiderio di rendere alla Chiesa la sua purezza evangelica. Concediamo pure che le origini dei ministeri ecclesiali sono oscure e che l'informazione non ci aiuta a spiegarle adeguatamente. Ma, fatte queste concessioni, rileviamo che il saggio storico-dogmatico del professore di Tubinga pecca di unilateralità, spinto com'è dalla tendenza a privilegiare ciò che si usa chiamare il «corintismo» a spese di altri testi neotestamentari e di una veduta globale, mentre egli stesso riconosce per l'esegeta il dovere di tener conto di tutti i dati raccolti nel canone di tutti i Libri Sacri per darci kath holon una immagine fedele della chiesa primitiva». (J. Coppens, L'Eglise dans l'optique de H. Küng, in «Eph. Theol. Lov.», 1970, t. XLVI, pp. 121-130). torna al testo

5. P.H. Menoud, L'Eglise et les ministères selon le Nouveau Testament, «Cahiers Théologiques de l'actualité protestante», Delachaux et Niestlé S.A., Neuchâtel 1949, p. 7. torna al testo

6. Cf. L. Cerfaux, La teologia della chiesa secondo San Paolo, A.V.E., Roma 1968, p. 205: «Si deve ammettere ormai nelle grandi epistole uno sviluppo semantico che conduce il termine ekklesía fino al significato di Chiesa universale? Dato che a Gerusalemme la nozione assolutamente primitiva della nostra espressione contiene un'esigenza ideale d'universalità — la Santa Assemblea del deserto era il tipo dell'insieme del Popolo messianico — il fenomeno non sarebbe inaudito. Tuttavia ormai non ci troviamo più a Gerusalemme, e quando prende piede nel mondo greco-romano il termine ekklesía ha assunto un valore molto concreto. Esso rappresenta la Comunità cristiana locale, oppure l'assemblea di questa». torna al testo

7. B. Maggioni, La chiesa locale nel Nuovo Testamento, in «Vita e Pensiero», n. 4-5, 1971, p. 47. torna al testo

8. Cf. H.W. Beyer, alla voce diakonéo, in G. Kittel, Grande Lessico del Nuovo Testamento, II, Paideia, Brescia 1966, col. 951-983. torna la testo

9. A. Lemaire, Les ministères aux origines de l'Elise, Paris, Cerf (1971), p. 34. torna al testo

10. H.W. Beyer, o.c., col. 955. torna al testo

11, H.W. Beyer, o.c., col. 960-961. torna al testo

12. A. Wikenhauser, Atti degli Apostoli, Morcelliana, Brescia 1962, p. 110. Contro questa interpretazione e considerando i sette di At 6 alla stessa stregua dei diaconi di 1 Ti 3, 8-13 militano C. Spicq, Les épitres pastorales, Gabalda, Paris, I, 1969, p. 75; G. Luzzi, il nuovo testamento, Firenze 1930, p. 388 ed altri. torna al testo

13. A. Lemaire, o.c., pp. 97ss. torna al testo

14. Ivi, pp. 102-103. torna al testo

15. Cf. F. Salvoni, Vita di Paolo e lettere dalla prigionia, Centro Studi Biblici, Milano, Via del Bollo, 5. Anno Accademico 1968-1969, p. 58. torna al testo

16. Cf. P. De Ambroggi, le epistole pastorali di S. Paolo a Timoteo e Tito, Marietti, Torino 1953, p. 135. torna al testo

17. C. Spicq, o.c., p. 74. torna al testo

18. P. Dornier, o.c., p. 58: «Les qualités exigées de l'épiscope sont, à première vue, d'ordre très général: Ne peut-on s'attendre à trouver chez tous les chrétiens la plupart des vertus ici mentionnées: sobriété, pondération, sociabilité, hospitalité, cherité, mépris des richesses (cf. Rm 12, 9-21; Eph. 5, 2-17; Cl 3, 5-17)?». torna al testo

19. A. Lemaire, o.c., p. 133. torna al testo

20. Cf. P. De Ambroggi, o.c., p. 136. torna al testo

21. H.W. Beyer, o.c., col. 974-975. torna al testo

22. C. Spicq, o.c., p. 458. torna al testo

23. A. Lemaire, o.c., pp. 135-136. torna al testo

24. H.W. Beyer, o.c., col. 976. torna al testo

25. B. Bartmann, Teologia dogmatica, Paoline, Alba 1962, p. 1488. torna al testo

26. «Sacrum diaconatus ordinem» Motu proprio di Paolo VI del 18 giugno 1967. torna al testo

27. R. Bultmann, Theology of hte New Testament, SCM Press Ltd, London, II, p. 103; E. Schweizer, La comunità e il suo ordinamento nel Nuovo Testamento, Gribaudi, Torino 1971, p. 70. «Era del tutto naturale che la comunità assumesse delle strutture di tipo giudaico, con opportuni adattamenti e revisioni, allorché si svincolava dai legami giudaici stessi. Infatti, già da prima la comunità viveva evidentemente, in queste strutture. Ma, a questo punto, emergono i seguenti interrogativi: nel corso dell'evoluzione non viene forse attribuita a queste strutture un'importanza che agli inizi non avevano? Agli inizi si trattava di realtà date per scontate, per le quali non ci fu bisogno di una particolare riflessione e che ora, all'improvviso, devono servire per arginare i pericoli incombenti. Ma in questo modo, mentre prima erano soltanto una possibilità giustificata da diverse considerazioni di ordine pratico, non divengono forse un dato necessario, senza il quale la comunità non potrebbe più essere quella vera? Non è avvenuto così uno spostamento completo? In questo modo, si può ancora scorgere nell'ordinamento della comunità ciò che la rende comunità?». torna al testo