ILFENOMENO DEL PROFETISMO ¹

INDICE
Introduzione
I nomi dei profeti
I termini che designano il profeta nelle sue relazioni con Israele
I termini che designano i profeti nelle loro relazioni con Dio
La storia del profetismo biblico
I.   I profeti oratori
II . I profeti scrittori preesilici
III. I profeti del periodo dell'esilio
IV. Il periodo della restaurazione
V.  Il periodo apocalittico
L'insegnamento profetico
La dottrina del monoteismo etico
L'unicità di Dio
Un Dio nazionale e universale
Un Dio trascendente e vicino
Il dovere del culto
Profeti anticultiali?
Profeti cultuali
Purificatori del culto
I profeti e la giustizia sociale
Il dono della terra e le ingiustizie sociali
Il Messia servo e liberatore dei "poveri"
La giustizia e la pace
Note a margine

Introduzione

Il profetismo è un fenomeno religioso comune alle tre più grandi religioni monoteistiche: quella ebraica, quella cristiana e quella musulmana. Tutte queste religioni credono che Dio abbia parlato agli uomini per mezzo dei profeti. Questi profeti sono gli « uomini di Dio » mediatori della Sua rivelazione.

a)     La religione ebraica. Una delle tre parti della Bibbia è costituita dai Nevim (profeti). Per i rabbini i profeti sono la stessa « bocca di Dio » e sono inferiori soltanto alla figura di Mosè che ebbe il privilegio di parlare con Dio « faccia a faccia » (Dt  34, 10) ² .  Con la scomparsa dei profeti scompare anche lo Spirito Santo in Israele. Dal libro delle Cronache in poi la voce profetica non si fa più sentire.

b)     La religione cristiana. Il cristianesimo ha dato grande importanza alla voce profetica. In Eb 1, 1 viene detto che Dio ha parlato « in svariati modi ai padri per mezzo dei profeti ». I cristiani sono « edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti » (Ef  2, 20; cfr anche Ef  4, 11). Pietro esorta a fare attenzione alla « parola profetica . . . come ad una lampada che splende in un luogo oscuro » (2° Pt 1, 19). La profezia non procede infatti dalla volontà dagli uomini, ma è Dio stesso che parla per mezzo dei « santi uomini di Dio » i quali sono sospinti dallo Spirito Santo (2° Pt 1, 21).

c)     La religione musulmana. Secondo la loro professione di fede i musulmani ripetono più volte al giorno: «Confesso che non c'è altro Dio che Allah e che Maometto è il suo profeta». Maometto è l'inviato di Allah ed il sigillo dei profeti (sura 33, 40), ma non è l'unico; prima che con lui Dio ha fatto alleanza con altri profeti: Noè, Abramo, Mosè e con lo stesso Gesù Cristo, secondo una certa gerarchia e secondo le esigenze dei vari popoli. In questa gerarchia Maometto rappresenta non la più grande, ma l'ultima voce di Dio e non è stato mandato per tutti i popoli, ma soltanto per gli arabi. Egli sarebbe il "Paracleto" (o  « Il Consolatore ») promesso da Gesù (Gv 14, 16.26; 15, 26; confronta anche Gv 16, 13).
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I nomi dei profeti

I termini più usati dalla Bibbia per indicare la natura profetica sono essenzialmente tre: hozèh, ro'èh e nabì, che vengono tradotti dai LXX rispettivamente con o¦ ble¢pwn (il visionario), o¥ o¥rw=n (il veggente) e profh¢thj (il profeta).

a)     Nabì . Il più usato ed anche il più recente di questi termini è nabì che viene usato per indicare tanto i veri che i falsi profeti. Esso potrebbe derivare dalla radice naba' che significa far bollire, esalare, espandere o anche enunciare aforismi ed enigmi antichi, ma in modo folle ed insensato. L'accadico naba'u(m) può designare tanto l'inondazione del Tigri, quanto il ribollire interiore di un uomo inquieto ed in estasi. Questa etimologia spiegherebbe il carattere del nabismo cananeo ed il profetismo professionale dei funzionari di corte, quello corporativo e collegiale contro cui si scagliarono i profeti scrittori. Ma il termine potrebbe derivare anche dalla radice naba' , che, come quella parallela accadica nabû , significa proclamare e chiamare. Questa etimologia pare la più probabile. Rimane il dubbio, però, se la forma qatîl , usata nella Bibbia, abbia mantenuto il suo senso passivo oppure sia da considerare come un attivo. Nel caso in cui abbia mantenuto il senso passivo il termine nabi' , come il parallelo accadico nabiu, indicherebbe il profeta come un chiamato da Dio, cioè oggetto di una vocazione divina; nel caso invece che sia da considerarsi come un attivo, il termine indicherebbe il profeta come uno che annunzia qualcosa, come un araldo che proclama la volontà di Dio.

b)     Hozéh . È usato poco nella Bibbia, soltanto 17 volte: 5 nei profeti, 2 nella redazione deuteronomista, 10 nelle Cronache. La radice del verbo hazah ed i suoi derivati, nella Bibbia, solo per un quarto, e nella letteratura recente, avrebbe il senso di " vedere "; per tre quarti, e nei testi più antichi, avrebbe avuto il senso specifico di "vedere in visione ". Sicché il nostro termine dovette significare, almeno in antico, "veggente", non si sa se in senso buono o cattivo, I profeti scrittori come per il nabi' , tendono più per il negativo (Am 7, 12; Mi 3, 7). Essi non vedono grande differenza tra i due termini; anzi Michea addirittura accomuna i visionari con gli indovini ed afferma che le loro visioni diventeranno tenebrose (Mi 3, 6), dato che non provengono da Dio. Anche Isaia confonde il veggente con il nabi' (Is 29, 10) e afferma che egli si poteva piegare ai desideri del popolino, sicché, invece di contemplare cose vere, raccontava cose piacevoli (Is 30, 10). Pare che anche « il veggente di Davide » o più in generale il « veggente del re », di cui parecchie volte parla il cronista, invece che un vero profeta denoti il funzionario della divinazione a servizio della corte. Tuttavia sono chiamati "veggenti " anche Gad, Eman, Iddo, Iehu, Asaf, Iedutum, che nel contesto biblico sembrano essere stati dei veri profeti. Così anche questo termine, come nabi', può indicare tanto i falsi che i veri veggenti.

c)     Ro'éh . Fra i vari studiosi c'è parere discordante sul fatto che questo termine si debba identificare o meno con il precedente. Qualcuno vorrebbe tradurre questo termine con " veggente ", lasciando quello di " visionario " a hozéh ; sta di fatto però che nella Bibbia i due termini sono spesso in parallelismo tra di loro ed i LXX li hanno tradotti indifferentemente con ble¢pwn e con o¥ra¢wn . Sembra interessante la glossa di 1° Sm 9, 9: « In passato in Israele, quando uno andava a consultare Dio, diceva: "Su, andiamo a consultare il veggente (ro'éh )", perché il profeta ( nabo') di oggi, in passato era chiamato veggente ». Sembrerebbe quasi che in passato venisse usato il vecchio termine ro'éh (veggente) e che questo vecchio termine fosse andato in disuso perché sostituito dal più moderno nabi'. In realtà il testo più che di una questione cronologica tratta di un uso popolare, affermando che il vocabolo ro'éh era in uso fra la gente. Il testo biblico infatti conosce l'uso di entrambi i termini fin dai tempi di Samuele e anche dopo, benché ro'éh, nei confronti di nabi' , fosse stato sempre più comune.

Concludendo possiamo dire che i tre termini furono, almeno per il redattore biblico, sinonimi tra loro ed usati sia per i veri che per i falsi profeti. Se c'è stata una qualche differenza fra questi termini, essa è consistita nel fatto che il termine nabi' è stato usato in un primo tempo per indicare il nabismo di carattere cultuale ed estatico , come nell'ambiente cananeo; in seguito esso è passato ad indicare il profetismo di vocazione (distinguendosi dal psuedo-profetismo); il termine hozéh , o visionario, denotò di preferenza i profeti di corte, mentre il termine ro'éh , o veggente, fu in uso soprattutto nella lingua popolare.

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I termini che designano il profeta nelle sue relazioni con Israele

Tre sono i termini principali che designano il profeta nelle sue relazioni con il popolo di Dio:

a)    Il guardiano del popolo . Preso dal vocabolario pastorale, il profeta soprattutto in Isaia, è chiamato šomer, che, alla lettera, indica il guardiano del gregge, come lo era Davide prima di andare alla corte di Saul (1° Sm 17, 20). Questo stesso termine, in senso metaforico viene applicato all'azione vigilante del profeta nei riguardi di Israele e con questo senso si trova in Is 21, 11-12 e Is 62 - 6; oltrechè in Ez 3, 16-27 e 33,7. In questi passi è stato tradotto nel corrispondente italiano di "sentinella ".
b)    La sentinella di Jahvè. Il profeta deve essere anche una vera e propria sentinella. Il termine ebraico corrispondente soféh è preso dal gergo militare. Come sentinella deve rimanere continuamente all'erta per avvertire il popolo di Dio dell'imminente pericolo. In caso di negligenza è responsabili dei danni subiti dal popolo, ma se compie il suo dovere la responsabilità ricadrà su coloro che non gli hanno dato ascolto (Ez 33, 1-20).

c)    I profeti come padri e madri . Quest'ultimo titolo è in relazione con i gruppi estatici del nabismo primitivo. Ogni gruppo aveva un profeta che fungeva da padre, essendo considerato come il fondatore e il maestro dell'intero collegio (1° Sm 10, 12; 19, 20; 1° Re 18, 4; 1° Re 20, 35; 2° Re 2, 3.5.7.15; 2° Re 4, 1; ecc.). Inoltre egli doveva fare da interprete dei discorsi – spesso inintelligibili – dei cosiddetti "urlatori", che, come esaltati ed estatici, pronunciavano frasi sconnesse e recitavano prose ritmate di difficile comprensione. Altro suo compito era quello da fungere da consigliere, rivelando informazioni che non potevano avere i comuni mortali. Secondo Is. 9, 5 anche il Messia avrà questo titolo profetico. Non mancarono in Israele anche delle madri-profetesse, come ad esempio Debora (Gdg 4, 4; 5, 7) o la «donna saggia» che rimproverò Ioab perché voleva distruggere la città di Abel di beth-Maakah a causa di un solo uomo che si era ribellato contro Davide (2° Sm 20, 14-22).

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I termini che designano i profeti nelle loro relazioni con Dio

Abbiamo visto i termini che designano i profeti nelle loro relazioni con gli uomini, ora vediamo i termini che li designano nelle loro relazioni con Dio. Tre sono i termini principali del vocabolario che riguardano queste relazioni con Dio:

a)     I l profeta come uomo di Dio . Esclusivamente nei libri che noi consideriamo storici, i vecchi profeti, come Samuele, Elia, Eliseo, Semeia e Anan, furono chiamati uomini di Dio. Questo titolo era già stato dato a Mosè e a Davide, in quanto legislatori del culto, ma il popolo continuò a darlo anche ai profeti antichi, in quanto familiari con Dio. Nessun sacerdote ebbe mai questo titolo, perché esso richiedeva che l'uomo che ne era insignito conoscesse le cose segrete di Dio e fosse capace di annunciare il futuro (Gdg 13, 6; 1 Sm 9, 6). Neppure i falsi profeti furono mai chiamati con questo titolo in quanto esso veniva dato esclusivamente agli amici di Dio.

b)     Il profeta come messaggero (angelo) di Jahvè . Dopo l'esilio il profeta fu anche chiamato mal'ak, in quanto inviato, legato ed intermediario tra il sovrano (Dio) ed il suo vassallo (il popolo d'Israele). Dio stesso promette di confermare le parole del suo servo, di far riuscire i piani dei suo «messaggeri», mentre assicura di rendere inefficaci i segni dei maghi e di rendere folli tutti i divinatori (Is 44, 25-28). Dio aveva stabilito di mandare questi suoi angeli agli Israeliti peccatori, con la speranza che il loro continuo messaggio diurno e notturno bastasse per convertirli e per preservare il tempio santo, ma essi se li portarono in giro, e disprezzarono i loro discorsi di ammonimento, finché arrivò l'ira divina e nessuno la poté più placare. (2° Cr 36, 15-21).

c)     I profeti come servi di Dio . Questo titolo non fu esclusivo dei profeti in quanto lo portarono anche Mosè e Giosuè, come capi dell'esercito di Jahvè. Esso fu portato anche dei sacerdoti, dai leviti, dal re e dallo stesso popolo di Dio. I profeti come servi di Dio furono da lui inviati al suo popolo per comunicare la rivelazione divina. Il Deuteronomista in particolare chiamò i profeti con tale titolo.
Dall'esame di questi titolo appare evidente che il profeta più che un indovino od uno scopritore del futuro, è colui che parla al posto di Dio, che ne annuncia e ne interpreta la volontà, con autorità divina e per divino mandato. La sua comunicazione poteva riguardare il passato, il presente ed il futuro. Questa comunicazione veniva affidata da Dio ad una persona, serva, inviata ed amica di Dio, capace di comprendere il messaggio divino e di trasmetterlo al popolo direttamente e senza intermediari.
Queste dunque sono le caratteristiche, anche se non esclusive, della profezia biblica:


1)    una comunicazione del mondo divino con quello terreno, attraverso un mediatore (profeta) che parla in nome di Dio;

2)    una illuminazione interiore, o ispirazione, avuta per mezzo di estasi, di visione o di sogno da un vedente o da un visionario;

3)    una manifestazione immediata del messaggio ricevuto senza bisogno di ricorrere ad interpreti specializzati (aruspice, indovino, ecc. che per la Bibbia sono piuttosto dei pseudo-profeti);

4)    un messaggio non sollecitato, come avveniva sempre nella divinazione, condannata dai profeti biblici;

5)    un messaggio esortativo e ammonitorio, piuttosto che consolatorio.
Questo tipo di profezia, che è proprio della Bibbia, è stato chiamato dagli esegeti «profezia intuitiva», ben distinta da quella induttiva che predomina nell'ambiente accadico ed egiziano.

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La storia del profetismo biblico

I profeti non sono delle meteore isolate cadute improvvisamente nella storia di Israele. Ancorati all'alleanza del Sinai dal tempo di Mosè fino a Gesù, pur nella varietà dell'accento dei singoli, portano avanti un messaggio sostanzialmente unitario che costituisce la specialità della Bibbia.
Attraverso il corso del tempo ecco lo sviluppo storico-teologico del profetismo biblico.

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I – I profeti oratori

a)    Le origini del profetismo ebraico non sono bene determinabili. Qualcuno pensa addirittura che risalgano al periodo patriarcale, quando Abramo, Isacco, Giacobbe iniziarono la religione del «Dio dei padri». Tuttavia la maggior parte degli storici e degli esegeti, fondati su Amos 2, 10-12, fanno risalire queste origini al tempo mosaico. Mosè infatti viene presentato come il primo ed il più grande dei profeti che lo seguiranno, i quali formeranno con lui e con il Messia quella personalità corporativa profetica caratteristica della religione ebraica (Nm 12, 6-8; Dt 18, 9-22; 34, 10).

Di questa personalità corporativa profetica la Bibbia ci ricorda:

1)    I settanta anziani che parteciparono allo spirito profetico del condottiero (Nm 11, 25-29)
2)    Aronne e Miriam che ebbero un profetismo inferiore a quello del fratello (Nm 12, 6-8).
3)    Debora che, legata alla guerra santa, difese la tradizione nordica del Sinai (Gdg 4-5).
4)    L'anonimo profeta, mandato contro i Madianiti, in difesa della tradizione dell'esodo e della conquista (Gdg 6, 8-10).
5)    L'uomo di Dio che, basato sul periodo dell'esodo e dell'oppressione egiziana, annuncia ad Eli il rigetto della sua famiglia dall'ufficio sacerdotale, intorno all'arca (1° Sm 2, 27-36).
Tutti costoro sono legati in qualche modo alla maestosa figura di Mosè ed alla tradizione nordica dell'Egitto e del Sinai.

b)     Samuele e gli estatici . Anche Samuele ci viene descritto dalla tradizione biblica posteriore come un alter ego di Mosè. Riconosciuto da tutto Israele come profeta (1° Sm 3, 20), attraverso l'arca fu legato con l'alleanza del Sinai e con l'ordine nuovo stabilito da Davide. Sicché, per mezzo di lui, la tradizione sinaitica di Mosè passò a quella davidica di Sion. In questa sua missione di difensore dello jahvismo mosaico costituì un gruppo di profeti estatici che abitavano di preferenza a Ramah ed a Gibah. Con Samuele come loro «padre» difesero le vecchie tradizioni del Sinai (1° Sm 19, 20) e con Davide, uno di loro, curarono la musica «profetica» intorno all'arca.

c)    I profeti della corte e quelli popolari . La tradizione, sia quella tardo-ebraica (G. Flavio, scritti di Qumrân) sia quella neotestamentaria (Mt 22, 43; At 2, 29-30; Eb 11, 32), ci presenta Davide come profeta, intimamente legato con Samuele e perciò con l'alleanza di Mosè e dell'ordine nuovo da lui stesso inaugurato. Questo fatto naturalmente influì sui circoli profetici che agirono alla sua corte.

1)    Natan il modello . Libero da ogni servilismo, ma legato a Davide, interviene coraggiosamente in tre momenti della vita del monarca: proibendogli di costruire il tempio per l'arca dell'alleanza, a causa delle mani insanguinate (2° Sm 7; 1° Cr 22, 8); condannandolo per l'affare di Uria, quale profanatore della guerra santa (2° Sm 12, 1ss); promettendogli l'eterna durata del suo regno, che sarebbe sfociato in quello del Messia (2° Sm 7, 16).

2)    Gad, il veggente di Davide , è anche lui il legame tra il vecchio ed il nuovo: rivendica i vecchi diritti delle tribù (questione del censimento 2° Sm 24, 10ss); consiglia il re a tornare in Giudea che diventerà il centro geografico della rivelazione; prepara il luogo che sarà santificato dal tempio di Gerusalemme (l'aia di Arauna 2° Sm 24, 18ss); aiuta il re ad organizzare i leviti, in cui erano confluiti i collegi profetici del nord (2° Cr 29, 25).

3)    I vedenti del re per gli affari di Dio organizzarono i leviti cantori, dopo che l'arca fu al suo riposo (1° Cr 25, 1ss; 2° Cr 35, 15).

4)    L'anonima «madre di Israele» salva l'eredità del Signore ottenendo la libertà di Abel-Bet-Maaca che aveva dato rifugio al ribelle Seba.

5)    Achia di Silo fu geloso conservatore e difensore dello jahvismo predavidico, attribuendo a Geroboamo dieci strisce del suo mantello (le tribù del nord), ma condannando Abia per l'idolatria del vitello d'oro e nello stesso tempo lasciò per Roboamo due strisce (le tribù di Giuda e di Beniamino), in rispetto della profezia di Natan (1° Re 14, 1-20).

6)    Šema'yah, l'uomo di Dio, predica contro l'abbandono dell'alleanza mosaica, assicura che la scissione delle dieci tribù del nord è voluta da Dio e risparmia la distruzione completa di Gerusalemme da parte di Sisach (1° Re 12, 21-24; 2 Cr 12, 1ss).

7)    L'uomo di Dio della Giudea , difensore dei diritti di Dio e di Davide, profetizza contro il culto odolatrico di Betel, anche se poi disubbidisce al Signore ingannato da un pseudo-profeta. (1° Re 12, 33 - 13, 24).

8)    Iddo il vedente , predica contro Geroboamo e scrive o fa scrivere delle visioni (2° Cr 9, 29b).
9)    Azaria l'araldo promette benefici agli osservanti dell'alleanza e minaccia castighi apocalittici contro i fedifraghi; spinse Asa a rinnovare solennemente le promesse del Sinai, cui partecipano anche i profughi del nord (2° Cr 14, 1 - 15, 19).
10)     Il profeta Hanani rimprovera Asa per la sua alleanza con il re della Siria, contro Baasa di Israele, per cui soffre anche il carcere (2° Cr 16, 1-10).
11)    Iehu, figlio di Hanani, il vedente, rimprovera Giosafat per essersi alleato con il pessimo Acab contro la Siria (2° Cr 19, 1-3; 20, 34).
12)     Il profeta Iehu di Hanani del nord fu ucciso da Baasa per aver predicato contro la famiglia reale che si era macchiata del peccato di Geroboamo contro l'alleanza (1° Re 16, 1-7.12).
13)     L'anonimo profeta che annuncia ad Acab le sue vittorie contro il re di Damasco (1° Re 20. 13-14.22.28)
14)     Un anonimo figlio dei profeti compie due azioni simboliche per convincere Acab di aver sbagliato a usare misericordia verso Ben-Hadad che aveva fatto prigioniero (1° Re 20, 35-43).

Non tutti i profeti di corte ebbero il coraggio di rimproverare i propri sovrani che agivano male contro l'alleanza sinaitica e contro la casa di Davide; alcuni di loro, specialmente nel nord furono invece servili e accondiscendenti, gettando discredito su tutta la categoria. Tale comportamento suscitò la reazione del profetismo popolare costituito da una specie di monaci dell'A.T., che contestarono la corte, in nome di uno jahvismo puro ed eroico, che risentiva dei tempi arcaici del deserto.

1)     Elia il Tesbita ( 1° Re 17, 1) è il campione di questi profeti popolari, legato allo spirito nomade  dei Recabiti³   e dei  Nazareni. Difende il diritto tribale della proprietà privata con Acab, che aveva rubato la vigna di Nabot; lotta contro il sincretismo popolare, facendo trucidare i profeti di Baal, protetti dall'empia regina Gezabele; ripete le gesta di Mosè, ritornando alla montagna santa del Sinai, minacciando con il fuoco, legandosi con un successore (Giosuè ed Eliseo), scomparendo dalla terra in un modo misterioso.

2)    Mikaiah fu contrario alla politica di espansione di Acab, consigliato dai suoi profeti di corte. Per questo annunciò la disfatta di Ramot Galaad, meritandosi di essere schiaffeggiato e imprigionato (1° Re 22, 13-27).

3)    Jahaziel figlio di Zaccaria , il levita, ispirò Giosafat a condurre una guerra santa contro i Moabiti e gli Ammoniti, che si distrussero a vicenda (2° Cr 20, 1-29).

4)    Eliezer, figlio di Dodavah di Mareshah , preannuncia a Giosafat l'affondamento della flotta che aveva allestito assieme all'empio re di Israele Achaziah (2° Cr 20, 35-37).

5)    La lettera di Elia a Iehoram , in cui lo accusa di aver spinto Giuda e gli abitanti di Gerusalemme alla prostituzione, di aver ucciso i suoi fratelli e gli minaccia una grave malattia intestinale (2° Cr  22, 12-15).

6)    La lapidazione di Zaccaria, figlio di Jehoiada , comandata da Joas che era stato rimproverato di aver abbandonato dell'Eterno trasgredendo i suoi comandamenti (2° Cr 24, 20-22). Assieme a Zaccaria predicarono invano il ritorno all'Eterno anche altri profeti ((2° Cr 24, 19).

7)    Un uomo di Dio che consigliò Amatsiah a congedare l'esercito mercenario costituito da uomini di Efraim, perché l'Eterno non era con Israele e con gli Efraimiti, ma con i Davidici (2° Cr 25, 5-13).
8)    Il profeta anonimo, minaccia di distruzione Amatsiah che, una volta vinti gli Edomiti, ne aveva adottato gli déi (2° Cr 25, 14-28).

9)    Eliseo, l'organizzatore dei profeti popolari . Le sue gesta sono riportate nei primi 10 capitoli di 2° Re. Questo personaggio carismatico impersona in sé lo spirito profetico di Elia suo maestro (2° Re 2, 15) e porta avanti una politica che non è improntata a ragionamenti umani, ma è del tutto soprannaturale. Con autorità divina detronizza re indegni ed elegge individui voluti da Dio e dal popolo di Jahvé, polemizza ed agisce contro i profeti di corte, fraternizza con fanatici jahvisti, come Jehu e Jehonadab (2° Re 10, 15-27), organizza i discepoli dei profeti di cui si elegge capo (2° Re 2, 3.5.7.15; 4, 1.38; 5, 22; 6, 1; 9, 1).
10)     I discepoli dei profeti, benché vivessero vicino a vecchi santuari, sembra che non avessero alcun ufficio nel culto, e fossero piuttosto dei popolani attaccatissimi alle tradizioni jahvistiche del nord. Abitavano in località diverse: Betel, Gerico, Ghilgal (2° Re 2, 3.5; 4, 38, avevano una sala di riunione dove si incontravano con Eliseo (2° Re 6, 1), mangiavano comunitariamente (2 Re 4, 38-44). Un membro di questa comunità aveva la sua famiglia e possedeva una casa propria (2° Re 4, 1). Il tenore di vita dei discepoli dei profeti era semplice e povera (2° Re 6, 5). In questo gruppo non troviamo tracce del profetismo estatico, presente invece nei profeti del gruppo di Samuele, ma sognano un escatologia terrestre sociale, fatta di buone cose, compreso anche il buon pane del miracolo della moltiplicazione di Eliseo. Essi ebbero un ruolo determinante per la trasmissione delle tradizioni orali e per la loro fissazione per iscritto. Saranno proprio loro a costituirsi in circolo profetici, intorno ad un maestro: il cosiddetto «profeta scrittore».
I profeti oratori di cui abbiamo dato un elenco si sentirono strettamente legati con Mosè e l'alleanza sinaitica, con Davide e la sua famiglia eterna e messianica. L'arca ed il tempio rappresentarono per loro i simboli di un jahvismo puro, radicato nella tradizione.

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II – I profeti scrittori preesilici

Con il secolo VIII, il vecchio profetismo carismatico, contraddistinto dallo Spirito, cedette un po' alla volta il passo al profetismo scritto fondato sulla parola e sulla vocazione. I vecchi profeti oratori non scomparvero del tutto, ma ben presto ebbero il sopravvento questi nuovi profeti, indipendenti dalla corte, non più professionisti, oratori essi stessi, ma al tempo stesso maestri di scuole profetiche che ebbero il compito di preservare i rari scritti autentici, meditandoli ed accrescendoli per essere poi definitivamente fissati nei libri canonici, letti nelle assemblee.
Il primo gruppo di questi profeti scrittori che operarono prima dell'esilio ebbero l'ingrato compito di predicare contro la corte, contro i capi, contro il popolo, che tradivano la tradizione mosaica contaminando la purezza delle legge con il paganesimo dei popoli vicini. La distruzione di Samaria e di Gerusalemme rappresentò la conferma che la loro predicazione proveniva da Dio e liberò il popolo ebraico dalle sue false sicurezze rappresentate dal tempio, dalla casa davidica, dalla nazione eletta. Nello stesso tempo diede occasione a questi profeti di dare alle loro profezie un respiro più ampio, non più strettamente legato al fatto storico contingente, ma proiettandole verso la speranza di una salvezza messianica.

1)    Giona figlio di Amittai di Gath-Hefer . Secondo alcuni sarebbe l'ultimo dei profeti di corte, acceso nazionalista; secondo altri sarebbe stato il primo universalista ed il primo profeta scrittore (2° Re 14, 25-27).

2)    Amos, profeta della sventura . Le notizie relative a questo profeta le possiamo ricavare unicamente dal corrispondente libro. In Amos 1, 1 apprendiamo infatti che questo profeta iniziò la sua missione al tempo di Uzziah, re di Giuda ed al tempo di Geroboamo, figlio di Joas, re di Israele, due anni prima del terremoto (Zc 14, 5). Naturalmente si tratta di Geroboamo II e non del primo re di Israele. La stranezza di questo profeta è che egli non era originario di Israele, ma proveniva da Giuda, ma venne mandato da Dio a svolgere la sua missione profetica nel regno del nord. Le conquiste di Geroboamo II avevano portato il regno del nord al benessere economico, ma, come sempre accade in questi casi, anche alla sperequazione tra ricchi e poveri. Dal punto di vista religioso, un culto esteriore e formale rendeva Dio garante di questo sistema ingiusto, mentre trasformava l'alleanza in un insieme di riti e di osservanze non sentite. Contro questo stato di cose venne inviato Amos, il pedicatore della giustizia divina a favore dei poveri e contro i ricchi, a favore di un'alleanza interiore e contro un culto soltanto formale. Naturalmente la sua predicazione non piacque né alla corte né ai profeti di mestiere che lo invitarono con le buone e con le cattive a tornare al suo paese di origine.

3)    Osea, il profeta dell'amore tradito . Con matrimoni simbolici il profeta intende sottolineare le infedeltà di Israele al vecchi patto nel deserto. Non rimane dunque che tornare a quei tempi ideali, non per ripetere una dolce esperienza, ma per prepararsi ad una nuova alleanza che farà rifiorire le condizioni idilliache di un tempo.

4)    I circoli levitico-profetici di Osea . Da alcuni passaggi dello stesso libro di Osea che parlano di "profeti" (Os 6, 4-6; 9, 7-9; 12, 8-11.13-15), possiamo presumere che questo profeta scrittore ebbe relazioni con gruppi di leviti-profeti, difensori della purezza del culto, custodi delle tradizioni mosaiche primitive, iniziatori del movimento deuteronomistico che purificherà Israele da ogni compromesso idolatrico e sincretistico.

5)    Proto-Isaia, profeta della fede . Sotto questo nome includiamo i primi 39 capitoli del libro di Isaia. Durante uno dei periodi più travagliati della storia di Israele (sotto Uzziah, Jothan, Achaz ed Ezechia), questo profeta, insieme alla moglie (la «profetessa») ed al figlio, diventò un «segno» per il popolo di Dio (Is 7, 14; Is 8, 3). Con la parabola della vigna infeconda (Is 5, 1-7) predice la decimazione di Israele del quale si salverà soltanto «un residuo», l'unico che potrà godere dei futuri beni messianici (Is 4, 2-6; Is 10, 20-22; Is 37, 31-32). All'incredulo Achaz, durante la guerra siro-efraimita, presenta la vera dottrina sul messianismo regale e sulla santa Sion. L'Emmanuele (Ezechia) preserverà il virgulto di Isai, che fiorirà soltanto nei tempi messianici e salverà la santa Sion, il nuovo paradiso terrestre (Is 7-12). Contro il Messia e contro la sua terra si agiteranno le genti, ma saranno umiliate, mentre Gerusalemme si godrà la pace e la felicità perpetua (Is 28-33).

6)    La requisitoria di Michea . Umile popolano della Giudea meridionale, pronuncia la dura parola di Dio contro i centri urbani di Giuda e di Samaria, ricchi di frode, di ingiustizie e di soprusi, e si lamenta per la devastazione compiuta dai nemici contro le povere città della provincia. Nonostante le illusioni degli abitanti che si erano dimenticati dell'amore di Dio in occasione dell'Esodo, Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine ed il monte del tempio sarà arato e si trasformerà in un boschetto sacro pagano.
7)    La profezia di Obed sotto Achaz. Il profeta Obed convinse l'esercito vittorioso del nord a rimandare i prigionieri della Giudea sconfitti in una battaglia fratricida (2° Cr 28, 5-15).
8)    La reazione dei profeti contro l'empio Manasse che perseguitando i giusti, aveva proibito la legge mosaica. Il suo esilio e la sua conversione avrebbero vendicato il grave peccato (2° Re 21, 1-18; 2° Cr 33, 1-20).
9)     La p
rofetessa Huldah, anima della riforma di Giosia. Consultata nei riguardi del libro della legge ritrovato durante i lavori del tempio (il Deuteronomio?). la profetessa minacciò l'attuazione delle maledizioni in esso contenute qualora non si fosse attuata la riforma in corso. Re, clero e profeti, insieme a tutto il popolo, rinnovarono intimoriti il patto mosaico (2° Re 22, 14-20; 23, 1-30; 2° Cr 34, 21-33).

10)     Il «Dies irae» di Sofonia . Questo profeta fu l'ispiratore della riforma di Giosia. Contro Giuda e Gerusalemme, che avevano trasgredito la legge mosaica, predicò l'imminente giudizio divino, in un quadro di cataclisma universale. Con loro sarebbero state coinvolte le nazioni pagane. Ma dopo il giudizio sarebbe sorta un'alba meravigliosa: la salvezza degli anawîm (i poveri), del residuo di Israele, umile, giusto, veritiero. Allora, sotto il dominio di Jahvè, ci sarebbe stata la rivincita su tutti i nemici.

11)     Nahum, profetta della giustizia divina . Poco prima del 612, questo colto patriota compose un'opera di andatura liturgica sulla distruzione di Ninive. Dopo un salmo acrostico di Jahvè il vendicativo, descrive l'imminente assedio della metropoli, seguito dalla sua resa. Una lementazione funebre contro le armate assire chiude il componimento pieno di sarcasmo.

12)     Habacuc, il giusto che vive per fede . Influenzato dalla riforma deuteronomistica, il nostro levita affronta il tema della giustizia nel governo del mondo, affermando che alla fine sarà l'ingiusto a soccombere mentre il giusto vivrà per fede.

13)     Geremia, il profeta che sradica e pianta . Chiamato fin dalla giovinezza alla vocazione profetica, il sacerdote di Anathoth (Gr 1, 1-6) prende parte con tutta la sua sensibilità ai rivolgimenti politici e religiosi dei suoi tempi. Sotto l'impressione di un'invasione dal nord (gli Sciti?), critica la condotta di Israele, sposa infedele, contro l'alleanza mosaica, e la esorta ad un nuovo esodo, ad un culto più spirituale, sganciato dalla materialità dell'arca. Sembra che volesse con questa sua predicazione contribuire alla riforma di Giosia. Dopo un periodo di silenzio, dal 609 in poi predicò contro il sincretismo instaurato da Joiakim, subendo anche un processo regolare, dal quale uscì però con un'assoluzione.    
In seguito alla sconfitta di Karkemish, nel 605, parlò dell'attività del giovane Nabucodonosor, «servo» di Jahvè per la giustizia divina contro le nazioni della Siria-Palestina (Gr 25, 9). Queste due nazioni sarebbero state consumate come una cintura di lino marcia, sarebbero rimaste solitarie come la sua vita celibataria, sarebbero state infrante come un vaso di creta. Durante questa predicazione anche lui fu imprigionato, mentre Baruc il suo segretario rimase per il momento inosservato. I Recabiti restano esempi solitari di fedeltà all'ideale del deserto. Solo gli pseudo-profeti sembrano trionfare, anche se sopra di loro incombeva la minaccia di una maledizione eterna.    
A Joiakin e agli altri prigionieri del 598 fece sapere che sarebbero stati i fichi buoni che avrebbero ricostruito la nazione, mentre ai Gerosolimitani, seguaci della politica antibabilonese, fece sapere che sarebbero stati sterminati come fichi cattivi. Di fatto, nel 587 furono massacrati insieme alla città in rovina. Lui stesso, che aveva preferito rimanere con i pochi scampati, dovette fuggire in Egitto, scomparendo per sempre dalla scena.

14)     L'uccisione del profeta Uria avvenne agli inizi del regno di Joiakim, avendo predicato, come Geremia, contro Gerusalemme e contro la Giudea (Gr 26, 20-23).

15)     Ezechiele predicò anche in Palestina? È la domanda che si pongono parecchi critici per spiegare alcuni brani di questo profeta che non si capirebbero se scritti in Babilonia.
In conclusione possiamo dire che i profeti pre-esilici predicarono contro alcune sicurezze incrollabili: Gerusalemme come città di Dio, l'eternità della casa di Davide, la protezione divina come popolo eletto. Si trattava sì di verità rivelate, ma legate all'osservanza dell'alleanza, del culto interiore e spirituale. Questi aspetti erano del tutto assenti nei re, nei capi e nel popolo che avevano mescolato la purezza della rivelazione divina con i culti cananei. Soltanto uno sparuto «residuo», formato dagli 'anawim (i poveri e gli oppressi). Essi rappresentavano la speranza della futura salvezza messianica.

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I II. I profeti del periodo dell'esilio

Durante questo periodo per sorreggere tanto i rimasti quanto gli esiliati, caduti nella disperazione, l'attività profetica è soprattutto consolatoria. I profeti esortano il popolo di Israele a guardare oltre il periodo della prova, alla nuova Gerusalemme purificata dal Messia. Per contro essi profetizzano contro Babilonia che, come strumento della giustizia divina, aveva esagerato infierendo con crudeltà contro i vinti Israeliti.

1)    Le Lamentazioni di Geremia . Sotto la deprimente impressione del disastro del 586, forse un sacerdote compone le cinque lamentazioni che vanno sotto il nome di Geremia. In esse si descrivono le distruzioni, le desolazioni, le disperazioni di questo disastro; si cercano le cause nei peccati della nazione; si impreca contro i nemici, specialmente Edom, che tanto male ha causato ad Israele; si manifesta fiducia nell'Eterno per il futuro, pur essendo questa fiducia velata dal dolore presente. Fu proprio contro questa disperazione che cominciarono a reagire i profeti dell'esilio.

2)    La restaurazione teocratica di Ezechiele . Dopo queste lamentazioni disperate che alcuni localizzano in Palestina, ma la maggior parte degli esegeti a Babilonia, Ezechiele parla di restaurazione teocratica. Agli esiliati egli ripete che la speranza della futura restaurazione di Israele saranno loro e non i rimasti a Gerusalemme; i pastori del passato saranno sostituiti alla guida del gregge dallo stesso Signore, il quale porterà il gregge in pascoli ubertosi; la Gloria del Signore ha abbandonato Gerusalemme e la Palestina per dimorare in mezzo agli esiliati di Babilonia; dopo la purificazione questi esiliati, riceveranno un cuore ed uno spirito nuovo, essi torneranno ai monti di Israele che rifiorirà come l'Eden di Dio. Di più essi risorgeranno a nuova vita, come le ossa che si rivestono nuovamente di carne e formeranno un unico gregge sotto la guida di un solo pastore, Davide redivivo, legati da un patto teocratico ed eterno. Invano Gog di Magog combatterà contro di loro, perché Dio lo avrebbe distrutto. L'esilio dunque non era stata una sconfitta del Dio di Israele, ma uno strumento di purificazione in vista della restaurazione teocratica.    
Questa profezia fu pronunciata da Ezechiele nell'anniversario dell'entrata degli Ebrei in Palestina. Essa contiene il piano completo della restaurazione con la ricostruzione del nuovo tempio nel quale sarebbe ritornata la Gloria di Dio; descrive il nuovo personale del culto e la nuova condotta del principe davidico; la nuova geografia della terra santa, trasformata in paradiso terrestre dove avrebbero riabitato per sempre le tribù di Israele riunite. Questo «residuo di Israele» sarebbe stato animato da uno spirito nuovo ricco di santità e di sacro.

3)    Il libro della consolazione del Pseudo-Geremia . Sotto l'effetto delle profezie di Geremia che parlavano del ritorno di Israele e meditando su di esse, un suo devoto discepolo e ammiratore ha composto il libro della consolazione contenuto nei capitoli da 30 a 33. In esso si parla di un nuovo esodo e di una nuova Palestina, fiorita come un paradiso terrestre, di un nuovo patto, fondato sulla creazione di una nuova umanità, che avrà la legge nell'intimo del cuore e sarà libera da ogni peccato e iniquità.

4)    L'oracolo contro Babilonia (Gr 50, 1-52, 34). Verso la fine dell'esilio un altro discepolo di Geremia, imbevuto delle idee e del vocabolario del maestro, annuncia la felice caduta di Babilonia ed il nuovo esodo degli esiliati che sarebbero tornati in Palestina per legarsi con il Signore con un «patto eterno» (50, 4-8).
Come si può vedere in questa missione di ricostruzione, Geremia ed i suoi discepoli hanno consolato i «rimasti» e gli «esuli» con quattro concetti: il tema del nuovo esodo; della nuova alleanza più intima, più personale, più dinamica della precedente del Sinai, la restaurazione di Sion (Gerusalemme) con nuovi pastori ed un nuovo re davidico; l'annuncio della fine di Babilonia e la rinascita eterna di Israele.

5)    Lo schema del «ritorno» di Sofonia 3, 14-20. In esso si svolgono quattro temi, comuni durante l'esilio: l'invito fatto a Sion di rallegrarsi (3, 14), perché Dio sarebbe tornato in mezzo al popolo per sbaragliarne i nemici (15. 16. 19a) e per radunare il gregge disperso (18a. 19b 20a), sicché possa diventare l'invidia di tutta la terra (19c. 20b).

6)    Il «ritorno» in Michea 2, 12-13 . Isolato dal contesto minaccioso, c'è l'annuncio che Jahvè si sarebbe rimesso alla guida del suo gregge, il «residuo di Israele», per farne un nuovo esodo, molto più facile del primo.

7)    Il messaggio del Deutero-Isaia (Is 40-55) . Poco prima della vittoria di Ciro, probabilmente in Babilonia,  un anonimo discepolo del grande Isaia, pronunciò il suo messaggio, per preparare la restaurazione di Israele. Egli svolse in modo sistematico i quattro temi del profetismo esiliaco: consolando gli esuli che avevano ormai soddisfatto l'ira divina per le loro passate trasgressioni del patto del Sinai; minacciando la distruzione di Babilonia che aveva abusato della sua missione di «martello» di Dio contro il suo popolo ribelle; parlando di un nuovo esodo, essenzialmente diverso dal primo; descrivendo la nuova Gerusalemme, come paradiso terrestre e centro del patto eterno e universale.

I profeti dell'esilio, pur nelle loro peculiarità personali, ebbero alcuni temi in comune:
a)    consolazione degli esiliati che nel dolore si stavano purificando dalla loro fiducia cieca in alcune certezze di fede: l'elezione di Israele come popolo di Dio, l'eternità della casa di Davide, la sacralità del tempio e del culto perpetuo;
b)    la speranza in un nuovo esodo, migliore del primo;
c)    un nuovo patto scritto nei cuori che avrebbe trasformato il vecchio in nuovo;
d)    la responsabilità individuale;
e)    la trasformazione della santa Sion in paradiso terrestre;
f)     il trionfo sui nemici della teocrazia, specialmente Babilonia che aveva abusato della sua funzione di strumento di Dio per la punizione di Israele.

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IV. Il periodo della restaurazione

Nel periodo che va da Ciro ad Alessandro Magno i profeti sono per lo più preoccupati della «restaurazione».

Alcuni di essi si limitano alla restaurazione materiale (formazione della nazione, costruzione del tempio, ricostruzione di Gerusalemme). I concetti che li ispirano sono soprattutto due: la santità e la separazione tra il sacro ed il profano.

Altri invece si preoccupano di una ricostruzione di tipo univeralistico, ma centralizzata a Gerusalemme, che diventa luogo di appuntamento dei «reduci» e dei gentili convertiti. Si parla della spiritualizzazione del culto e dell'alleanza scritta nei cuori degli uomini.

Un terzo gruppo più avanzato parla di restaurazione universalistica decentralizzata, che ha un culto ed un sacrificio incruento (Malachia) ed una religiosità sincera anche in regioni peccatrici come l'Assiria (Giona).

Di questi profeti non abbiamo una cronologia certa, ma basata su criteri interni non sempre sicuri.

1)    Le narrazioni midrašiche di Daniele (cc. 1-6). Un vedente, vissuto in Babilonia dal 605 al primo anno di Ciro, scrisse una serie di racconti edificanti, il cui genere letterario si può collocare tra la novella e l'autobiografia, con lo scopo di spingere i primi reduci a vivere nella santità.    
Nel primo episodio (1, 1-21) lui ed i suoi compagni conservano un aspetto fisico florido pur nutrendosi soltanto di cibi puri. Con questo egli intende spingere i reduci all'osservanza di Is 52, 11, non toccando cose impure. Nel secondo episodio (2, 1-49) c'è la spiegazione del sogno della statua di Nabucodonosor, fatta di oro, di argento, di rame di ferro mescolato all'argilla, che si frantuma al contatto di una pietra staccatasi dal monte. Il significato di questa statua è che la dinastia del gran re non può reggere dinanzi alla potenza di Ciro, che è il tipo del futuro Messia e del suo regno eterno. L'episodio dei tre giovani salvati dalla fornace (3, 1-30) nella quale erano stati messi perché si rifiutavano di idolatrare la statua enorme fatta erigere dal re, esorta i reduci a liberarsi definitivamente da ogni forma di idolatria. Con la descrizione della malattia del superbo Nabucodonosor (4, 1-49), umiliato e pentito, vuole convincere i reduci che Dio umilia i potenti della terra e domina sulla storia. Con il tragico banchetto di Belshatsar (5, 1-31) vuole dimostrare ai reduci che Dio è colui che preserva la purità dei vasi sacri e ne punisce i profanatori. Con l'episodio della liberazione di Daniele dalla fossa dei leoni (6, 1-28) si vuole dimostrare che i reduci sarebbero stati salvati dalla gola dei loro avversari.    
Tutti questi episodi edificanti furono raccontati in Babilonia tra gli esiliati che stavano per tornare a Gerusalemme. L'intento era quello di fortificarli nel proposito di vivere in quella città nella santità e lottando contro l'idolatria: solo a queste condizioni Dio li avrebbe salvati dai loro nemici, costringendo questi ultimi ad accettare l'impero supremo della divinità.

2)    La restaurazione spirituale secondo la scuola del Trito-Isaia (Is 56-66). Nel periodo che va dal 520 al 450, prima di Esdra e Neemia, si formò una tradizione isaiana che difese l'universalismo centralizzato nel tempio e nella santa montagna di Sion, diventati capitale dell'universo. I temi teologici fondamentali affrontati da questa tradizione sono:

a)    ai reduci affranti dalla delusione, il profeta ricorda la potenza della protezione divina;
b)    dalla salvezza non vengono esclusi i pagani, gli eunuchi e gli stranieri;
c)    bisogna dimenticare il passato poiché Dio costruirà nuova terra e nuovi cieli;
d)    a nulla serve la restaurazione del culto e del tempio materialmente se non c'è l'osservanza della Parola di Dio;
e)    il Signore rivolge lo sguardo con compiacimento agli umili ed ai contriti di cuore (gli 'anawim);
f)    dai confini arriveranno i nuovi figli di Sion con ricchezze e con vasi puri, per contemplare i cadaveri di quelli che hanno mangiato carni proibite, e per assistere alla condanna dei capi indegni, che non hanno impedito i sacrifici umani ed i culti erotici cananei;
g)    solo gli umili ed i contriti potranno vivere in pace vicini al tempio, mentre gli empi che digiunano senza fare opere di carità e che non osservano bene il sabato saranno agitati come i flutti di un mare;
h)    lo stesso accadrà al «popolo della terra» che mangia carne di maiale.

Tutti costoro saranno pigiati come è stato pigiato Edom, il nemico per eccellenza dei giusti. I giusti potranno sciogliere il loro cantico a Gerusalemme, faro di luce per tutti gli uomini: tutti verranno ad essa che sarà vestita da sposa.

3)    La «piccola apocalisse» di Isaia 34-35. Dipendente dal Deutero e Trito-Isaia, si è formata tra il VI ed il V sec. A.C. Si tratta del dittico antiedomita, detto impropriamente dagli esegeti «apocalisse», ma è piuttosto un giudizio divino contro Edom, che durante la cattività si era impadronito della Giudea meridionale diventando così il simbolo di tutti i nemici dei «rimpatriati» e del regno divino. Si tratta anche di un annuncio di salvezza escatologica per il nuovo Israele che torna dall'esilio. In questo componimento si sottolinea il tema della «retribuzione» e del giudizio divino, la rovina di Edom e la trasformazione di Sion in paradiso terrestre.

4)    La visione di Abdia contro Edom . Ritorna ancora il tema che preoccupò tanto i primi ritornati: umiliare Edom che aveva approfittato delle tristi condizioni in cui era caduta Sion, e glorificare quest'ultima che aveva bevuto la coppa purificatrice di Dio.
5)    I fervorini di Aggeo. Accanto ai discepoli di Isaia che stanno sognando una restaurazione spirituale ed universalistica, c'è il grosso dei reduci che, in una visione di rovine e di devastazioni, di miseria aggravata dagli scarsi raccolti, si preoccupa più delle difficoltà quotidiane che della ricostruzione della città santa e del tempio. È proprio per incoraggiare questa comunità demoralizzata che il profeta Aggeo nel 520 si mette a parlare. Il tema è sempre lo stesso: se si vuole che tutto vada meglio, si costruisca il tempio, che sarà santificato dalla venuta del futuro Messia, si osservi in esso la purità legale e si guardi a Zorobabele della famiglia di Davide, come ad un sigillo eletto dal Signore.

6)    Le visioni di Zaccaria (cc. 1-8) . A differenza di Aggeo, Zaccaria-primo si schiera con il gruppo degli spiritualisti, seguaci di Ezechiele, del Deutero e Trito-Isaia. Nelle sue visioni, avute nel 519, si preoccupa del tempio dello Spirito, del culto ricco di carità, della purità perfetta, della purificazione del clero, di Zorobabele, germoglio legittimo della stirpe di Davide, dell'armonia dei due poteri spirituale e civile. Nelle visioni del 518 si preoccupa invece dei digiuni e delle lamentazioni troppo formalistici e privi di carità. In fine, in nove brevi oracoli di chiusura, si preoccupa dell'era messianico-escatologica.

7)    La «grande apocalisse» di Isaia 24, 1 - 27, 13. Babilonia, città del caos, è finalmente rasa al suolo da Serse I (485 a.C.), l'Egitto è vinto (482 a.C.); gli esiliati, insieme ai gentili convertiti, possono finalmente arrivare a Gerusalemme, ove si è intronizzato Jahvè, per partecipare al banchetto messianico. I giusti risorgono a nuova vita, i cattivi sono puniti, la città superba è calpestata, la città forte invece è ricostruita sulla rocca di Jahvè, con mura e con baluardo (Neemia 6, 15-16: ottobre 445). La vigna di Giacobbe è in pieno vigore, mentre la vigna pomposa si è essiccata.

8)    Il Midraš gerosolimitano di Michea 4, 1 - 5, 14 + 7, 8-20. Una dopo l'altra le potenze nemiche del popolo di Dio sono crollate sotto la mano potente di Serse I e di Artaserse I; Neemia è riuscito a dare l'autonomia all'intera Giudea: ormai Sion può considerarsi finalmente il centro dello jahvismo, la capitale dei «ritornati» e di tutti i convertiti. Manca però il re davidico, ma presto comparirà da Betlemme colui che dovrà dominare tutto Israele. Fino a che non comparirà, gli Israeliti saranno in balia dei loro nemici; solo dopo si riuniranno di nuovo i fratelli della diaspora con quelli ritornati in patria e qui egli stesso (il discendente davidico) li governerà come pastore con la potenza e la maestà del suo Dio, di cui è perfetto vassallo. Così tutti vivranno in pace, sempre sicuri della vittoria, anche se popoli potenti come Assur tenteranno di aggredirli. Gerusalemme che si sta ricostruendo con difficoltà, diventerà centro di pellegrinaggi, terra florida come il Basan e il Galaad, libera dal peccato che sarà gettato nel profondo dei mari.

9)    La riforma deuteronomistica di Malachia . Israele non ha tirato le necessarie conclusioni dalla restaurazione ormai attuata: nel tempio quasi centenario non c'è un vero culto, ma soltanto formalismo, i sacerdoti stanno abusando del «patto di Levi», il popolo si contamina con i matrimoni misti e ci si scandalizza della giustizia retributiva dello stesso Dio. Era pertanto necessario l'intervento di un profeta che richiamasse Israele alla fedeltà e all'osservanza della pura legge dell'Oreb. Questo anonimo profeta, messaggero di Dio, è passato nella tradizione con il nome di Malachia. Egli parlò della preferenza di Dio per Giacobbe piuttosto che per Esaù (progenitore degli Edomiti); parlò dell'oblazione pura che si sarebbe offerta nel mondo intero; dei doveri dei Leviti, della legge mosaica sulla proibizione dei matrimoni misti (Dt 7, 1ss): condannò il divorzio (Dt 24, 1-4); contro i critici della retribuzione divina, parlò dell'intervento del giudice divino: già sta arrivando il suo precursore, lo «angelo dell'alleanza», che ne deve preparare il tribunale, nel tempio, da dove il giudice purificherà il suo popolo, il quale si trasformerà nella propria condotta, secondo il «libro memoriale», cioè la legge mosaica, considerata la carta fondamentale della riforma di Neemia. Costui immetterà Israele in quella corrente spirituale che si chiamerà in seguito giudaismo.

10)     Gioele, profeta del «giudaismo». Ispirato da Dt 28, interpreta un'invasione di cavallette come punizione di Dio contro i trasgressori della legge; quindi, allargando l'orizzonte, prende il disastro come tipo del «giorno» della calamità vicina, minacciata anch'essa da Dt 32, 35b, contro i nemici del «giudaismo». Il messaggio ha la forma di una liturgia penitenziale, descritta con colori apocalittici, ed ha lo scopo di raggiungere la conversione, sicché in tutta la Giudea, su tutti i penitenti, senza distinzione di età, di condizione sociale, e senza privilegi, possa scendere lo Spirito del Signore e trasformarli in profeti (3, 1-5). Nel frattempo le nazioni che hanno goduto durante l'esilio dell'umiliazione del popolo di Dio saranno sospinte nella valle di Giosafat per misurarsi con il Signore in una guerra santa e per essere giudicate. Dopo si aprirà per la terra santa l'era sognata del paradiso terrestre.

11)     Giona, la satira contro il nazionalismo . Con la riforma deuteronomistica predicata da Malachia e attuata da Neemia, Gerusalemme si separò da tutto il mondo, chiudendosi in una «siepe» (ghetto); così i Samaritani, almeno dal tempo di Alessandro Magno consumarono lo scisma; i Tobiadi della Transgiordania diventarono il rifugio di tutti gli scontenti politici e religiosi della comunità jahvistica; la colonia di Elefantina respinse le limitazioni deuteronomistiche sulla Pasqua e sugli Azzimi richieste dal clero gerosolimitano. Nella città santa trionfò il giudaismo che rese vane tutte le profezie di carattere universalistico e si trasformò in un nomismo.    
Contro questo nazionalismo estremo reagì un anonimo del IV secolo componendo una satira che porta il nome di Giona. Preso come eroe il vecchio profeta di corte che aveva aiutato Geroboamo a riconquistare i sacri confini della patria, l'autore lo pone di fronte al problema della salvezza di Ninive, la nemica per autonomasia della terra santa; naturalmente il profeta nazionalista si oppone, fugge, si piega a mala voglia, predice la penitenza, si arrabbia della conversione dei nemici, si lagna della misericordia di Dio che perdona alle genti. Il fatto occasionò una disputa tra Giona, rappresentante degli Ebrei nazionalisti, e Dio, padre misericordioso di tutti gli uomini. Questi, con delicatezza e con ironia, fa uscire dal suo gretto guscio il primogenito viziato, che non avrebbe voluto dividere con i fratelli scapestrati la propria eredità. Costoro, più ignoranti che colpevoli, valevano molto di più presso Dio che la pianta di ricino che si era essiccata, con grande rincrescimento del profeta egoista.    
La lezione servì e nacque il tipo di profeta ideale: un «servo di Jahvè» che con la sua sofferenza ed apostolato porta la salvezza non solo agli Ebrei ma anche alle genti.

12)     Il «Servo di Jahvè», profeta ideale. Svanite le speranze su Ciro, delusi del ritorno e della restaurazione di tipo nazionalistico, la scuola del Trito-Isaia produsse quel libretto che va sotto il nome di il «Servo di Jahvè» con il quale difese un messianismo universale e spiritualistico. La missione del Servo, profeta ripieno di Spirito di Dio, è quella di portare, con garbo e mitezza, una nuova legge, una religione adatta per il mondo intero (Is 42, 1-4). Egli stesso, con un racconto autobiografico, si può presentare a tutto il genere umano, come un «chiamato» sin dal seno materno, con una natura adatta per compiere la propria missione universalistica: ha ottenuto una lingua tagliente, un'infanzia nascosta sotto la protezione divina. Iniziato l'apostolato fra gli Ebrei, ha conosciuto lo scacco, però non si è sfiduciato e ha portato la sua luce fino ai confini della terra (Is 49. 1-6).    
Per avere la capacità di attuare questa sua missione universalistica, il Servo si è fatto discepolo della Sapienza, sottomettendosi volontariamente alla dura disciplina scolastica, al duro giudizio degli esaminatori. Ha superato la prova; è stato protetto dal suo maestro divino, i suoi obiettori furono confusi (Is 50, 4-9).    
Iddio lo esalta, dandogli successo e stima universale, perché ha scelto la via della sofferenza vicaria. Fu deformato dalle percosse, insultato, processato, ucciso. Gli uomini lo credettero un condannato da Dio. E invece si era caricato delle colpe di tutti e si era sacrificato vicariamente per tutti loro, espiando le loro colpe, vero capro espiatorio dell'umanità.    
In conseguenza, egli avrà una lunga sopravvivenza, sarà glorificato, vedrà la luce della resurrezione. È il giusto sofferente che ci salverà (52, 13 - 53, 12).
Possiamo concludere questo paragrafo affermando che i profeti di questo periodo considerarono una restaurazione integrale che andava dalla ricostruzione del tempio e della mura della città alla presenza divina e spiritualizzazione della Santa Sion; dal ritorno degli esuli all'arrivo di tutte le nazioni convertite; dallo ristabilimento della capanna di Davide all'apparire radioso del Messia; dalla riforma deuteronomistica della nazione alla legge predicata dal Servo di Jahvè a tutte le genti; dalla vita facile di un nuovo paradiso terrestre alla sofferenza vicaria accettata per amore di tutti gli uomini.

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V. Il periodo apocalittico

Alcuni profeti, delusi da come i piani di restaurazione furono praticamente realizzati, tanto quelli di carattere nazionalistico, quanto gli altri universalistici, sia centralizzati o meno, auspicarono una trasformazione apocalittica di questo secolo malvagio per intervento diretto di Dio, il quale inaugurerà il regno del «Figlio dell'uomo» e dei santi dell'Altissimo.

1)    Il messaggio apocalittico del Deutero e Trito-Isaia (9, 1 – 11, 17 + 12, 1 – 14, 21). Con l'avvento di Alessandro Magno e con le lotte dei Diadochi, le correnti mistiche degli 'anawim sognarono una trasformazione di questo secolo malvagio per intervento diretto di Dio. Nacque così l'apocalittica, che piano piano sostituì la profezia classica.    
La prima testimonianza di questa nuova corrente di pensiero è costituita dall' «antologia» di visioni e di oracoli che va sotto il nome di Zaccaria, ma che si deve attribuire ad un gruppo di 'anawim che ereditò il messianismo sofferente del Servo di Jahvè, delimitato però ad un universalismo centralizzato nella città santa.    
Il Messia vagheggiato da questi profeti arriverà a Gerusalemme umile e giusto, cavalcando un puledro come i vecchi carismatici, inaugurando un regno pacifico e universale; sul gregge destinato al macello domineranno prima i cattivi pastori, poi un pastore interessato (Giuda?) ed infine il pastore davidico, il quale, con la sua morte, farà sgorgare per Gerusalemme una fontana purificatrice, che darà la vita alle pecorelle decimate. Allora la Palestina intera diventerà una pianura paradisiaca e tutti i popoli accorreranno per celebrare, nella santità, la festa dei tabernacoli.

2)    La liturgia di Baruc . Come manuale liturgico di questa festa universale, tra il 312 ed il 261 fu scritto il libro di Baruc, attribuito al segretario di Geremia, che tanto si era dato da fare durante la tragedia del sec. VI per evitare il peggio.    
Dopo una supplica collettiva per la confessione delle colpe della nazione, si fa un elogio della Sapienza/Legge e termina con un discorso di consolazione, simile a quelli del Deutero e Trito-Isaia e ai Salmi di Salomone, che dovettero nascere nello stesso ambiente. Gerusalemme, la madre vendicata, deve godere nel contemplare il ritorno festoso di chi era partito in preda al dolore.

3)    La lettera pseudoepigrafa di Geremia . Un anonimo jahvista, buon conoscitore della religione e del culto babilonese che sotto il dominio seleucida erano rifioriti di nuovo, sviluppa un insieme di considerazioni sulla nullità degli idoli e ne mette in ridicolo il loro culto, per mettere in guardia gli Ebrei dal pericolo del sincretismo.

4)    Le visioni apocalittiche di Daniele (cc. 7-12). Dal 332 al tempo dei Maccabei – periodo di lotte e di persecuzioni per il giudaismo –nelle correnti mistiche degli Hasidim, «uomini tra i più valorosi in Israele e totalmente dediti alla legge» (1 Mac 2, 42), si tramandarono quattro visioni apocalittiche attribuite al vecchio profeta Daniele. Erano la descrizione delle lotte dei quattro regni: babilonese, medio persiano, greco e romano con il «piccolo corno» contro il Figlio dell'uomo ed i santi dell'Altissimo: Alla fine dei tempi ci sarà un periodo di angoscia, ma per il popolo di Dio inizierà la gloria senza fine: per questo gli uomini risorgeranno dai morti.

Gli apocalittici trasportano la storia nel secolo futuro ed attribuiscono la salvezza al Figlio dell'uomo che viene dal cielo.
Secondo la dottrina ufficiale dell'ebraismo, con Artaserse era cessata la serie dei profeti e nessuno avrebbe potuto aggiungere alle vecchie altre nuove profezie. Si attendeva soltanto l'arrivo del Messia per decidere le questioni rimaste insolute. Per questo motivo il profetismo scomparve dall'ebraismo ufficiale. La vecchia stima tributata ai profeti era stata assorbita dal sommo sacerdote che poteva aver contatti con la divinità del Santo dei Santi.

A questo punto si allaccia la storia cristiana con il Battista «il profeta dall'Altissimo» che andrà «davanti alla faccia del Signore per preparare le sue vie» (Lc 1, 76). Con lui si chiude la serie dei profeti dell'Antico Testamento e si apre l'era cristiana con la venuta del «profeta» per eccellenza, già promesso a Mosè (Dt 18, 18-19; At 3, 22), e cioè Gesù Cristo (Lc 7, 16; Gv 6, 14; 7, 40; Lc 13, 33).

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INSEGNAMENTO PROFETICO

La dottrina del monoteismo etico

Più che vedere nei profeti i grandi capi della religione ebraica ed fondatori del monoteismo etico, dobbiamo considerarli come i difensori del monoteismo di stampo «mosaico», preoccupati soprattutto di far rispettare il patto fatto da Dio con il popolo ebraico durante l'esodo. In tal senso essi sono i mediatori fra Dio ed Israele, difensori dell'antico più che innovatori, conservatori più che rivoluzionari.
D'altra parte essi non si limitarono però a conservare le vecchie tradizioni, ma le riformularono sempre in modo nuovo approfondendole ed adattandole costantemente alla realtà del momento, sotto forme sempre nuove e vitali.
Sulla divinità essi approfondirono il concetto di unicità e di eticità; difesero l' amore particolare di Dio per il popolo eletto, ma non ne esclusero l'universalità; pur ammettendone la trascendenza non mancarono di sottolinearne la vicinanza.

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L'unicità di DIo

Il comandamento di Es 20, 3 (Dt 5, 7) «Non avrai altri déi di fronte a me» sta alla base della predicazione profetica. Mentre il Dio di Israele è l'essere che sta alla base di ogni cosa e di ogni popolo, gli déi pagani non sono nulla.
Gli déi pagani dopo la sconfitta dei loro fedeli perdevano la faccia, il Dio di Israele è un Dio etico che sa punire anche i propri fedeli se peccano. Così i profeti possono confortare e difendere gli esiliati, vinti e sopraffatti, contro le divinità babilonesi che pretendevano di aver vinto il Dio di Israele. Il Dio di Israele si preoccupa del principio etico della retribuzione, non solo nel bene, ma anche nel male. Il Dio di Israele dà il benessere, ma anche l'avversità; ha creato il suo popolo, ma anche l'intero creato, realizza i suoi piani infallibilmente preannunciandoli con sicurezza anche per il futuro. Il Dio di Israele è nel profondo di ogni cosa e di ogni avvenimento è veramente il Signore della storia, oggi, ieri e domani.

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Un Dio nazionale e universale

I profeti non mancano di predicare la certezza indiscussa che Jahvè è il Dio particolare di Israele. Per questo essi sottolineano l'alleanza del Sinai dalla quale è stato formato il popolo eletto. Ma al tempo stesso non si stancano di ripetere che il Dio nazionale di Israele è anche il creatore di tutto l'universo, della luce, della pace universale, della fertilità del suolo, dei cieli e della terra nuova del tempo escatologico. Il Dio di Israele è anche il Dio di tutte le nazioni avendo assegnato ad ognuna di loro dei confini. Egli si serve delle nazioni come strumenti per punire il popolo eletto, ma può limitarne o sospenderne l'azione come e quando vuole, essendo il Signore della storia.
Sia ebrei che pagani dovranno rispondere a Dio delle proprie azioni e perciò i profeti si preoccupano di rimproverare il popolo eletto, ma anche le varie nazioni. In tal senso essi sono i profeti di Israele, ma anche i profeti delle nazioni.

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Un Dio trascendente e vicino

Questo Dio unico, particolare ed universale al tempo stesso, è «santo», cioè separato dal profano e perciò indipendente dal mondo da lui creato, infinitamente superiore ai figli degli uomini, che supera in grandezza, in potenza, in sovranità. Egli è un Dio spirituale e trascendente.
Ma i profeti non si stancano di ricordare ad Israele che Jahvè è anche lo sposo fedele, intimamente legato al suo popolo dal patto dei Sinai. Per spiegare questa vicinanza di Dio al suo popolo, i profeti non trovano di meglio dell'immagine del vincolo matrimoniale. La nazione ebraica si fidanza e si sposa con Jahvè, ma pecca di infedeltà prostituendosi con molti amanti. Per questo motivo Dio la ripudia e divorzia da lei. Ma poi si riconcilia con essa celebrando nuove nozze che non potranno più essere infrante, poiché l'alleanza sarà rinnovata nel cuore attraverso il dono dello Spirito che feconderà il profondo dell'anima umana.

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Il dovere del culto

La controversia classica del protestantesimo liberale del XIX sec. si basa tutta sulla domanda se a questo Dio, unico, amante dell'etica, nazionale ed universale fosse dovuto soltanto un culto in ispirito e verità, oppure anche cerimoniale ed istituzionale. Si tratta quindi di stabilire se i profeti fossero anticultuali o cultuali.

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1) profeti anticultuali?

Prendendo in considerazione soltanto quei versetti favorevoli alla loro tesi, i critici liberali del secolo scorso sostennero la tesi del profetismo contrario al culto. Secondo questa tesi i profeti, mediatori della Parola, sarebbero stati necessariamente contrari ai preti, mediatori del sacrificio. Essi però non tengono conto che i profeti, pur essendo predicatori del monoteismo morale, non avrebbero mai potuto ai loro tempi essere i sostenitori di una religione puramente etica. In antico, infatti, soprattutto fra i Semiti, il culto e l'etos erano necessariamente inseparabili in quanto ogni rito era il segno attraverso il quale poteva essere manifestato il senso profondo dell'essere.

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2) i profeti cultuali

Completamente contraria a questi tesi fu la scuola storico-religiosa scandinava e mitico-ritualistica inglese secondo le quali in Israele sarebbe esistito, come nell'ambiente circostante, un gruppo di profeti cultuali ed anche i profeti classici non sarebbero stati contrari al culto in sé, ma agli abusi.
In tutti i brani riportati dagli anticultuali lo scopo dei profeti non è quello di eliminare il culto, ma di purificarlo dagli abusi che ne erano stati fatti. Ad esempio il profeta anonimo della Giudea profetizza contro l'altare di Bethel soltanto perché illegale (1 Re 13, 1-10). Geremia parla contro il tempio di Gerusalemme, perché oggetto di venerazione e di culto superstizioso (Gr 26, 1-16) e frequentato da devoti immorali e sincretisti (7, 1-10). I sacrifici, per i profeti, non servono a nulla e sono condannati dal Signore se non sono accompagnati dalla giustizia, dalla misericordia e dall'umile sottomissione a Dio (Is 1, 10-20; Mi 6, 6-16).
I profeti, dunque, non furono contrari al culto in modo assoluto, ma vollero che fosse espressione di una religione profonda, fonte di giustizia, di misericordia e di carità.

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3) purificatori del culto

Ora la disputa fra coloro che consideravano i profeti come sostenitori del culto e quelli che invece li consideravano contrari al culto, si è abbastanza affievolita e si ammette un po' da parte di tutti che il profetismo si preoccupò del culto con l'intenzione di purificarlo liberandolo falle sue caratteristiche cananee, dagli usi superstiziosi popolari e paganeggianti e dal ritualismo magico di origine beduina.
Questo profetismo fu contrario all'ipocrisia del clero ignorante e di quei fedeli che nel culto cercarono piuttosto un alibi alla loro immoralità ed ingiustizia. Così il profetismo accusa il clero di ignorare la legge (Os 4, 6), di profanarla (Ez 22, 26; So 3, 4), di essere corrotti e di agire per interesse (Mi 3, 11; 23, 11), di disprezzare il nome di Dio (Ml 1, 6).

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I profeti e la giustizia sociale

Il culto al Dio unico, amante dell'etica, nazionale ed universale, trascendente e vicino, non deve, dunque essere un alibi per coprire il proprio egoismo, ma deve portare il fedele alla pratica della giustizia e della misericordia di Dio verso i fratelli più bisognosi.

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1) Il dono della terra e le ingiustizie sociali
I profeti non furono dal punto di vista sociale né conservatori né rivoluzionari; non si misero al servizio dei re, del clero, di gruppi sociali o di partiti, ma si presentarono come i predicatori della giustizia divina, che si doveva praticare indistintamente da tutti, a favore delle categorie più deboli e cioè delle vedove, degli orfani e degli stranieri. Nell'occupazione della Palestina essi non videro lo sfogo della forza brutale e dell'egoismo dell'uomo, ma piuttosto l'adempimento della promessa divina.
La ricchezza doveva essere collettiva come nel periodo nomade dell'esodo. Dentro i confini di Israele non doveva esserci né la miseria né la ricchezza sfacciata, perché quest'ultima era spesso frutto di frode (Gr 5, 25-28), di tasse ingiuste (Am 5, 11), di accaparramenti di terre (Is 5, 8; Mi 2, 2) sia da parte di re prepotenti, come da parte delle classi privilegiate e furbe a danno di quelle più deboli. Spesso si falsificavano le bilance e si alteravano le leghe metalliche delle monete, si prestavano soldi a prezzi esagerati approfittando di coloro che erano caduti in miseria.
Tutte queste ingiustizie venivano denunciate dai profeti i quali per altro non proponevano alcuna soluzione di carattere politico, ma erano convinti che per liberarsene si doveva attendere il giorno di Jahvè e l'avvento della salvezza operata dal Messia, che sarebbe stato un vero giustiziere.

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2) Il Messia, Servo liberatore dei "poveri"

I profeti furono convinti che al di «fuori di Dio non ci può essere salvezza» (Is 43, 11: Os 13, 4 Is 45, 21), cioè non ci può essere liberazione alcuna dalle numerose difficoltà sia per il singolo che per l'intera comunità. Cosicché considerano come «maledetto l'uomo che confida nell'uomo . . . » (Gr 17, 5) ed invece «benedetto l'uomo che confida nell'Eterno e la cui fiducia è l'Eterno» (Gr 17, 7).

Al contrario della teologia sacerdotale che aveva una visione della storia molto ottimistica, essi, conoscendo le profonde radici dell'egoismo umano, sono del tutto pessimisti. Per questo motivo predicano ai fedeli la conversione a Dio, dato che solo lui li potrà liberare dal peccato (Gr 3, 19-25; Os 14, 2-9),
trasformando il loro cuore di pietra (Gr 31, 31ss), cambiandone la natura così restia a sottomettersi alla volontà generosa di Dio (Ez 36, 24-27). La storia egoistica degli uomini cesserà soltanto con un suo atto decisivo e definitivo, cioè con la creazione di una nuova epoca, con nuovi cieli e nuova terra, con una salvezza che discende dal cielo (Dn 7, 14.27); con una Gerusalemme celeste che scende dal cielo (Ap 21, 2.10); con una resurrezione totale dei giusti (Dn 12, 2).

Solo così, ma sopra questa terra, ricreata e spiritualizzata e non nel cielo, regnerà Dio, il suo Messia e la giustizia.

In principio si era pensato che questo «Messia» dovesse essere il re, rappresentante e luogotenente di Dio su questa terra, cioè Davide e la sua famiglia, legata con Dio mediante una vera alleanza, non in contrapposizione all'alleanza sinaitica, ma identificata con essa. Sennonché in seguito ai tradimenti dei vari monarchi ed al crollo decisivo della dinastia durante l'esilio, si cominciò a guardare ai tempi escatologici e ad un re messianico ideale.

Secondo i vari profeti questo ideale di Messia viene visto in vari modi. Secondo Isaia questo liberatore sarà un consigliere meraviglioso, vale a dire un saggio politico, come i vecchi imperatori dell'era d'oro, pascolerà abbondantemente il suo gregge; sarà anche un Dio forte, cioè un eroe divino il quale, senza fare parzialità, farà giustizia agli orfani, alle vedove ed agli stranieri; sarà un padre eterno, cioè un capo della povera gente che vedrà il proprio regno sempre più affermarsi; sarà finalmente un principe della pace che riabiliterà i poveri, aprendo loro gli occhi, se accecati, liberandoli se prigionieri (Is 9, 5).

Secondo Zaccaria, questo Messia entrerà nella nuova Sion, non come un re prepotente, ma come un re giusto e vittorioso, che cavalca umilmente (Zc 9, 9).

Secondo altri passi di Isaia diventerà solidale con le miserie di tutti gli uomini, in modo che nella mitezza (Is 42, 1-4), attraverso i loro insuccessi fatti propri (Is 49, 1-7), le loro umiliazioni (Is 50, 4-11) e una morte vicaria (Is 53, 8), li potesse redimere da ogni male e da ogni peccato e li potesse rendere tutti giusti (Is 53, 11), caricandosi egli stesso dei lori peccati ed intercedendo per loro (Is 53, 12).

Secondo Daniele, questo Messia, esistente dalla creazione e forse prima, scenderà finalmente dal cielo per prendere le redini del regni dei Santi dell'Altissimo, in seguito alla intronizzazione avuta da Dio (Dn 7, 9-27).

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3) La giustizia e la pace
Durante il regno di questo Messia e dei Santi dell'Altissimo, la pace regnerà su tutte le nazioni (Is 2, 2-4; Mi 4, 1-4; Is 11, 1-10; Zc 8, 20-23; Zc 9, 10; Zc 14, 16-21; Is 56, 6-8; Is 60, 11-14); una pace senza difetti, ricca di ogni bene, di ogni prosperità, di ogni sanità e tranquillità, proprio come quella del lontano paradiso terrestre. Ognuno, allora, riposerà sotto la propria vigna e sotto il proprio fico (Mi 4, 4; Zc 3, 10). E questo perché la pace messianica fiorirà da un regno di giustizia, non solo sociale e politica, ma anche interiore e spirituale. Pace e giustizia che sa donare soltanto Dio.
L'amore di tale pace veritiera costituirà uno degli ultimi messaggi della profezia biblica (Zc 8, 19).

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NOTE A MARGINE
¹  Per ulteriori approfondimenti consultare: "Il profetismo e i profeti" da "Il Messaggio della Salvezza", vol. 4, ed. Elledici-Leuman (To),  1977 torna al testo
²  Per tutte le citazioni bibliche è stata usata La Nuova Diodati, anno 1991,  Edizione La Buona Novella - Brindisi torna al testo
³  Gruppo di Israeliti che, per principi religiosi , osservavano un modo di vita seminomade, si astenevano dal bere vino e non si recavano nei centri urbani se non in caso di pericolo (Enciclopedia della Bibbia, vol. 5, coll.1191-1192 "Recabiti") torna al testo