L’EPISTOLA DI PAOLO AI ROMANI

E S E G E S I
Capitolo 4°

b) Una conferma (un precedente nell'Antico Testamento) 4, 1-25

Nella vicenda di Abramo Paolo vede la conferma scritturale della giustificazione mediante la fede. Questa è la tesi che sostiene polemicamente contro Giudei e giudaizzanti.

La figura di Abramo aveva per gli Israeliti – e lo ha anche per gli Israeliti odierni – un significato importante; era (ed è) la dimostrazione che l'uomo può raggiungere lo stato di giustizia con le proprie opere e che il riconoscimento divino di questa giustizia è condizionato dal comportamento umano.

Paolo ha invece spiegato (3, 21ss) che la vera giustificazione è fornita da Dio stesso, gratuitamente, per effetto della propiziazione e della redenzione operata da Gesù Cristo ai credenti.

Secondo i presupposti giudaici, se qualcuno ha il diritto di vantarsi, questi è proprio Abramo. Invece, proprio secondo le Scritture, Paolo dimostra che nemmeno Abramo ha qualche motivo di vanto.

Il capitolo si divide in cinque parti:

1) Se Abramo fosse stato giustificato sulla base delle sue opere, avrebbe avuto diritto di vantarsi, ma il testo scritturale, se correttamente inteso, implica che fu giustificato indipendentemente dalle opere (2-8)

2) Quando la sua fede gli fu messa in conto di giustizia, Abramo non era ancora circonciso (9-12).

3) La promessa che sarebbe stato l'erede del mondo non era condizionata al merito mediante l'adempimento della legge, ma alla fede (13-17a).

4) Parafrasando Gn 15, 16 si mette in risalto il significato delle parole « Abramo credette a Dio» (17b-22).

5) Importanza per tutti i cristiani della fede di Abramo (23-25).
4 .1. Che diremo dunque, che abbia trovato Abramo, il nostro antenato secondo la carne? La traduzione di questo versetto, che introduce l'argomento, è incerta; tuttavia secondo la carne non può riferirsi a ciò che Abrahamo ha ottenuto, bensì alla discendenza. Egli è "antenato" dei Giudei secondo la carne, ma di tutti i credenti secondo la fede. Paolo presuppone l'obiezione all'affermazione che qualsiasi vanto è stato escluso (3, 27) e si accinge a rispondere proprio per mezzo delle Scritture. Se si può mostrare, secondo le Scritture, che lo stesso Abrahamo non ha alcun diritto di vantarsi, allora il vanto è stato veramente escluso.

2. Infatti, se Abrahamo fosse stato giustificato per le opere, avrebbe (motivo di) vanto. I contemporanei di Paolo erano convinti che Abrahamo fosse stato giustificato sulla base delle sue opere: secondo il Libro dei Giubilei (seconda metà del II° secolo d.C.) « Abrahamo è stato perfetto in tutte le sue opere con il Signore, e amante della giustizia per tutti i giorni della sua vita », secondo la Preghiera di Manasse (che fa parte dei deuterocanonici), Abrahamo non ha mai peccato. Se così fosse avrebbe motivo di vanto, ma non presso (davanti a) Dio ; per quanto ciò possa essere naturale dal punto di vista umano, ma non lo è affatto dal punto di vista di Dio. Una migliore traduzione sarebbe: « ma non è così davanti a Dio».

3. Infatti, che dice la Scrittura? "Abrahamo credette a (in) Dio e (ciò) gli fu calcolato come giustizia". La citazione di Gn 15, 6 è ripresa dalla LXX dove la forma attiva del verbo Egli (Dio) mise (riconobbe) dell'originale ebraico, nella traduzione era passato alla forma passiva gli fu messo.
Questo passo si riferisce alla fede di Abrahamo che ebbe fiducia (credette) nella promessa fattagli da Dio (Gn 15, 1-5), argomento oggetto di commento e di discussione nel pensiero ebraico. Già in Maccabei 2, 52 si leggeva: « Abramo non fu trovato forse fedele nella tentazione, e ciò gli fu accreditato a giustizia?» (traduz. CEI). La fede qui ricordata viene considerata come un'opera, un'azione meritoria. Anche al tempo di Paolo, le parole attribuite a Rabbi Shemaiah (50 d.C.) riflettono questo pensiero: «La fede con la quale il tuo padre Abrahamo (nel testo è Dio che parla) merita che io debba dividere le acqua del mare per loro, come è scritto: Egli credette nel Signore, e questo gli contò come giustizia» (Mekilta, commento su Es 14, 15). Era questa, dunque, la comprensione comunemente accettata dal giudaismo rabbinico, in cui è chiaro che Abrahamo NON fu giustificato sulla base delle opere, anche se alla sua fede viene attribuito qualche tipo di "merito".
Citando questo testo a sostegno della sua tesi (che Abrahamo non era stato giustificato sulla base delle opere e non aveva, quindi, alcun diritto di vantarsi dinanzi a Dio), Paolo si richiama ad una Scrittura che i suoi compagni ebrei consideravano come argomento diametralmente opposto, spiegando che il testo, correttamente inteso, conferma invece il suo punto di vista.

4. Ora a chi opera (lavora) la retribuzione ( misqo/j = paga, salario, ricompensa, punizione) non gli è riconosciuta come grazia ma come debito,

5. ma a chi non opera, ma ha fiducia in colui che giustifica l'empio, gli è riconosciuta la fede (sua) come giustizia. Il salario di chi lavora non è un dono ma un debito del suo datore di lavoro, mentre chi non lavora, e non ha quindi alcun diritto, però crede, riceve in dono la giustificazione. Il pubblicano della parabola di Gesù (Lc 18, 9) non tornò a casa giustificato per i suoi meriti (che non aveva), ma proprio perché era consapevole di questo si abbandonava alla misericordia di Dio. Abrahamo non era certamente un "empio" o un "peccatore", tuttavia fu giustificato in base alla sua fiducia nelle promesse di Dio. Un Dio che "giustifica l'empio" è un concetto così paradossale da rasentare lo scandalo. Se Dio giustifica l'empio a che serve comportarsi correttamente e fare il bene? Ma il paradosso, che è quello di tutto l'annuncio evangelico, è che l'empio se crede, cessa di essere tale, viene giustificato mediante la redenzione in Cristo. Si tratta di perdono ma a caro prezzo. per il credente, però, è gratuito.

6. Così pure Davide dice della benedizione (beatitudine) dell'uomo a cui Dio imputa ( logi¢zetai , calcola, accredita, mette in conto) una giustizia ( assoluzione) senza opere.
Paolo fa qui uso di un principio esegetico rabbinico: interpreta un passo biblico con l'aiuto di un secondo passo. In questo caso ricorre al Salmo 32, 1-2 per un aiuto nell'interpretare Genesi 15, 6. Ma questo richiamo del Salmo ha anche una validità interna e sostanziale: il riconoscimento divino della giustizia di una persona indipendentemente dalle opere. Ciò equivale, in pratica, al perdono dei peccati.
Dio pronunzia la "beatitudine" di coloro a cui Egli accredita l'assoluzione (giustizia) indipendentemente dalle opere.

7. "Beati coloro ai quali sono perdonate le trasgressioni ( a¦nomi¢ai , illegalità, iniquità, colpe, peccati) sono state perdonate e i peccati sono stati coperti.

8. Beato l'uomo a cui il Signore non imputa i peccati"

9. Questa beatitudine, dunque, è sulla circoncisione o anche sulla incirconcisione? Paolo riprende il filo del discorso, interrotto per la citazione. Forse i rabbini avrebbero ritenuto che la beatitudine si applicasse esclusivamente agli Ebrei, per cui ora interpreta Salmo 32, 1-2 con l'aiuto di Gn 15, 6.
poiché noi diciamo che la fede fu imputata ad Abrahamo come giustizia.

10. Come (in quale condizione) dunque gli fu accreditata? Nella circoncisione era o nella incirconcisione? Non nella circoncisione ma nella incirconcisione. Quando la sua fede gli fu messa in conto di giustizia, Abrahamo non era ancora circonciso. La sua circoncisione viene presentata due capitoli dopo (17, 1ss), dove ci viene detto che aveva 99 anni. Al cap. 16, 16 ci viene detto che alla nascita di Ismaele Abrahamo aveva 86 anni. Secondo la cronologia rabbinica, la circoncisione di Abrahamo ebbe luogo 29 anni dopo la promessa. Facendo quindi ricorso a Gn 15, 6 se ne conclude che la beatitudine pronunciata nel Salmo 32 non può essere circoscritta ai soli circoncisi.

11. E un segno shmei=on (marchio, suggello) ricevette (nella) circoncisione , sigillo sfragi=da nella giustizia della fede mentre (era ancora) incirconciso. La giustizia di Abrahamo gli fu accreditata per fede e successivamente ricevette, con la circoncisione, il sigillo definitivo. La parola sfragi¢j , sigillo, è la stessa usata dalla LXX in Gn 17, 11, dove si parla di segno. La circoncisione è un segno esteriore indicante la realtà che vuole significare, cioè il patto concluso fra Dio e Abrahamo e la sua discendenza. Questa è l'autenticazione dello status di giustizia per la fede, in modo che lui fosse padre di tutti i credenti incirconcisi, e sia imputata loro la giustizia. In questo modo la circoncisione di Abrahamo, sigillo e segno della giustizia attribuitagli per fede quando era incirconciso, è anche il segno della giustizia attribuita anche ai credenti circoncisi. Abrahamo, dunque, diventa padre di tutti i credenti, circoncisi e incirconcisi.

12. e padre dei circoncisi, di quelli non solo circoncisi ma camminanti nei passi (sulle orme) della fede dell'incirconcisione padre nostro Abrahamo. Proprio la fede nell'incirconciso Abrahamo, col marchio della circoncisione, lo fa essere padre di tutti i credenti, circoncisi e incirconcisi.

13. Infatti non per mezzo della legge la promessa ad Abrahamo (fu fatta), o al suo seme, di essere erede del mondo, ma per mezzo di una giustizia di fede.
Questa affermazione si pone in contrasto con le tesi rabbiniche che sostenevano che tutte le promesse furono fatte ad Abrahamo sulla base del suo adempimento della legge (che, secondo loro, era già conosciuta da lui, e adempiuta nella sua totalità, anche se non ancora promulgata), per cui anche la fede veniva intesa in se stessa come opera meritoria. L'espressione o al suo seme potrebbe essere riferita da Paolo a Cristo, da lui considerato la vera discendenza di Abrahamo (Vedasi Ga 3, 16).
La promessa di essere erede del mondo è un'interpretazione ampia della promessa di una progenie incalcolabile e del possesso della terra di Canaan. Il Giudaismo, infatti, era giunto ad una interpretazione molto estesa. Si tratta, comunque, della promessa della restaurazione finale per Abrahamo e per la sua discendenza spirituale, dell'eredità affidata al genere umano e perduta a motivo del peccato: perciò l'eredità di Abrahamo non può essere confinata entro delle frontiere geografiche (vedasi Eb 11, 10).

14. Perché se quelli della legge (sono) eredi è vuotata la fede e annullata la promessa. Se gli eredi sono quelli che avanzano la pretesa all'eredità sulla base del loro adempimento dei precetti della legge, la fede sarebbe vana, vuota, e le promesse inutili, dato che su queste basi nessuno potrebbe essere erede.

15. Poiché la legge genera ira, ben lungi dall'essere qualcosa che l'uomo possa sperare di adempiere e poter avanzare una rivendicazione su Dio, la legge ha lo scopo di far giungere l'ira di Dio sui trasgressori, ma dove non c'è legge non c'è neanche trasgressione. L'avvento della legge trasforma il peccato in trasgressione dimostrando agli esseri umani che quanto stanno facendo è in contrasto con la manifesta volontà di Dio, perciò il continuare a farlo diventa disubbidienza consapevole e volontaria, ribellione contro Dio.

16. Per questo (l'eredità) è per fede, cioè secondo la grazia, così che sia resa stabile la promessa a tutta la discendenza, non a (quella) della legge soltanto, ma anche per (quella) della fede di Abrahamo, che è padre di tutti noi. Il soggetto di questa frase è l'eredità di cui si fa menzione al v. 13, quale oggetto della promessa divina, la promessa di essere erede del mondo; tuttavia è possibile che Paolo avesse in mente qualcosa di più comprensivo, cioè il piano, o progetto divino di salvezza. Dio ha fatto dipendere il suo progetto, per quanto riguarda gli umani, non dall'adempimento della sua legge, ma dalla fede, e, da parte Sua, dalla grazia.
Il secondo pensiero di questa frase, che si riferisce alla promessa, resa stabile per tutta la progenie che si fonda sulla fede di Abrahamo, vuole intendere che la promessa può essere sicura del suo adempimento, anziché essere una promessa a vuoto, come sarebbe stata se il progetto di Dio fosse dipeso dall'adempimento della legge.

17a come sta scritto: padre di molte nazioni ti ho destinato. Questa frase può essere messa fra due parentesi; si cita Gn 17, 5 in cui viene cambiato il nome di Abramo in Abrahamo: poiché ti costituisco padre di molte nazioni.

17b davanti a Dio in cui credette. Questa frase è collegata all'ultima parte del v. 16 che suonerebbe così: «affinché la promessa sia sicura per tutta la discendenza, cosicché la promessa possa essere valida per tutta la discendenza spirituale di Abrahamo dinanzi a Dio in cui Abrahamo ha creduto»; il quale fa rivivere i morti e chiama in esistenza ciò che non esiste. Chiaro riferimento alla potenza creatrice di Dio. Forse Paolo si riferisce al fatto che, dal punto di vista procreativo il corpo di Sara (ed anche quello di Abrahamo) erano ormai morti, tuttavia Sara generò, alla fine, Isacco.

18. il quale, al di là di ogni speranza, credette, così diventò padre di molte nazioni, come gli era stato detto: così sarà la tua discendenza. La fede di Abrahamo fu tale che lo indusse a sperare ciò che non era sperabile dal punto di vista umano ed a credere alle parole di Dio che gli diceva, mostrandogli le stelle in cielo: così sarà la tua discendenza (Gn 15, 5), versetto che precede la dichiarazione. Ed egli credette all'Eterno, che glielo mise in conto di giustizia (Gn 15, 6) che è il versetto fondamentale di questa parte dell'epistola.

19. E non vacillando nella fede, considerando il suo corpo come morto, aveva circa cento anni, e la morte del grembo di Sara,

20. e contro le promesse di Dio, non decise di non credere, ma fu fortificato nella fede, dando gloria a Dio,

21. e fu pienamente convinto che ciò che aveva promesso (Dio) era anche in grado di farlo. Abrahamo, pur considerando che il suo corpo era come morto (aveva quasi cento anni) e la sterilità, non venne meno nella fede, non vacillò per l'incredulità verso Dio, ritenendolo pienamente capace di fare ciò che aveva promesso. Paolo aggiunge che in questo modo Abrahamo diede gloria a Dio. Una persona dà gloria a Dio quando ne riconosce la fedeltà e di essa si fida. Viene così sottolineato il fatto che si tratta di fede nel Dio che aveva fatto la promessa, non soltanto di fede in quanto era stato promesso.

22. perciò anche (questo) gli fu riconosciuto quale giustizia; più correttamente: anche per questo gli fu accreditato quale giustizia. Si conclude con il commento di Paolo alla citazione di Gn 15, 6. È stato proprio il motivo della fede di Abrahamo in Dio, che Dio gli ha messo in conto come giustizia.

23. Ora non fu scritto per lui soltanto che ciò gli fu imputato. La Scrittura non riporta questo fatto solo per narrare la storia di Abrahamo, come suo memoriale, così che egli possa continuare a vivere nel mondo degli umani.

24. ma anche per noi, ai quali è pure imputato, a coloro che credono in colui che ha risuscitato Gesù il Signore nostro dai morti. Queste parole spiegano la rilevanza che la storia di Abrahamo ha per quelli ai quali sta scrivendo: anche per loro la fede sarà messa in conto di giustizia, anche per noi, dice Paolo, che crediamo in Colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore.

25. che è stato dato a causa della nostre trasgressioni e (fu) risuscitato per la nostra giustificazione. Questa doppia espressione sembra la citazione di una formula fissa, forse già diffusa fra i credenti del tempo di Paolo. Non si può non vedervi l'influenza di Is 52, 13 - 53, 12, il ben conosciuto capitolo in cui si parla delle sofferenze del Servo di Dio , che fu trafitto per le nostre trasgressioni . C'è inoltre un parallelismo fra il collegamento della giustificazione con la resurrezione di Cristo e il riferimento al fatto che il Servo dell'Eterno giustifica molti e che, a quanto risulta dal testo ebraico, sarà risuscitato, anche se non viene usato questo termine (Is 53, 11-12).

È chiaro, comunque, il collegamento fu la morte di Gesù e la sua resurrezione con le nostre trasgressioni e la nostra giustificazione.