L’EPISTOLA DI PAOLO AI ROMANI

E S E G E S I
Capitolo 6°

IV. LA VIA DELLA SANTITÀ (6, 1 - 8, 39)

a. Liberazione dal peccato (6, 1-23)

Il tema centrale di questa sezione della lettera è la santificazione. La giustificazione ha delle implicazioni inevitabili. Se la conseguenza del peccato è la morte, in quanto la persona che accetta di peccare viene a trovarsi sempre più lontano da Dio, la conseguenza della giustificazione deve essere la santificazione. La persona che accetta la grazia s’impegna, come un nuovo essere, a vivere una vita nuova, santa, cioè appartata, separata dal peccato. Ciò sarà possibile grazie all’opera dello Spirito Santo, di cui Paolo tratterà più avanti (cap. 8).

1. Una possibile obiezione (6, 1-2)

È possibile giungere ad una falsa conclusione, all’opposto di quanto detto ora. Se la grazia abbonda maggiormente dove abbonda il peccato, allora dobbiamo continuare a peccare così che la grazia sovrabbondi sempre di più.

Questa obiezione non è del tutto ipotetica: c’è sempre stato chi ha sostenuto che questo sarebbe il giusto corollario all’insegnamento di Paolo, e forse il cosiddetto "sacramento della penitenza" che prevede la confessione dei peccati ad un sacerdote che pretende di avere il potere di rimetterli, trae fondamento anche da questa interpretazione.

Forse anche tra i convertiti di Paolo qualcuno condivideva questo pensiero, e forse l’apostolo prevede questa possibile obiezione.
6 .1. Che diremo dunque? Perseveriamo nel peccato affinché la grazia abbondi? È introdotta l’obiezione all’affermazione fatta in 5, 20. Se la grazia sovrabbonda dove abbonda il peccato, continuiamo a peccare in modo da fare aumentare la grazia!

2 . Niente affatto. Noi che siamo morti al peccato come vivremo in esso? Sarebbe una grandissima contraddizione: come possiamo continuare a perseverare nel peccato se per esso siamo morti? Ma come siamo morti? Per tentare di comprendere il pensiero di Paolo dobbiamo considerare che vi sono quattro modi diversi in cui i credenti muoiono al peccato e, conseguentemente, quattro modi diversi in cui risorgono:

a) significato giuridico: sono morti al peccato dinanzi a Dio quando Cristo è risorto sulla croce per loro. Cristo è morto al loro posto, quindi essi sono morti legalmente. Il salario, la pena per la trasgressione, è stato pagato. Essendo Cristo risorto, anche i credenti, di conseguenza sono risorti con lui, perciò continuano a vivere, ma non più nel peccato, a cui non appartengono più.

b) significato battesimale: sono morti e risuscitati nel battesimo che diventa la ratifica, il sigillo della loro accettazione della decisione di Dio di considerare la morte di Cristo per i loro peccati, come la morte loro, così come la sua vita da risorto diventa la vita loro.

c) significato morale: i credenti sono chiamati a combattere il peccato vivendo una nuova vita, come se continuamente morissero e risorgessero. Sono in obbligo, in quanto nuove creature, a vivere una nuova vita.

d) significato escatologico: essi moriranno al peccato in modo definitivo e inevitabile al momento della morte fisica e saranno inseriti in una vita di risurrezione al momento della venuta di Cristo.

Questi quattro significati si intrecciano fra loro e Paolo si muove liberamente fra di essi.

2. Il significato del battesimo (6, 3-14)

È chiaro che chi ragiona in questo modo, dice Paolo, non ha ben compreso la sostanza dell’Evangelo. La vita nel peccato non può coesistere con la morte al peccato. Per meglio chiarire questo concetto Paolo illustra il vero significato del battesimo che non è solamente un rito di iniziazione alla vita cristiana, ma è il segno della partecipazione del credente alla morte e alla resurrezione di Cristo. Nel battesimo il credente esperimenta, per un attimo, la morte come peccatore, la sepoltura definitiva della vecchia natura peccaminosa, e la resurrezione a una vita nuova in Cristo. Pertanto il credente non vive più nella situazione di peccato, non deve continuare a peccare, ma opporsi ad esso poiché vive nella grazia che ha abbondato al peccato in modo tale da trarlo fuori dalla situazione precedente. Voi vivete in un regime di grazia, dice Paolo, e la grazia non stimola il peccato, anzi vi rende capaci di trionfare su di esso.

3. O ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? È evidente che Paolo ritiene che i cristiani di Roma siano in grado di conoscere questa verità, anche se la comunità di Roma non era stata fondata da lui. Non sapete che tutti noi che siamo stati battezzati in Cristo, cioè nel nome di Cristo, siamo stati immersi nella sua morte? Ai Galati (3, 27) scrive che i battezzati in Cristo sono rivestiti di Cristo. Non si è trattato dunque di un semplice rito, bensì di una vera partecipazione personale alla morte e, come vedremo, alla resurrezione di Cristo: « Noi siamo stati battezzati in uno Spirito nel medesimo corpo » (1 Co 12, 13).

4. Siamo stati seppelliti, dunque, con lui per mezzo del battesimo nella morte , in questo modo, poiché la sepoltura è il sigillo posto sull’evento della morte, viene così suggellata la morte del credente al peccato. È, quindi, una morte "valida", senza ambiguità. affinché, con questa preposizione si introduce lo scopo di questa sepoltura: come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, cioè della potenza di Dio, così anche noi in novità di vita possiamo camminare.
La nuova vita è veramente tale, perché prima non c’era, ma indica anche che la qualità di questa nuova esistenza è di gran lunga superiore.
In questo versetto c’è un movimento dal pensiero della morte e della sepoltura a quello della resurrezione.

5. Poiché se siamo (stati) uniti con (lui) nella morte a somiglianza della sua, così sarà della sua resurrezione. "Se siamo stati resi simili nella morte, lo saremo anche nella sua resurrezione". Questa sembra la migliore traduzione di questo difficile versetto. Questa interpretazione risulta perfettamente in linea col contesto. Se nel battesimo siamo stati resi simili alla sua morte, saremo certamente resi simili alla sua resurrezione nella nostra vita morale.

6. Sapendo questo, che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso insieme (a lui) affinché fosse annientato il corpo del peccato e non più serviamo il peccato.
Il vecchio uomo, il vecchio "io", l’intera persona umana decaduta, finita sotto la condanna, è morta perché è come se fosse stata crocifissa nel battesimo. Il corpo del peccato, cioè la totalità della persona umana controllata dal peccato, è stato annientato, distrutto. Ma il vecchio essere umano continua a vivere. Bisogna intendere, dunque, che a essere annientato non è il corpo fisico, anche se il termine sw/ma è normalmente usato in questo senso, ma il corpo del peccato, controllato dal peccato.
In questo modo si comprende come un tale "corpo", essendo morto non "serve", non è più schiavo mhke/ti douleu/ein del peccato.

7. Infatti colui che è morto è stato giustificato dal peccato. Paolo richiama qui un noto principio giuridico rabbinico: "la morte estingue tutti i debiti", dandogli un significato teologico: colui che è morto con Cristo è giustificato, perché il debito è stato pagato da Cristo stesso con la sua morte.

8. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui. Qui il termine "crediamo" è inteso in tutto il suo significato di certezza: siamo certi, siamo sicuri. Il credente crede fermamente che dal momento che egli è morto con Cristo, deve vivere la sua vita presente con Cristo, nella potenza della sua resurrezione.

9. Sappiamo che Cristo risorto dai morti non muore più, la morte non lo signoreggia più. La resurrezione di Gesù non è stata un semplice prolungamento della vita terrena per incontrare la morte più tardi (Lazzaro), ma è la vera e definitiva resurrezione, la morte non ha più alcun potere su lui. Forse c’è un riferimento ai vari culti pagani, collegati ai cicli della natura, in cui la divinità continuava a morire ogni anno per risorgere periodicamente.

10. Poiché morì al peccato una volta per sempre e¦farpa/c , ma la vita che vive è in Dio. Il suo morire è unico ( e¦farpa/c è usato più volte in Ebrei), una sola volta, non si ripete, ed è un morire al peccato. Questa espressione va compresa alla luce di quanto Paolo dice circa il rapporto della morte di Cristo con il peccato (Rm 3, 24-26; 4, 25; 5, 6-8; 1 Co 15, 3; 2 Co 5, 21; Ga 3, 13). Gesù si è identificato con gli esseri umani peccatori, ha sopportato al posto loro la pena per il loro peccato, ha « condannato il peccato nella carne» (8, 3). Ma ciò è stato fatto una volta per tutte. Di conseguenza, essendo stato risuscitato, vive una vita nuova, in Dio, una vita eterna.

11. Così anche voi, ritenete voi stessi essere morti al peccato ma viventi a Dio in Cristo Gesù. Fate conto di essere morti e vivete come se foste già entrati nella vita risorta. Si può anche intendere "prendete atto", "rendetevi conto" che per il peccato siete morti. Non si tratta di fingere, ma di avere piena coscienza e cognizione di essere morti, cioè che il salario per il vostro peccato è stato pagato e voi siete vivi. Ma proprio perché qualcun altro (Cristo) ha pagato per voi, ora la vostra vita appartiene a Dio, "in" Cristo.

12. Quindi non regni il peccato nel vostro corpo mortale così da ubbidire ai suoi desideri. Si deve dunque concludere, dice Paolo, che il peccato non deve avere più alcun potere su di voi, sul vostro corpo mortale, in modo da ubbidire ai suoi comandi. Se il credente non ubbidisce a Cristo, vuol dire che consente al peccato di regnare su di lui, ad ubbidirgli.

13. E neppure mettete a disposizione le vostre membra (quali) strumenti (armi) di ingiustizia al (per il) peccato. L’immagine è quella di un’estremità che si trasforma fino a diventare uno strumento, un’arma. In altre parole Paolo dice: non mettetivi a disposizione del peccato, non siate disponibili a servirlo, a diventare suoi strumenti di male, ma mettete voi stessi a disposizione di Dio, come da morti a viventi e le vostre membra come armi di giustizia: è la parte positiva, dinamica del comando di Paolo; non strumenti di ingiustizia al servizio del peccato, ma strumenti di giustizia al servizio di Dio, come, appunto, dei morti risorti.

14. Il peccato infatti su voi non signoreggerà , più che di un futuro, si tratta di un imperativo: il peccato non deve più dominarvi. Ciò non significa che il credente sia immune da peccato, ma che non saranno lasciati senza aiuto nei confronti del potere del peccato. Per quanto il peccato avrà ancora potere su di essi fino alla loro morte fisica, essi sono liberi di ribellarsi contro tale potere, poiché non siete sotto la legge ma sotto la grazia, dal momento che la grazia immeritata di Dio vi ha posti in una situazione di non condanna, di assoluzione, non siete più sotto la legge condannatrice. Non siete sotto il giudizio di Dio pronunciato dalla legge, ma sotto il suo favore immeritato. Questa è la conferma della promessa che il peccato non signoreggerà più su di voi. Il credente che sa di essere libero dalla condanna di Dio, si trova nella condizione di poter utilizzare la sua libertà nel resistere alla tirannia del peccato con coraggio e risolutezza.

3. Analogia con il mercato degli schiavi (6, 15-23)

Come fanno tutti gli insegnanti, in particolare quelli orientali, Paolo cerca di illustrare il suo ragionamento con esempi e analogie prese dalla vita quotidiana. Roma sicuramente conosceva bene la situazione e il mercato degli schiavi. Lo schiavo appartiene al suo padrone ed è obbligato ad ubbidirgli. Questa appartenenza, tuttavia, cessa alla morte dello schiavo oppure quando passa di proprietà, diventando schiavo di un altro padrone.

Lo stesso accade alla persona umana che era schiava del peccato e doveva quindi ubbidirgli, ma ora ha cambiato padrone: non deve più ubbidire al peccato, ma a Dio che lo ha riscattato.

Fate conto di essere morti per il peccato, non dategli retta, non ubbiditegli più, ora avete un nuovo padrone che non vi chiede di fare le cose di cui vi vergognavate.
Inoltre, il salario del peccato è la morte, il nuovo padrone, invece, non dà un salario, ma un dono migliore: Egli ci dà in dono, gratuitamente, la vita eterna mediante la nostra unione con Cristo.

È chiaro che l’ipotesi dell’uomo completamente libero, cioè senza alcun padrone, neanche si pone. Ci sono solo due alternative: o avere il peccato come padrone, oppure avere Dio come signore. Siamo stati liberati dalla servitù del peccato per passare al servizio di Dio.

Paolo si rende conto, tuttavia, che questa analogia è comunque inadeguata per indicare il rapporto del credente con Dio, perciò dal versetto 19 si scusa per questa inadeguatezza. Malgrado tutto, però essa indica chiaramente l’appartenenza totale al nostro Signore e la responsabilità che ne deriva.

15. Che dunque? Pecchiamo, poiché non siamo sotto legge ma sotto grazia? È un po’ lo stesso ragionamento del v. 1, che deriva dall’affermazione fatta al v. 14: "possiamo peccare quanto vogliamo, tanto il peccato non ha più potere su di noi, dato che non siamo più sotto la legge. Anche qui si tratta di una falsa conclusione. Se si ama Dio non si farà ciò che piace a noi, ma ciò che piace a lui. Così non sia, non è così.

16. Non sapete che a chi offrite voi stessi (quali) schiavi per ubbidirgli, siete schiavi di colui a cui ubbidite, sia del peccato verso la morte, o dell’ubbidienza verso la giustizia. Voi siete schiavi di colui a cui ubbidite, e non ci sono che due alternative: o ubbidite al peccato, che conduce alla morte, o ubbidite a ciò o a chi vi conduce alla giustizia, ossia alla giustificazione. L’uomo non può non avere padroni, egli si offre in schiavitù o al peccato o a Dio, che lo riconosca o no.

17. Ma grazie a Dio che eravate schiavi del peccato e avete ubbidito con il cuore alla forma tu/pond’insegnamento che vi è stata trasmessa. La frase è di difficile traduzione: sia ringraziato che, sebbene foste schiavi del peccato, avete di cuore ubbidito alla forma di insegnamento alla quale siete stati affidati.

18. ed essendo stati liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia. Voi dunque, che eravate schiavi del peccato, avete accettato di ubbidire con il cuore, cioè con tutto il vostro essere, a quella "forma" d’insegnamento alla quale siete stati affidati, che vi ha liberato dalla schiavitù del peccato per rendervi schiavi della giustizia. La forma di insegnamento, cioè il "tipo" d’insegnamento è quello che Paolo altrove chiama la "tradizione" (1 Co 11, 2) parado/seij , vale a dire la dottrina cristiana didaxh\j , l’Evangelo. A questo tenore di insegnamento siete stati affidati, consegnati. Si tratta della forma passiva del verbo paradi¢dwmi , trasmettere, consegnare, e va compreso in rapporto all’immagine del passaggio dello schiavo da un padrone all’altro. Viene così sottolineata l’importanza dell’ubbidienza nella vita cristiana. Si è avuto, quindi, un trasferimento di proprietà, da "proprietà" del peccato alla "proprietà" della giustizia. In questa nuova condizione la persona è in grado di resistere alle continue pretese del peccato.

19. Io parlo umanamente a causa della debolezza della vostra carne. Paolo si scusa per queste immagini inadeguate ed esposte a fraintendimenti, ma la fragilità umana dei suoi lettori non gli consente una trattazione più approfondita, poiché essi sembrano inclini a dimenticare gli obblighi che scaturiscono dall’essere sotto la grazia. Difficilmente, anche oggi, si può trovare un’ immagine che esprime così chiaramente il concetto di appartenenza totale come quello della schiavitù.
Poiché proprio come wÀsper poneste le vostre membra quali schiavi dell’impurità a¦kaqarsi¢a e dell’impurità a¦nomi¢a nell’iniquità, così ora ponete le vostre membra quali schiavi della giustizia verso la santificazione ( a¦giasmo¢n ). Con questo termine il N.T. indica l’opera di Dio nel credente, cioè il suo rinnovamento etico (cfr v. 22; 1 Co 1, 30; 1 Te 4, 3.4.7; 2 Te 2, 13). La parola è usata da Paolo proprio per indicare un processo anziché uno stato.

20. Quando infatti eravate schiavi del peccato, eravate liberi dalla giustizia. Sembra che qui Paolo richiami le parole di Gesù in Mt 6, 24: « nessuno può servire a due padroni»: non si può allo stesso tempo servire il peccato e la giustizia.

21. Quale frutto dunque avevate allora? Di tali cose ora vi vergognate: poiché la loro fine è la morte. L’interpunzione del testo greco è da preferire. Il frutto che ottenevano dalla loro schiavitù al peccato consisteva in cose di cui ora si vergognano: si tratta evidentemente di azioni malvagie, che conducevano alla morte (cfr 1, 32).

22. ma ora, essendo stati liberati dal peccato, e fatti schiavi di Dio, avete per frutto la vostra santificazione. La schiavitù verso la giustizia, cioè l’essere al servizio di Dio, si concretizza nel fatto che il frutto, il risultato, consiste nell’aver iniziato il processo di santificazione, la separazione dal peccato. I credenti, infatti, sono "santi", "santificati" nel vero senso della parola: messi da parte per servire Dio.
E per fine la vita eterna : la fine della schiavitù di Dio sarà, appunto, la vita eterna.

23. Perché il salario del peccato è la morte, ma il dono xa/risma di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, il Signore nostro. Con queste parole Paolo chiarisce meglio quanto detto nei versetti precedenti e conclude solennemente questa sezione. Il peccato è immaginato essere un padrone, o, meglio, come un generale che paga i suoi soldati, ma il salario che questo padrone paga non è altro che la morte. Il nuovo padrone non paga un salario, Dio non ha alcun debito verso gli uomini, ciò che dà è un dono xa/risma completamente gratuito e consiste nella vita eterna.