L’EPISTOLA DI PAOLO AI ROMANI

E S E G E S I
Capitolo 7°

b. Liberazione dalla legge (7, 1-25)

1. Analogia col matrimonio (7, 1-6)

Le argomentazioni contenute nel capitolo 6 si basano sul concetto che il cristiano non è più tenuto all’osservanza della legge.
Questo concetto viene ora enunciato sia ai cristiani provenienti dal giudaismo sia a quelli provenienti dal paganesimo. Sappiamo che a questi ultimi, in alcuni ambienti, era stata chiesta, se non imposta, l’osservanza della legge mosaica.

Paolo non condivideva questa impostazione, ma, al contrario, sosteneva che il cristiano non è più soggetto alla legge, come la moglie, dopo la morte del marito, non è più soggetta alla "legge" di lui.

Richiamandosi alle comuni usanze matrimoniali di tutti i popoli, l’apostolo ribadisce, indirettamente, l’universalità della sua concezione storico-soteriologica: Tuttavia non dobbiamo dimenticare che nell’A.T. e nella letteratura giudaica veniva spesso usata la metafora del matrimonio per indicare il legame che univa Dio al suo popolo.

Nel dimostrare la necessità soteriologica dell’abrogazione della legge. Paolo compie un passo importante nella sua polemica contro il giudaismo e contro la corrente cristiano-giudaizzante che si andava diffondendo. Per spiegare bene il suo pensiero deve portare il ragionamento al livello umano, e, in particolare, a persone che conoscono la legge e sono coscienti di come essa si applica.
7 .1. Oppure ignorate, fratelli, poi a conoscitori della legge parlo, che la legge signoreggia l’uomo durante il tempo che vive? È evidente che qui Paolo si riallaccia a quanto detto in Rm 6, 14 («Non siete sotto la legge ma sotto la grazia») e dichiara di rivolgersi a persone che in qualche modo hanno conoscenza della legge, cioè sanno come le leggi funzionano; qui non si fa necessariamente riferimento alla legge giudaica, ma al principio comune a tutte le leggi: la legge ha potere sull’uomo finché vive.

2. poiché la donna maritata al marito vivente è legata per legge qualunque legge, giudaica o pagana vincola la moglie al marito finché questi vive ma se il marito muore, è sciolta dalla legge del marito. Si tratta di un principio ben conosciuto da tutti, da chiunque abbia qualche esperienza con le leggi: esse hanno valore, hanno potere, signoreggiano sull’uomo finché vive. Sui morti nessuna legge ha alcun potere. Paolo usa questo principio in relazione al matrimonio in cui la legge ha potere, lega, i due coniugi; potere che termina alla morte di uno solo dei due: il coniuge superstite non è più legato all’altro, ma è libero.

3. Ordunque, vivente il marito, sarà chiamata adultera se diventa (moglie) di un uomo diverso: ma se il marito muore, libera è dalla legge e lei non è adultera, se diventa (moglie) di un altro. Contrariamente a quanto avevano sostenuto i commentatori antichi, che interpretavano il passo allegoricamente, per cui il marito rappresentava la legge e la moglie il credente, qui Paolo intende solamente chiarire la portata del v. 1.

4. Cosicché, fratelli miei, anche voi foste messi a morte per la legge mediante il corpo di Cristo per diventare di un altro, di colui che dai morti fu risuscitato affinché portiamo frutti a Dio. Questa è la conclusione del principio enunciato al v. 1. Il cristiano, quindi, è morto per la legge perché partecipa alla morte di Cristo nel battesimo, e di conseguenza non appartiene più alla legge, il legame è stato sciolto dalla sua partecipazione alla morte di Cristo. Ma essendo Cristo risuscitato, il cristiano ora appartiene a Lui, è legato a Cristo. Questa nuova relazione non potrà essere spezzata dalla morte, perché Cristo, essendo risorto dai morti, non muore più. I credenti in Cristo, morti alla legge, sono ora legati a Colui che è stato risuscitato e devono portare frutto a Dio. Qui Paolo passa alla prima persona per la sua comprensione del suo coinvolgimento personale nell’obbligo di portare frutto a Dio. Il « frutto» è la nuova vita in Cristo, caratterizzata dal nuovo comportamento del credente.

5. Mentre, infatti, eravamo nella carne, le passioni del peccato operavano per mezzo della legge nelle nostre membra per portare frutto di morte. Mentre « eravamo nella carne » era la condizione di peccatori nella quale tutti ci trovavamo prima di aver conosciuto ed accettato di essere perdonati: è la condizione del passato. Ora i credenti non sono più « nella carne » cioè non hanno più l’orientamento fondamentale della loro vita determinato e controllato dalla loro natura decaduta. Quando eravamo ancora in quelle condizioni, dice Paolo, la legge stimolava le nostre passioni peccaminose, ci sfidava, ci provocava e le conseguenze erano le opere malvagie che inevitabilmente conducono alla condanna e, quindi, alla morte.

6. ma ora siamo stati sciolti dalla legge essendo morti a ciò che ci teneva legati proprio in virtù di questa «morte di Cristo», che è un morire al peccato, siamo stati sciolti, liberati dall’essere soggetti alla legge in modo da servire in novità di spirito e non in vecchiezza di lettera. Pur essendo consapevoli che nel credente continua ad esserci la peccaminosità, cioè la tendenza e la possibilità al peccato e quindi la necessità di essere continuamente esortato e vivere secondo la sua fede, Paolo ritiene che se un cristiano è veramente e completamente tale, egli ha lo Spirito di Cristo e quindi «camminerà secondo lo Spirito». È evidente che servire si intende servire Dio , e il carattere di questo servizio, o, meglio, di questa schiavitù, viene indicato da un doppio contrasto: in novità di Spirito e non vecchiezza di lettera. Non si tratta più di essere sottomessi ad un codice esteriore, ma si deve essere rinnovati continuamente nello Spirito, orientati verso la nuova epoca in cui si realizzerà pienamente il nuovo patto, così come aveva profetizzato Geremia (31, 33) . . . metterò la mia legge nella loro mente, e la scriverò sul loro cuore . . .

CARNE E SPIRITO

Fra le varie parole che paolo usa con abbondanza  – Legge, Peccato, Grazia, Fede, Giustizia, Carne, Spirito – due rivestono un particolare significato, carne e Spirito vengono contrapposte e si riferiscono, nel loro caratteristico uso paolino, rispettivamente al vecchio ordine annullato da Cristo e al nuovo ordine da Lui inaugurato. Carne e Spirito sono in uno stato continuo di guerra l’uno contro l’altro. Non si tratta di guerra tra la materia ed il pensiero, tra gli elementi fisici e quelli razionali insiti nell’uomo.

Paolo si muove sul terreno dell’Antico Testamento, anche se ne estende l’uso lungo linee direttive sue proprie.

a. carne

Nell’A.T. carne (ebr. basaz) è la materia di base della vita umana e animale. Gli uomini, in. quanto carne, vengono distinti da gli dei, la cui dimora non è tra i mortali (Dn 2, 11). Quando Dio decide di limitare la durata della vita umana, dice: lo Spirito mio non dimorerà per sempre nell’uomo, poiché egli . . . è carne (Ge 6, 3). Ogni carne (Ge 6, 12; Is 40, 5; Ga 2, 28) significa "tutta l’umanità". Carne può significare la natura umana nella sua debolezza e mortalità (« si ricordò che essi erano carne» Sl 78, 39); può essere usato per indicare il corpo umano (« si lavi la sua carne» Lv 14, 9) o l’uomo in sé, in senso generale, come nel Salmo 63, 1, dove l’espressione: «la mia carne ti brama » è sinonima di quella che precede « l’anima mia (ebr. nephesh) è assetata di te» (qui si tratta di modi alternativi di dire io ).

Dobbiamo, pertanto, intendere l’uso paolino del termine sa/rc, sarko/j , specialmente nell’epistola ai Romani:

1. Carne è usato nel senso comune di carne del corpo (Rm 2, 28) in cui la circoncisione della carne è mezza in contrasto con la circoncisione spirituale del cuore.

2. Carne è usato per indicare la discendenza e parentela umana naturale. In Rm 1, 4 si dice che Gesù discende da Davide secondo la carne e che appartiene alla nazione di Israele secondo la carne (9, 5). In 4, 1 Abrahamo viene detto nostro antenato secondo la carne; i suoi discendenti per via di riproduzione fisica sono figliuoli della carne in contrapposizione ai figliuoli della promessa (9, 8). I Giudei per nascita sono "parenti" di Paolo secondo la carne (9, 3) o semplicemente mia carne (11, 14).

3. Carne usato nel senso di umanità, genere umano in Rm, 3, 20: nessuna carne sarà giustificata per le opere della legge . È un comune uso ebraico della parola (Sl 65, 2; Gr 12, 12) – possiamo fare un confronto con Mc 13, 20 –. Questa frase la troviamo anche in Ga 2, 16; è chiaro che questo uso del vocabolo piace a Paolo, come anche in 1 Co 1, 29: affinché nessuna carne si glori alla sua presenza . Questo concetto è anche espresso con carne e sangue (Ga 1, 16: « io non mi consigliai con carne e sangue»).

4. Carne è anche usato nel senso di natura umana:

a) Natura umana debole. In Rm 6, 19 Paolo spiega la sua argomentazione con l’aiuto di un’analogia tratta dalla vita quotidiana a causa della debolezza della vostra carne , riferendosi particolarmente all’intelligenza dei suoi lettori. Anche in 8, 3 si parla della legge che non può produrre giustizia perché era debole a motivo della carne. Lo stesso uso che si trova nelle parole di Gesù in Mt 26, 41: ben è lo spirito pronto, ma la carne è debole .

b) La natura umana di Cristo. L’umanità di Gesù è una cosa che condivide con tutta l’umanità. Ma la nostra carne è carne di peccato a causa delle nostre trasgressioni. La carne di Gesù, dato che non commise peccato, è detta carne «simile» (o¥moiw/mati ) a carne di peccato (8, 3). In questo modo, nella sua umanità può avere a che fare con il peccato in modo efficace e resistere ai suoi attacchi, e non avendo peccato ha potuto presentare la sua vita come offerta per il peccato, perciò Dio ha condannato il peccato nella carne , ha ratificato la condanna a morte emessa contro il peccato per mezzo dell’ incarnazione, del sacrificio e della vittoria dell’uomo Gesù Cristo.

c) Carne come vecchia natura del credente. Paolo parla della «mia carne» intendendo la sua inclinazione peccatrice, ereditata da Adamo. Essa è negativa, in quanto con la carne servo la legge del peccato (Rm 7, 25). Questa natura è ancora presente anche se resa progressivamente meno potente. Per Paolo, dunque, esiste questo paradosso: i credenti hanno svestito l’uomo vecchio e rivestito il nuovo (Cl 3, 9s) e tuttavia la carne, cioè la vecchia natura peccatrice continua, sia pur con minore forza, ad esercitare una certa influenza, una certa pressione. Perciò Paolo insiste affinché i credenti in Cristo continuino ad essere rivestiti di Cristo (Ga 3, 27) rivestitevi del Signore Gesù Cristo (Rm 13, 19).

d) Carne quale natura umana non rigenerata. Per quanto la «mia carne» sia ancora presente in me, dice Paolo, io non sono più «nella carne». In questo senso essere «nella carne» vuol dire non essere rigenerati, essere ancora «in Adamo». I cristiani nel passato erano nella carne (7, 5), ma ora non sono nella carne, ma nello Spirito (8, 9) se davvero lo Spirito dimora in loro.

5. Poiché i credenti non sono più nella carne , ma sono nello Spirito , non dovrebbero più vivere secondo la carne, secondo gli schemi della loro vecchia vita non rigenerata. Dovrebbero aver cambiato il modo di vedere (la mente della carne) con una mentalità nuova, quella dei figli di Dio (la mente dello Spirito) e quindi è loro dovere non avere cura della carne per soddisfarne i desideri (Rm 8. 5-7; 13, 14) (cf Ga 5, 16 camminate per lo Spirito e non adempirete i desideri della carne ).

6. La carne è soggetta al principio del «peccato e morte» (7, 23; 8, 2) ed è condannata a morte: tutti muoiono in Adamo (1 Co 15, 22) la mente della carne è morte, e, se vivete secondo la carne dovete morire (Rm 8, 6.13). La carne, nostra natura umana «in Adamo» è corrotta dal peccato e le «opere della carne» perciò comprendono non solo la fornicazione, le ubriachezze e le gozzoviglie, ma anche la stregoneria, la gelosia, le contese, le ambizioni egoistiche e l’idolatria. In ogni sua forma il peccato è un’opera della carne . Talvolta invece di carne viene usato il termine corpo con lo stesso senso: gli atti del corpo (sw/ma ) (Rm 8, 13); il corpo del peccato (6, 6) è sinonimo di carne di peccato (8, 3); è quel corpo di morte (7, 24) dal quale si cerca di essere liberati.

b. Spirito

Nell’ A.T. carne è in contrasto con Spirito (ebr ruach = vento, energia vitale). Gli Egiziani sono uomini e non Dio; i loro cavalli sono carne e non Spirito (Is 31, 3). Per implicazione Dio è Spirito (Gv 4, 24) ed è Lui ad infondere energia agli uomini: forza fisica acume mentale, intuito spirituale. Lo spirito dell’uomo è il suo respiro, la sua indole, la sua vitalità.

Anche nelle lettere di Paolo carne e spirito sono termini contrapposti. I credenti in Cristo non sono più nella carne ma nello Spirito (Rm 8, 4) e non producono più le opere della carne ma i frutti dello Spirito (Ga 5, 19.22).

Possiamo distinguere in Paolo i seguenti usi principali del vocabolo Spirito:

1. La parte spirituale della costituzione dell’uomo . Io servo (Dio) nello spirito mio (Rm 1, 9) e i cristiani, non più sotto la legge ma sotto la grazia servono in novità di Spirito (Rm 7, 6). La circoncisione nello Spirito (cioè la circoncisione interiore o purificazione del cuore) è messa in contrasto con la circoncisione letterale, nella carne (Rm 2, 29). I credenti sono esortati ad essere ferventi nello Spirito (Rm 12, 11).
Gli altri scrittori del N.T. usano talvolta spirito quale sinonimo di anima : L’anima mia magnifica il Signore, e lo spirito mio esulta in Dio, mio salvatore (Lc 1, 46). Si confrontino le parole di Gesù in Gv 12, 27 . . . ora è turbata l’anima mia . . . nello spirito . . . Anche Paolo usa spirito in questo senso generico quando chiede: chi, fra gli uomini, conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? (1 Co 2, 11). Tuttavia nella maggior parte dei casi, Paolo fa distinzione fra spirito e anima e li pone anche in contrasto l’uno con l’altro; l’uomo naturale è l’uomo psichico ( yuxiko/j da yuxh/ , anima) in contrapposizione con l’uomo spirituale ( pneumatikw=j , da pne/uma , spirito).

2. Lo Spirito di Dio, o lo Spirito Santo, chiamato anche lo Spirito di santità (Rm 1, 4 in rapporto alla resurrezione di Cristo – lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti (8, 11). Per mezzo della sua illuminazione la coscienza dà una testimonianza verace (9, 1), fornisce la potenza affinché il messaggio del Vangelo sia efficace per chi lo ascolta (15, 19), santifica coloro che sono condotti alla fede da quel messaggio (15, 16), sparge l’amore di Dio in chi ha creduto all’evangelo (5, 5) e la sua potenza li riempie di pace, allegrezza e spe-ranza (14, 17; 15, 15).

Poiché Dio si è rivelato in Cristo, lo Spirito di Dio è lo Spirito di Cristo (8, 9).

a) Lo Spirito impartisce la vita. La sua legge è la legge della vita, camminare secondo lo Spirito e quindi avere la mente dello Spirito è vivere (8, 4.5.6.10) perché lo Spirito rende possibile al credente di trattare gli atti del corpo (della vecchia esistenza non rigenerata) come cose morte, che non hanno più alcun potere sulla sua vita. Non ci può essere vera vita senza lo Spirito se uno non ha lo Spirito di Cristo, egli non è di Lui (8, 9). Essere nello Spirito è l’opposto di essere nella carne , e i credenti sono nello Spirito (8, 9). Essere nello Spirito, quindi, è essere in Cristo, ma non è qualcosa di individualistico perché essere in Cristo significa essere incorporati in Lui, essere suoi membri e quindi associati agli altri membri (12, 15); questa nuova solidarietà in Cristo Gesù (8, 1) è la stessa cosa che Paolo altrove chiama comunione dello Spirito (2 Co 13, 13; Fl 2, 1) e l’unità dello Spirito (Ef 4, 3).

b) Lo Spirito rende liberi. È lui che comunica ai credenti la potenza del Cristo risorto che ci ha affrancati dal peccato (6, 18.22), li scioglie dai legami della legge cosicché ora possono servire in novità di spirito e non in vecchiezza di lettera (7, 6); è lui che impartisce il nuovo principio di vita in Cristo che libera dalla legge del peccato e della morte (8, 2). Si tratta dello stesso principio affermato in 2 Co 3, 17b dov’è lo Spirito del Signore, quivi è libertà .

c) Lo Spirito fornisce la forza di seguire le direttive di Dio (8, 14). È lo Spirito di adozione che ci fa diventare figli di Dio (8, 15), perciò possiamo chiama-re Dio come lo chiamava Gesù: "papà": Abbà, Padre.

d) Lo Spirito intercede per il popolo di Dio (8, 26s). È ciò che fa Cristo (8, 34) dal suo posto alla destra di Dio, mentre lo Spirito intercede dall’intimo della vita dei credenti nei quali dimora.

e) Lo Spirito opera la santificazione nella vita dei credenti . Pur essendo spirito e carne in guerra continua fra loro, lo Spirito è divinamente potente e può mettere progressivamente fuori combattimento la carne nella vita di chi si sottomette al Suo controllo.

f) Lo Spirito è garanzia del futuro. Secondo la profezia di Gioele 2, 28-32, citata da Pietro nel giorno della Pentecoste, quando lo Spirito scese sui discepoli (At 2, 16), l’effusione dello Spirito di Dio sarebbe stato un segno dell’approssimarsi del " giorno del Signore". Questo intervallo attuale "tra le età" è, in un senso particolare, l’età dello Spirito; in questa era lo Spirito, non solo rende efficiente e reale ciò che Cristo ha compiuto per i credenti, non solo comunica loro la potenza del Signore risorto ed esaltato, ma dà loro la possibilità e la capacità di vivere nel godimento, qui ed ora, della gloria che deve ancora essere rivelata.
Non solo lo Spirito dà la vita, ma la Sua presenza è garanzia della vita di resurezione. La vita dell’età a venire, la "vita eterna" è trasmessa ai credenti come il dono di Dio in Cristo, nostro Signore (6, 23). Già come anticipazione della vita di resurrezione che seguirà alla redenzione del corpo (8, 23).

2. Il sorgere della coscienza (7, 7-13)

Come mai, dunque, la legge, data per essere guida e sostegno, in realtà è divenuta uno stimolo a peccare? La legge è dunque peccato? Per chiarire questo malinteso Paolo ricorre alla sua esperienza personale, che è poi quella di ognuno di noi, in particolare è l’esperienza di ogni giovane Giudeo che, arrivato all’età di 12-13 anni, con una particolare cerimonia diventa bar mitzvah (figlio del comandamento) e si assume la responsabilità personale di osservare la legge. Dal quel momento, e forse anche prima, venendo a conoscenza dei divieti, il ragazzo comincia ad essere tentato a violarli. La tentazione stimola e risveglia il desiderio della cosa proibita.

Nasce così la coscienza del peccato. La legge, data da Dio, di per sé buona, non è peccato, ma il peccato se ne è servito sfruttandola per i propri fini con esito nefa-sto. Venendo a conoscenza della legge il peccato ha preso vita, si è risvegliato nell’adolescente e lo ha abbattuto. Malgrado ciò la legge continua ad essere santa e buona.

7. Che diremo allora? Si introduce così la possibilità di una falsa conseguenza la legge è peccato? Quanto detto da Paolo, infatti, potrebbe indurre alla errata conclusione che la legge, di per sé, è un male. Non sia mai , Paolo rifiuta cate-goricamente questa ipotesi. Anzi il peccato non conobbi se non per mezzo della legge (cf 3, 20). Se non fosse stato per la legge non avrei conosciuto il peccato, non riconoscerei la concupiscenza se la legge non dicesse: non concupire. Il significato potrebbe essere: mentre le persone commettono il peccato anche in assenza della legge (5, 13), non possono tuttavia riconoscerlo pienamente per quello che è senza legge (5, 20). La concupiscenza (cioè il desiderio di ciò che è illecito) esiste ed è attuata anche se non si conosce il 10° comandamento, ma è solo alla luce del comandamento che la concupiscenza viene riconosciuta per quello che è.

8. ma prendendo l’occasione, il peccato, attraverso il comandamento, produsse in me ogni concupiscenza . Il peccato, qui personificato come un nemico inva-sore che cerca di conquistare terreno, colta l’occasione del comandamento – si noti che la parola "occasione" a)formh/ significa anche pretesto, punto di partenza, ed era usato anche in campo militare per indicare una base di attacco, una "testa di ponte" – ha prodotto nell’uomo ogni genere di desideri disordinati poiché senza la legge il peccato è morto . Il peccato, anche senza legge, è pur presente, ma è relativamente inattivo. Diventa attivo in presenza del divieto.

9. Io vivevo una volta senza legge, ma venne il comandamento e il peccato tornò vivo. Paolo si riferisce alla situazione dell’uomo prima di ricevere la legge, intendendo per "legge" qualsiasi comandamento proveniente da Dio. Adamo, infatti, "viveva" in comunione con Dio fin quando, conosciuto il divieto, non commise la violazione di quella che era la "legge" per lui. Da quel momento, pur continuando a vivere fisicamente, era "morto" per quanto concerneva il suo rapporto col Creatore.

10. ed io morii, e trovai che il comandamento che era per la vita mi condusse a morte. Lo scopo del comandamento era di consentire la vita e la comunione con Dio (Gr 2, 16-17), ma l’effetto reale, per via dello sfruttamento da parte del peccato, è stata la morte, cioè la fine di quella situazione di comunione. Per quanto continui ad essere in vita, l’essere umano è morto, perché si trova sotto la condanna a morte pronunciata da Dio.

11. Poiché il peccato, colta l’occasione per mezzo del comandamento, mi ingannò e mediante quello mi uccise. Chiaro riferimento della seduzione di Eva da parte del serpente (Ge 3 cf 2 Co 11, 3), si tratta dello stesso verbo e¦capata/w (sedurre, ingannare).

12. Così la legge (è) certamente santa, e il comandamento santo, giusto e buono.

13. Il buono dunque per me divenne morte? Abbiamo qui una domanda parallela a quella del v. 7: se dunque la legge è buona, ma dalla sua presenza ne è derivata la morte, dobbiamo concludere che debba essere biasimata? Anche a questa domanda Paolo risponde: non sia mai, anzi, il peccato, per apparire peccato, attraverso ciò che è buono mi produsse la morte per diventare estremamente peccante (peccaminoso) per mezzo del comandamento. Non è stata, quindi, la legge, che è buona, a produrre la morte, ma è il peccato che ha prodotto in me la morte proprio per rivelarsi quale è, in modo da diventare, proprio per mezzo del comandamento, estremamente peccante. In altre parole, il peccato ha utilizzato ciò che è buono per produrre in me la morte.

3. Il conflitto interiore (7, 14-25)

Prima della conversione Paolo apparteneva alla setta farisaica, della quale, fino ad un certo punto, può vantarsi. Ma proprio per questo dovrà ammettere che il suo zelo di allora era senza conoscenza, poiché, come facevano i farisei – ma anche gli altri giudei non osservanti – ignorando la giustizia di Dio cercano di stabilire la propria giustizia (Rm 10, 3). Anche Paolo dunque aveva fatto l’amara esperienza della propria debolezza quando, da fariseo, aveva creduto di potersi dare una disciplina morale con le sue sole forze, prescindendo dall’aiuto divino. Per questo l’apostolo può descrivere in prima persona la tragica impotenza morale dell’uomo non ancora fortificato dalla Grazia e dallo Spirito di Dio.

Continuando, dunque, ad esprimersi in prima persona, ma usando il tempo presente, egli descrive ora la tensione interiore in cui viene a trovarsi il credente. È una persona che vive simultaneamente su due piani, e desidera ardentemente vivere in armonia col piano più elevato, ma è conscio della forza del peccato che continua a spingerlo verso il piano più basso.

Il cristiano, infatti, vive simultaneamente in due mondi in tensione fra loro. Egli vive temporaneamente in questo mondo e come essere di carne e sangue è soggetto alle condizioni della vita mortale, è un figlio di Adamo e, come tale, è soggetto alla legge secondo cui tutti muoiono in Adamo. Tuttavia, essendo stato partecipe della morte di Cristo, del Suo seppellimento e della Sua resurrezione, è passato dalla morte alla vita, dal regno delle tenebre al regno della luce, è membro della nuova creazione, non è più in Adamo ma in Cristo. Ma finché il presente ordinamento non passerà e non sia stabilita una nuova epoca, il cristiano e la cristiana vivono fra due "epoche" e devono, tutti i giorni, sperimentare che, la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne, sono cose opposte fra loro, in modo che non potete fare quello che vorreste (Ga 5, 17). Il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio (7, 19).

Questa lotta impari è l’esperienza quotidiana di tanti credenti, ed è l’esperienza di Paolo.

Ma questa situazione non è disperata, non è senza soluzione: essa dura finché la battaglia viene combattuta con le proprie forze. La liberazione da questa situazione viene, infatti, per mezzo di Cristo.

14. Sappiamo infatti che la legge è spirituale, perché è di origine divina, ma io sono carnale sarkono/j venduto al peccato, la mia natura non è spirituale, anzi è schiava di una forza che la mia volontà ripudia. «Paolo ora presenta nella sua persona la natura e l’estensione della debolezza dei credenti» (G. Calvino).

15. poiché non (so, riconosco) quello che faccio perché non pratico ciò che voglio ma faccio ciò che odio, la coscienza infatti disapprova ciò che faccio che non è ciò che voglio, ma ciò che odio.

16. ma se faccio ciò che non voglio ammetto che la legge è buona e quindi la debolezza è mia, la colpa è in me, non nella legge.

17. Quindi non opero più io ma il peccato che abita in me. Questa è la condizione della persona dominata dal peccato.

18. So infatti che il bene non abita in me, nella mia carne, poiché desidero fare il bene, ma non lo faccio, ciò che faccio è contrario alla mia volontà.

19. poiché non ciò che voglio, il bene, faccio, ma ciò che non voglio, il male, quello faccio,

20. ma se faccio ciò che non voglio, non sono più io a farlo, ma è il peccato che abita in me. Questi due versetti sono una ripetizione dei due precedenti.

21. Io scopro (eu¦ri¢skw ) allora una legge che mi fa desiderare di fare il bene

22. ma il peccato è presente in me; di quale legge si tratta? Sembra che si tratti di una legge interiore che pur desiderando il bene mi fa operare il male a causa del peccato che mi domina, poiché sono d’accordo con la legge di Dio secondo l’uomo interiore , cioè io approvo la legge di Dio nel mio intimo.

23. ma vedo una legge diversa nelle mie membra che combatte contro la legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. È chiaro il conflitto che Paolo cerca di illustrare, quella lotta interiore fra la volontà, che discerne il bene, che approva la legge di Dio, la riconosce giusta e buona, e la propria natura tendente al male, perché schiava del peccato.

24. Misero me, uomo; chi mi libererà da questo corpo di morte? Si tratta di una situazione senza via d’uscita, l’uomo e la donna si rendono conto di non avere la forza sufficiente per uscire da questa situazione ed hanno bisogno di un intervento dall’esterno.

25. Grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo, il Signore nostro! Questa esclamazione è una risposta indiretta alla domanda del versetto precedente. Dio, per mezzo di Cristo, il nostro vero Signore, ha compiuto questa liberazione. Dio è l’unico che può liberare, e lo fa per mezzo di Cristo. Dunque io stesso con la mia mente servo la legge di Dio, ma con la carne (servo) la legge del peccato. Questa frase, collocata dopo il ringraziamento, sembra indicare che la situazione dell’interlocutore sia quella di prima. Alcuni critici testuali ritengono che le due frasi di questo versetto siano state invertite. La conclusione di Paolo, comunque, è che l’essere umano si troverebbe senza via d’uscita, se Dio non avesse provveduto alla liberazione dei peccati per mezzo di Cristo. Questo tema sarà sviluppato nel capitolo ottavo.