L’EPISTOLA DI PAOLO AI ROMANI

E S E G E S I
Capitolo 9°

V. INCREDULITÀ UMANA E GRAZIA DIVINA (9, 1 - 11, 36)

a. Il problema dell'incredulità d'Israele (9, 1-5)

Si apre ora una parentesi, che dura ben tre capitoli prima che venga ripreso il discorso, in cui Paolo affronta il problema dell'incredulità di Israele, problema che lo interessa e lo coinvolge personalmente.

Egli si gloriava del suo ministero fra i Gentili e si rallegrava della loro conversione. Tuttavia era preoccupato per i suoi amici e parenti, per la sua gente, che non aveva ascoltato il messaggio evangelico. Che ne sarebbe stato del popolo d'Israele? Sarebbe stato eliminato come indegno della vita eterna? Piuttosto avrebbe rinunciato alla propria salvezza personale se ciò avesse potuto salvare il suo popolo.

L'argomento viene trattato anche perché la situazione della comunità romana lo richiedeva: probabilmente i primi credenti di Roma furono Giudei, a cui si unirono poi dei Gentili, che divennero presto la maggioranza. Può darsi che alcuni di questi ultimi avessero la tendenza a considerare i fratelli giudei come dei «parenti poveri» e forse qualcuno poteva avere la tendenza ad offendersi. Ma la questione principale risiede nel fatto che l'annuncio della salvezza era contenuto nelle promesse di Dio fatte al popolo d'Israele, da Abrahamo in poi, ai padri, a Mosè, a Davide, Salomone e così via fino agli ultimi profeti. Come mai ora Israele rifiutava di credere a questo annuncio? Se le affermazioni di Paolo erano vere, se veramente Gesù era il Messia promesso, come mai Israele non lo aveva riconosciuto? Sicuramente questo problema è stato oggetto di molta riflessione da parte di Paolo per molti anni.

Partendo dal problema particolare della resistenza giudaica al Vangelo, rivela il piano di Dio nella storia umana, dando due prime risposte:

1) Ciò è avvenuto in base al progetto divino di elezione.
2) Resistendo al Vangelo Israele continua a comportarsi in modo analogo al comportamento di questo popolo nel corso della storia: un popolo «disubbidiente e contraddicente».

A queste due risposte ne seguono altre due, più cariche di promesse:

3) Il fatto che un « residuo» di Israele abbia già creduto al Vangelo è il pegno che Israele come un tutto unico farà altrettanto.
4) Il rifiuto presente d'Israele è stato occasione di benedizione e salvezza per i Gentili, ma l'accettazione futura del Vangelo da parte di Israele inaugurerà il giorno della rigenerazione mondiale.

9. 1. Dico la verità in Cristo, non mento, testimonia con me la mia coscienza nello Spirito Santo.
Paolo afferma con forza di dire la verità «in Cristo» e chiama a testimoniare la coscienza sunei¢dhsij, termine probabilmente introdotto da Paolo nella letteratura cristiana, non ha rispondenza nell'AT, e sembra di origine popolare ellenistica. Paolo lo usa in 1 Co 8, quando risponde al quesito posto dai Corinzi riguardo le carni sacrificate agli idoli. In tale circostanza la parola vuole indicare la sensibilità, la convinzione del credente che mangia o rifiuta le carni immolate agli idoli in base alla raggiunta convinzione o meno che gli idoli «non esistono». In questa lettera, tuttavia, il termine (vedi anche 2, 15), pur mantenendo la funzione giudicante (in senso morale), viene usata quale testimone « insieme a me» della verità che sta per affermare, coscienza rafforzata dallo Spirito Santo e, quindi, anche suffragata dalle rivelazioni avute dall'apostolo.

2 . che tristezza grande è in me e una sofferenza incessante nel mio cuore
3 . infatti desidererei essere anatema io stesso da Cristo per i miei fratelli miei parenti secondo la carne.
Il fatto che Israele non abbia ancora creduto in Cristo è causa di tristezza e dolore per Paolo che sarebbe disposto, se potesse, a rinunciare alla propria salvezza personale pur di salvare il suo popolo, ad essere «anatema». Questo termine a¦na¢qema ha due significati: 1) ciò che viene esposto, cioè offerta votiva (esposte nel tempio), 2) ciò che viene abbandonato all'ira di Dio, ossia lasciato alla distruzione, oppure soggiace alla maledizione (J. Behen in Grande Lessico dei NT, Paideia). Paolo usa il termine in questo secondo significato per indicare la perdita della comunione con Cristo, la separazione da Lui.

4 . i quali sono Israeliti, di cui (sono) l'adozione e la gloria e i patti e la legislazione e il culto e le promesse. Paolo comunica un elenco di prerogative che appartengono al polo d'Israele:
L'adozione, cioè la condizione di figlio di Dio (Ez 4, 22; Os 11, 1).
La gloria, la shekinah di Dio, il segno della Sua presenza tra loro (Es 40, 34 nel tabernacolo mosaico, 1 Re 8, 20s nel tempio di Salomone).
I patti,  alcuni autorevoli manoscritti: P46, B (Vaticano), D (Cantabrigense) e altri, hanno la parola al singolare, ma la critica testuale ha preferito il plurale in quanto i copisti possono aver scelto il singolare per eliminare eventuali problemi teologici o semplicemente per uniformare la frase. Certamente non ci sarebbe alcun motivo se l'originale fosse stato al singolare, di modificarlo al plurale.
I patti, quindi, sono diversi, nel corso della storia d'Israele: con Abrahamo (Ge 15, 18; 17, 4ss), Con Mosè (Es 24, 8; 34, 10; Dt 29, 1ss); Giosuè (Dt 27, 2ss; Gs 8, 30ss; 24, 25) e con Davide (2 Sm 23, 5; Sl 89, 28); inoltre era stato promesso un nuovo patto, scritto nei cuori (Gr 31, 31).
La legislazione , cioè la complessa legge mosaica (Es 20, 1ss).
Il culto,  comprendente tutti i rituali, contenuti nel levitico, ancora in uso al tempo di Paolo, sui quali era basato il cerimoniale del tempio di Gerusalemme.
Le promesse, comprese le promesse messianiche, presenti in tutte le promesse divine da Abrahamo a Davide, specialmente, nel contesto paolino, quelle fatte ad Abrahamo, essenziali per ricevere la giustizia di Dio per mezzo della fede (4, 13-21).

5 . dei quali (sono) i padri e dai quali (proviene) il Cristo secondo la carne il che è sopra tutti Dio benedetto in eterno, amen.
Anche o «padri», i grandi patriarchi (Abrahamo, Isacco, Giacobbe . . .) sono di Israele, e attraverso loro le promesse di Dio furono trasmesse; e da Israele proviene anche il « Cristo, secondo la carne». Questa precisazione indica che vi è qualcosa nel Cristo che non è carnale, che non è terrena. Le parole che seguono sono state, e continuano ad essere, oggetto di discussione esegetica. Poiché i più antichi manoscritti del NT sono privi di segni di interpunzione, sono i traduttori ad averli inseriti e, a seconda della punteggiatura assegnata, il significato può essere diverso. La discussione in questo caso verte sull'interpretazione: Paolo intendeva riferirsi a Dio o a Cristo? Le possibili interpretazioni sono:

1) mettere una virgola dopo sa¢rka, come: dai quali proviene il Cristo secondo la carne, che è sopra tutti Iddio benedetto in eterno;
2) mettere un punto dopo « carne»: dai quali proviene il Cristo secondo la carne. Colui che è Dio sopra tutti, sia benedetto in terno ;
3) mettere una virgola dopo « carne» e un punto dopo «tutti » pa¢ntwn : dai quali proviene il Cristo secondo la carne, colui che è sopra tutti. Dio sia benedetto in eterno.

È evidente, a questo punto, che la decisione per una soluzione o l'altra dipende non solo dal contesto e dalla presunzione di conoscenza del pensiero di Paolo, ma anche dalle convinzioni teologiche del traduttore-esegeta.

La prima soluzione è quella generalmente usata dalla maggioranza degli studiosi e critici testuali perché sembra essere in linea, più che le altre proposte, con la struttura generale del periodo. Essa, inoltre, appare necessaria per bilanciare l'espressione «secondo la carne». Il Messia, secondo la carne, viene da una lunga linea di antenati Israeliti, per quanto riguarda la sua discendenza umana, ma, per quanto concerne la sua essenza divina, egli è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Troviamo in 1, 35 un parallelo a questa antitesi, dove si dice che Cristo: nato dal seme di Davide secondo la carne, . . . dichiarato figlio di Dio . . . secondo lo Spirito di santità.

È vero che Paolo non ha l'abitudine di chiamare Cristo «Dio», per lo meno in modo così diretto: di solito usa il titolo di « Signore»: . . . c'è un Dio solo, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose, e mediante il quale siamo noi (1 Co 8, 6). Tuttavia egli non esita a dichiarare che Cristo è colui in cui, mediante il quale, e per il quale sono state create tutte le cose (Cl 1, 16) e nel quale abita corporalmente tutta la pienezza delle deità (Cl 2, ). Egli usa indifferentemente il termine tribunale di Dio (Rm 14, 11) e tribunale di Cristo (2 Co 5, 10) e, quando usa il titolo «Signore», lo fa perché Dio stesso gli ha dato questo titolo, . . . il nome che è al di sopra di ogni nome (Fl 2, 10).

Possiamo, tuttavia, ammettere la legittimità di una punteggiatura alternativa, poiché la fede in Cristo, Figlio di Dio, e nella Sua divinità, non proviene solo da questo passo.

b. La scelta sovrana di Dio (9, 6-29)

Ma se Israele è il beneficiario di tutte queste promesse ed ha così validi motivi per considerarsi depositario delle benedizioni celesti, perché ora si trova su una posizione ostile e di rifiuto dell'inviato di Dio? Il piano di Dio si è dimostrato errato?
No, dice Paolo, la parola di Dio non è caduta nel vuoto. Come nel passato non tutti gli Israeliti hanno rifiutato il Messia, alcuni hanno aperto il loro cuore alla rivelazione di Dio, mentre altri lo hanno indurito: queste diversità di risposta ha determinato la linea di separazione fra quelli che sono i veri Giudei (vedi 3, 28s), quelli che, indipendentemente dalla discendenza naturale e dalla circoncisione, hanno conservato la fede nelle promesse. Quindi non tutti i discendenti di Israele sono veri Israeliti, veri figli di Abrahamo, ma solo quelli che lo sono in senso spirituale.

Nel corso della storia del popolo di Dio, le promesse ed il progetto divino sono stati trasmessi tramite un gruppo ristretto, una minoranza eletta, un residuo, che ha portato avanti la testimonianza e la salvezza. Abrahamo ebbe diversi figli, ma la linea della promessa passa attraverso uno solo di essi, Isacco che viene chiamato « figlio della promessa». A sua volta Isacco ebbe due figli, ma solo tramite uno solo, Giacobbe, fu trasmesso il seme santo, cioè scelto da Dio e la scelta non fu determinata dal comportamento dei due gemelli o dal loro carattere.

Così anche oggi, dice Paolo, quando qualcuno riceve la luce si può discernere l'elezione divina che opera sulla volontà o sull'attività di chi ne è oggetto. Il fatto che Dio non rivela i principi in base ai quali fa la Sua scelta, non significa che non sia giusto. Egli è libero e sovrano nelle Sue scelte e nei Suoi piani, Inoltre, prosegue Paolo, le scelte di Dio non cadono solo sui figli d'Israele. Per esempio nell'Esodo, si può vedere, nei suoi rapporti col Faraone, che testardamente si oppone alla sua volontà. Poiché Dio, in quella circostanza sopportò così a lungo l'ostinazione del Faraone? Io ti ho lasciato sussistere per mostrarti la mia potenza, e perché il mio nome sia divulgato per tutta la terra (Es 9, 16).

Allora si può obiettare: ma se è Dio che sceglie e consente la ribellione dell'uomo, perché poi lo biasima per quello che fa? Anche opponendosi alla Sua volontà non stanno agendo proprio in conformità ad essa? A questa obiezione Paolo risponde che non tocca alla creatura criticare il Creatore, come il vaso non può rimproverare al vasaio la forma che gli ha dato e l'uso al quale lo ha destinato: chi sei tu, o uomo, che disputi con Dio? (v. 20).

Se da una parte Paolo non ammette che si possa contestare il diritto di Dio di fare ciò che vuole, dall'altra mette in risalto il fatto che Egli ha rinviato la Sua ira contro gli uomini che da lungo tempo sono maturi per la distruzione. Infatti la misericordia e la pazienza di Dio ha lo scopo di concedere tempo agli esseri umani perché si pentano, se invece, come Faraone, induriscono ancora di più i loro cuori, non fanno altro che accumulare una quantità sempre maggiore di castigo.

Ciò su cui Paolo insiste è che tutta l'umanità è colpevole agli occhi di Dio e nessuno ha diritto alla Sua grazia ed Egli può concederla a chi vuole. Perciò Dio elargisce questa Sua grazia generosamente a uomini e donne, sia Gentili che Giudei.

Per secoli i Gentili sono stati considerati dal popolo eletto come vasi d'ira preparati per la perdizione , e certo Dio li ha sopportati con pazienza, ma ora finalmente lo scopo di questa pazienza viene chiarito: non la loro distruzione, ma la loro salvezza.

E anche se Israele si è allontanato da Dio, anche in questo popolo si realizzerà lo stesso piano di Dio, come accadde al piccolo residuo ai tempi di Isaia, in cui il profeta vide incorporata la speranza del futuro e le promesse di Dio fatte, tramite Israele, a tutte le nazioni. Questo residuo che viene salvato diventa così apportatore di salvezza per tutti.

In questo rimanente Paolo vede anche questa minoranza di Giudei, come lui, che hanno riconosciuto il Cristo: essi sono una garanzia, come una primizia, del cambiamento di rotta da parte d'Israele che nel futuro tornerà al Signore. Tema questo che verrà poi sviluppato nel capitolo 11.

6 . Non che sia decaduta (fallita) la parola di Dio, poiché non tutti quelli d'Israele sono d'Israele
Le promesse non sono state annullate a causa del rifiuto di Israele, anzi sono confermate, ma si tratta ora di vedere chi sono coloro che formano il vero popolo di Dio a cui sono state fatte le promesse, chi è il vero Israele: non tutti i discendenti per via naturale appartengono al vero Israele.

7 . nemmeno perché sono seme di Abrahamo (sono) tutti figli ma: in Isacco ti sarà chiamato (un) seme.
Non sono i discendenti carnali i veri figli di Abrahamo, ma i discendenti di Isacco. Abrahamo ebbe diversi figli, fra cui Ismaele dalla schiava Agar, ma a nessuno di essi furono date le promesse. Qui Paolo cita Ge 21, 12 in cui Dio diceva ad Abrahamo di non opporsi alla richiesta di Sara di mandare via Agar e Ismaele, perché i suoi discendenti sarebbero passati per Isacco; anche se Isacco era nato prima, non sarebbe stato lui il portatore delle promesse.

8 . Questi non i figli della carne sono i figli di Dio, ma i figli della promessa sono considerati quale seme
Per Paolo i figli della promessa non sono i discendenti carnali di Abrahamo, ma piuttosto coloro che, come Abrahamo, credono nella promessa di Dio: figli spirituali, dunque (vedasi 4, 11 . . . padre di quelli che credono . . . ed anche l'allegoria in Gl 4, 22-31).

9 . Poiché questa è la parola della promessa; in questo tempo verrò e Sara avrà un figlio (Ge 18, 10). Questa fu la promessa che fece ridere Sara, sterile e ormai vecchi. La citazione omette le parole «l'anno prossimo », in «questo tempo», cioè in primavera. Isacco, quindi, non è figlio della carne, ormai non più in grado di procreare, ma della promessa di Dio a cui tutto è possibile.

10 . e non solo, ma anche Rebecca da uno solo concepì Isacco, il padre nostro.
11 . Non ancora nati, né praticanti bene o male, affinché la scelta secondo il proponimento di Dio fosse ferma,
12 . non dalle opere ma da colui che chiama, fu detto a lei: il maggiore servirà il minore
Oltre che alla nascita miracolosa di Isacco, Paolo presenta anche il caso di Esaù e Giacobbe: anche a Rebecca, la moglie di Isacco, che aveva concepito due gemelli, fu predetto, prima della nascita, quindi senza avere alcun merito o demerito, che il minore, cioè colui che nascerà per secondo, sarà il primogenito, e non il primo, sarà lui il portatore delle promesse.

13 . Come è stato scritto: ho amato Giacobbe ma ho odiato Esaù.
La citazione è da Malachia 1, 2 e serve allo scopo di Paolo per mettere in evidenza che, malgrado la comune origine, i due popoli (Israele e Edom) hanno avuto destini diversi, specialmente dopo la cattività babilonese: mentre i monti di Edom restavano quasi deserti, i colli d'Israele si andavano ripopolando per la misericordia usata al residuo fedele del popolo.

14 . Che diremo dunque? Non è ingiustizia presso Dio? Non è così.
15 . A Mosè infatti dice: avrò misericordia di chi avrò misericordia e pietà di chi avrò pietà (compassione). Citazione da Es 33, 19 in cui Dio risponde alla richiesta di Mosè di lasciargli vedere la Sua gloria, dopo aver interceduto per gli adoratori del vitello d'oro, per dimostrare che la misericordia e la compassione di Dio dipendono solamente dalla Sua grazia.

16 . Dunque non da chi vuole né da chi corre, ma da colui che ha misericordia, Dio. La frase è senza verbo, si sottintende il verbo «dipendere». Viene ancora messo in risalto che la misericordia di Dio ha le sue motivazioni in Lui e non nella volontà o nelle azioni degli uomini. «Correre» si riferisce all'intensa attività umana (Gl 2, 2; Fl 2, 16).

17 . Dice infatti la Scrittura: perciò ti ho suscitato, per dimostrare in te il mio potere e il mio nome sia fatto conoscere su tutta la terra.
«La Scrittura» è personalizzata come sostituto del nome di Dio; la citazione è da Es 9, 16, parole pronunciate da Dio a Faraone, prima della settima piaga. Il termine usato da Paolo, e¦ch¢gera , (ho suscitato, innalzato) è da preferirsi a quello usato dalla LXX, che legge «per questo ti ho risparmiato ». Il Faraone si crede forte perché resiste al Dio degli Ebrei, e non si accorge che Dio l'ha messo in quella situazione per servirsi di lui e mostrare la sua potenza (Lagrange).

18 . Così dunque egli ha misericordia per chi vuole e indurisce chi vuole. Ripetizione di quanto affermato al v. 15, con l'aggiunta dell'indurimento riferito non solo al Faraone ma anche a tutti gli Egiziani (Es 7, 3; 9, 12; 14, 4.17).

19 . Mi dirai dunque: perché ancora rimprovera? Chi può infatti opporsi alla sua volontà? È l'obbiezione naturale: se siamo suoi strumenti anche quando ci ribelliamo, perché ci rimprovera? Perché ci punisce? Il fatto che Dio possa sfruttare a fin di bene anche ciò che gli è avverso e ostile non limita la responsabilità o la colpa umana, piuttosto che titolo abbiamo per protestare?

20 . Piuttosto, chi sei tu, o uomo, che contraddici Dio? Dirà forse la cosa formata a chi l'ha formata, perché mi hai fatto così? Dio non è responsabile verso l'uomo di ciò che fa, ma si può essere certi che agirà coerentemente col suo carattere, che ci è stato rivelato in Cristo. Perché dovremmo dunque contestare la sua volontà? Il vaso può protestare col vasaio se non è soddisfatto della forma ricevuta?

21 . Non ha autorità il vasaio sull'argilla per fare da uno stesso impasto un vaso da onore e uno da disonore?
Il vasaio decide da solo, a suo insindacabile giudizio, l'uso dell'impasto di argilla e acqua da lavorare. I vasi possono, secondo la forma, essere destinati ad un uso nobile, ornamentale, o meno nobile, tutti usi utili.

22 . Ma se Dio, desiderando dimostrare l'ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con molta pazienza i vasi d'ira preparati per la distruzione,
L'ira di Dio è la sua giustizia punitiva. Gli ebraismi «vasi d'ira e vasi di misericordia » indicano, rispettivamente, gli uomini (e le donne) che si attirano la punizione o la misericordia divina. Sono gli umani stessi con la loro empietà che si attirano l'ira divina; Dio li ha sopportati, come sopportò l'ostinato Faraone.

23 . e per far conoscere le ricchezze della gloria sua verso i vasi di misericordia preparati per la gloria. L'effetto parallelo è di far conoscere la grande misericordia di Dio sugli eletti, i « vasi di misericordia». Sin da questa vita Dio mostra la sua gloria (presenza) agli eletti i quali sono preparati per partecipare alla Sua gloria eterna.

24 . e che ha chiamato, non solo noi dai Giudei, ma anche dalle nazioni (Gentili). Ritorna il concetto già espresso da Paolo (8, 29-30): quelli che hanno risposto alla chiamata di Dio sono stati scelti (eletti) e questi chiamati non sono solamente Giudei, ma anche Gentili.

25 . Come anche dice in Osea: "chiamerò mio popolo quello che non è mio popolo e amata quella che non è amata . È una parafrasi di Osea 2, 23. Il profeta vedeva nella sua tragica vita domestica una parabola della relazione fra Dio e il suo popolo. Quando prese per moglie Gomer ed ebbe un figlio da lei, lo riconobbe come suo e lo chiamò Jzreel. Quando lei ebbe ancora un figlio e una figlia, Osea, sicuro che non fossero suoi, dette loro dei nomi che esprimevano la sua delusione e tristezza: Lo-ruhama (Una per cui non si prova affetto) e Lo-ammi (non della mia stirpe). Questi nomi rispecchiavano l'atteggiamento di Dio verso il suo popolo Israele che aveva rotto il patto di fedeltà. Tuttavia Dio, per amore dei tempi antichi, ripristinerà il rapporto col suo popolo e attende il tempo in cui il sui "non popolo" torni ad esserlo di nuovo.
Paolo riferisce questa promessa all'ingresso dei Gentili nel regno di Dio. I Gentili non erano mai stati "popolo di Dio" e non avevano nessun diritto al Suo patto di misericordia. La portata dell'azione divina è, quindi, più ampia che al tempo di Osea, ma vi si possono riconoscere lo stesso disegno e lo stesso principio. Con la missione verso dei Gentili, in quelle terre un tempo escluse dal popolo di Dio, ora ci sono molti credenti riconosciuti come «figli dell'Iddio vivente» che formano il nuovo popolo di Dio.

26 . e sarà che al posto in cui fu detto (loro): non siete mio popolo, saranno chiamati figli del Dio vivente. Citato da Osea 1, 10 per ribadire quanto affermato nei versetti precedenti.

27 . Ma Isaia grida su Israele: Se il numero dei figli di Israele fosse come la sabbia del mare, il resto sarà salvato . Citazione da Isaia (10, 22a). Il significato è chiaro: anche se il popolo di Israele è numeroso, solo una minoranza sarà salvata, il «residuo», che scamperà quando Dio, servendosi degli Assiri, punirà il popolo infedele. Questo «residuo» che sopravviverà costituirà la speranza della restaurazione, tornerà dall'esilio e all'Iddio potente (Is 10, 21). Questo tema ricorrente del residuo viene applicato da Paolo alla situazione religiosa del suo tempo.

28 . Infatti con rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra. Il giudizio divino non sarà né parziale né prorogato ulteriormente.

29 . e, come predetto da Isaia: Se il Signore degli eserciti non avesse lasciato un seme come Sodoma saremmo diventati e come Gomorra saremmo stati assimilati. Isaia (1, 9) usa questi termini al tempo dell'invasione assira per dire che se Dio non avesse risparmiato quel nostro piccolo residuo, noi saremmo stati spazzati via dalla faccia della terra, come Sodoma e Gomorra.

c. La responsabilità dell'uomo (9, 30 - 10, 21)

1. LA PIETRA D'INTOPPO (9, 30-33). Considerato il problema dal punto di osservazione dell'elezione divina, ora Paolo passa a considerarlo da quello della responsabilità umana. Il fatto curioso è che l'annuncio dell'evangelo e della « giustizia» di Dio donata ai credenti è stato rivolto prima ai Giudei e poi ai Gentili, ma fu accettato prima dai Gentili.

I Gentili, cioè i non Giudei, hanno risposto con slancio e gratitudine al messaggio secondo il quale Dio li avrebbe accettati sulla base della loro fede, e ciò fu loro messo in conto di giustizia.

I Giudei, invece, hanno continuato a percorrere la strada della giustizia legale, tentando di essere accettevoli a Dio sulla base dell'osservanza della legge, senza riuscirci. Hanno seguito, e continuano a seguire, la strada sbagliata. L'essere accettati da Dio è assicurato dalla fede e non dalle opere della legge. Malgrado i privilegi, gli Israeliti possono raggiungere la giustizia divina solo percorrendo la stessa strada dei Gentili, di quei popoli, cioè, che nel passato erano stati esclusi dalla conoscenza di Dio e delle Sue vie.

Perciò il vangelo, per gli Israeliti, è diventato una pietra d'intoppo, come era stato previsto da Is 8, 14 e 28, 16.

30 . Che diremo dunque? Che le nazioni non perseguenti la giustizia ottengono giustizia, una giustizia dalla fede.
I Gentili non si sono affannati alla ricerca della giustizia, come invece hanno fatto i Giudei con la pedissequa osservanza della legge, tuttavia hanno ottenuto la giustizia e proprio la giustizia che viene dalla fede, senza alcun merito.

31 . Israele invece perseguendo una legge di giustizia non è arrivato alla legge. Cosa cercava Israele? Attraverso la legge cercava la giustificazione, di essere giusto davanti a Dio. Ma ciò che la legge esigeva restava comunque incompiuto e così Israele ha fallito e non è riuscito ad ottenere la giustizia che tanto anelava.

32 . Perché? Perché non per mezzo della fede ma dalle opere (della legge); essi inciampavano nella pietra d'intoppo.
Israele cercava questa giustizia attraverso le opere «della legge». I manoscritti più antichi non contengono queste due parole, ma esse sono chiaramente sottintese, mentre il verbo è omesso in tutti i manoscritti.
In che cosa consiste inciampare nella « pietra d'intoppo»?

33 . come è scritto: ecco, io metto in Sion una pietra d'inciampo e una roccia pe/tran di scandalo skanda/lou , chi crede in lui non sarà svergognato . La pietra d'intoppo o di scandalo è il Messia. Paolo si riferisce a due brani di Isaia unendoli in un'unica profezia: 8, 14 « . . . Egli sarà un santuario, ma anche una pietra d'intoppo, una roccia d'inciampo per le due case d'Israele, un laccio e una trappola per gli abitanti di Gerusalemme» e 28, 16: « . . . ecco io pongo come fondamento in Sion una pietra, una pietra provata, una testata d'angolo preziosa, un fondamento sicuro, chi crede (in essa) non avrà fretta». Il profeta si riferisce all'invasione assira: la immagina come un'inondazione. L'unico rifugio è una roccia-santuario che è, allo stesso tempo, rifugio per chi crede, che così non avrà fretta di fuggire in mezzo al turbine delle acque, è trappola per chi non crede e quindi non si avvale del rifugio. Il termine skanda/lou significa proprio trappola. Il Messia, dunque, è rifugio e salvezza solo per chi vi crede, altrimenti è occasione di caduta. Chi crede in lui non sarà svergognato, cioè deluso.