L’EPISTOLA DI PAOLO AI ROMANI

E S E G E S I
Capitolo 12°

LA CONDOTTA CRISTIANA
(12, 1  -  15, 13)

Questa seconda parte dell’epistola è detta “parenetica” poiché l’apostolo, dopo aver esposto il piano di Dio, vale a dire la dottrina, passa ora a spiegarne gli effetti pratici nei credenti.

I primi undici capitoli hanno chiaramente illustrato che la vita, promessa per fede al giusto, deve essere una vita d’ubbidienza. Questo principio, implicito nei primi cinque capitoli, diventa molto esplicito nel sesto capitolo. Coloro che sono consapevoli che Dio li considera come morti al peccato non possono continuare a vivere in esso con compiacimento. È una conseguenza inevitabile del battesimo, perciò, invece di permettere al peccato di dominarli, essi devono e possono ribellarsi e presentarsi a Colui al quale appartengono di diritto. Ai battezzati, dunque, è richiesta l’ubbidienza a Dio, vale a dire la santificazione. Il credente è coinvolto in una lotta, sottoposto ad una continua tensione dalla quale non può venirne fuori in questa vita. La liberazione, tuttavia, è già avvenuta poiché lo Spirito di Dio e di Cristo, elargito ai credenti, consente di iniziare a compiere le giuste esigenze della legge di Dio, di iniziare ad ubbidirgli. In linea di principio, tutto ciò che c’è da dire sull’ubbidienza cristiana si trova in 8: 15 (avete ricevuto lo Spirito di adozione, grazie al quale possiamo esclamare “Abbà, Padre”).

Invocare Dio come Padre con piena comprensione e sincerità e serietà comporta necessariamente l’impegno a essere, pensare, parlare e fare ciò che gli è accettevole ed evitare ciò che gli dispiace.

Ma poiché quest’ubbidienza di pensiero e di atteggiamento, di parole e di azione, deve essere eseguita in situazioni di difficoltà e di pericolo, Paolo, dopo aver cercato di portare i lettori della sua lettera ad una percezione più profonda della realtà e del mistero della misericordia di Dio, prosegue con un’esortazione di natura pratica e specifica.
 

I. IL SACRIFICIO VIVENTE (12: 1 – 2)

Considerando tutto ciò che Dio ha fatto per il suo popolo, come dovrebbero dunque vivere i suoi? Dovrebbero presentare se stessi come “sacrificio vivente” offerto a Lui.

I sacrifici animali hanno caratterizzato, nei tempi antichi, tutte le religioni. Alcune di queste sono arrivate ad offrire alla loro divinità anche sacrifici umani. Anche Israele aveva il suo complicato rituale per i diversi sacrifici da offrire a Dio, cruenti e no.

Con la morte di Gesù, che ha offerto se stesso, e la sua resurrezione, segno del gradimento di Dio, tutti gli altri sacrifici sono diventati obsoleti e sono stati aboliti, lasciando il posto, nell’adorazione, all’offerta di se stessi nella dedizione e ubbidienza alla volontà divina. Invece di vivere secondo le leggi di un mondo avverso e in discordia con Dio, i credenti sono esortati a lasciarsi guidare dallo Spirito e a trasformare la loro mente, a rinnovarla e a vivere in armonia con la volontà di Dio.

È importante notare come gli ammonimenti etici di questa, come di altre epistole, abbiano una stretta somiglianza con l’insegnamento etico di Gesù riportato nei vangeli. Essi sono basati su quella che Paolo chiama la legge di Cristo (Gal. 6:2). Si potrebbe redigere un parallelo con il Sermone della Montagna, pur non essendo ancora stati scritti gli Evangeli canonici all’epoca della redazione dell’epistola. È evidente che tali insegnamenti erano ben conosciuti e diffusi in forma orale.

12 . 1.Vi invito dunque, fratelli, per le misericordie di Dio, a offrire i vostri corpi (in) sacrificio vivente santo gradevole a Dio, il vostro culto logico. La parola “ dunque”, sostenuto dal successivo “per la misericordia di Dio” acquista il valore di collegamento con tutto quanto scritto da Paolo fino a questo momento. L’ubbidienza del cristiano/a costituisce la sua risposta a quanto Dio ha fatto per lui/lei in Gesù Cristo. Perciò ogni tentativo morale veramente cristiano è teocentrico, non ha la sua origine in un desiderio umanistico del proprio io teso al raggiungimento di una superiorità morale, né nell’illusoria speranza legalistica di porre Dio in obbligo verso se stessi, ma semplicemente nell’opera misericordiosa di Dio.
Le parole per le misericordie di Dio indicano il fondamento che Paolo dà al suo invito-appello. Il plurale è probabilmente dovuto all’influenza della traduzione greca dell’Antico Testamento (LXX) che traduce così la parola ebraica “pietà”, che è un sostantivo plurale. Per Paolo la misericordia divina è ciò che dirige tutto il progetto e le azioni divine in rapporto alla creazione.
Vi invito ( parakalw=) può essere tradotto con esorto, e assume una vasta gamma di significati: pregare, implorare, richiedere. Esprime urgenza e prontezza, ma contiene anche una nota di autorità; a offrire, è lo stesso verbo usato in 6: 13,19, tradotto con “ presentare” e “prestare”, è qui usato come termine tecnico del culto (offrire in sacrificio), i vostri corpi, vale a dire voi stessi nel complesso della vita concreta, in sacrificio vivente, santo, gradevole a Dio; i tre aggettivi hanno lo stesso livello d’importanza e stanno ad indicare che il cristiano offre la propria vita a Dio, e perciò la sua offerta è continua, ed egli (o lei) è “ santo” in quanto “ appartato” per Dio, che gradisce solo questo genere di “sacrificio”, il vostro culto logico: questa offerta continuamente ripetuta in tutta la nostra vita è il solo possibile vero culto che si possa rendere a Dio. Questa parola, logikh\n , è stata tradotta in vari modi (culto spirituale, ragionevole) tuttavia, poiché deriva da lo/goj, parola, ragionamento, esprime la conoscenza (logica) dell’azione di Dio in Cristo che ha offerto se stesso per il riscatto e la redenzione dei credenti. Allo stesso modo chi crede in lui e nella sua opera renderà il suo culto, latreia, cioè il suo servizio, per tutta la sua vita. Ciò è logico, ragionevole.

2 . e non conformatevi a questo secolo, il “secolo”, ai)w=n , è il tempo presente, l’epoca in cui si vive, il modo di essere del mondo; “conformarsi”, cioè assumere la forma, adeguarsi, adattarsi (a una mentalità); il tempo presente dei verbi è reso meglio da “non continuate a conformarvi ”, ma trasformatevi, metamorfo/omai (mi trasfiguro), continuate a trasfigurarvi. I cristiani vivono ancora in “ questo mondo”, ma se hanno compreso quello che Dio ha fatto per loro in Cristo, allora sanno che appartengono ad un nuovo ordine di cose e non possono accontentarsi di essere modellati dalla mentalità di questo mondo che sta passando. Perciò devono resistere a questo processo che continuamente plasma e modella le persone secondo lo schema dell’età presente con le sue convenzioni e i suoi standard di valori, devono resistere alle pressioni di conformarsi a questo mondo. Essi devono invece permettere allo Spirito di Dio di trasfigurarli, trasformarli col rinnovamento della mente. È il processo della “nuova nascita” (Giov. 3) che continua ad operare fino a diventare “una nuova creazione” (Galati 6:15); per esperimentare, dokima/zw ( provo, saggio, metto alla prova) che la volontà di Dio è buona, gradevole e perfetta. Il discernimento della volontà di Dio avviene per esperienza diretta, la si conosce esperimentandola e porta alla sua accettazione ubbidiente. La mente umana ha bisogno di essere messa in grado di riconoscere e abbracciare la volontà di Dio. Questo significa che il credente è chiamato a esercitare una libertà responsabile e a rifiutare definitivamente qualsiasi forma di intermediazione, di sacerdotalismo che vorrebbe ridurre il credente “laico” ad essere nella chiesa un membro di seconda classe. Sapere che è intenzione divina che il credente, senza distinzione di grado, debba essere trasformato mediante il rinnovamento della propria mente in modo da agire responsabilmente, significa sapere che non si deve assolutamente trattare con condiscendenza il proprio fratello/sorella. La volontà di Dio è buona, a)gaqo\n oltre ad indicare la qualità (buono) questo aggettivo vuol dire anche idoneo, conveniente, vantaggioso, salutare, utile. Per meglio chiarire la qualità della volontà di Dio, Paolo aggiunge l’aggettivo eu)a/reston, piacevole, gradito. Molti traducono “accettevole”. Con questo aggettivo si sottolinea che la bontà di cui si sta trattando non è di tipo umano, ma una bontà determinata dalla rivelazione della volontà di Dio. Infine, un terzo aggettivo, perfetta, te/leion. Il senso di questo vocabolo è quello della completezza. La volontà di Dio, ciò che egli richiede da noi, è perfetta, completa, assoluta, perché esige noi stessi “totalmente” per sé e per il nostro prossimo. In questo modo il terzo aggettivo interpreta gli altri due.
 

II. LA VITA IN COMUNE (12: 3 – 8)

 Questa prima sezione di esortazioni specifiche si rivolge ai membri della comunità cristiana, destinatari di vari doni. La comunità riunisce molte persone, uomini e donne con le più diverse caratteristiche di parentela, di ambiente, etnie, carattere e capacità. Dal momento che sono diventati cristiani sono anche stati dotati da Dio di una varietà di doni spirituali. Alla luce dell’evangelo, ciascuno deve avere una concezione sobria di se stesso rispetto agli altri e dare tutto se stesso a quel particolare dono che ha ricevuto e che costituisce la sua vocazione divina.

3. Dico, infatti, a motivo della grazia concessami, a ognuno di voi di non sopravvalutarvi oltre ciò che bisogna stimare…, mettendo in evidenza la grazia, cioè i doni ricevuti, l’apostolo passa ora a dare dei consigli pratici relativi alla vita comunitaria stabilendo, innanzi tutto, il principio da cui partire: qualsiasi dono abbiate ricevuto non inorgoglitevi e non ritenetevi superiori agli altri. Si tratta di un ordine solenne in base alla grazia (favore del tutto immeritato) che è stata manifestata da Dio nei suoi confronti con la chiamata all’apostolato, e questo comando è per tutti i membri della comunità cristiana. Vi ordino dunque di non sovrastimarvi, …ma ritenere di essere sapienti nella misura della fede che Dio ha distribuito a ciascuno. Espressione alquanto difficile (misura della fede). La parola “misura” metron può avere una varietà di significati (quantità, strumento di misura, limite), come pure la parola “fede” pi/stij (confidenza, fiducia, conoscenza, fedeltà). Il senso più logico per “misura” è quello di un mezzo di misura o standard, e per “fede” il suo significato cristiano. Il senso del versetto è che ciascun membro della comunità, invece di ritenere se stesso superiore a quanto debba, deve valutarsi in modo sobrio, misurandosi con lo standard che Dio gli ha dato nella sua fede, vale a dire con uno standard che lo costringe a concentrare la sua attenzione su quelle cose nelle quali egli/lei è esattamente allo stesso livello dei suoi compagni/e di fede, piuttosto che su quelle cose nelle quali possa essere superiore o inferiore. Lo standard che Paolo ha in mente consiste non nella forza relativa della fede di un particolare credente, ma nel semplice fatto della sua esistenza, cioè nel fatto di essere stato ammesso alle dipendenze e all’impegno nei confronti di Cristo.

4. Come, infatti, in un corpo abbiamo molte membra, ma tutte le membra non hanno la stessa funzione ( pra=c=ijV)
5. così i molti un corpo siamo in Cristo, ma uno per uno (siamo) membra gli uni degli altri, chi misura se stesso in base allo standard che Dio gli ha dato con la fede, non mancherà di discernere il corpo unico, riconoscerà che non si vive per se stessi, ma che si è membra l’uno dell’altro, perciò, pur nella diversità di doni e di funzioni, tutti siamo membra di un corpo unico. Paolo riprende qui un’immagine già espressa in altri suoi scritti precedenti (I Cor. 12: 12-27). L’unità di un corpo è il risultato della funzionalità di tutte le sue membra, ognuno nella sua insostituibile funzione, pur nella loro diversità. L’unità di coloro ai quali si sta rivolgendo Paolo non è un dato naturale, ma soprannaturale: è la conseguenza della grazia divina, “in Cristo”, basata, cioè, su quanto Dio ha operato per loro in Cristo.

6. Avendo poi doni differenti, secondo la grazia, quella data a noi, se (è) la profezia secondo la proporzione della fede
7. se il servizio nel servizio, se l’insegnante nell’insegnamento,
8. se l’esortazione nell’esortare, il donatore nella semplicità, il presiedente nella diligenza, la pietà in letizia…In questo brano mancano i verbi, che sono sottintesi: se abbiamo il dono della profezia, usiamolo secondo la misura della fede; se il dono è il servizio, esercitiamolo, se è l’insegnamento, insegniamo, se è l’esortazione, esortiamo, se il dono è quello di donare, facciamolo con semplicità, se abbiamo il dono di presiedere, attendiamo a questa attività con diligenza, se è la pietà (o misericordia) facciamolo con gioia. Questo è il modo di esercitare con sobrietà i doni ricevuti per il bene comune. Il “dono” carisma è la particolare capacità data da Dio a uno specifico credente da utilizzare al servizio della comunità e delle persone. Lo Spirito Santo è mediatore di questi doni e Paolo era convinto che ogni credente avesse almeno uno di questi doni, e l’elenco che fa è solo esemplificativo, non è completo. In I Corinzi capp. 12-14 l’apostolo si dilunga di più su questo argomento, qui lo scopo è di esortare l’esercizio dei doni con semplicità in maniera del tutto normale, senza per questo insuperbirsi o ritenersi superiori agli altri.
La profezia è il primo esempio. Secondo l’apostolo è uno dei doni più importanti nel servizio comunitario ed era elargito anche alle donne (Atti 21: 9). Il “profeta” si distingueva dall’insegnante (dottore) per l’immediatezza della sua ispirazione e il suo messaggio era in riferimento diretto a una situazione concreta specifica. Un altro dono è il servizio diakonia, inteso in senso ristretto, indicante, cioè, un ventaglio di attività che rientrano nell’ambito dell’ufficio di diacono. Il dottore (o insegnante), basava il suo insegnamento sulle Scritture dell’A.T. e sulle “tradizioni” su Gesù che, in seguito, furono raccolte nei vangeli. In Efesini 4: 11 i “dottori” sono strettamente collegati ai “pastori”. Il dono dell’esortare consiste nell’aiutare i credenti a vivere la loro ubbidienza all’evangelo. Un altro termine usato per tradurre la parola greca parakalew è confortare. Altri doni sono il donare, il presiedere, e il fare opere di pietà (o misericordia). Anche questi siano esercitati con semplicità, senza secondi fini, senza ambizioni. Notiamo che quattro di questi sette doni hanno a che fare con l’assistenza pratica a chi ha bisogno.
 

III. LA LEGGE DI CRISTO (12: 9-21)

 I consigli contenuti in questi versetti, dettati dalla necessità di attualizzazione di quanto teorizzato fino a questo punto, richiamano alla memoria il “sermone del monte”.

Mentre le esortazioni contenute nei versetti 6-8 erano indirizzate ai credenti in possesso di doni specifici, quelle che seguono riguardano indistintamente tutti i membri della comunità cristiana. È normale attendersi che all’interno di una fratellanza ci siano rapporti di amore reciproco, di simpatia e di stima, ma qui Paolo, riallacciandosi agli insegnamenti di Gesù, aggiunge anche l’amore e il perdono per quelli che sono al di fuori della comunità e per coloro che li perseguitano e vorrebbero il loro male.

9. L’amore (sia) senza ipocrisia a)nupo/kritoj aborrite il male e attenetevi al bene. Dopo aver utilizzato il sostantivo ‘amore’ (agape) fino a questo momento solo in riferimento all’amore di Dio (5: 5-8; 8: 35,39) ora Paolo lo utilizza per indicare l’amore che  i credenti devono avere verso il prossimo. Questo amore non deve essere “ipocrita”, ma deve essere sincero, autentico. Come conseguenza di questa sincerità e genuinità nell’amore il credente non proverà alcun piacere nel male ma si adoprerà per il bene di tutti.

10. Nell’amore fraterno fil/adelfi/# fra voi, (siate) affettuosi prevenendovi gli uni verso gli altri nella stima. Ci sia fra voi affetto reciproco e stima, anticipandovi l’un l’altro nel rendervi onore; questo può avvenire  se riusciamo a vedere nell’altro(a) l’immagine di Cristo (Matt. 25: 40,45).

11. Non (siate) pigri nello zelo, (siate) pronti nello spirito, servendo il Signore. Chi ha avuto la vita trasformata mediante la fede, chi è “nato di nuovo”, non dovrà essere pigro ma fervente, sollecito, ricordandosi sempre che, qualunque cosa si faccia è un servire il Signore.

12. rallegrandovi nella speranza, pazienti nelle avversità qli/yei (anche: calamità, tribolazione, sofferenza). La pazienza è necessaria in quanto l’afflizione è una compagna inevitabile della vita cristiana in questo mondo, afflizione che si aggiunge alle normali sofferenze di ogni essere umano. Le avversità della vita cristiana a cui Paolo probabilmente sta pensando, sono quelle derivanti dalla scelta di fede del credente, cioè dalla resistenza che il mondo oppone a Cristo. Il mondo odia Cristo e i suoi seguaci. Di fronte a queste avversità il credente deve resistere con pazienza e sopportazione, consapevole che il risultato finale non è incerto, perseveranti nella preghiera, perché questa resistenza non si realizzerà per mezzo della forza propria del credente, ma con la forza che Dio gli fornirà. La preghiera diventa così non solo il mezzo per comunicare col Padre, ma anche il canale attraverso il quale attingere alla forza dello Spirito Santo.

13. partecipate koinwnou=ntej ( condividete) alle necessità dei santi perseguendo l’ospitalità. Una delle necessità pratiche, fin dall’inizio della vita della chiesa cristiana, è stata quella di provvedere ai bisogni dei più poveri, per alleviarne le difficoltà. Il credente, trasformato dal rinnovamento della sua mente, sarà più sensibile e sollecito di fronte alle difficoltà del suo prossimo, ed in particolare degli altri credenti. Il termine “santi” agiw=n, indica chiaramente come questo aggettivo si applichi a persone viventi. Un’altra necessità era quella di ospitare i cristiani provenienti da altri paesi, particolarmente coloro che dovevano viaggiare per motivi evangelistici.

14. Benedite quelli che (vi) perseguitano, benedite e non maledite. Queste parole riflettono chiaramente gli insegnamenti di Gesù (Matt. 5: 44 e Luca 6: 27s). Sembra che il pronome “vi”, u(ma=j, mancante in alcuni manoscritti, sia stato cancellato per estendere questa raccomandazione a tutti i casi di persecuzione, a prescindere dall’esserne vittime o no.

15. Rallegratevi con coloro che si rallegrano, piangete coi piangenti. Nulla fa pensare che questa esortazione riguardi solo i rapporti fra credenti. Probabilmente Paolo suggerisce di partecipare alle gioie ed ai dolori degli altri, intendendo con ‘altri’ anche i non credenti. Il cristiano non può rinchiudersi nella comunità credente senza partecipare alla vita della più ampia comunità umana: il rione, il villaggio, la città.

16. Pensando la stessa cosa, gli uni verso gli altri, abbiate, cioè, gli stessi pensieri, o sentimenti, gli uni verso gli altri. Ciò non vuole dire che i credenti debbano avere la stessa opinione o essere d’accordo su ogni cosa, ma piuttosto che devono cercare di mantenere lo stesso sentimento, con preciso riferimento a Cristo (Fil. 2: 2). Avere lo stesso intendimento in Cristo (o di Cristo) significa non insuperbirsi non pensando alle cose alte, ma lasciandovi attirare dalle cose umili. L’altezzosità è particolarmente distruttiva per l’unità della chiesa, perciò i credenti devono essere umili ed essere attratti, più che dalle cose (e dalle persone) “importanti” da quelle umili: non siate savi fronimoi da voi stessi, citazione da Proverbi 3:7.

17. Non rendete a nessuno male per male. Ritroviamo questa raccomandazione in I Tess. 5: 15 e I Pietro 3: 9. Ciò fa pensare che si tratta di un’espressione “standard” proveniente dalla tradizione catechetica (prov. 20: 22 non dire “renderò male per male”, spera nell’Eterno ed egli ti salverà,  e 24:29 Non dire: “come ha fatto a me, così farò a lui; gli renderò secondo le opere sue” e, naturalmente, Matt. 5: 38-39, 44 e Luca 6: 29-35), dandovi pensiero del bene di fronte a tutti gli uomini, impegnandosi, cioè, a fare il bene, o ciò che è bene, o giusto, dinanzi a tutti, indipendentemente dal giudizio umano.

18. Se possibile, da voi, vivete in pace con tutti gli uomini. Le traduzioni aggiungono, dopo se possibile ‘per quanto dipende…’. I credenti in Cristo, per la loro posizione di enunciatori del perdono di Dio, non possono coltivare sentimenti e atteggiamenti di ostilità verso qualcuno, ma devono, per quanto possibile e per quanto controllabile da loro, vivere in pace con tutti, non solo con il genere umano, uomini e donne, ma anche con il creato. “Per quanto dipende da voi” indica chiaramente che si deve fare di tutto affinchè i rapporti umani siano lo specchio dell’atteggiamento di Gesù stesso, di colui che dà la propria vita per gli altri.

19. Non vendicate voi stessi, amati, ma date posto all’ira (di Dio), esortazione difficile anche per i credenti: invece di farsi vendetta, si deve lasciare il posto all’ira di Dio. Per appoggiare questo principio Paolo cita Deut. 32:35 è scritto infatti: “A me la vendetta, io darò la retribuzione” dice il Signore”. La vendetta è sempre stata una prerogativa che distingue gli esseri umani dagli altri animali in genere, forse come derivato di un senso primitivo di equità, degenerato ben presto facendo prevalere l’aggiunta dell’elemento punitivo. Nell’Antico Testamento la vendetta è proibita (Lev. 19.18, Pro. 20:22; 24:29, II Cronache 28: 8-15) e la famosa “legge del taglione” occhio per occhio… (Esodo 21:24) è il più antico tentativo di limitare la vendetta al danno subito. Le parole di Paolo, tuttavia, vanno comprese alla luce di quello che ha già scritto in questa lettera. La proibizione della vendetta è senza limitazione: “non rendete a nessuno male per male…vivete in pace con tutti…”. Cedere il posto all’ira di Dio vuol dire lasciare spazio alla Sua giustizia, l’unica “ira” giusta, significa riconoscere che ognuno di noi meriterebbe di esserne consumato, ma anche che lo stesso Figlio di Dio l’ha attirata su di sé per risparmiarla a noi. Se si vuole vivere per grazia non si può fare altro che cedere il posto a questo tipo d’ira, sperando e pregando che il suo bersaglio riesca ad evitarla rifugiandosi in Cristo. Quando ricordiamo quel che Cristo ha fatto per noi,  mentre eravamo nemici, (5:10) non possiamo che sperare che la sua misericordia abbracci alla fine anche coloro che ora sono nostri nemici.

20. Ma se il nemico tuo ha fame, nutrilo: se ha sete, dissetalo, citazione da Prov. 25:21 con l’omissione della frase “e l’Eterno ti ricompenserà”. Il senso originale dell’ammonizione potrebbe essere stato: “tratta gentilmente il tuo nemico, perché ciò accrescerà la sua colpa”, ma probabilmente Paolo intendeva dire “…perché ciò può indurlo a vergognarsi e pentirsi”. La citazione continua: infatti, così facendo accumulerai carboni di fuoco sul suo capo, frase che è stata intesa dagli antichi come aggravamento della punizione divina, ma che è stata invece ritenuta da alcuni scrittori cristiani (Origene, Pelagio, Agostino) proprio nel senso di aumento del peso della responsabilità che porta a riconoscere il proprio torto e a ravvedersi. Pertanto i commentatori moderni sono concordi nel ritenere che il significato di questo versetto sia che, comportandoci in quella maniera con il nostro nemico nel bisogno, gli infliggiamo un tale senso di vergogna che lo porterà a un vero ripensamento, e a non essere più un nemico; in caso contrario, se rifiuta la riconciliazione, quel senso di vergogna rimarrà in lui come una sofferenza dovuta a una cattiva coscienza.

21. Non lasciarti vincere dal male ma vinci il male con il bene. Invece di permettere al male di dominarti, di vincerti e renderti suo schiavo, con il bene riuscirai a vincerlo. La vittoria del credente sul male consiste nel rifiuto ad avere una qualsiasi parte nella promozione del male. Rispondendo al male con il male si resta sotto il suo dominio. Per quanto possa essere difficile rispondere col bene al male che si riceve, questa è l’unica via per evitare la crescente spirale di odio e vendetta che vediamo perpetrata ogni giorno nel mondo in cui viviamo. Questa deve essere l’unica risposta dei “nati di nuovo”.