L’EPISTOLA DI PAOLO AI ROMANI

E S E G E S I
Capitolo 13°

 
IV IL CRISTIANO E LO STATO ( 13, 1-7 )

    Alcuni studiosi hanno messo in evidenza la mancanza di collegamento fra questa sezione e il suo contesto immediato. Essa interromperebbe la continuità fra 12, 21 e 13, 8 e presenterebbe alcune incongruenze con il contesto; alcune di queste incongruenze potrebbero essere: (1) l’assenza di qualsiasi riferimento escatologico e quanto, invece, viene scritto in 12,2 e 13,1-14; (2) il carattere non cristologico di questa sezione, e (3) il contrasto fra l’idea di Stato, ed il suo uso della forza, e il tema dell’amore contenuto nel capitolo 12 (12, 9-21).

    Ma se consideriamo come i rapporti della comunità cristiana con il potere, specialmente a Roma, siano diventati critici nel decennio successivo alla compilazione di questa lettera, non possiamo non riconoscere l’elemento profetico contenuto in questa pericope. Finché la comunità era composta massimamente di Ebrei, pur non mancando i problemi, la situazione non era così delicata, come invece sarebbe diventata in seguito.

    Gli Ebrei godevano, in tutto l’impero romano, di particolari privilegi e “dispense”. La loro religione era riconosciuta come religio licita, e le varie pratiche religiose erano ratificate: la legge del Sabato e quella sui cibi e la proibizione delle immagini scolpite. Ai governatori della Giudea era vietato far entrare gli stendardi militari con le immagini imperiali dentro le mura della città santa di Gerusalemme. Roma riconosceva la legge giudaica che vietava ai Gentili l’ingresso nei cortili interni del Tempio, fino al punto di ratificare la conseguente condanna a morte anche quando il colpevole era un cittadino romano.

    Nei primi decenni dopo la morte di Cristo la legge romana tendeva a considerare i cristiani, quando capitava di prendere atto della loro esistenza, come una delle tante sette o correnti del Giudaismo. Nel 51 e.c., quando i Giudei di Corinto accusarono Paolo, di fronte al nuovo proconsole Gallione, di propagare una religione illegale, Gallione non dette molto peso all’accusa (At 18, 12ss) ritenendo che la disputa verteva sull’interpretazione di alcune parti della legge giudaica, e lasciò libero l’apostolo.

    La decisione di Gallione costituì un importante precedente di cui Paolo si avvalse in diverse occasioni e probabilmente influì sulla sua valutazione positiva nei confronti dei magistrati romani.

    In ogni caso il cristianesimo, nelle sue relazioni con lo Stato romano e le sue leggi, partiva fortemente handiccapato: il suo fondatore era stato condannato a morte da una sentenza emessa da un magistrato romano in base all’accusa di essere alla guida di un movimento che rivendicava a sé le prerogative sovrane di Cesare. Molti anni più tardi, Tacito scriveva dei cristiani: “ Quel nome essi derivano da Cristo, che sotto il regno di Tiberio fu mandato a morte dal procuratore Ponzio Pilato” (Tacito, Annali XV, 44). A Tessalonica gli oppositori di Paolo lo accusarono di fronte ai magistrati della città dicendo di lui e dei suoi collaboratori: questi uomini, che hanno messo sottosopra il mondo, sono venuti anche qui…essi agiscono contro gli statuti di Cesare dicendo che c’è un altro re, Gesù (Atti 17, 6.7). Anche a Roma vi furono dei tumulti circa nello stesso periodo (49 e.c.) che indussero all’espulsione dei giudei dalla città, tumulti, secondo Svetonio, istigati da “ Cresto ”. Si tratta, molto verosimilmente, della reazione dei giudei alla penetrazione del cristianesimo nelle loro comunità. Perfino i migliori amici di Paolo non potevano fare a meno di notare che il suo arrivo in una città significava, quasi sempre, la fine della pace e prima o poi le autorità si vedevano costrette ad intervenire.

    Per questi motivi era necessario che i cristiani curassero in modo particolare il loro comportamento pubblico per non offrire alcun appiglio ai calunniatori, dando il dovuto onore e la dovuta ubbidienza alle autorità. Del resto Gesù stesso aveva stabilito un principio a questo riguardo quando, interrogato se era lecito, per un giudeo, pagare il tributo a Cesare, rispose: rendete a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio (Mc 12, 17) separando, così, le due sfere, temporale e spirituale, e indicando come i doveri del credente verso Dio non dispensano da quelli verso lo Stato.

    Paolo pone la questione al più alto livello. Dio è la fonte di qualsiasi autorità, e coloro che la esercitano sulla terra lo fanno per delega di Dio. Il governo umano è un ordinamento divino e i poteri di coercizione che esercita gli sono stati affidati da Dio per la repressione del crimine e la promozione della giustizia. I cristiani, perciò, più di chiunque altro, devono ubbidire alle leggi, pagare le tasse, rispettare le autorità. Anche questo è un modo di servire Dio.

    Ma che fare se le autorità sono ingiuste? Che fare se Cesare reclama anche ciò che è di Dio? Questo problema non è trattato da Paolo, problema che diventerà scottante per le generazioni future, specialmente a Roma. Cesare poteva oltrepassare i limiti della giurisdizione divinamente assegnatagli e arrivare a pretendere per sé onori divini e muovere guerra ai santi. In tal caso, anche se Paolo non lo dice, ci dobbiamo comportare come Pietro che rispose ai membri del Sinedrio che gli vietavano di predicare nel nome di Cristo: giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi anziché a Dio (At 4,19) bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini (At 5,29). Quando ciò accade, il “ministro di Dio ” si trasforma nella “bestia che sale dall’abisso ” descritta in Apocalisse. Paolo stesso previde uno sviluppo in quella direzione quando il freno della legge fosse stato tolto (2 Te 2,6ss).

Il contesto

    Il carattere parenetico di questa pericope c’induce a ritenere che questo insegnamento ha due significati.

    Il contesto immediato (12, 14ss) sottolinea l’esigenza dell’amore. La specificità cristiana d’amare deve essere mantenuta anche davanti ai persecutori; l’ubbidienza alle autorità contiene il carattere essenziale del cristianesimo: l’amore. Paolo considera questa sottomissione come un elemento specifico del culto cristiano nella profanità del mondo.

    In secondo luogo, si vuol mettere in evidenza che l’ora è un’ora solenne perché il coronamento della vita nella salvezza è ora più vicino a noi (13,11) e questo sottofondo non deve essere perduto di vista, altrimenti si rischia di passare da una sottomissione senza condizioni a una critica di principio, da un’approvazione dello Stato a un’opposizione assoluta. Solo tenendo presente il contesto si può discernere un insegnamento sufficientemente equilibrato. Se il cristiano conosce la nuova vita in Cristo, se è libero per servirLo secondo la volontà di Dio, non per questo è esonerato dalla necessità di accogliere la sua vocazione in un mondo reale, ed essere quindi anche cittadino del mondo presente. Il servizio che Dio richiede dal credente in questo mondo, non è posto al di fuori delle strutture che esistono nella società, ma al suo interno.

13 . 1 .    Ogni persona sia sottomessa alle autorità á superiori u¥rerexou¢saij Ogni persona ( yuxh£ ) , cioè ogni credente, particolarmente ogni credente in Roma. La parola greca e©cousi¢a , qui tradotta con “autorità”, ha diversi significati: libertà, facoltà, diritto, capacità (di fare qualcosa), potestà, potere, autorità. Nel N.T. ricorre 102 volte, di cui 21 in Apocalisse e 16 in Luca, ed abbraccia un’ampia gamma di significati (il potere di Dio, di Gesù, della comunità, le potenze sovraterrene, il potere di comandare, l’ambito del dominio). Chi sono, secondo Paolo, le autorità superiori? Alcuni studiosi, in passato, hanno suggerito il possibile riferimento a potenze sia angeliche sia umane (O.Cullmann), ma i moderni rigettano questa interpretazione. È chiaro che si tratta delle autorità civili in quanto tali. Il significato di “autorità superiori” ( u¥per-e©cou¢saij ) dimostra che l’apostolo si riferisce a coloro che hanno autorità sui credenti cui la lettera è indirizzata. L’espressione più interessante è “sia sottomesso”. Spesso si ritiene che la parola greca  u¥potasse¢sqw significhi ubbidire, ma il verbo greco qui impiegato non è quello normalmente utilizzato per esprimere l’ubbidienza: esistono, infatti, altri tre verbi, in greco, e tutti sono presenti nel N.T., che hanno questo significato. Ciò che Paolo sta chiedendo non è, quindi, un’ubbidienza acritica a qualunque comando l’autorità civile possa decidere di emanare, ma piuttosto il riconoscimento che l’autorità fa parte di un ordinamento, voluto da Dio, che esercita l’autorità ultima. Paolo ha in mente uno Stato autoritario, in cui la “sottomissione” dei credenti all’autorità è limitata al rispetto e all’ubbidienza, nella misura in cui questa non entra in conflitto con le leggi divine. Un elemento importante, che non è presente in questo testo, lo troviamo in 1 Ti 2 quando l’apostolo invita i credenti a pregare continuamente per le autorità costituite.  Infatti non c’è autorità se non da Dio . Queste parole esprimono una verità già familiare agli Ebrei (2 Sm 12,8; Gr 27,5s; Dn 2,21.37; 4,17.25 ecc.). E’ Dio che innalza e abbassa i governanti poiché nessuno esercita il potere se Dio non l’ha chiamato a questa funzione per un tempo determinato; le (autorità) esistenti sono state ordinate da Dio. Le autorità politiche ricevono, in ultima analisi, il loro mandato, il loro potere e la loro dignità da Dio. Ciò non significa che lo Stato è “divino”, ma semplicemente che è “ordinato” da Dio. In questo caso si tratta di una dichiarazione specifica sulle autorità dell’epoca con le quali Paolo e i credenti di Roma hanno a che fare. Per quanto il governo imperiale fosse idolatra, doveva comunque essere riconosciuto come un’autorità istituita da Dio.

2.     Quindi chi si oppone all’autorità resiste all’ordine di Dio; quelli che vi si oppongono riceveranno su di sé (una) condanna. Rifiutarsi di sottomettersi all’autorità costituita è un atto di ribellione che comporta la relativa condanna, e poiché l’autorità fa parte dell’ordine voluto da Dio, la ribellione è anche contro l’ordine divino. Queste parole sono state oggetto di abuso, specialmente quando sono state usate per giustificare la sottomissione alle imposizioni di governi totalitari. Dal contesto particolare di questo brano, come dal contesto generale di tutti gli scritti apostolici, risulta chiaro che lo Stato può chiedere ubbidienza solo nei limiti degli scopi per i quali è stato divinamente istituito. Non solo possiamo, ma dobbiamo invece opporci allo Stato quando pretende per sé la fedeltà dovuta a Dio solo. L’ubbidienza che il cristiano deve allo Stato non è mai assoluta. Ne consegue che il credente vive sempre in una tensione tra due richieste di fedeltà che rivaleggiano tra loro; in certe circostanze la disubbidienza a un ordine dello Stato può essere non solo un diritto, ma anche un dovere. Questo è l’insegnamento ricevuto fin da quando gli apostoli dichiararono che dovevano ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 5:29).

3.    Infatti i magistrati non fanno paura all’opera buona ma alla cattiva: ora, vuoi non temere l’autorità? Fai il bene e avrai lode da essa… Questo versetto, e quello che segue, sono un rompicapo. La difficoltà consiste nel fatto che   Paolo sembra non prendere in considerazione la possibilità di un governo iniquo. Probabilmente l’apostolo ritiene che, consapevolmente o inconsapevolmente, volontariamente o involontariamente, in un modo o nell’altro, l’autorità approverà il bene e punirà il male. Se il credente ubbidisce all’evangelo può essere certo che l’autorità l’approverà. Essa potrebbe anche pensare di punirlo ma, allora, la progettata punizione si trasformerebbe in lode. Ma se agisce male l’autorità, deve punirlo.

4.    … infatti (essa) è serva
dia¢kono¢j di Dio per il tuo bene. Invece, se fai il male, temi. Infatti non senza ragione porta la spada: infatti è serva di Dio e punitrice nell’ira a chi fa il male. Il motivo per cui la persona in autorità non può fare altro che lodare il bene e punire il male, è che questa – che lo sappia o no, volontariamente o involontariamente – è un servitore di Dio, gli scopi che persegue non sono quelli propri ma quelli di Dio. L’autorità è una ministra (diacono) di Dio per il bene del credente. Se la persona in autorità è un governante giusto, egli aiuta il credente per il bene che Dio ha in mente per lui, verso la salvezza, incoraggiandolo a fare il bene e scoraggiandolo dal fare il male. L’autorità civile è anche servitrice di Dio nella misura in cui è esecutrice della punizione d’ira per chi fa il male. La menzione della spada deve essere intesa come un riferimento alla disponibilità di un potere militare (o di polizia), piuttosto che al potere della pena capitale, e al fatto che si trova nella posizione di reprimere la resistenza.

5.    Perciò necessita stare sottomessi, non solo a causa del castigo, ma anche a causa della coscienza (
sunei¢dhsij). Abbiamo già incontrato questo termine (2,15 e 9,1); qui, tuttavia, più che in senso di “giudice morale” la parola indica la “convinzione” o “consapevolezza” che la persona in autorità, consapevolmente o inconsapevolmente, volontariamente o involontariamente, è un ministro di Dio. Il non credente ignora l’esistenza di questo rapporto che lega lo Stato a Dio e a Cristo.

6.    per questo, infatti, pagate anche imposte: questa frase suona quasi come giustificazione per il pagamento di imposte e tributi ad autorità o governi non credenti: per i credenti esiste la convinzione che ciò sia giusto infatti sono ministri (
leitourgoi£ ) di Dio, essendo assidui proprio a questo . Il termine, usato genericamente per indicare un servizio, una funzione, a favore del popolo, nel N.T. è prevalentemente usato per indicare un servizio religioso. In questo caso si può vedere un’unione dei due campi d’azione: la persona in autorità, adempiendo la sua funzione al servizio e per il bene del popolo, contemporaneamente svolge un servizio religioso, poiché ciò è voluto da Dio.

7.   Rendete a tutti ciò che è dovuto (loro): l’imposta a chi (è dovuta) l’imposta, il tributo a chi il tributo, il timore a chi il timore, l’onore a chi l’onore. È il riassunto di questa sezione, in cui Paolo riecheggia le parole di Gesù (Mc 12,17, Mt 22,21, Lc 20,21). In entrambi i casi è ribadito il concetto dell’obbligo di pagare o rendere ciò che è un debito dovuto. È chiaro, tuttavia, anche dalla sezione che segue, che il dovere di ubbidienza alle autorità terrene è temporaneo, limitato a questo periodo di “notte” (v.12).

V – AMORE E DOVERE (13, 8-10)

    Dopo aver trattato della responsabilità politica del credente, Paolo riprende il discorso affrontato nel capitolo 12 riassumendo la sua specifica esortazione etica nel comandamento dell’amore, che comprende tutta l’osservanza della legge. L’unico “debito” del credente sia l’amore. Saldando questo debito si adempie la legge. Paolo si trova quindi perfettamente in linea con gli insegnamenti di Gesù il quale, interrogato a proposito, aveva affermato, citando e accostando Dt 6,5 e Lv. 19,18 (amore per Dio e amore per il prossimo), che da questi due comandamenti dipendono tutta la legge ed i profeti (Mt 22, 37-40, Mc 12, 28-34). Questi comandamenti ci proibiscono di fare del male in qualsiasi modo al nostro prossimo; l’amore non danneggia mai l’altro, quindi adempie la legge.

8.  Non siate debitori a nessuno se non di amarvi gli uni gli altri. Infatti chi ama l’altro ha portato a compimento la legge. Qui si ripete, in forma negativa, l’esortazione positiva del v. 7 rendete a tutti ciò che è dovuto, e in questo modo si passa ad una nuova sezione che riprende il discorso lasciato incompleto al 12,21. I credenti, avendo reso a ciascuno il dovuto, non devono avere alcun debito verso nessuno. Unico debito sia l’amore. L’amore è dovuto a tutti, in particolare fra i credenti ( gli uni gli altri ), reciprocamente, anche se non si ha l’impressione di questa reciprocità. Non si tratta, comunque, di un debito che si possa saldare una volta per tutte, ma è un debito sempre aperto, senza fine e che diventa sempre più alto, man mano che la fede cresce e matura. Per questo motivo Paolo, come Gesù, può affermare che l’amore è l’adempimento della legge divina, creata e voluta da Dio per il bene del Suo popolo e di tutta l’umanità.

9.  infatti: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare, e qualsiasi altro comandamento è ricapitolato in questa parola: “amerai il prossimo tuo come te stesso”. A conferma di quanto asserito nel versetto precedente, Paolo scende nei dettagli per dimostrare che tutti i comandamenti della “seconda tavola”, quelli che regolano i rapporti fra le persone, si riassumono nell’unico comandamento dell’amore verso il prossimo. La misura di questo amore è data dall’amore di se stessi. Dicendo “qualsiasi altro comandamento” l’apostolo li comprende tutti e dimostra che quelli citati sono solo un esempio e non l’elenco completo. Alcune versioni, compresa la Diodati, inseriscono anche “non dire falsa testimonianza” sulla base di alcuni testimoni testuali (Sinaitico,
P, Y ) e alcuni altri. La più recente critica testuale, tuttavia, non ritiene sufficientemente giustificata tale inserzione, che tuttavia non altera il significato del testo.

10.  L’amore per il prossimo non produce male. L’amore dunque (è) la pienezza
plh¢rwma della legge. Poiché i comandamenti sono espressi in forma negativa, Paolo spiega che l’amore non opera alcun male sottolineandone la portata positiva, e la conclusione, ovvia, è che nell’amore verso Dio e verso il prossimo, si compendia lo spirito stesso della legge.

VI – VITA CRISTIANA IN TEMPI DIFFICILI (13, 11-14)

    Per capire il valore che le esortazioni morali assumono nella storia della salvezza, dobbiamo pensare che i loro momenti supremi, come l’uniformarsi a Cristo, si possono dedurre direttamente da quanto dichiarato all’inizio del capitolo 12. Per Paolo anche il giudizio ed il ritorno di Cristo (parusia) che lo precede sono momenti, conclusivi, della storia della salvezza, perciò è perfettamente coerente quando dall’etica dello Stato passa a parlare della parusia. La parusia, cioè l’attesa del ritorno del Signore ha caratterizzato la comunità cristiana delle origini. I tempi erano particolarmente critici e Paolo non si faceva illusioni sul protrarsi dell’opportunità di predicare l’evangelo senza impedimenti. Egli sa, tuttavia, che il controllo delle forze nascoste delle tenebre e del disordine può venir ritirato da un momento all’altro, perciò i credenti devono stare all’erta. Ma questa prospettiva deve servire da incoraggiamento: Gesù aveva infatti detto: …quando queste cose cominceranno ad avvenire, rialzatevi, levate il capo, perché la vostra redenzione è vicina (Lc 21,28). Paolo non poteva conoscere i tempi e i momenti adatti, che il Padre ha stabilito di sua propria autorità (At 1,7), ma le parole di Gesù: …chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato (Mc 13,13). Probabilmente all’epoca della redazione dell’epistola non si prevedevano particolari situazioni di difficoltà, ma più il tempo passava e più l’attesa si faceva spasmodica nella consapevolezza dell’avvicinarsi del “giorno del Signore”. In tale attesa i figli della luce devono vivere preparati per il giorno della prova ripudiando le “opere delle tenebre”, e facendo in modo di “rivestirsi di Cristo”.

11.  e questo conoscendo il tempo, poiché ormai (è) ora per voi di essere svegliati dal sonno: adesso infatti la salvezza (è) a noi più vicina di quando siamo diventati credenti. Considerando il tempo trascorso dalla morte e resurrezione di Cristo e dalla sua promessa di ritorno, i credenti devono ritenere sempre più imminente questo ritorno. Sono passati circa 20 secoli da allora e, contrariamente a ogni logica e nonostante i numerosi “segni”, i cristiani sembrano essersi adagiati considerando che l’attesa sarà più lunga di quanto si possa immaginare, e sembrano addormentati. Paolo diceva, già nel primo secolo e.c., che era giunta l’ora di svegliarsi da questo sonno, e certamente la salvezza, intesa come il tempo del compimento di tutte le promesse divine e la conclusione di tutte le cose, è sicuramente più vicina di quando siamo venuti a conoscenza dell’evangelo e vi abbiamo creduto. Non sappiamo con precisione quale fosse il pensiero dell’apostolo in merito al “tempo” escatologico, ma le sue considerazioni sono quanto mai attuali con il trascorrere del tempo.

12.  La notte è avanzata e il giorno si è avvicinato. Gettiamo via, dunque, le opere delle tenebre, indossiamo invece le armi della luce. L’antitesi tra luce e tenebre ricorre spesso nelle Scritture, qui la “notte” indica chiaramente il tempo presente e il “giorno” l’età futura della manifestazione del regno di Dio. Abbiamo una chiara indicazione dell’insistenza del N.T. sulla vicinanza della fine. Che significato dobbiamo dare a questa insistenza? La chiesa primitiva era convinta che Gesù ed il suo ministerio aveva dato inizio agli “ultimi giorni”, alla fine dai tempi. Qualunque cosa la storia successiva poteva aggiungere , sia che fosse durata per pochi o per molti anni, doveva avere la natura di un epilogo, un’aggiunta al termine della conclusione del capitolo finale, un intervallo reso disponibile dalla pazienza divina per dare tempo agli esseri umani di ascoltare l’evangelo e prendere una decisione di fede. Per quanto lungo possa essere questo intervallo – i tempi di Dio non sono misurabili con strumenti umani – il tempo che rimane è quello in cui il compito dei credenti è di attendere la seconda venuta di Cristo con mente “sveglia”, allertata, con un corretto senso d’urgenza e con impegno attivo e risoluto nei compiti della fede, dell’ubbidienza e dell’amore.  Nella seconda parte del versetto l’apostolo esorta a “gettare via”, cioè a spogliarsi delle opere della notte, chiaro riferimento a tutto ciò che non è mostrabile alla luce del giorno, e ad indossare le “armi” della luce. La parola greca
oÀpla è la stessa usata in 6,13, tradotta con “strumenti” e che qui assume il significato specifico di “armatura” comprendente sia le armi difensive sia quelle offensive, il cui significato sarà meglio chiarito al versetto 14.

13.  Camminiamo onestamente come di giorno, non con bagordi e ubriachezze, non nell’immoralità e lussurie, non in discordia e invidia. Parole piuttosto enigmatiche, che possono essere intese in modi diversi:  a) possono essere riferite alla formale rispettabilità del comportamento diurno, in contrapposizione a quello notturno in cui si dà sfogo alle dissolutezze;  b) possono essere intese in riferimento all’età futura, come se quel giorno fosse già presente anche se non è ancora arrivato;  c) oppure può intendersi l’espressione “giorno” come una metafora indicante lo stato di illuminazione e di rigenerazione in cui il credente si trova attualmente, in contrapposizione alla situazione dei non credenti. La terza ipotesi s’inserisce più scorrevolmente nel contesto ed è in linea con la forma generale dell’esortazione paolina. I cristiani devono comportarsi onorevolmente come coloro che già appartengono al nuovo ordine divino e le cui vite sono già illuminate dal bagliore del giorno che viene. Paolo, a maggior chiarimento, inserisce alcuni esempi di “opere delle tenebre” che devono essere evitate.

14. ma indossate il Signore Gesù Cristo e non curatevi della carne e dei suoi desideri. Indossare o rivestirsi di Cristo è un’espressione cara a Paolo, che la usa in Ga 3,27 in rapporto al battesimo. Questa è l’armatura da indossare. In questo particolare contesto, rivestirsi di Cristo significa abbracciare sempre di nuovo, in fede e in fiducia, in lealtà e ubbidienza, colui al quale già apparteniamo. La “carne” (vedasi cap. 7) indica l’intera natura umana nella sua situazione di caduta. I credenti redenti in Cristo, dal momento che non camminano più secondo la carne ma secondo lo spirito, non devono preoccuparsi di soddisfare i desideri della carne.