E S E G E S I
Capitolo 13°
IV–
IL CRISTIANO E LO STATO
( 13, 1-7
)
Alcuni studiosi hanno
messo in evidenza la mancanza di collegamento fra questa sezione e il
suo contesto immediato. Essa interromperebbe la continuità fra 12,
21 e 13, 8 e presenterebbe alcune incongruenze con il contesto; alcune
di queste incongruenze potrebbero essere: (1) l’assenza di qualsiasi riferimento
escatologico e quanto, invece, viene scritto in 12,2 e 13,1-14; (2) il
carattere non cristologico di questa sezione, e (3) il contrasto fra l’idea
di Stato, ed il suo uso della forza, e il tema dell’amore contenuto nel capitolo
12 (12, 9-21).
Ma se consideriamo come i rapporti della comunità
cristiana con il potere, specialmente a Roma, siano diventati critici
nel decennio successivo alla compilazione di questa lettera, non possiamo
non riconoscere l’elemento profetico contenuto in questa pericope. Finché
la comunità era composta massimamente di Ebrei, pur non mancando
i problemi, la situazione non era così delicata, come invece sarebbe
diventata in seguito.
Gli Ebrei godevano, in tutto l’impero romano,
di particolari privilegi e “dispense”. La loro religione era riconosciuta
come religio licita, e le varie pratiche religiose erano ratificate: la
legge del Sabato e quella sui cibi e la proibizione delle immagini scolpite.
Ai governatori della Giudea era vietato far entrare gli stendardi militari
con le immagini imperiali dentro le mura della città santa di Gerusalemme.
Roma riconosceva la legge giudaica che vietava ai Gentili l’ingresso nei
cortili interni del Tempio, fino al punto di ratificare la conseguente
condanna a morte anche quando il colpevole era un cittadino romano.
Nei primi decenni dopo la morte di Cristo la
legge romana tendeva a considerare i cristiani, quando capitava di prendere
atto della loro esistenza, come una delle tante sette o correnti del
Giudaismo. Nel 51 e.c., quando i Giudei di Corinto accusarono Paolo,
di fronte al nuovo proconsole Gallione, di propagare una religione illegale,
Gallione non dette molto peso all’accusa (At 18, 12ss) ritenendo che la
disputa verteva sull’interpretazione di alcune parti della legge giudaica,
e lasciò libero l’apostolo.
La decisione di Gallione costituì un
importante precedente di cui Paolo si avvalse in diverse occasioni e
probabilmente influì sulla sua valutazione positiva nei confronti
dei magistrati romani.
In ogni caso il cristianesimo, nelle sue relazioni
con lo Stato romano e le sue leggi, partiva fortemente handiccapato:
il suo fondatore era stato condannato a morte da una sentenza emessa da
un magistrato romano in base all’accusa di essere alla guida di un movimento
che rivendicava a sé le prerogative sovrane di Cesare. Molti anni
più tardi, Tacito scriveva dei cristiani: “
Quel nome essi derivano da Cristo, che sotto il regno di Tiberio fu mandato
a morte dal procuratore Ponzio Pilato” (Tacito, Annali XV, 44).
A Tessalonica gli oppositori di Paolo lo accusarono di fronte ai magistrati
della città dicendo di lui e dei suoi collaboratori:
questi uomini, che hanno messo sottosopra il mondo, sono venuti anche
qui…essi agiscono contro gli statuti di Cesare dicendo che c’è un
altro re, Gesù (Atti 17, 6.7). Anche a Roma vi furono
dei tumulti circa nello stesso periodo (49 e.c.) che indussero all’espulsione
dei giudei dalla città, tumulti, secondo Svetonio, istigati da
“ Cresto ”. Si tratta, molto verosimilmente,
della reazione dei giudei alla penetrazione del cristianesimo nelle loro
comunità. Perfino i migliori amici di Paolo non potevano fare a meno
di notare che il suo arrivo in una città significava, quasi sempre,
la fine della pace e prima o poi le autorità si vedevano costrette
ad intervenire.
Per questi motivi era necessario che i cristiani
curassero in modo particolare il loro comportamento pubblico per non
offrire alcun appiglio ai calunniatori, dando il dovuto onore e la dovuta
ubbidienza alle autorità. Del resto Gesù stesso aveva stabilito
un principio a questo riguardo quando, interrogato se era lecito, per
un giudeo, pagare il tributo a Cesare, rispose: rendete a Cesare quel
che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio (Mc 12, 17) separando,
così, le due sfere, temporale e spirituale, e indicando come i
doveri del credente verso Dio non dispensano da quelli verso lo Stato.
Paolo pone la questione al più alto
livello. Dio è la fonte di qualsiasi autorità, e coloro
che la esercitano sulla terra lo fanno per delega di Dio. Il governo
umano è un ordinamento divino e i poteri di coercizione che esercita
gli sono stati affidati da Dio per la repressione del crimine e la promozione
della giustizia. I cristiani, perciò, più di chiunque altro,
devono ubbidire alle leggi, pagare le tasse, rispettare le autorità.
Anche questo è un modo di servire Dio.
Ma che fare se le autorità sono ingiuste?
Che fare se Cesare reclama anche ciò che è di Dio? Questo
problema non è trattato da Paolo, problema che diventerà
scottante per le generazioni future, specialmente a Roma. Cesare poteva
oltrepassare i limiti della giurisdizione divinamente assegnatagli e arrivare
a pretendere per sé onori divini e muovere guerra ai santi. In tal
caso, anche se Paolo non lo dice, ci dobbiamo comportare come Pietro che
rispose ai membri del Sinedrio che gli vietavano di predicare nel nome di
Cristo: giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi
anziché a Dio (At 4,19) bisogna ubbidire a Dio anziché agli
uomini (At 5,29). Quando ciò accade, il “ministro
di Dio ” si trasforma nella “bestia che sale
dall’abisso ” descritta in Apocalisse. Paolo stesso previde uno
sviluppo in quella direzione quando il freno della legge fosse stato tolto
(2 Te 2,6ss).
Il contesto
Il carattere parenetico di questa pericope
c’induce a ritenere che questo insegnamento ha due significati.
Il contesto immediato (12, 14ss) sottolinea
l’esigenza dell’amore. La specificità cristiana d’amare deve essere
mantenuta anche davanti ai persecutori; l’ubbidienza alle autorità
contiene il carattere essenziale del cristianesimo: l’amore. Paolo considera
questa sottomissione come un elemento specifico del culto cristiano nella
profanità del mondo.
In secondo luogo, si vuol mettere in evidenza
che l’ora è un’ora solenne perché il coronamento della
vita nella salvezza è ora più vicino
a noi (13,11) e questo sottofondo non deve essere perduto di vista,
altrimenti si rischia di passare da una sottomissione senza condizioni
a una critica di principio, da un’approvazione dello Stato a un’opposizione
assoluta. Solo tenendo presente il contesto si può discernere un
insegnamento sufficientemente equilibrato. Se il cristiano conosce la
nuova vita in Cristo, se è libero per servirLo secondo la volontà
di Dio, non per questo è esonerato dalla necessità di accogliere
la sua vocazione in un mondo reale, ed essere quindi anche cittadino del
mondo presente. Il servizio che Dio richiede dal credente in questo mondo,
non è posto al di fuori delle strutture che esistono nella società,
ma al suo interno.
13
.
1 .
Ogni persona sia sottomessa alle autorità á superiori
u¥rerexou¢saij Ogni persona
(
yuxh£ ) ,
cioè ogni credente, particolarmente ogni credente in Roma. La parola
greca e©cousi¢a
, qui tradotta con “autorità”, ha diversi significati: libertà,
facoltà, diritto, capacità (di fare qualcosa), potestà,
potere, autorità. Nel N.T. ricorre 102 volte, di cui 21 in Apocalisse
e 16 in Luca, ed abbraccia un’ampia gamma di significati (il potere
di Dio, di Gesù, della comunità, le potenze sovraterrene,
il potere di comandare, l’ambito del dominio). Chi sono, secondo Paolo,
le autorità superiori? Alcuni studiosi, in passato, hanno suggerito
il possibile riferimento a potenze sia angeliche sia umane (O.Cullmann),
ma i moderni rigettano questa interpretazione. È chiaro che si tratta
delle autorità civili in quanto tali. Il significato di “autorità
superiori” ( u¥per-e©cou¢saij
) dimostra che l’apostolo si riferisce a coloro che hanno autorità
sui credenti cui la lettera è indirizzata. L’espressione più
interessante è “sia sottomesso”. Spesso si ritiene che la parola
greca u¥potasse¢sqw
significhi ubbidire, ma il verbo greco qui impiegato non è
quello normalmente utilizzato per esprimere l’ubbidienza: esistono, infatti,
altri tre verbi, in greco, e tutti sono presenti nel N.T., che hanno questo
significato. Ciò che Paolo sta chiedendo non è, quindi, un’ubbidienza
acritica a qualunque comando l’autorità civile possa decidere di
emanare, ma piuttosto il riconoscimento che l’autorità fa parte di
un ordinamento, voluto da Dio, che esercita l’autorità ultima. Paolo
ha in mente uno Stato autoritario, in cui la “sottomissione” dei credenti
all’autorità è limitata al rispetto e all’ubbidienza, nella
misura in cui questa non entra in conflitto con le leggi divine. Un elemento
importante, che non è presente in questo testo, lo troviamo in
1 Ti 2 quando l’apostolo invita i credenti a pregare continuamente per
le autorità costituite. Infatti non
c’è autorità se non da Dio . Queste parole esprimono
una verità già familiare agli Ebrei (2 Sm 12,8; Gr 27,5s;
Dn 2,21.37; 4,17.25 ecc.). E’ Dio che innalza e abbassa i governanti poiché
nessuno esercita il potere se Dio non l’ha chiamato a questa funzione per
un tempo determinato; le (autorità) esistenti
sono state ordinate da Dio. Le autorità politiche ricevono,
in ultima analisi, il loro mandato, il loro potere e la loro dignità
da Dio. Ciò non significa che lo Stato è “divino”, ma semplicemente
che è “ordinato” da Dio. In questo caso si tratta di una dichiarazione
specifica sulle autorità dell’epoca con le quali Paolo e i credenti
di Roma hanno a che fare. Per quanto il governo imperiale fosse idolatra,
doveva comunque essere riconosciuto come un’autorità istituita da
Dio.
2.
Quindi chi si oppone all’autorità resiste
all’ordine di Dio; quelli che vi si oppongono riceveranno su di sé
(una) condanna. Rifiutarsi di sottomettersi all’autorità costituita
è un atto di ribellione che comporta la relativa condanna, e poiché
l’autorità fa parte dell’ordine voluto da Dio, la ribellione è
anche contro l’ordine divino. Queste parole sono state oggetto di abuso,
specialmente quando sono state usate per giustificare la sottomissione alle
imposizioni di governi totalitari. Dal contesto particolare di questo brano,
come dal contesto generale di tutti gli scritti apostolici, risulta chiaro
che lo Stato può chiedere ubbidienza solo nei limiti degli scopi
per i quali è stato divinamente istituito. Non solo possiamo, ma
dobbiamo invece opporci allo Stato quando pretende per sé la fedeltà
dovuta a Dio solo. L’ubbidienza che il cristiano deve allo Stato non è
mai assoluta. Ne consegue che il credente vive sempre in una tensione tra
due richieste di fedeltà che rivaleggiano tra loro; in certe circostanze
la disubbidienza a un ordine dello Stato può essere non solo un
diritto, ma anche un dovere. Questo è l’insegnamento ricevuto fin
da quando gli apostoli dichiararono che dovevano
ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 5:29).
3.
Infatti i magistrati non fanno paura all’opera buona ma alla cattiva:
ora, vuoi non temere l’autorità? Fai il bene e avrai lode da essa…
Questo versetto, e quello che segue, sono un rompicapo. La difficoltà
consiste nel fatto che Paolo sembra non prendere in considerazione
la possibilità di un governo iniquo. Probabilmente l’apostolo
ritiene che, consapevolmente o inconsapevolmente, volontariamente o involontariamente,
in un modo o nell’altro, l’autorità approverà il bene e
punirà il male. Se il credente ubbidisce all’evangelo può
essere certo che l’autorità l’approverà. Essa potrebbe anche
pensare di punirlo ma, allora, la progettata punizione si trasformerebbe
in lode. Ma se agisce male l’autorità, deve punirlo.
4. …
infatti (essa) è serva
dia¢kono¢j
di Dio per il tuo bene. Invece, se fai il male, temi. Infatti non senza
ragione porta la spada: infatti è serva di Dio e punitrice nell’ira
a chi fa il male. Il motivo per cui la persona in autorità
non può fare altro che lodare il bene e punire il male, è
che questa – che lo sappia o no, volontariamente o involontariamente –
è un servitore di Dio, gli scopi che persegue non sono quelli propri
ma quelli di Dio. L’autorità è una ministra (diacono) di
Dio per il bene del credente. Se la persona in autorità è
un governante giusto, egli aiuta il credente per il bene che Dio ha in
mente per lui, verso la salvezza, incoraggiandolo a fare il bene e scoraggiandolo
dal fare il male. L’autorità civile è anche servitrice di
Dio nella misura in cui è esecutrice della
punizione d’ira per chi fa il male. La menzione della spada deve
essere intesa come un riferimento alla disponibilità di un potere
militare (o di polizia), piuttosto che al potere della pena capitale, e al
fatto che si trova nella posizione di reprimere la resistenza.
5.
Perciò necessita stare sottomessi, non solo
a causa del castigo, ma anche a causa della coscienza (
sunei¢dhsij). Abbiamo già incontrato
questo termine (2,15 e 9,1); qui, tuttavia, più che in senso
di “giudice morale” la parola indica la “convinzione” o “consapevolezza”
che la persona in autorità, consapevolmente o inconsapevolmente,
volontariamente o involontariamente, è un ministro di Dio. Il non
credente ignora l’esistenza di questo rapporto che lega lo Stato a Dio e
a Cristo.
6.
per questo, infatti, pagate anche imposte:
questa frase suona quasi come giustificazione per il pagamento di
imposte e tributi ad autorità o governi non credenti: per i credenti
esiste la convinzione che ciò sia giusto
infatti sono ministri (
leitourgoi£ )
di Dio, essendo assidui proprio a questo . Il termine, usato
genericamente per indicare un servizio, una funzione, a favore del popolo,
nel N.T. è prevalentemente usato per indicare un servizio religioso.
In questo caso si può vedere un’unione dei due campi d’azione:
la persona in autorità, adempiendo la sua funzione al servizio
e per il bene del popolo, contemporaneamente svolge un servizio religioso,
poiché ciò è voluto da Dio.
7.
Rendete a tutti ciò che è dovuto (loro): l’imposta
a chi (è dovuta) l’imposta, il tributo a chi il tributo, il timore
a chi il timore, l’onore a chi l’onore. È il riassunto di
questa sezione, in cui Paolo riecheggia le parole di Gesù (Mc 12,17,
Mt 22,21, Lc 20,21). In entrambi i casi è ribadito il concetto
dell’obbligo di pagare o rendere ciò che è un debito dovuto.
È chiaro, tuttavia, anche dalla sezione che segue, che il dovere
di ubbidienza alle autorità terrene è temporaneo, limitato
a questo periodo di “notte” (v.12).
V – AMORE E DOVERE (13, 8-10)
Dopo aver trattato della responsabilità
politica del credente, Paolo riprende il discorso affrontato nel capitolo
12 riassumendo la sua specifica esortazione etica nel comandamento dell’amore,
che comprende tutta l’osservanza della legge. L’unico “debito” del credente
sia l’amore. Saldando questo debito si adempie la legge. Paolo si trova
quindi perfettamente in linea con gli insegnamenti di Gesù il
quale, interrogato a proposito, aveva affermato, citando e accostando
Dt 6,5 e Lv. 19,18 (amore per Dio e amore per il prossimo), che
da questi due comandamenti dipendono tutta la legge ed i profeti
(Mt 22, 37-40, Mc 12, 28-34). Questi comandamenti ci proibiscono di
fare del male in qualsiasi modo al nostro prossimo; l’amore non danneggia
mai l’altro, quindi adempie la legge.
8.
Non siate debitori a nessuno se non di amarvi gli uni gli altri.
Infatti chi ama l’altro ha portato a compimento la legge. Qui
si ripete, in forma negativa, l’esortazione positiva del v. 7
rendete a tutti ciò che è dovuto, e in questo
modo si passa ad una nuova sezione che riprende il discorso lasciato
incompleto al 12,21. I credenti, avendo reso a ciascuno il dovuto, non
devono avere alcun debito verso nessuno. Unico debito sia l’amore. L’amore
è dovuto a tutti, in particolare fra i credenti (
gli uni gli altri ), reciprocamente, anche se non si ha l’impressione
di questa reciprocità. Non si tratta, comunque, di un debito che
si possa saldare una volta per tutte, ma è un debito sempre aperto,
senza fine e che diventa sempre più alto, man mano che la fede cresce
e matura. Per questo motivo Paolo, come Gesù, può affermare
che l’amore è l’adempimento della legge divina, creata e voluta da
Dio per il bene del Suo popolo e di tutta l’umanità.
9.
infatti: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non
desiderare, e qualsiasi altro comandamento è ricapitolato in
questa parola: “amerai il prossimo tuo come te stesso”. A conferma
di quanto asserito nel versetto precedente, Paolo scende nei dettagli
per dimostrare che tutti i comandamenti della “seconda tavola”, quelli
che regolano i rapporti fra le persone, si riassumono nell’unico comandamento
dell’amore verso il prossimo. La misura di questo amore è data
dall’amore di se stessi. Dicendo “qualsiasi altro comandamento” l’apostolo
li comprende tutti e dimostra che quelli citati sono solo un esempio e
non l’elenco completo. Alcune versioni, compresa la Diodati, inseriscono
anche “non dire falsa testimonianza” sulla base di alcuni testimoni testuali
(Sinaitico, P,
Y ) e alcuni altri.
La più recente critica testuale, tuttavia, non ritiene sufficientemente
giustificata tale inserzione, che tuttavia non altera il significato del
testo.
10.
L’amore per il prossimo non produce male. L’amore dunque (è)
la pienezza plh¢rwma
della legge. Poiché i comandamenti sono espressi in
forma negativa, Paolo spiega che l’amore non opera alcun male sottolineandone
la portata positiva, e la conclusione, ovvia, è che nell’amore verso
Dio e verso il prossimo, si compendia lo spirito stesso della legge.
VI – VITA CRISTIANA IN TEMPI DIFFICILI
(13, 11-14)
Per capire il valore che le esortazioni morali
assumono nella storia della salvezza, dobbiamo pensare che i loro momenti
supremi, come l’uniformarsi a Cristo, si possono dedurre direttamente
da quanto dichiarato all’inizio del capitolo 12. Per Paolo anche il giudizio
ed il ritorno di Cristo (parusia) che lo precede sono momenti, conclusivi,
della storia della salvezza, perciò è perfettamente coerente
quando dall’etica dello Stato passa a parlare della parusia. La parusia,
cioè l’attesa del ritorno del Signore ha caratterizzato la comunità
cristiana delle origini. I tempi erano particolarmente critici e Paolo
non si faceva illusioni sul protrarsi dell’opportunità di predicare
l’evangelo senza impedimenti. Egli sa, tuttavia, che il controllo delle
forze nascoste delle tenebre e del disordine può venir ritirato
da un momento all’altro, perciò i credenti devono stare all’erta.
Ma questa prospettiva deve servire da incoraggiamento: Gesù aveva
infatti detto: …quando queste cose cominceranno ad avvenire, rialzatevi,
levate il capo, perché la vostra redenzione è vicina (Lc
21,28). Paolo non poteva conoscere i tempi e i momenti adatti, che il Padre
ha stabilito di sua propria autorità (At 1,7), ma le parole di Gesù:
…chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato (Mc 13,13).
Probabilmente all’epoca della redazione dell’epistola non si prevedevano
particolari situazioni di difficoltà, ma più il tempo passava
e più l’attesa si faceva spasmodica nella consapevolezza dell’avvicinarsi
del “giorno del Signore”. In tale attesa i figli della luce devono vivere
preparati per il giorno della prova ripudiando le “opere delle tenebre”,
e facendo in modo di “rivestirsi di Cristo”.
11.
e questo conoscendo il tempo, poiché ormai (è) ora
per voi di essere svegliati dal sonno: adesso infatti la salvezza (è)
a noi più vicina di quando siamo diventati credenti. Considerando
il tempo trascorso dalla morte e resurrezione di Cristo e dalla sua promessa
di ritorno, i credenti devono ritenere sempre più imminente questo
ritorno. Sono passati circa 20 secoli da allora e, contrariamente a ogni
logica e nonostante i numerosi “segni”, i cristiani sembrano essersi adagiati
considerando che l’attesa sarà più lunga di quanto si possa
immaginare, e sembrano addormentati. Paolo diceva, già nel primo
secolo e.c., che era giunta l’ora di svegliarsi da questo sonno, e certamente
la salvezza, intesa come il tempo del compimento di tutte le promesse divine
e la conclusione di tutte le cose, è sicuramente più vicina
di quando siamo venuti a conoscenza dell’evangelo e vi abbiamo creduto.
Non sappiamo con precisione quale fosse il pensiero dell’apostolo in merito
al “tempo” escatologico, ma le sue considerazioni sono quanto mai attuali
con il trascorrere del tempo.
12.
La notte è avanzata e il giorno si è avvicinato. Gettiamo
via, dunque, le opere delle tenebre, indossiamo invece le armi della
luce. L’antitesi tra luce e tenebre ricorre spesso nelle Scritture,
qui la “notte” indica chiaramente il tempo presente e il “giorno” l’età
futura della manifestazione del regno di Dio. Abbiamo una chiara indicazione
dell’insistenza del N.T. sulla vicinanza della fine. Che significato dobbiamo
dare a questa insistenza? La chiesa primitiva era convinta che Gesù
ed il suo ministerio aveva dato inizio agli “ultimi giorni”, alla fine
dai tempi. Qualunque cosa la storia successiva poteva aggiungere , sia
che fosse durata per pochi o per molti anni, doveva avere la natura di
un epilogo, un’aggiunta al termine della conclusione del capitolo finale,
un intervallo reso disponibile dalla pazienza divina per dare tempo agli
esseri umani di ascoltare l’evangelo e prendere una decisione di fede. Per
quanto lungo possa essere questo intervallo – i tempi di Dio non sono misurabili
con strumenti umani – il tempo che rimane è quello in cui il compito
dei credenti è di attendere la seconda venuta di Cristo con mente
“sveglia”, allertata, con un corretto senso d’urgenza e con impegno attivo
e risoluto nei compiti della fede, dell’ubbidienza e dell’amore. Nella
seconda parte del versetto l’apostolo esorta a “gettare via”, cioè
a spogliarsi delle opere della notte, chiaro riferimento a tutto ciò
che non è mostrabile alla luce del giorno, e ad indossare le “armi”
della luce. La parola greca oÀpla
è la stessa usata in 6,13, tradotta con “strumenti” e che
qui assume il significato specifico di “armatura” comprendente sia le
armi difensive sia quelle offensive, il cui significato sarà meglio
chiarito al versetto 14.
13.
Camminiamo onestamente come di giorno, non con bagordi e ubriachezze,
non nell’immoralità e lussurie, non in discordia e invidia.
Parole piuttosto enigmatiche, che possono essere intese in modi diversi:
a) possono essere riferite alla formale rispettabilità del comportamento
diurno, in contrapposizione a quello notturno in cui si dà sfogo
alle dissolutezze; b) possono essere intese in riferimento all’età
futura, come se quel giorno fosse già presente anche se non è
ancora arrivato; c) oppure può intendersi l’espressione “giorno”
come una metafora indicante lo stato di illuminazione e di rigenerazione
in cui il credente si trova attualmente, in contrapposizione alla situazione
dei non credenti. La terza ipotesi s’inserisce più scorrevolmente
nel contesto ed è in linea con la forma generale dell’esortazione
paolina. I cristiani devono comportarsi onorevolmente come coloro che già
appartengono al nuovo ordine divino e le cui vite sono già illuminate
dal bagliore del giorno che viene. Paolo, a maggior chiarimento, inserisce
alcuni esempi di “opere delle tenebre” che devono essere evitate.
14.
ma indossate il Signore Gesù Cristo e non curatevi della carne
e dei suoi desideri. Indossare o rivestirsi di Cristo è un’espressione
cara a Paolo, che la usa in Ga 3,27 in rapporto al battesimo. Questa
è l’armatura da indossare. In questo particolare contesto, rivestirsi
di Cristo significa abbracciare sempre di nuovo, in fede e in fiducia,
in lealtà e ubbidienza, colui al quale già apparteniamo.
La “carne” (vedasi cap. 7) indica l’intera natura umana nella sua situazione
di caduta. I credenti redenti in Cristo, dal momento che non camminano
più secondo la carne ma secondo lo spirito, non devono preoccuparsi
di soddisfare i desideri della carne.