Sacerdozio....
e ministeri
di Fausto Salvoni

CAPITOLO SECONDO
CHIESA, LITURGIA E BIBBIA

Indice

1) Maggiore partecipazione di tutti i fedeli
2) Innovazioni per una partecipazione più attiva

a) Lingua parlata
b) Usi popolari
c) snellimento dei riti liturgici
3) Fissità liturgica
4) Cristo e Santi
a) Cristocentrismo
b) Come creare i nuovi santi?
c) Valore dei santi
5) Cristianesimo e tempio
a) Templi pagani e giudaici
b) Dalla casa alla basilica
c) Templi aristocratici e regali
d) Reazione monastica ed ereticale
e) Valutazione
6) Conclusione

La liturgia è comunione di animi, di orazioni, di voci, di agàpe, cioè di carità. Non basta l'assistenza passiva alla sua celebrazione, occorre una partecipazione. Il popolo deve considerare la celebrazione liturgica come una scuola, dove si ascolta e si impara; come un'azione sacra, promossa e guidata dal Sacerdote, alla quale anch'egli, moltitudine di cuori vivi e fedeli, concorre, rispondendo, offrendo, pregando e cantando (Paolo VI, 6 agosto 1975).

L'incontro con Dio è un atto squisitamente individuale:

Il punto di incontro essenziale con il mistero religioso, con Dio, è nella cella interiore del nostro intimo, è in quella attività personale, che chiamiamo orazione. E' in questa attitudine di ricerca, di ascoltazione, di supplica, di docilità che l'azione di Dio ci raggiunge normalmente, ci dà luce, ci dà il senso delle cose reali e invisibili del suo regno; ci fa buoni, ci fa forti, ci fa fedeli, ci fa come lui ci vuole. Da questo incontro scaturisce la brama di fare nostro, il più possibile, il comportamento di Cristo nel suo amore verso Dio e verso il prossimo, cosicché il credente possa giungere a ripetere con Paolo: « Non sono più io, che vivo, ma è il Cristo che vive in me » (Ga 2, 20; Rm 13, 8; Gc 1, 27).

Tuttavia è nei riti liturgici che la chiesa attua in modo particolare tale incontro, per cui occorre esaminare brevemente come il cattolicesimo postconciliare abbia cercato di modificare la sua liturgia per renderla più accessibile all'uomo moderno e per favorire l'incontro con Dio.

Un punto di ampio consenso è dato dalla presenza qualitativamente maggiore della Parola di Dio, il cui valore spirituale è immenso.

Massima è l'importanza della Sacra Scrittura nella celebrazione liturgica. Da essa infatti si attingono le letture da spiegare poi nell'omelia e i salmi da cantare; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici; da essa infine prendono significato le azioni e i gesti liturgici (Cost. Lit. n. 24).

Altri spunti, che possono essere più o meno accettabili, sono i seguenti:

1) Maggiore partecipazione di tutti i fedeli

Prima del Vaticano II nel culto liturgico i laici erano lasciati in disparte e ridotti al ruolo di spettatori puramente passivi. L'ufficio di leggere la Bibbia durante la Messa spettava al lettore, al suddiacono, al diacono oppure allo stesso prete funzionante. I laici non potevano pregare ufficialmente per gli altri né predicare al popolo. Il Codice di diritto canonico sanciva:

La facoltà di predicare va conferita soltanto ai sacerdoti, non agli altri chierici, salvo che per motivo ragionevole e secondo il giudizio dell'ordinario, caso per caso (can. 1342 n. 1).

E nello stesso canone al paragrafo 2 si legge: «A tutti i laici, anche se religiosi, è proibito predicare in chiesa». Il Corpus Iuris da tempo aveva emanato la medesima disposizione:

Siccome alcuni laici si permettono di predicare con il pericolo che tale vizio si introduca furtivamente sotto parvenza di virtù, noi, in considerazione del fatto che la funzione di maestro nella Chiesa di Dio è per così dire la più nobile, così ordiniamo: Dal momento che il Signore ha ordinato alcuni apostoli, altri profeti, altri ancora maestri, tu devi proibire a tutti i laici, a qualsiasi ordine religioso appartengano, l'arbitrio di predicare (Decret. II, caus XVI, q. 19 e Decret. Gregor. IX, lib. V, tit VII De Haereticis cap. XIV (Gregorio IX al vescovo di Milano).

Il Concilio Vaticano II, valorizzando il sacerdozio dei fedeli, ha affermato che nelle azioni liturgiche « Dio parla al suo popolo (con la Bibbia) e il popolo gli risponde con il canto e la preghiera » (CL 39). Anche i fedeli concorrono alla celebrazione eucaristica offrendosi al Padre celeste in unione con il Cristo (ivi 48).

Perciò oggi si permette ai laici (donne comprese in mancanza di un laico qualificato) di leggere i brani biblici della messa, ad eccezione del Vangelo sempre riservato al sacerdote. Gli uomini e le donne li possono leggere dall'altare, mentre poco fa le donne non potevano salire sul rialzo dove si eleva l'altare. Anche i laici possono pregare e rivolgere delle parole agli altri fedeli, presentando la propria esperienza, suggerendo i temi della preghiera e discutendo qualche brano della Bibbia. Ciò è conforme all'insegnamento biblico, perché al tempo apostolico tutti i credenti vi partecipavano attivamente; anzi lo sbaglio dei Corinzi stava nella brama eccessiva di voler primeggiare, parlare, agire, mentre oggi al contrario, vige un forte assenteismo dei fedeli nel culto, al quale bisogna porre riparo con una partecipazione sempre più attiva. L'odierno rinnovamento liturgico dei cattolici è sulla buona strada, anche se non ha ancora il coraggio di giungere alle conseguenze ultime: quello cioè di ridonare a tutti i fedeli quel potere sacerdotale che nel corso dei secoli si è andato restringendo ai vescovi, ai presbiteri e ai diacono, mentre nel tempo apostolico spettava indistintamente a tutti i battezzati in Cristo.

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2) Innovazioni per una partecipazione più attiva

Tra i cambiamenti liturgici tendenti a rendere più attivo il popolo, vanno ricordati i seguenti: uso della lingua parlata, adozione di usi folcloristici, snellimento dei riti liturgici.

a) Lingua parlata

Mentre in passato si esaltava il latino, perché nonostante fosse incomprensibile a molti, dimostrava l'unità della chiesa, che dovunque pregava con gli stessi riti e le identiche parole, ora al contrario si pone l'enfasi sulla necessità che il popolo comprenda quel che si dice e si compie. Occorre quindi che popolo canti e preghi nella lingua da lui parlata (CL 36). Non possiamo che fare nostra la parola di Paolo VI in quanto si accorda con quella dell'apostolo omonimo:

Vale di più l'intelligenza della preghiera, che non le vesti seriche e vetuste di cui essa s'è regolarmente vestita; vale di più la partecipazione del popolo, di questo popolo moderno saturo di parola chiara intelligibile, traducibile nella sua conversazione profana. Se il divo latino tenesse da noi segregata l'infanzia, la gioventù, il mondo del lavoro e degli affari, se fosse un diaframma opaco invece che un cristallo trasparente, noi, pescatori di anime, faremmo buon calcolo a conservargli l'esclusivo dominio della conversazione orante e religiosa? (Paolo VI, Discorso del 26-11-69; Oss. Rom. 27-11-69).

Infatti l'apostolo Paolo sconsigliava alla chiesa di Corinto l'uso delle lingue incomprensibili, affinché vi fosse mutua edificazione e ognuno potesse far propria la preghiera rispondendo con il suo "Amen" di approvazione (1 Co 14, 15-19). Anche le prime liturgie usarono sempre la lingua parlata; se all'inizio la chiesa di Roma usava il greco, li si deve al fatto che tra i suoi membri si trovavano persone d'ogni contrada e che l'unica lingua comprensibile a tutti era il greco. Solo più tardi, verso la fine del III secolo, quando la maggioranza dei fedeli parlava latino, questa lingua fu usata nella liturgia. Tutte le liturgie orientali furono composte nelle lingue parlate dalle singole nazioni: greca, copta, etiopica, armena e arabica.

L'odierno cambiamento non ha però soddisfatto tutti, per cui, pur non giungendo alla opposizione ribelle del vescovo Lefebvre, si nota oggi da parte di alcuni cattolici anche vescovi – specialmente germanici – una nostalgia verso il latino che conferisce al rito liturgico un particolare senso misterioso, più consono, dicono costoro, al divino. Il latino è la chiave di un'intera civiltà, quella "occidentale". Secondo Ms. Galligani « la chiesa sta rivalutando l'uso del latino» (Oss. Rom. 9-12-74). L'idea del suo rilancio è partita dai vescovi della Germania che in una lettera al papa, hanno auspicato la conservazione della lingua latina nella liturgia. A Roma la richiesta è stata accolta con entusiasmo dai due latinisti ufficiali della chiesa, Ms Giuseppe del Ton e l'abate Carlo Egger. Una delle ragioni sta nel fatto che il latino è molto apprezzato anche nell'Unione Sovietica, dove è uscita una storia di Leningrado in un latino perfetto sullo stile di Giulio cesare. Secondo il cardinale ucraino Josef Slipyi « il latino è come una tastiera. E' uno dei legami che unisce i cristiani sparsi in tutto il mondo».

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b) Usi popolari

Il Concilio ha suggerito di accogliere nella liturgia usi popolari non superstiziosi come, ad esempio, gli elementi propri della iniziazioni nazionali « nella misura in cui essi possono venire adattati al rito cristiano » (CL 65, n. 37). Sono così sorte le messe beat con musica jazz, accompagnate da danze e da espressioni musicali, che non sempre si « armonizzano con la magnifica e venerabile tradizione ecclesiastica » e dimenticano che « musica e canto sono al servizio del culto e ad esso subordinati ». Personalmente sono restio a tali innovazioni in quanto sono convinto che la semplicità del culto originario si accorda, meglio di ogni altra espressione coreografica, scenica e musicale, allo spirito dell'uomo di tutti i tempi. L'esperienza del passato ci insegna che il desiderio di rendere il cristianesimo una religione di massa, ha finito col farvi accogliere al tempo della conversione forzata dei pagani ad opera di Teodosio, le immagini e il culto dei vari dei e semi-dei pagani, trasformandoli in santi e martiri cristiani ai quali talora si applicarono le stesse leggende pagane, L'iconografia cattolica non fece che ricopiare le immagini del tempo: Orfeo divenne il Buon Pastore; i templi pagani furono riconsacrati ai santi, per cui il Panteon dedicato a « tutti gli dei », secondo la etimologia del suo nome, fu consacrato a « tutti i santi ». In S. Maria di Leuca un'iscrizione posta all'ingresso nota che là, dove una volta si facevano offerte a Minerva, ora ci accettano doni a Maria. Di qui l'origine del culto delle reliquie, la preghiera ai santi, le messe a vantaggio dei morti per liberarli dal purgatorio, secondo l'uso pagano. di qui il desiderio di essere sepolti accanto alla tomba di qualche santo per goderne la protezione, uso che fu alla base dell'antica erezione di cimiteri presso i templi cristiani. Di qui il privilegio di re, nobili e vescovi di essere sepolti nelle stesse basiliche cristiane.

Ma tutto ciò fu a scapito della purezza originaria del vangelo e divenne la base di tante superstizioni tuttora diffuse presso molta gente. E' quindi legittima un'ampia riserva a riguardo dell'odierna apertura verso usi amati dal pubblico: si accettino pure se si vuole, ma non come atti religiosi, bensì come consuetudini locali, che nulla hanno a che vedere con la religione.

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c) Snellimento dei riti liturgici

Siccome le antiche presentazioni teatrali nella liturgia medievale riescono incomprensibili a sono lontani dalla spirito dell'uomo moderno, la chiesa cattolica, dopo aver semplificato i paramenti liturgici, ha creato nuovi riti più agili e più intelligibili con l'intento di stabilire un più immediato contatto con il popolo. Così nel nuovo rito battesimale sono stati eliminati alcuni gesti strani (saliva, sale, insufflazione), si è data più importanza all'istruzione mediante la Bibbia onde sviluppare la fede e si è suggerito di attendere per il battesimo il momento in cui anche la madre possa essere presente, affinché entrambi i genitori meglio comprendano l'obbligo che si assumono per l'educazione religiosa dei figli. Si è così reso il battesimo un atto della chiesa che accoglie i neo battezzati, partecipa alla loro gioia e se li sente fratelli e sorelle.

Anche il nuovo rito della messa ha cercato di mettere in maggior rilievo il valore comunitario della celebrazione eucaristica, la maggiore partecipazione dei fedeli con il rito delle offerte, la percezione di una maggiore fraternità con il segno della pace affinché la celebrazione domenicale si presenti come rito di amore tra membri della stessa famiglia cristiana. Di qui la possibilità di far leggere brani biblici anche a uomini e donne, di prendere con le proprie mani il pane consacrato e, in certe circostanze, anche il vino, non più riservato esclusivamente ai sacerdoti. Di qui la libertà lasciata ai fratelli di suggerire i temi della preghiera comune prima dell'offerta e di fermarsi, se si vuole, qualche minuto dopo la messa per discutere un passo biblico o un problema di attualità. Spontaneità questa che dovrebbe rimuovere l'assenteismo del popolo da certe celebrazioni liturgiche moderne, ma che praticamente spesso è rimasto lettera morta.

Il cardinale di Napoli, Ugo Ursi, ha pure approvato per primo l'iniziativa delle messe domestiche, vale a dire celebrate in case private, quando non siano per pura devozione ma richieste da una particolare necessità. Queste messe, da distinguersi dalle "cene familiari" olandesi proibite dalla congregazione dei riti con un monito del cardinale Lercaro, non potranno realizzarsi per esibizionismo (come nel caso di un matrimonio o di un battesimo) bensì per aiutare un ammalato che non possa recarsi alla messa comunitaria, per nuclei familiari spiritualmente maturi i quali siano capaci di ben valutarne il senso.

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3) Fissità liturgica

Nonostante le innovazioni precedenti, che cercano di creare maggiore semplicità e più grande spontaneità, prevale ancor oggi la fissità liturgica, contro la libertà dei tempi apostolici. Basta dare uno sguardo, anche rapido, ai più recenti libri ufficiali liturgici per vedere come sia tolta ogni minima libertà e soffocata la libertà individuale.

Durante la Messa si fanno tre genuflessioni: dopo l'elevazione dell'ostia, dopo l'elevazione del calice e prima della comunione del sacerdote. Ma se nel presbiterio ci fosse il Tabernacolo con il SS. Sacramento, ci si genuflette anche prima e dopo la Messa e tutte le volte che qualcuno passa davanti al SS. Sacramento (Istruzione generale per la Nuova Messa).

Di recente si è sottolineato che il rito del "lavabo", o lavanda rituale delle mani prima delle offerte, è obbligatorio e non lasciato alla libertà individuale. Siccome la nuova costituzione parlava di "pane" che si potesse spezzare, una recente precisazione ha notato che non è permesso, come alcuni pensavano, usare del pane comune, sia pure azzimo, bensì solo un'ostia, anche se di formato più grande, di maggiore spessore e di colore più vicino a quello del pane.

Le parole liturgiche (salvo rari casi) devono essere ripetute come sono, anche se sciatte e talora di una « piattezza che fa orripilare » (A. Barolini), anche se si diversificano da quelle bibliche. Così l'espressione « Il mio sangue che è versato per molti» (Mc 14, 24) è divenuto «per tutti » con la scusa che il "molti" nella Bibbia equivale a "tutti". Si tratta però di vedere se tale era davvero il senso inteso da Gesù. E' in fatto che il vocabolo "molti" era un termine tecnico per designare la comunità di Qumrân, nei cui testi ricorre almeno una trentina di volte; essa era costituita dai "molti" che si preparavano alla venuta dei Messia di Aronne e di Israele. Anche Matteo e Marco possono aver voluto indicare che solo per i veri discepoli di Gesù, membri della chiesa e costituenti la comunità dei salvati, il sangue di Cristo è stato efficacemente versato. Per questo al posto di "molti" Luca e Paolo hanno il "voi" che è appunto l'interpretazione biblica del "molti"; i molti sono infatti coloro che, avendo creduto al Cristo ne seguono i comandamenti (Lc 22, 20; 1 Co 11, 24). Lo stesso concetto si ritrova in Isaia dove il profeta dice del servo di Jahvé: «Il giusto mio giustificherà molti (non tutti), egli si addosserà le loro iniquità. Pertanto io gli darò in premio la moltitudine dei potenti, egli farà bottino Egli portò il peccato di molti e per gli scellerati intercedette» (Is 53, 11 s). E' evidente che qui il "molti" non equivale a tutti, poiché non tutti furono giustificati e tanto meno lo saranno quei potenti che egli saccheggerà. Quindi il "molti" dovrebbe essere un continuo richiamo alla conversione, perché, divenuto vero discepolo di Cristo, l'uomo possa godere dei suoi benefici.

Si veda quindi come la liturgia per la chiesa cattolica non sia mai un affare privato, ma dipenda da Roma. Paolo VI affermò che:

I riti e le formule liturgiche non devono essere considerati come un affare privato, che riguardi i singoli individui, o la parrocchia o qualche nazione; ma come qualcosa di pertinenza della Chiesa universale... Pertanto non è lecito ad alcuno di mutare tali formule, introdurne nuove, sostituire altre... la romanità è la causa della nostra cattolicità per cui occorre evitare un «eccessivo» e chiuso patriottismo... Giova perciò ricordare quella norma della Costituzione Liturgica, la quale stabilisce che l'ordinamento della sacra liturgia dipende unicamente dall'autorità della Chiesa (Discorso di Paolo VI al «Concilium» liturgico del 14-10-68; Oss. Rom. 16-10-68, p. 1).

Secondo frasi cavillose di recenti studiosi, la liturgia ci lascia liberi vincolandosi, come deve esserlo ogni creatura. Dante è liberamente vincolato alla penna, Galileo al suo telescopio, Michelangelo alla volta della Sistina. La libertà cristiana, come ci sono di esempio i santi, è insieme ubbidienza; senza Dio « la libertà è una parola scritta nelle acqua del mare » (Giovanni XXIII, Discorso del 18 maggio 1959). La liturgia collabora perché la libertà non si frantumi in licenza.

Capisco come sia difficile, a chi non ne è abituato, formulare delle preghiere spontanee, tuttavia tale sforzo serve a formare la personalità ed a sviluppare l'abilità del credente. I primi cristiani non erano certo più colti dei moderni, eppure si riservavano ampia libertà di preghiera. evitando la ripetizione meccanica di formule preesistenti. Persino il Padre nostro è presentato in due forme di cui la più lunga e l'altra più breve, per mostrarci che nemmeno esso era una formula ripetuta mnemonicamente, ma solo un esempio su cui modellare le proprie preghiere spontanee.

A Corinto dominava una spontaneità fin troppo eccessiva, che Paolo non intende affatto soffocare, ma solo regolare (1 Co 14, 26). Non è con formule imposte, con gesti obbligatori, che si potrà rimediare all'assenteismo odierno, bensì lasciando ogni cosa alla spontaneità dei presenti, sia pure con il rispetto di un certo ordine (1 Co 14, 33).

Non mancavano, è vero, anche nel tempo apostolico, dei brani già fissi come appare da alcuni frammenti, forse cantati, riguardanti l'anàmnesis o "ricordo" della morte e resurrezione di Gesù nella cena del Signore (1 Co 15, 3-7) o la glorificazione del Cristo (Ef 1, 3-23; Fl 2, 6-11). Anche l'innegabile rapporto tra culto cristiano e culto sinagogale dovette produrre un certo ricalco di alcune preghiere cristiane su formule giudaiche da parte specialmente dei giudeo-cristiani.

Ma la liturgia paleocristiana lasciava molto spazio all'improvvisazione, anche nella cena del Signore. Così scriveva Giustino nel 150 ca.: «Il presidente pronuncia preghiere e rendimenti di grazie secondo le sue capacità e il popolo risponde con l'invocazione: Amen!». Ippolito, verso il 215, dopo aver presentato un esempio di preghiera per la chiesa romana, aggiunge:

Il vescovo rende grazie secondo quanto abbiamo detto. Comunque non è affatto necessario che usi le stesse parole, sforzandosi... di recitarle a memoria. Ognuno può pregare secondo la propria inventiva. E' bene se uno sa dire una preghiera lunga ed elevata; ma se uno prega e pronuncia una preghiera (non elevata), non bisogna zittirlo, a meno che la sua preghiera sia reprensibile e non ortodossa (Giustino, Apologia 1, 67; 5 PG 6, 429).

La Tradizione apostolica, attribuita ad Ippolito, non è dunque il formulario, ma uno dei formulari in uso nella chiesa di Roma solo per chi non sapesse esprimersi con preghiere personali.

Fu particolarmente dal IV al VI secolo che in Africa sorsero le prime codificazioni liturgiche con le disposizioni del Concilio di Ippona (a. 393), che furono poi ripetute nel Concilio di Cartagine del 397. Tuttavia l'improvvisazione sussisteva ancora, tant'è vero che Sidonio Apollinare, vescovo di Averna (Clermont-Ferrand) dal 470 al 480, essendo un giorno sprovvisto di libri, improvvisò una preghiera suscitando la meraviglia di tutti, perché ai presenti sembrò udire la voce di un angelo. La prima raccolta importante è il cosiddetto "sacramentario leoniano" (ms. di Verona), che però non è né un sacramentario né leoniano; essenzialmente esso costituisce una raccolta di libelli missarum. Nei secoli seguenti la liturgia romana, fissatasi a Roma, emigrò nei paesi franchi dove romanizzò sporadicamente i formulari liturgici locali o regionali, finendo con il provocare dei miscugli anarchici; questa liturgia ibrida francese-romana, specialmente sotto gli Ottoni (sec. X) refluì a Roma dove si fissò definitivamente.

Vari motivi introdussero tali cambiamenti: paura che l'eterodossia si infiltrasse nelle preghiere, desiderio che vi fosse uno stesso calendario in tutta la chiesa e l'importanza sempre più attribuita a Roma e alla sua liturgia. Sorse così la tendenza di affermare il primato pontificio con l'obbedienza delle chiese alla disciplina romana.

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4) Cristo e Santi

a) Cristocentrismo

Il nuovo calendario liturgico cerca di accentrare il culto nel Cristo, per cui appaiono in primo piano le festività riguardanti la vita di Gesù: natività, morte e resurrezione, alle quali si aggiunse la Pentecoste, che ricorda la discesa dello Spirito Santo, il continuatore dell'opera di Cristo. I santi – anche Maria – inseriti in questa visione cristocentrica, fanno da corona al Salvatore, illuminati come sono dalla sua luce e rivolti a lui in supplice preghiera di intercessione. Nella messa, ad esempio, la preghiera sulle offerte e quella dopo la comunione deve avere un rapporto diretto con il mistero e non con il santo del giorno; le orazioni ai santi devono essere costituite da poche parole, possibilmente tratte dalla loro stessa bocca, che ne mostrino la spiritualità. Nell'ufficio divino ogni giorno, assieme a una lettura sul santo celebrato tratta preferibilmente dai suoi scritti, vi deve essere anche una lettura biblica. Nel nuovo breviario si leggono brani che mostrano la brama d'evangelizzazione propria di Francesco Saverio, il modo di educare i giovani secondo il metodo di Giovanni Bosco, la dignità dei poveri descritta da Vincenzo de Paoli, l'ideale del monaco presentato da Benedetto.

I santi, celebrati da tutta la chiesa cattolica sono stati scelti fra i più rappresentativi di un determinato tipo di vita cristiana o di un dato secolo della vita ecclesiastica. Santi antichi, ora dimenticati, hanno ceduto il posto ad altri più recenti, come la martire della purezza Maria Goretti, la cui tomba è meta di continui pellegrinaggi. Altri santi, noti solo in qualche nazione, sono lasciati alla discrezione dei vescovi locali, che li possono accogliere o no: così Gennaro a Napoli, Nicola a Bari, Apollinare a Ravenna. Gli automobilisti continueranno a rivolgersi a S. Cristoforo, i militari a S. Barbara, gli scouts cattolici a S. Giorgio, i paracadutisti a S. Giuseppe da Copertino. Ogni sacerdote ha facoltà di celebrare la messa, quando le rubriche lo permettono, in onore di un salto qualsiasi purché contenuto nel martirologio. Anche se egli pregasse in tal modo un santo inesistente – continuano i teologi – non ne verrebbe alcun danno, poiché il culto dei santi tende in ultima analisi a glorificare Dio e ad ottenere un intercessore presso il mondo divino, per cui Dio saprebbe ugualmente ascoltare l'invocazione che gli si rivolge.

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b) Come creare i muovo santi?

Il processo di canonizzazione seguì la legislazione di Urbano VIII integrata da Benedetto XIV fino al 1969, quando Paolo VI volle aggiornarla. Tra le novità principali va ricordata l'unificazione dei due processi, prima indipendenti, presso il vescovo locale e presso la S. Sede; l'istituzione dei tribunali regionali, anziché episcopali, per eliminare la difficoltà di trovare nelle piccole diocesi le persone capaci di svolgere tale esame.

c) Valore dei santi

L'intonazione cristocentrica dell'odierno culto cattolico è un magnifico progresso; il presentare i santi come esempi di vita cristiana da imitare, è qualcosa di assai positivo e buono. Lo stesso apostolo Paolo così scriveva ai Cristiani di Corinto: «Vi supplico: siate miei imitatori! » (1 Co 4, 16). «Tutti assieme – scriveva a quei di Filippi – divenite miei imitatori, fratelli, e tenete lo sguardo rivolto a quelli che camminano in maniera conforme all'esempio che avete in noi » Fl 3, 17). Quei di Tessalonica sono divenuti « imitatori nostri », vale a dire di Paolo, Silvano e Timoteo, anzi imitatori nella sofferenza delle «chiese di Dio che sono nella Giudea » (1 Te 1, 6; 2, 14). Paolo raccomanda agli oziosi di Tessalonica di seguire il suo esempio: « Voi sapete in che modo dovete imitarci, perché noi non ci siamo comportati tra voi disordinatamente, né abbiamo mangiato il cibo di alcuno. Al contrario, con fatica e con lavoro penoso, giorno e notte abbiamo lavorato in modo di non essere di peso ad alcuno di voi » Paolo ha così agito per offrire loro « un esempio da imitare » (2 Te 3, 7 ss). Per eliminare la pigrizia spirituale l'autore della lettera agli Ebrei raccomanda di imitare « coloro che mediante la fede e la pazienza ereditano le promesse » (Eb 6, 12).

E' un fatto che le parole commuovono, ma gli esempi trascinano. Verba movent, exempla trahunt . Tuttavia l'imitazione altrui – suggerisce l'apostolo – non deve essere sconsiderata, ma compiuta con criterio, scegliendo tra le persone quelle che si sono comportate in armonia con Gesù: « Siate miei imitatori, così come anch'io lo sono di Cristo » (1 Co 11, 1). Ora non so se tutti i santi cattolici nel corso dei secoli con certe loro stravaganze (stiliti), con la fuga dal mondo, con certe loro devozioni, siano sempre stati "imitatori di Cristo". Per fortuna il nuovo calendario cattolico, facendo un taglio netto con certi santi del passato, presenta dei modelli più conformi alla vita odierna, ma questa conformità con la vita odierna non sempre equivale al modello di Cristo.

Tuttavia i "santi" non sono presentati solo come esempio da imitare da parte di altri "santi", ossia di altri cristiani, ma anche come potenti intercessori, che si possono invocare per ottenere il loro appoggio presso Gesù Cristo e presso Dio.  Sono intesi come credenti la cui buona condotta ha fatto loro acquistare dei meriti che vanno ad aggiungersi ai meriti di Cristo. Ora a me sembra – lo dico umilmente –  che ciò non corrisponde all'insegnamento di Gesù e degli apostoli. Mai dal testo sacro appare il concetto che degli uomini – a qualsiasi grado gerarchico o spirituale appartengano – possano avere la possibilità di giudicare, durante la propria vita terrena, la spiritualità e la santità di altri uomini. Non per nulla Paolo raccomandava a quei di Corinto – e tramite loro anche a noi –: « Non giudicate mai nulla prima del tempo, fino a quando verrà il Signore, il quale porterà alla luce quel che è segreto e renderà manifesti i pensieri delle menti, e allora ciascuno riceverà la sua lode a da Dio » (1 Co 4, 5). Il giudicare oggi « uno più santo di un altro» non è un precorrere il giudizio di Dio?

Di più il concetto di merito non appare negli scritti apostolici: Gesù ai suoi discepoli narra la parabola del padrone che allo schiavo tornato dai campi dopo una giornata di dura fatica, anziché dirgli di sedere a tavola per mangiare, gli ordina di preparargli la cena». « Così anche voi – conclude Gesù rivolgendosi agli apostoli – quando avrete compiuto tutto quello che vi era stato ordinato, dite: Siamo degli schiavi inutili, abbiamo compiuto solo quel che dovevamo fare » (Lc 17, 10). Altro che merito! Siamo agli antipodi del concetto di merito dell'ebraismo, secondo il quale i meriti dei padri giovano ai figli e quelli dei figli tornano a vantaggio dei loro padri. Paolo, dopo aver combattuto il buon combattimento e aver completato la sua corsa sino alla fine, dopo aver conservato la fede, è sicuro di ricevere la « corona» (stéfanos) da parte del Signore, il giusto giudice, ma sa che essa sarà donata anche a tutti coloro che lavorarono soltanto l'ultima ora, senza aver sopportato l'arsura del caldo e il peso di tutta la giornata (Mt 20, 1-16).

Al tempo apostolico Gesù era l'unico intermediario (1 Ti 2, 5) e non il termine della preghiera, perché lui stesso ci insegna a rivolgerci solo al Padre: « Padre nostro che sei nei cieli» (Mt 6, 9), fidando nella sua intercessione («nome») (Gv 14, 14; 16, 23.26 s).

Al Cristo i cristiani i cristiani rivolgevano solo delle invocazioni, come fece Stefano alla sua morte (At 7, 59) e Paolo per Onesiforo (2 Ti 1, 16 ss). Fu solo nel V secolo che si attuò un cambiamento nella preghiera che, anziché venire rivolta solo al Padre, nel nome – vale a dire per intercessione di Gesù – fu indirizzata direttamente al Cristo. Questi da intermediario, com'era prima, divenne oggetto di preghiera.

E' vero che Pio XII ha negato questo fatto nella sua enciclica Mystici corporis (1943):

Certuni infine dicono che le nostre preghiere non devono essere dirette alla stessa persona di Gesù Cristo, ma piuttosto a Dio e all'Eterno Padre per mezzo di Gesù Cristo, perché il nostro salvatore, in quanto capo del suo corpo mistico, dev'essere considerato semplicemente mediatore di Dio o degli uomini (1 Ti 2, 5). Ma ciò non solo si oppone alla mente della Chiesa e alla consuetudine dei cristiani, ma offende anche la verità. Tutti i cristiani devono conoscere e comprendere chiaramente che l'uomo Gesù Cristo è lo stesso Figlio di Dio e il medesimo Dio (Pio XII, Enc. Mystici corporis 1943 in «Tutte le Encicliche» a cura di E. Momigliano, Dall'Oglio, Milano 1959, p. 1193 s).

Ma è pur vero che la storia liturgica ci documenta tale cambiamento, che non può essere negato. I martiri, ad esempio Stefano, furono pianti dai cristiani, ma non invocati (At 8, 2). Il culto ai santi, ai martiri, alle immagini, alle reliquie, è frutto di un adattamento della chiesa alla massa pagana, che durante il IV secolo fu costretta a convertirsi. Abituata com'era a venerare i propri dei e semidei, se li vide sostituire con i santi cristiani. Eppure Gesù non ha mai cercato di seguire le masse, ma ha sempre preteso la conversione individuale (Mt 4, 17) ed ha parlato di porta stretta (Mt 7, 13 s). Monito perché la chiesa non guardi alle masse, ma cerchi di formare dei credenti sinceri!

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5) Cristianesimo e tempio

E' impossibile sintetizzare in poche righe la storia del tempio nel quale usualmente si attua la liturgia, tanto più che mancano sul tema libri che non siano di intonazione e di valutazione cattolica. Mi sia quindi scusata la presente audacia con la quale cerco di dare alcune linee direttive da ampliarsi in studi ulteriori.

a) Templi pagani e giudaici

Tutti i gentili ebbero e hanno i loro templi dedicati a diverse divinità, le quali in essi distribuiscono i loro favori ai devoti che vi si recano in pellegrinaggio o in preghiera. Anche gli Ebrei ritenevano che Dio dimorasse particolarmente nel tempio di Gerusalemme, ritenuto per questo l'ombelico (= centro) della terra, e lo ritenevano un potente talismano contro ogni malanno, per cui, quando Geremia si mise a profetizzare la distruzione della città, essi vi opposero la fiducia nel santuario divino: « Tempio di Jahvé! Tempio di Jahvé! non periremo mai » (Gr 7, 4) Alcuni dei dissidenti avevano costruito un loro proprio tempio sul monte Garizim (Samaria), ad Elefantina (V secolo) e a Leontopoli, in Egitto, dove Onia IV aveva eretto verso il 140 a.C. un santuario divenuto il centro religioso degli ellenisti. La tradizione ebraica pose poi nel luogo del tempio di Gerusalemme, eretto da Salomone, i più rilevanti atti salvifici di Dio, come la sepoltura di Adamo, l'immolazione di Isacco, la deposizione dell'arca da parte di Davide. Anche la tradizione giudeo-cristiana, riprendendo tale concetto, suppose che Adamo fosse stato seppellito proprio sotto il Calvario, per cui il sangue del nuovo Adamo colando dalla croce sul teschio del primo uomo, ne avrebbe purificato la colpa. Tale leggenda sopravvisse anche nel Medio Evo creando l'immagine dell'albero della vita (Gesù Cristo) che affonda le sue radici nel sepolcro di Adamo. Gesù Cristo è venuto a distruggere non solo la casta sacerdotale, ma anche il tempio come risulta dalla frase che Gesù rivolse alla samaritana: « Credimi, donna, è venuta l'ora in cui né su questo monte (Garizim) né a Gerusalemme adorerete il Padre... Viene l'ora, ed è proprio questa, nella quale i veri adoratori adoreranno il Padre mediante lo Spirito e in verità. Tali sono infatti gli adoratori che il Padre ricerca » (Gv 4, 21.23). Al che fanno eco le parole di Paolo all'aeropago ateniese: « Quel Dio che ha fatto il mondo e quanto è in esso, Signore com'è del cielo e della terra, non dimora in templi fatti da mano d'uomo né viene servito da mani umane, quasi avesse bisogno di qualcosa, egli che a tutti dà respiro e vita e ogni altro bene» (At 17, 24 s).

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b) Dalla casa alla basilica

Dopo che la sinagoga ebbe respinto il cristianesimo, fu la famiglia ad ereditare la vita dell'assemblea cristiana e a sostituire il servizio inerente della parola: lì si insegna l'evangelo, lì si battezza e si compie l'eucarestia, lì si esercita la beneficenza. «L'assemblea era la stessa ekklesìa, invitata e ricevuta nel quadro domestico. A questa ekklesìa la casa offriva in primo luogo il sostegno attivo della ospitalità e degli usi che regolavano tale ospitalità» (J.P. Audet, Matrimonio e celibato nel servizio pastorale della Chiesa, Brescia 1967, p. 100). Le famiglie di Cornelio, di Lidia, di Prisca e Aquila, di Ninfa, di Filemone e Appia offrirono la propria struttura familiare a servizio della chiesa e si assunsero delle responsabilità anche nei confronti dell'annunzio del vangelo.

Lungo il III secolo si andò diffondendo l'uso della domus ecclasiae, per cui una vecchia casa (che non è più quella di un membro di chiesa) venne riadattata e ingrandita, abbattendo i muri divisori di alcune stanze, secondo l'esigenze delle assemblee (di solito non superiori alla sessantina). Essa divenne così il luogo fisso sempre disponibile per le riunioni. Siccome ormai il clero si era andato distinguendo dai laici, vi si instaura una struttura interna abbastanza rigida:

Che i presbiteri – scrive la Didascalia degli Apostoli composta in Siria al III secolo – abbiano il loro posto al centro della parte orientale della casa; che la cattedra del vescovo sia posta in mezzo a loro e che i presbiteri siedano con lui. Poi, che gli uomini di stato laico abbiano il loro posto in un'altra parte della casa... Voi dovete sempre pregare in direzione di oriente (Il passo si legge al c. 57, probabilmente un'aggiunta del VII secolo, in Antenicene Fathers vol. 7, p. 421).

Il vescovo non deve interrompere il discorso che sta facendo, nemmeno se entrano uomini e donne di rango nobile e onorate dalla società; i diaconi li riveriranno e cercheranno un posto per loro. Vi deve dominare l'ospitalità: « Se un povero uomo o uno straniero, soprattutto se di età avanzata, arriva e non trova più posto, i diaconi devono trovare un posto per lui, affinché non vi sia accettazione di persone dinanzi al Signore » (Costituzioni apostoliche c. 58 ivi p. 422).

Con il IV secolo per l'aumentato numero dei cristiani (conversioni in massa), per l'accresciuta disponibilità economica, per l'organizzazione ecclesiastica, si iniziarono a costruire le chiese ex novo, adottando la pianta basilicale che evocava sogni di grandezza imperiale (così la basilica del S. Sepolcro eretta da Elena, la madre di Costantino). In tale secolo dalla comunità fraterna si passò alla folla anonima (sociologia), dalla carità al diritto (organizzazione), dal servizio al potere (psicologia), dalla rivelazione alla ideologia (cultura). Mentre i primi cristiani « non avevano né tempio né altare» (Minucio Felice), ora questi riappaiono; infatti la basilica, quale luogo di culto, deve essere consacrata. Da quel momento i cristiani – che non sono più un'esigua minoranza – poterono contrattare da pari a pari con i potenti del mondo. Così in oriente la chiesa si inserì nella politica regale (si pensi a Giustiniano), mentre in occidente, dove mancava una forza civile di polso, la chiesa andò assumendo un proprio potere sempre in aumento: alla vecchia Roma si andò sostituendo la nuova Roma. Il momento in cui la religione cristiana divenne religione di stato fu uno dei più sciagurati dal punto di vista della fede. I vescovi, trattando con i principi mondani, giunsero a compromessi con le credenze e le istituzioni pagane e si assunsero responsabilità politiche, persino militari, stando di continuo sottoposti alla tentazione della ricchezza. Solo nei piccoli centri si andò conservando il modello degli antichi luoghi di culto che nella loro povertà si riducevano, come avrebbero dovuto essere, a ritrovo di persone in preghiera e in adorazione. Ma nelle città di una certa importanza, si andarono sempre più imponendo i templi grandiosi, segno di potenza e di gloria fastosa.

Tuttavia nel Medioevo la cattedrale era ancora e veramente la "casa del popolo" come un luogo in cui il popolo amava riunirsi. E' assolutamente certo che, fin dalla sua costruzione, la cattedrale fu utilizzata come sala comune, "parlatorio dei borghesi", tribunale o borsa di commercio, e per molti altri usi. Questo era affatto naturale. Poiché non c'era una sala altrettanto vasta e comoda, perché non chiederla in prestito al buon Dio? Il cristiano del Medio Evo, proprio perché era un vero cristiano, non si sentiva tanto intimidito dinanzi al Signore. Si prendeva con lui e con la sua dimora certe libertà che oggi scandalizzerebbero molti. Solo le grandi cerimonie in S. Pietro a Roma con le loro folle accalcate, con le loro acclamazioni al Papa, portato sulla sedia gestatoria, possono dare una pallide idea di ciò che era comune nei luoghi di pellegrinaggio, per esempio a Chartres, dove tutta quella brava gente consumava in chiesa le sue colazioni al sacco o vi dormiva sdraiata per terra, « pernoctans», come dicono certi vecchi testi.

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c) templi aristocratici e regali

Con Gregorio VII (m. 1085), che aveva una concezione estremamente teocratica della politica e che aveva fiducia nell'autorità e nelle riforme programmate dall'alto, vale a dire dal papato, dominò la logica del realismo politico e della legge imperante. Con lui i monasteri persero il contatto con le masse e l'abbazia divenne una specie di roccaforte militare; gli stessi santuari monastici persero la primitiva sobrietà per divenire sontuosi e per adeguarsi ai modelli imperanti. La dimensione religiosa penetrò allora nella società, come elemento indispensabile ma spesso esteriore: alla chiesa si ricollegò la piazza del mercato. Nel medesimo luogo si svolgevano le processioni, gli affari economici, i conflitti cittadini, le discussioni politiche, le esecuzioni degli eretici e i giochi folcloristici. L'edificio sacro si trasformò in un investimento turistico, simbolo di potere, palestra di educazione, libro di rivelazione. Ma la parola di Dio rimase in tal modo incatenata.

Sorsero così dapprima i grandi templi gotici, con i loro archi acuti e le guglie svettanti verso il cielo, segno di potenza terrestre che cerca di salire a Dio.

Con il primo rinascimento, gli umanisti del '500 si dilettarono dell'uomo. nel quale euritmia e misura erano prevalenti creando così un equilibrio tra ragione ed affetti. L'uomo, ritenuto il signore del mondo, è posto in mezzo tra cielo e terra. L'architettura rinascimentale creò degli edifici religiosi che con rigore geometrico ubbidiscono all'antica simbologia cosmica e si collocano magicamente nell'universo. Classico esempio la cupola del duomo di Firenze (Santa Maria del Fiore) senza travature, simbolo di un messaggio umanistico che ignora l'usura del mutamento e che è finanziato da un mecenatismo senza pudore, voluto da una cultura aristocratica.

La rigida programmazione dommatica istituzionale e liturgica instaurata dal concilio di Trento, sfociò artisticamente nell'architettura religiosa barocca (XVII secolo), dove il simbolismo cosmico e la pietà popolare si armonizzano seguendo schemi di repertorio magico.. Si è così andata dimenticando la funzionalità degli antichi luoghi di riunione cristiana del tempo apostolico, dove ospitalità, amore e fraternità erano gli elementi distintivi ai quali l'edificio stava sottoposto. Anche nel tempio si avverò di conseguenza quella sacralizzazione che abbiamo già vista – o vedremo – in molti altri elementi del cristianesimo primitivo.

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d) Reazione monastica ed ereticale

La parola di Dio non potè tuttavia essere incatenata del tutto e creò quella reazione che possiamo vedere dapprima presso i cenobiti o i monaci del III-IV secolo, e che sorse dapprima in oriente dove la tentazione della ricchezza e della accettazione degli schemi legati all'imperatore era dominante. La vita cenobitica era legata al rifiuto della sacralità e del tempio.

Le polemiche contro il tempio di Salomone erano in realtà dirette contro le chiese del loro tempo, sontuose e dominate dal culto dei santi. I cenobiti volevano così protestare contro i solenni «santuari» gremiti di folla superstiziosa e anonima, mentre il vero tempio di Dio dovrebbe essere il Cristo e la sua comunità. Contro la Gerusalemme terrestre essi ricuperarono l'idea di una società regolata dall'amore fraterno (Gerusalemme celeste).

La spiritualità monastica, fondata essenzialmente sulla Bibbia, non concedeva nulla alle superstizioni popolari; lo stesso oratorio non aveva nulla in comune con le grandi Chiese e rifiutava in blocco il lusso e la simbolologia cosmica restituendo allo spazio la semplice funzione di ospitare la comunità orante.. Ma c'è un ultimo elemento che non deve essere dimenticato: il monastero ha tentato di dare una traduzione giuridica ad un modello di vita utopico fondato sulle semplici relazioni familiari; l'autorità è il Padre, i monaci sono i fratelli, la legge suprema è l'amore, la povertà è il lavoro e il servizio (G. Landucci, note sparse... a.c. p. 252).

Una nuova protesta sorse nel 1200 in seno alla stessa chiesa con Pietro Valdo, Francesco d'Assisi e i movimenti ereticali del tempo che tentarono inutilmente una via di riforma. Tornando allo spirito delle origini cristiane, essi, contestando la struttura sociale del tempo, proposero:

il servizio volontario cristiano e il libero scambio di doni di fronte a una organizzazione economica fondata sull'acquisto e sul guadagno; dettero la loro testimonianza non ritirandosi dal mondo, come facevano i monaci, ma vivendo tra gli uomini, predicando con le azioni, lavorando con gli altri, vivendo in povertà senza la preoccupazione del domani. La vita per loro non doveva essere rinserrata negli edifici, ma vissuta come un cantico. Francesco radunava i fratelli e le sorelle alla Porziuncola. Contestando l'istituzione e la sua ricchezza, si contestarono pure gli edifici sacri, frutto e simbolo di quella ricchezza. L'idea di una Chiesa povera fondata sull'amore non può essere materializzata in un edificio. E la Chiesa di S. Francesco ad Assisi è la perenne testimonianza di un tradimento. Le città sognate da Francesco e dagli eretici medievali non furono mai costruite, perché presupponevano una umanità diversa (Ivi p. 254).

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e) Valutazione

Gesù cristo, pur definendo il tempio di Gerusalemme una «casa di orazione » – si ricordi la scacciata dal tempio dei profanatori – ne preannunzia la distruzione a motivo dell'incredulità delle guide ebraiche (Mc 12, 1-12). Secondo gli Atti degli apostoli il gruppo giudeo-cristiano, rappresentato da Stefano, fu il primo a scoprire che la fede in Gesù significava l'abolizione di tutto quanto era simboleggiato nel tempio giudaico. Ora che la realtà è venuta, l'ombra deve scomparire (At 6, 11 ss e c. 7). Anzi la « riedificazione della tenda di Davide» (At 15, 13-18 da Am 9, 11), nella interpretazione che aveva assunto presso gli Esseni di Qumrân, presignificava la creazione di un tempio spirituale costituito dai membri della nuova comunità, nel nostro caso la chiesa.

Il tempio di Dio secondo Paolo, il teologo della chiesa, non è formato da un edificio bensì dai cristiani che costituiscono la chiesa di Dio (la chiesa infatti non è un'entità astratta bensì è costituita dai membri che sono i singoli credenti. I cristiani sono quindi il tempio di Dio. Essi sono tali perché in loro dimora lo Spirito di Dio. « Non sapete voi che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?... IL tempio di Dio è santo e tali siete voi» (1 Co 3, 16 s). Di conseguenza i cristiani devono staccarsi da ogni genere di idoli: « Quale compatibilità vi può essere tra il tempio di Dio e gli doli? Noi siamo il tempio di Dio vivente, come ha detto Dio: Io camminerò in mezzo a loro, sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo » (2 Co 6, 16 s). Se i cristiani sono il tempio di Dio anche il loro corpo è tale, per cui essi devono conservare un corpo santo alieno da ogni fornicazione: « Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che dimora in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi voi non appartenete più a voi stessi. Infatti siete stati comprati (da Gesù) a gran prezzo » (1 Co 6, 19 s).

I cristiani sono il tempio di Dio perché uniti a Gesù, che è il tempio nel quale i cristiani si raccolgono per rivolgere a Dio le loro preghiere. Non in un luogo, ma in una persona si realizza il tempio vivente dei singoli cristiani.

Per Giovanni il tempio che sostituisce quello giudaico è Gesù Cristo stesso, perché il suo corpo glorioso è dimora della Parola divina che in lui ha creato la sua tenda in mezzo agli uomini (Gv 1, 14; 2, 19-22). La teologia del tempio raggiunge il suo culmine con la lettera agli Ebrei e l'Apocalisse. Dopo il suo sacrificio Gesù è salito al cielo, penetrando così nel tempio celeste, e con lui vi erano anche i cristiani che per fede sono uniti a questo sommo sacerdote del nuovo patto (Eb 9, 11-14, 24; 4, 16; 6, 19 s; 10, 19 s). Secondo l'Apocalisse vi è un tempio in cielo dove sul trono siede l'agnello immolato e si celebra una liturgia di preghiera e di lode (Ap 5, 6-14; 7, 15). Alla fine dei tempi la Gerusalemme celeste scenderà sulla terra; ma anche in essa non vi sarà alcun tempio perché nel suo mezzo si trovano Dio stesso e il suo agnello che così prendono dimora in mezzo ai credenti. Allora i fedeli raggiungeranno direttamente Dio e lo contempleranno faccia a faccia (Ap 21, 22). Come si vede tutti i dati biblici del Nuovo Testamento si accordano nell'eliminare il tempio-edificio per spiritualizzarne l'essenza e per identificarlo di volta in volta con il cristo, con la chiesa nel suo insieme o con i singoli cristiani. Ma nel corso dei secoli, ciò che era stato eliminato con il cristo, rientrò nella chiesa la quale riedificò il tempio come vi aveva reintrodotto anche il sacerdozio; pur esso eliminato da Gesù o meglio esteso a tutti i credenti.

Nella società odierna i luoghi di culto non dovrebbero essere dei santuari sacri, bensì dei luoghi di raccoglimento per l'uomo assordato da mille rumori, frastornato da mille distrazioni e quindi bisognoso di raccoglimento e di silenzio. Quivi, nell'intimità della meditazione e nel contatto con Dio, non sempre possibile nelle rumorose case e nelle famiglie moderne, potrebbe realizzarsi un incontro con il Signore. Oggi che è così difficile trovare un luogo montano isolato dove concentrarsi, come faceva Gesù durante la sua preghiera notturna, il luogo di culto dovrebbe supplirvi, e formare quelle oasi di serenità nella eccitazione della vita moderna. Si dovrebbe far meglio comprendere che noi siamo il tempio di Dio e che il mezzo migliore per un nostro incontro con Lui sta proprio nell'incontro con il fratello bisognoso.

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6) Conclusione

Si può quindi concludere che il Concilio Vaticano II, pur avendo cercato di accogliere delle novità liturgiche utili e interessanti, come la lingua parlata, un maggiore intervento del popolo, un'intonazione cristocentrica, non ha saputo continuare la sua riforma fino a raggiungere alla radice e accogliere nella sua integrità le direttive bibliche. Ha continuato a impedire la spontaneità del culto e della preghiera, a cristo ha affiancato Maria e i suoi santi (anche se ha abolito quelli meno conformi alla mentalità moderna), ha persistito nel pregare Gesù dimenticando che l'ufficio di Cristo è esclusivamente quello di mediatore. Il Concilio ha pur sempre valorizzato la casta sacerdotale quale unico strumento autorizzato per attuare la liturgia e per rappresentare ufficialmente la chiesa, a motivo del particolare potere che il sacerdote ha ricevuto da Dio. Ha continuato a sacralizzare il tempio dimenticando che, nel pensiero biblico questo è costituito dal Cristo e dall'insieme dei credenti.

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