Sacerdozio....
e ministeri
di Fausto Salvoni

CAPITOLO QUARTO
IL SACERDOZIO NELLA BIBBIA

Indice

1) Il Sacerdozio nell'Antico Testamento

a) Insegnamento
b) Il culto
2) Gesù unico Sommo Sacerdote
3) Il sacerdozio dei cristiani
4) Compiti sacerdotali dei cristiani
a) L'ambasciatore di Dio
b) L'orante
c) L'offerente
1. Offerta di denaro
2. Vita conforme a quella di Cristo
3. Il dono della vita
5) Sacerdozio ministeriale
a) Apostoli
b) Vescovi/presbiteri
1) I nomi
1. Diaconi
2. Anziani
3. Vescovo
4. Sacerdote
2) Il compito specifico dei vescovi/presbiteri
3) Tutti celebrano il culto
c) L'imposizione delle mani
6) Conclusione

Manca un sacerdozio specifico o una casta di persone specialmente sacre; tutti i fedeli costituiscono il popolo sacerdotale (F.A. Pastor)

1) Il sacerdozio nell'Antico Testamento

La maggior parte delle religioni possiede una casta sacerdotale che funge da intermediario tra Dio e i semplici fedeli; non ne fecero eccezione gli Ebrei, i quali, almeno dal tempo mosaico, si sceglievano i loro sacerdoti tra i discendenti di Levi e in modo particolare nella famiglia di Aronne (Es cc. 28-29). Con Salomone il sacerdozio ebraico dalla linea di Abiatar, discendente di Eli e sospeso dal monarca, passò alla famiglia di Sadoc (1 Re 2, 27-35), la quale continuò ad esercitare le sue funzioni sino al II secolo prima di Cristo. La riforma di Giosia (621 a.C.) fece del tempio di Gerusalemme l'unico luogo di culto legittimo, dove i leviti vennero usati solo per i più umili servizi religiosi (cf Ez 44, 10-31).

Duplice era la funzione dei sacerdoti ebraici: l'insegnamento e il culto, consistente questo nella preghiera e particolarmente nel sacrificio.

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a) Insegnamento

(I sacerdoti) insegnano a Giacobbe i suoi decreti,
e la tua legge a Israele
offrono incenso alle tue narici
e olocausti sul tuo altare (Dt 33, 10)

Il servizio della parola consisteva nel proclamare la Torà, nell'istruire religiosamente i fedeli e nel rispondere alle consultazioni divine da parte dei fedeli (Urîm e Tummim). I sacerdoti assicurarono così la redazione scritta della legge, anche se dopo l'esilio, essendosi la funzione sacerdotale concentrata nel culto, l'insegnamento passò nelle mani degli scribi o dottori della legge, che raggiunsero ben presto un enorme prestigio, quali maestri di Israele. «Ai sacerdoti non manca l'istruzione», osservava Geremia (18, 18). Di loro così parla Malachia:

Sì. le labbra del sacerdote custodiscono il sapere,
l'insegnamento si ricerca dalla sua bocca,
perché egli è il messaggero del Signore delle schiere (Ml 2, 7).

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b) Il culto

Fu specialmente nel culto che si esplicava la funzione del sacerdote ebraico.
Il culto includeva la preghiera: infatti Samuele «pregò» per gli israeliti radunatesi a Mispa ( 1 Sm 7, 5). Di fronte al furioso temporale nel quale il popolo vide la punizione di Dio irato, esso chiese a Samuele: «Prega il Signore Dio tuo per noi tuoi servi... » e il sacerdote rispose: «lungi da me il peccare contro il Signore, cessando di pregare per voi» (1 Sm 12, 19.23; cf Ed 10, 1).

Tuttavia il compito essenziale del sacerdote, proibito a qualsiasi altra persona, non era costituito dalla preghiera e dall'insegnamento (che anche altri potevano compiere: profeta, uomo di preghiera, scriba), bensì dall'offerta di «doni e sacrifici per i peccati » (Eb 5, 1.3). Il sacerdote offriva quotidianamente due agnelli, uno al mattino e l'altro alla sera (Es29, 38). Una volta all'anno, nel giorno dell'Espiazione, il Sommo Sacerdote offriva un grande sacrificio per purificare tutte le colpe del popolo (Lv 16). Il servizio cultuale (cf Dt 18, 5; Siracide 45, 16) proprio del sacerdozio non consisteva però nell'immolazione della vittima (che poteva essere attuata anche da laici), bensì nella sua offerta o presentazione a Dio (generalmente in forma di sangue) sull'altare dopo la sua immolazione (Lv 1, 8.9.11). Presso gli antichi il sacrificio consisteva appunto nel « dono» (qorbàn = dono, regalo, sacrificio) offerto a Dio tramite il sacerdote ufficiante.. Quando i trattati teologici pongono l'essenza del sacrificio dell'immolazione non si esprimono secondo le categorie bibliche. Dimenticano tale aspetto sacrificale anche coloro che, insistendo sul compito dell'insegnamento proprio del vescovo, pensano di averne così dimostrato il carattere sacerdotale, che invece sta essenzialmente nel sacrificio.

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2) Gesù unico Sommo Sacerdote

Personalmente Gesù non si è mai chiamato sacerdote, anzi ha criticato i sacerdoti ebraici, opponendo ad essi la superiorità etica dell'eretico ma buon samaritano (Lc 10, 31). Tuttavia egli ha svolto i compiti che nell'Antico Testamento erano compiuti dai sacerdoti, preparando così la sua futura qualifica di «sacerdote».

Egli, come gli antichi sacerdoti, agì da Maestro: tale si presentò infatti ai suoi discepoli, ai quali disse di ritenersi tutti come « fratelli», perché lui solo era l'unico maestro (Mt 23, 8). Fu anzi il pastore, che nutrì le proprie pecore con un insegnamento talmente nuovo da non potersi introdurre nei vecchi otri dell'ebraismo e destinato, quindi, a formare un popolo nuovo.

Come i sacerdoti ebraici Gesù fu pure l'uomo di preghiera che trascorse intere notti in orazione (Lc 3, 21; 9, 29), intercedette per Pietro affinché la sua fede non venisse meno (Lc 22, 32) e pregò per i suoi discepoli (Gv 17), sicuro di essere sempre esaudito dal Padre (Gv 11, 42).

Ma fu specialmente per il suo sacrificio che Gesù meritò d'essere chiamato sacerdote. Parlando della propria morte, la presentò come un « sacrificio» in quanto Egli, attualizzando il « Servitore di Javé» (Is 53, 10 ashàm), diede la sua vita in «riscatto per molti » (Mc 10, 45). Il suo sangue divenne così il « sangue del patto» (Mc 14, 24), che soppiantò l'antica alleanza sancita con il sangue di capri e torelli (Es 24, 4-8). Perciò i giovani discepoli di Cristo, illuminati dallo Spirito Santo, rividero la sua vita trascorsa in obbedienza al Padre sino al sacrificio della croce e lo identificarono con il Sommo Sacerdote di una nuova umanità avente una dignità sacerdotale superiore a quella di Aronne.

Questa concezione si andò attuando gradatamente, attraverso difficoltà non indifferenti: Gesù non era discendente di Levi, di qui il bisogno di introdurre un nuovo sacerdozio (Melchisedec); la sua morte non fu propriamente sacrificale, in quanto non si attuò secondo i riti propri di un sacrificio. Se un animale fosse stato ucciso senza tali riti, non sarebbe stato gradito a Dio. Di più la condanna a morte di Gesù fu un atto di umiliazione non di elevazione gloriosa come nel caso dei sacrifici. Tuttavia gli apostoli misero gradualmente in rilievo alcuni aspetti, che resero possibile presentare la morte di Gesù come un sacrificio, destinato a costituire la nuova alleanza con Dio. Si tratta di una trasformazione semantica in quanto il suo sacerdozio e il suo sacrificio sfugge alle norme mosaiche e alla discendenza levitica, per assumere connotati nuovi ricollegati a Melchisedec.

Paolo nella sua epistola ai Romani presenta ancora Gesù più come vittima che come offerente; ma più tardi nella lettera agli Efesini, cominciò già a delinearne la funzione sacerdotale in quanto scrive che Gesù « ha dato se stesso in offerta e sacrificio a Dio, quale profumo d'odore soave » (Ef 5, 2 da Es 29, 18; cf pure Mc 10, 45 = Mt 20, 28). Anche se l'espressione « mi ha amato e ha sacrificato se stesso per me » (Gv 2, 20) non è esplicitamente un'espressione sacerdotale, in quanto anche un soldato che muore per la patri si sacrifica per gli altro, l'esplicazione che vi precede: « Gesù ha sacrificato se stesso per i miei peccati», e l'aggiunta: « quale profumo d'odore soave » suggeriscono un valore sacrificale e sacerdotale, in quanto per i peccati si offriva il sacrificio di espiazione (Ga 1, 4; 1 Co 15, 3; Rm 4, 25; 5, 6-8). Ma fu particolarmente la lettera agli Ebrei a mettere in evidenza l'opera sacerdotale di Gesù: scelto a sommo sacerdote (archieréus per chiamata divina Eb 5, 4-6), egli è stato costituito tale secondo l'autorità (« ordine ») di Melchisedec (Eb 7, 17-28). Egli è un sacerdote « perfetto che dura in eterno » (ivi), il cui sacerdozio « non termina mai » (Eb 7, 24) e che di continuo intercede a favore del popolo (Eb 7, 26 s; 4, 15; 5, 7 ss).

Gesù ha offerto il definitivo sacrificio dell'ultimo tempo: «Egli è comparso una sola volta – hàpax – nella pienezza dei tempi, per distruggere il peccato con il sacrificio di se stesso » (Eb 9, 26, dopo di che vi sarà soltanto la sua venuta gloriosa (Eb 0, 27). E' impossibile ogni superamento e ogni ripetizione di questo sacrificio, perché egli lo « ha compiuto una volta per sempre, offrendo se stesso» (Eb 7, 27). Di qui la sua superiorità sui sacrifici antichi che si ripetevano « ogni giorno» (Eb 7, 27), « ogni anno » (Eb 10, 3), «molte volte » (Eb 10, 11). Di più al posto di animali, Gesù « ha offerto se stesso puro di ogni colpa » (Eb 9, 14). « Con la sua morte sacrificale... Cristo si insedia nel suo ministero di sommo sacerdote » (E. Lohse, Märtirer und Gottesknecht, Göttingen 1963, p. 179).

Anche il Vangelo di Giovanni, pur non essendo tanto esplicito, presenta tracce del sacerdozio di Cristo; basti leggere il discorso di Cafarnao, dove egli si presenta come colui che sta per offrire «la sua carne per la vita del mondo» (Gv 6, 51). Come atto di amore egli dà la sua vita per i suoi,, senza fuggire come il mercenario, e intercede per i discepoli (Gv 10, 18). Anche l'Apocalisse, pur presentando Gesù quale agnello immacolato, perché lo rappresenta vestito della lunga veste propria dei sacerdoti (Ap 1, 13). Se non insiste più chiaramente su tale concetto lo si deve al fatto che l'Apocalisse presenta il Cristo in cielo, dopo aver compiuto il suo sacrificio.

Bello il brano con cui Faustino Luciferiano presentava il sacerdozio di Cristo:

Con la sua funzione sacerdotale a nostro favore, Cristo è divenuto davvero e in modo supremo il difensore e l'avvocato che ci assiste e intercede presso il Padre come solo può fare un sacerdote purissimo, affinché, espiata la macchia della colpa, possiamo usufruire della sua divina intercessione (Faustino Luciferiano, Trinit. 42 - M. Simonetti - C Ch 69, 344) .

Sotto l'unico sommo sacerdote che è Gesù Cristo, vi sono però altri sacerdoti, vale a dire tutti i cristiani, i quali partecipano al suo sacerdozio e, uniti a lui, offrono al Padre sacrifici spirituali, perché il sacrificio corporeo di Cristo è unico e irripetibile.

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3) Il sacerdozio dei cristiani

Già l'Antico Testamento aveva profetizzato per bocca di Mosé l'avvento di un popolo sacerdotale: «Voi mi sarete un regno sacerdotale (mamlék kohanîm), una nazione consacrata » (Es 19, 16 LXX 23, 22) in quanto Dio avrebbe fatto partecipe il suo popolo alla propria regalità e lo avrebbe tenuto accanto a sé, come un sacerdote che si accosta a Dio. L'adempimento di tale profezia era tuttavia ricollegato all'osservanza dei precetti divini – « se il popolo sarà fedele ai comandamenti » –, il che purtroppo non si avverò mai nell'antico Israele, per cui Isaia, riferendosi al tempo esilico, ne parlava come di un privilegio del futuro Israele messianico: «Voi sarete chiamati sacerdoti di Javè e... ministri del nostro Dio» (Is 61, 6). A questo popolo avrebbe dovuto partecipare gente di ogni nazione e razza (Is 56, 6).

Anche se quel sacerdozio riguardava la missione che il popolo ebraico doveva svolgere nel suo insieme in mezzo alle nazioni, di fatto tale profezia si attuò nel cristianesimo, dove essenzialmente vi è l'unico sacerdozio di Cristo, al quale partecipano tutti i cristiani e non solo un gruppo particolare di essi. Infatti con il battesimo gli uomini si rivestono di Cristo, per cui si può dire che non vi è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna essendo tutti uno in Cristo (Ga 3, 28). I privilegi di Cristo diventano i privilegi di ogni cristiano: Gesù è figlio di Dio e anche i cristiani diventano tali in lui; Gesù è re e i cristiani regnano con lui; Gesù è sacerdote e i cristiani sono sacerdoti con lui.

Ce lo assicura Pietro, richiamando l'avveramento della profezia antica: «Voi siete un gruppo santo di sacerdoti...Voi siete una stirpe eletta, un corpo regale di sacerdoti (ieàteuma), una nazione santa, un popolo salvato... Voi siete una santa corporazione sacerdotale » (1 Pt 2, 5-9). Ma tutto ciò è possibile soltanto per la comunione che i cristiani hanno con il Cristo (« accostandovi a lui») e per il fatto che esercitano il loro ministero « per mezzo di lui (dià autòn)». L'azione sacerdotale del cristiano è infatti l'azione del Cristo, come è chiarito pure dalla lettera agli Ebrei: « Avendo dunque fratelli lieta fiducia di entrare nel Santuario (vale a dire in contatto con Dio) mediante il sangue di Gesù... e avendo (in lui) un sommo sacerdote a capo della famiglia di Dio, accostiamoci con cuore sincero, in purezza di fede, aspersi e purificati nel cuore da cattiva coscienza, e lavati nel corpo con acqua pura» (Eb 10, 19-22). In questo scritto il linguaggio del culto antico è applicato a tutti i giudeo-cristiani ai quali si rivolgeva la lettera. Il sacerdozio del popolo cristiano è pure ricordato da Giovanni che nella sua Apocalisse più volte lo canta:

A lui (vale a dire a Cristo) che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue e ci ha fatti essere re e sacerdoti, Padre suo, a lui siano la gloria e l'impero nei secoli dei secoli (Ap 1, 5 s).

E ancora rivolgendosi al Cristo così dice:

Tu sei degno di ricevere il libro e di rompere i sigilli, perché tu sei stato immolato e hai acquistato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione. T ne hai fatto per il nostro Dio, re e sacerdoti, ed essi regnano sulla terra (Ap 5, 9).

Che si tratti di « vero» sacerdozio, fu chiaramente inteso dagli scrittori dei primi due secoli cristiani: «Noi siamo davvero (alêthinòn) un gruppo sacerdotale – scriveva Giustino –, al quale faceva eco Clemente Alessandrino con le parole: «Coloro che vivono puramente sono in realtà (òntôs) sacerdoti di Dio». Tale privilegio fu pure simboleggiato dalla rottura del velo del santuario alla morte di Gesù, per indicare che da quel momento tutti potevano avere libero accesso al luogo più santo del tempio, prima riservato solo ai sacerdoti e perciò chiuso alla vista della gente da un'apposita tenda (Mt 27, 51 s; Es 26, 31; Eb 10, 19 s).

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4) Compiti sacerdotali dei cristiani

Il Nuovo Testamento parla spesso di sacrifici personali, già adombrati nell'Antico Patto, dove Dio diceva di preferire «la misericordia al sacrificio, la conoscenza divina all'olocausto» (Os 6, 6). Questi sacrifici «spirituali» non hanno però nulla di metaforico o di irreale; sono detti spirituali solo perché mossi dall'impulso interiore divino, quale ci viene dallo « Spirito Santo» (1 Pt 2, 5). Essi sono pure chiamati da Paolo « razionali», vale a dire conformi alla ragione illuminata dallo Spirito Santo, che le mostra quale sia il volere di Dio (Rm 21, 1). Il sacerdote ebraico, come già indicai, era un maestro, un uomo di preghiera e l'offerente qualificato di sacrifici a Dio. Ora anche il cristiano è tale: egli è l'ambasciatore di Dio che proclama il lieto messaggio della salvezza in Cristo, è l'uomo di preghiera che loda Dio e intercede per gli altri, è l'offerente che presenta dei sacrifici a Dio.

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a) L'ambasciatore di Dio

Questo compito, che era un obbligo per Paolo, è presentato dall'apostolo con terminologia sacerdotale:

Vi ho scritto arditamente... a motivo della grazia che mi è stata data da Dio, di essere ministro di Gesù Cristo per i pagani (letteralmente «liturgo di Gesù Cristo nei riguardi delle genti») e di poter esercitare il sacerdozio sacrificale (hierourgoûnta) del lieto annunzio di Dio, affinché l'offerta (prosforà) dei gentili sia gradita, essendo santificata dallo Spirito Santo (Rm 15, 15 s).

Il ministero sacerdotale paolino consisteva nell'annunziare ai gentili il lieto annunzio di salvezza per condurre le persone ebree alla fede in Cristo; in tal modo i convertiti, santificati dallo Spirito Santo, erano offerti a Dio in sacrificio come sua proprietà. La predicazione anziché essere un'attività profana come qualsiasi altro insegnamento filosofico, è un servizio sacrificale comandato da Dio. Paolo sa di essere costituito « banditore e apostolo... maestro dei gentili nella fede e nella verità » (1 Ti 2, 7), come Pietro lo fu per i Giudei (Ga 2, 7 s). Quale ambasciatore di Cristo, egli cerca di attestare dinanzi al mondo intero che tutti, circoncisi e non circoncisi, sono chiamati a salvezza (2 Co 5, 18-20; 4, 1 s).

Tuttavia tale compito sacrificale è affidato a tutti i cristiani, e non solo agli apostoli: « Andate per tutto il mondo – leggiamo in Marco – annunziate la buona novella ad ogni creatura» (Marco 16, 15). Tale obbligo è posto in prima linea anche da Pietro quando scrive: «Voi siete... un sacerdozio regale... affinché proclamiate le gesta di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua meravigliosa luce» (1 Pt 2, 9). Clemente Alessandrino, nel suo commento a Pietro, scriveva con chiarezza che tutti i cristiani hanno un sacerdozio « da attuare» con l'offerta sacrificale (oblatione), vale a dire con la preghiera e con l'insegnamento per mezzo del quale si offrono persone a Dio (animae Dei offeruntur).

Tale predicazione si può attuare in duplice modo:

1) con la parola in quanto Pietro raccomanda ai credenti: «Siate sempre pronti a rispondere a vostra difesa di fronte a chiunque vi domanda ragione della speranza che avete, ma con dolcezza e rispetto» (1 Pt 3, 15).

2) con la vita pratica in quanto «per la buona condotta fra i gentili » coloro che sparlano di noi come malfattori « abbiano a glorificare Dio vedendo le nostre buone opere» (1 Pt 2, 12 cf Mc 5, 16). La stessa cena del Signore, attuata da tutti i cristiani nel culto, è una predicazione di quello che Gesù ha compiuto per noi con la sua morte e resurrezione (1 Co 11, 26).

Che i primi cristiani si dedicassero all'evangelizzazione appare evidente alla lettura anche superficiale del libro degli Atti: semplici fedeli andavano dovunque diffondendo la parola e creando così di continuo nuovi nuclei cristiani (cf At 4, 31; 8, 4; 11, 19 s; 1 Te 1, 8). per molti secoli predicatori e commentatori della Bibbia furono dei laici; si ricordi, ad esempio, Origene che spiegò la Bibbia prima ad Alessandria e poi a cesarea, dove solo più tardi fu ordinato sacerdote. Fu solo dal V secolo che si tentò di proibire ai laici la predicazione, la quale tuttavia riprese ad essere svolta dal popolo nel XII secolo quando al posto dei sacerdoti, divenuti silenti, parlano i Valdesi, gli Umiliati, i Francescani (ordine dei mendicanti) nonostante la proibizione ripetuta nel Concilio Lateranense IV (a. 1215). Fu solo con il Concilio di Trento che definitivamente fu tolta la predicazione ai laici, anche se un laico, Lodovico Nogarola, predicò agli stessi vescovi quivi riuniti.

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b) L'orante

Il sacerdote antico era un uomo di preghiera; così devono pure esserlo o cristiani. Infatti, se la preghiera è un colloquio tra l'uomo figlio e Dio Padre, ogni credente ha in Cristo «libertà di parola e libertà di accesso al trono divino con piena fiducia » (Ef 3, 12) perché il Cristo intercede per lui (Eb 10, 14; 4, 15 s). La preghiera del cristiano è infatti preghiera del Cristo, che gli ha donato l'efficace potenza dello Spirito: infatti senza lo Spirito non è possibile dire nemmeno: «Abba, Padre » (Rm 8, 15). Nella preghiera cristiana è quindi lo Stesso Spirito che supplica Dio con sospiri inenarrabili (Rm 8, 26 s). Questo atto, tipicamente sacerdotale, consiste in una richiesta di favori per tutti gli uomini e per coloro che sono costituiti in autorità (1 Ti 2, 1 s; 8), ma in modo particolare in una preghiera di lode, « Per mezzo suo (vale a dire « mediante Gesù Cristo ») – leggiamo nella lettera agli Ebrei – noi offriamo di continuo un sacrificio di lode, vale a dire le parole delle nostre labbra che celebrano Dio (Eb 13, 15: letteralmente: « che confessano il suo nome»).. Questo « sacrificio di lode» sale a Dio come il profumo dell'incenso, che era un atto squisitamente sacerdotale (Ap 8, 3 s). Segno quindi, che ogni cristiano è un sacerdote, la cui preghiera sale a Dio senza bisogno di altre persone che agiscano da intermediario tra lui e il Cristo (o che si identifichino con il Cristo). Ci si può chiedere come mai sia necessaria la preghiera, dal momento che Dio conosce già i nostri bisogni:

La ragione è – risponde Agostino – che la preghiera serve a rasserenare e a purificare il nostro cuore, a renderlo più adatto a raccogliere i doni divini... Iddio ci esaudisce non perché desidera essere pregato – egli è sempre pronto a darci la sua luce – ma perché noi purtroppo, non siamo sempre pronti a riceverla, in quanto ci rivolgiamo ad altre cose e siamo ottenebrati dalla brama di cose terrene. Nella preghiera dunque, il cuore si rivolge a Colui che è sempre pronto a dare, se noi siamo atti a ricevere ciò che ci vuol dare. In questa conversione del cuore, l'occhio interno si purifica con l'escludere ciò che era oggetto dei nostri desideri terreni, di modo che la capacità visiva del cuore, reso semplice, possa sostenere la luce pura, che divinamente risplende senza mai tramontare (Agostino, Comm. al discorso sulla montagna, in Mt 6, 7 PL 34, 1275).

Io amo il confronto con il sole: esso è pronto a illuminare e a riscaldare chiunque non si allontani da lui rifugiandosi nell'ombra. La preghiera ci fa uscire dalle zone d'ombra, per essere così raggiunti dai raggi benefici dell'amore misericordioso di Dio che sempre brilla su di noi.

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c) L'offerente

L'atto sacerdotale per eccellenza è pur sempre il sacrificio, che però, dopo la morte di Gesù sulla croce, non è più congiunto con lo spargimento di sangue. L'apostolo Pietro, dopo aver scritto che i cristiani sono un tempio spirituale (= creato dallo Spirito), afferma che essi devono offrire «dei sacrifici spirituali – vale a dire mossi dallo Spirito Santo – accettevoli a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 2, 5). Il sacrificio consiste nell'offrire al Signore qualcosa che ci è prezioso e con il quale noi mostriamo il nostro amore e la nostra dipendenza da lui. Esso può consistere in un'offerta di denaro, nel comportamento di tutta la nostra esistenza e, se necessario, nel dono della nostra stessa vita.
 

1. Offerta di denaro. Le offerte che Paolo ricevette dai Filippesi per supplire alle sue necessità, sono da lui chiamate « una liturgia nei miei riguardi» (Fl 2, 30), « un profumo soave, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (Fl 4, 18). Perciò la lettera agli Ebrei suggerisce: « Non dimenticate di fare beneficenza e di mettere in comunione i vostri beni; perché è di tali sacrifici (thusìais) che Dio si compiace» (Eb 13, 16). Il cristiano che chiude il proprio cuore alle necessità altri, è un sacerdote che dimentica il proprio ufficio sacerdotale: « Provvedete alle necessità dei santi, esercitate con premura l'ospitalità » (Rm 12, 13); « religione pura e senza macchia dinanzi a Dio, che è anche Padre, è questa: provvedere agli orfani e alle vedove nei loro bisogni » (Gc 1, 27). La colletta per i poveri è per Paolo un'opera preziosa e un atto liturgico:

Quella generosità suscita, per mezzo nostro, ringraziamento a Dio. La prestazione di questa opera (letteralmente: « il servizio di questa liturgia») non solo sovviene ai bisogni dei santi (di Gerusalemme); ma contribuisce largamente a (gloria) di Dio mediante i molto ringraziamenti (che suscita). Grazie alla buona prova di virtù che mostrate in questo servizio (diakonia) i cristiani daranno gloria a Dio, perché vedranno la sottomissione della vostra professione (di fede) al vangelo di Cristo e la vostra generosità nella comunione con loro e con tutti (2 Co 9, 9, 11-14; cf anche Rm 15, 25-31).
 

2. Vita conforme a quella di Cristo. Ad imitazione del Cristo il credente deve dire: «Ecco io vengo, o Dio, per compiere la tua volontà » (Eb 10, 5-10; dal Sl 40, 7-9). La vita di cristo comportò sacrifici continui, perché si conformò alla profezia del «servo sofferente » di Isaia 53 (cf 1 Pt 2, 20-25). Quindi anche il cristiano deve trascorrere la propria vita secondo il modello di Gesù sofferente: « Sull'esempio del Santo, che vi ha chiamati, anche voi siate santi » (1 Pt 1, 15); « anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, affinché seguiate le sue orme... » (1 Pt 2, 21 ss; cf 1 Pt 3, 17 s; 1 Pt 4, 1 s). I sacrifici spirituale del cristiano sono quindi, prima di ogni altra cosa, un'imitazione volontaria della vita e del sacrificio di cristo, necessaria conseguenza del nostro innesto a lui con il battesimo (cf 1 Pt 3, 21 e Rm 6, 3.10.19).

Questo concetto è espresso chiaramente da Paolo nella sua lettera ai Romani (12, 1):

Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire quale culto ragionevole i vostri corpi in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio.

Anziché seguire l'andazzo del mondo il cristiano fissa il suo sguardo su Gesù e in ogni sua azione cerca di capire che cosa Dio voglia da lui. Anche la lettera agli Ebrei, dopo aver invitato i credenti ad accostarsi con fiducia a Dio, ne precisa meglio il contenuto, suggerendo:

Accostiamoci con cuore sincero, in pienezza di fede... manteniamo ferma l'incrollabile professione della speranza... prestiamo attenzione gli uni gli altri per stimolarci nell'amore e alle opere buone, non disertiamo la nostra comune adunanza come taluni fanno, ma piuttosto...esortiamoci a vicenda, tanto più che vedete avvicinarvi il giorno (Eb 10, 22-25).

Eloquentissima la parola di Giacomo:

Se qualcuno pensa di essere religioso (thrêskos) , ma non pone a freno la sua lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione (thrêskèia) è vana. Religione pura e senza macchia davanti a Dio, è questa... conservarsi puro dalla malizia del mondo (Gc 1, 16 s).

Secondo Paolo il cristiano deve crocifiggere la propria carne con tutti i vizi e le concupiscenze, imitando così l'impegno del maestro (Ga 5, 24). Si possono allora meglio comprendere espressioni come «rendergli un culto (latrèuein) in santità e giustizia per tutti i giorni» (Lc 1, 74 s); « il sangue di Cristo... purificherà la nostra coscienza... perché possiamo rendere un culto (latrèuein) al Dio vivente » (Eb 9, 14). Paolo con la sua vita di fede e di speranza « rende culto (latrèuein) a Dio» (At 24, 14; cf 27, 33; 2 Ti 1, 3). Anche la vita del cielo sarà un « rendere perenne culto» al Padre (Ap 7, 15; 22, 3).

Agostino, che più di altri sviluppò la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli, scrisse nella Città di Dio, che « l'uomo consacrato nel nome di Dio (ossia « nel battesimo») e consacrato a Dio è un sacrificio perenne in quanto muore al mondo e vive per Dio ». Egli continua affermando che noi compiamo un sacrificio « ogni qualvolta uniamo la nostra anima a Dio con il fuoco dell'amore ». Commentando i doni dei magi a Gesù, lo stesso predicava:

Noi pure, fratelli dilettissimi, offriamo al nostro Dio doni genuini e santi: castità, fede, pazienza,, carità, umiltà di mente, onestà di vita, anime degne di essere abitazione di Dio. Questi sono i doni che piacciono a Dio; questi sono i regali a lui graditi: essi sono offerti a lui, ma giovano a chi li offre. Egli infatti non ha bisogno di nulla. Per lui il dono migliore è questo: dargli motivo di farci dei doni... Egli ritiene che gli abbiamo dato tutto, quando ci comportiamo in modo che lui ci possa dare ogni cosa mediante lo stesso Signore Gesù Cristo (Agostino, Sermo 136 de Tempore PL 39, 2015).

Ma già prima del vescovo di Ippona tali idee erano diffuse negli scritti cristiani: « Anche un cuore contrito è un sacrificio al Signore », si legge nella epistola di Barnaba. Minucio Felice asseriva, con espressioni assai appropriate, che «chiunque ama l'innocenza supplica Dio; chi ama la giustizia offre libagioni a Dio». Infatti conclude Ireneo: « Tutti i giusti possiedono l'autorità sacerdotale».La dedicazione per gli altri è descritta assai bene in un passo di Ilario di Poitiers (367/368), che si diffonde nel descrivere la necessità di opere buone:

Nella presente notte dell'ignoranza, dei pericoli, delle malattie, delle opera malvagie, dei vizi, occorre elevare le mani verso le cose sante, ossia vestire gli ignudi, cibare gli affamati, dare da bere agli assetati, aiutare gli oppressi, amare tutti. Queste opere ci santificano nell'infermità del nostro corpo, sono sante e gradite a Dio, il che è noto al profeta quando dice: l'elevazione delle mani è un sacrificio (Sl 140, 2). Ora infatti non i tori o i capri, ma le opere buone sono un sacrificio a Dio (Ilario, Tractatus in Ps 133, 5 (A. Zingerle) CSEL 122, 692 PL 8, 751 D).

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3. Il dono della vita. Può anche essere necessario dare la stessa vita per conservare la fede in Cristo o per aiutare i propri fratelli. La vita non appartiene a noi bensì al Cristo, che l'ha acquistata con il proprio sangue (1 Gv 6, 19 s). Come Gesù ha dato la propria vita per i peccatori, così noi pure dobbiamo essere pronti ad offrire la nostra in sacrificio per cristo o per i nostri fratelli qualora sia necessario (1 Gv 4, 11; Ef 5, 25-28). Paolo era pronto a questo per difendere l'evangelo: « Anche se devo offrire il mio sangue come libagione per il sacrificio e l'offerta della vostra fede, ne godo e mene rallegro con tutti voi » (Fl 2, 17). Ciò che era disposizione d'animo, divenne realtà più tardi, per cui alludendo ai sacrifici ebraici sui quali si versava il vino prima della loro offerta a Dio (Nm 28, 7), Paolo così scriveva: « Quanto a me sto per essere offerto in libagione a Dio» (2 Ti 4, 6).

Portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo le sofferenze di Cristo morente, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Infatti, noi che viviamo, siamo di continuo esposti alla morte per amore di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale, E così in noi agisce la morte, in voi la vita (2 Co 4, 10 ss).

Come l'apostolo anche la comunità compie con lui tale sacrificio: «Perché riguardo a cristo vi è stata concessa la grazia non solo di credere in lui, ma anche di patire per lui, sostenendo la medesima lotta che mi avete visto sostenere e che sostengo anche al presente» (Fl 1, 29, s). I cristiani quindi dovrebbero essere dei sacerdoti pronti a divenire delle vittime per il Cristo, e a realizzare in tal modo il massimo sacrificio, che gli si possa offrire. Tale pensiero fu espresso in modo stupendo da Origene:

Quando dono quel che possiedo, quando porto la mia croce e seguo il Cristo, allora io offro un sacrificio sull'altare di Dio. Quando brucio il mio corpo nel fuoco dell'amore e ottengo la gloria del martirio, allora io offro me stesso quale olocausto sull'altare di Dio. Quando amo i miei fratelli fino a dare per essi la mia vita, quando combatto fino alla morte per la giustizia e per la verità, quando mortifico il mio corpo astenendomi dalla concupiscenza carnale, quando sono crocifisso al mondo e il mondo è crocifisso per me, allora io offro di nuovo un sacrificio d'olocausto sull'altare di Dio... Allora io divento un sacerdote che offre il suo proprio sacrificio (Origene, Sermone sul levitico 9 n. 9 PG 12, 521 D-522 A.).

Si può quindi concludere che il sacerdozio dei fedeli è un vero sacerdozio, che partecipa a quello di Gesù. Resta sorprendente che nel Nuovo Testamento termini come «rendere un sacrificio civico » (leitourgéin) siano usati anche per il servizio divino quotidiano. per il cristiano non vi è distinzione tra sacro e profano; anche il profano è sacro perché il vero culto cristiano sta nella vita quotidiana svolta in mezzo agli uomini.

Ciò rappresenta un richiamo genuinamente cristiano e profondamente salutare sia al fatto che l'adorazione è l'essenza e il coronamento dell'attività cristiana, sia al fatto che, se il culto e il lavoro sono distinti, ciò è dovuto solamente alla natura umana che non può fare più di una sola cosa alla volta. L'alternarsi necessario di mani, che si levano sante nella preghiera o vigorose nel brandire un'ascia, ma sempre alla gloria di Dio, è il surrogato umano per quella vita divina completa, in cui tutto è simultaneo e in cui il lavoro è adorazione e l'adorazione è l'attività più alta. (Ch. F.D. Moule, Le origine del N:T:, Brescia, Paideia 1971, p. 56).

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5) Sacerdozio ministeriale?

a) Apostoli

Secondo il domma cattolico gli apostoli e i loro successori (vescovi, presbiteri o preti), sarebbero stati insigniti di un sacerdozio ministeriale a servizio degli altri cristiani per cui costituirebbero una speciale casta sacerdotale. Nonostante i vari tentativi, devo affermare che fino ad ora le prove cattoliche al riguardo non mi soddisfano affatto.

Il Feuillet insiste sulla preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17) che ha per oggetto gli apostoli detti « i suoi amici» (Gv 15, 15). Sono d'accordo con l'autore nel ritenere che tale preghiera nella sua prima parte si riferisce agli apostoli e solo alla fine allarga il suo orizzonte a tutti gli altri cristiani « che crederanno in Gesù grazie alla loro parola» (Gv 17, 20). Sono pure d'accordo con il Feuillet nel ritenere che gli apostoli vi sono presentati come « mediatori » tra Gesù e gli altri credenti, perché essi, come testimoni, devono presentare a tutti gli uomini l'amore di Dio che hanno visto brillare sul volto di Gesù. Ciò essi hanno realizzato appieno tramite la predicazione e tramite gli scritti, in modo da rende imperituro l'insegnamento di Gesù. Ma non vedo come tutto questo costituisca una funzione sacerdotale diversa da quella degli altri cristiani. Anche tutti i cristiani, come intermediari tra gli apostoli-testimoni e gli increduli, devono presentare la persona di Gesù a chi ancora non la conosce. L'unica differenza tra gli apostoli e gli altri cristiani sta nel fatto che i primi testimoniavano quello che avevano visto e udito (Gv 14 e 15), mentre i secondi non possono fare altro che ripetere la testimonianza dei primi. Quindi gli apostoli non sono affatto dei « supercristiani » dotati di poteri sacerdotali superiori a quelli degli altri, ma sono del tutto pari agli altri credenti, ad eccezione della loro ispirazione per presentare in modo retto la testimonianza sul Cristo che solo essi hanno potuto personalmente conoscere.

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b) Vescovi/presbiteri

Stabiliti dal Cristo glorificato (o dallo Spirito Santo) tramite gli apostoli (o i loro incaricati) nelle singole comunità, non si possono dire propriamente successori degli apostoli, in quanto non godono della ispirazione divina e non possono essere dei testimoni di quello che non hanno potuto vedere.

(Gesù) ha costituito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come predicatori, altri ancora come pastori e dottori per organizzare in tal modo i cristiani (Lett. «santi»), per compiere un'opera di servizio e per edificare il corpo, cioè la Chiesa (Ef. 4, 11 ss).

I « pastori e dottori» sono identici ai vescovi presbiteri e devono «pascere» la Chiesa di Dio (At 20, 28); unitamente ai «diaconi » sono salutati all'inizio della lettera ai Filippesi (1, 1). Paolo ne stabilisce qualcuno in ogni città (At 14, 23) e manda l'evangelista Tito a creta perché « secondo le istruzioni ricevute... stabilisca degli anziani (= presbiteri) per ogni città » (Tt 1, 5), Che però non siano dei sacerdoti ministeriali dotati di prerogative superiori a quelle degli altri cristiani loro affidati, risulta dai nomi loro che non sono affatto sacerdotali, dal culto che era attuato da tutti i cristiani, dal loro ufficio che era esclusivamente quello di sorvegliare e di pascere con la predicazione il gregge ad essi affidato. L'imposizione delle mani – quand'anche fosse stata attuata su di loro – non era affatto una consacrazione sacerdotale.

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1) I nomi

La nomenclatura che si riferisce alle persone preposte alle comunità e che ne specifica la loro natura non ha nulla a che vedere con le caratteristiche sacerdotali. Va quindi escluso che tali persone fossero dei sacerdoti superiori per potere a quello degli altri cristiani. Essi sono infatti detti: diaconi, anziani (presbiteri) o vescovi, ma mai sacerdoti.

1. Diaconi : sono essi «servitori» (come indica il nome) e come tali all'inizio provvedevano di cibo le vedove degli ellenisti cristiani (At 6), predicavano come Filippo (At 7), pregavano come fece Stefano prima del martirio « Padre, non imputare loro questo peccato » (At 7, 6). Sono infine collaboratori non meglio specificati dei vescovi anziani – probabilmente li aiutavano nella amministrazione economica della comunità – ma non avevano una funzione specificatamente sacerdotale. Questo è pacifico presso tutte le chiese, che non hanno mai ritenuto i diaconi uno speciale gruppo sacerdotale.

2. Anziani (zekenîm, presbyteri, greco presbyteroi), sempre al plurale eccetto in 1 Ti 5, 19). Il vocabolo greco, da aggettivo com'era all'origine, assunse ben presto il valore di sostantivo, per designare nel mondo greco, e particolarmente in Egitto, degli uomini maturi e sensati che, ad esempio, costituivano la gerusìa a Sparta e il Senato a Roma (da qui il nostro termine di senatori, che traduce il vocabolo). Nelle comunità giudaiche erano così chiamati quei padri di famiglia stimati e potenti (per ricchezza, prole, censo, posizione) che detenevano funzioni direttive nelle singole città e nelle varie sinagoghe locali e che, a Gerusalemme, costituivano il terzo gruppo del Sinedrio o supremo tribunale giudaico. Nessuna di queste persone possedeva una dignità propriamente sacerdotale (anzi nel Sinedrio – supremo tribunale giudaico – si distinguevano dai sacerdoti e a Qumrân gli anziani erano ricordati dopo i sacerdoti (1 QS 6, 8-10). Da tale costume giudaico derivò l'organizzazione presbiteriale (vale a dire degli « anziani ») presso le primitive chiese cristiane. Gli anziani si trovavano ad Efeso, dove il nome era praticamente sinonimo di vescovo (At 20, 17.28). « Il ministero presbiteriale – scrive lo Allmen – non è specificatamente cristiano, ma la Chiesa lo prese in prestito dalla sinagoga ». Di conseguenza tale vocabolo, che non ha alcun legame con il sacerdozio, non è mai applicato a Cristo, il quale non era né vecchio né sposato, mentre gli anziani (o presbiteri) giudaici erano vecchi e sposati.

3. Vescovo (epìskopos). Il nome, di origine greca, significa sovraintendente, «ispettore» e designava nella letteratura antica una persona preposta a una città, all'amministrazione dei beni di un tempio o di un mercato, all'osservanza di un patto. Nonostante la sua applicazione tanto estesa, tale nome non appare mai usato presso i greci per designare una speciale classe di supervisori o di « ufficiali» che stia alla base dell'episcopato cristiano. Qualche studioso vorrebbe ricollegare il vescovo cristiano con il mebaqqersorvegliante ») di Qumrân, il quale sorvegliava i singoli campi, nei quali tale comunità era ripartita (1 QS 6, 12.14.20). Tale parola è applicata una sola volta al Cristo, mentre di solito indica il gruppo dirigente della Chiesa. Secondo l'uso delle chiese greche – la chiesa di Filippi fu forse la prima a introdurre i vescovi e i diaconi – seguite poi forse da quelle siriache, i vescovi erano degli ispettori, vale a dire dei « sorveglianti», che sovraintendevano al buon andamento della Chiesa e al retto insegnamento dei fedeli. Essi però non avevano alcuna connotazione specificatamente sacerdotale, relativa al culto e al sacrificio.

4. Sacerdote . Evidentemente non manca nel Nuovo Testamento il vocabolo « sacerdote» (ierèus, sacerdos ) che presso i classici greco-latini assumeva significati diversi, come poeta, indovino posto sotto l'influsso di una speciale rivelazione divina. Presso il filosofo giudeo Filone si applica pure al Logos, detto « parola sacerdotale» ossia sacra (ierèus lògos). Ma il valore predominante è quello di sacerdote, di una persona cioè che rivolge preghiere e sacrifici agli dei a nome del popolo e costituisce una particolare « casta sacerdotale ».

Ora si constata con sbalordimento che, in tutto il Nuovo Testamento, la parola «sacerdote» non viene mai usata per designare un ministro qualsiasi; e questo vale non soltanto per ierèus, ma anche per archèrèus, ieràteuma, ierosùne, ieratèuein (H. Küng, La Chiesa, Brescia, Queriniana 1969, p. 420s).

Nel Nuovo Testamento la parola «sacerdote», attribuita una volta sola a un sacerdote pagano (At 14, 13 « sacerdote di Giove»), si riferisce usualmente ai sacerdoti vetero testamentari. Tra i cristiani si usa per il cristo sommo sacerdote (come abbiamo già visto) e per tutti i cristiani nel loro complesso, ma mai per uno speciale gruppo di cristiani, nemmeno per i diaconi o per i vescovi/presbiteri. Perché? Evidentemente perché costoro erano sì dei sacerdoti, ma alla stessa stregua degli altri credenti senza possedere dei poteri arcisacerdotali.

Mi sembra illogico dire con il Coppens e con la Pastorale collettiva dei vescovi tedeschi, che « il termine ierèus non era disponibile perché possedeva un proprio senso tecnico che lo escludeva dal linguaggio abituale, in quanto indicava da una parte i sacerdoti dell'antica legge e dall'altra i ministri di culto pagano». Si tratta di un argomento a sfondo puramente polemico e che non spiega come mai tale parola « non disponibile » sia stata tranquillamente usata per Gesù, con la spiegazione aggiunta che il suo sacerdozio è superiore a quello aaronitico (secondo Melchisedec), e poi per l'intera collettività dei cristiani. Tale ragionamento non spiega nemmeno come mai al suo posto si siano usate altre parole che avevano pur esse un significato già tecnico presso gli ebrei (anziani) o presso i pagani (vescovi) e quindi non avrebbero dovuto essere disponibili per il cristianesimo, tanto più che escludevano ogni carattere sacerdotale. Non vi era forse il pericolo di una confusione ancora maggiore? Tanto più che di tali termini non si danno delle spiegazioni additive per chiarirne la differenza concettuale, come si fa invece per il sacerdozio di Gesù che si voleva preporre a quello giudaico. Mi sembra assai più logico concludere che i vescovi-presbiteri non sono mai chiamati sacerdoti per il semplice motivo che non godevano di una speciale qualifica sacerdotale, che li avesse a distinguere dagli altri semplici cristiani. Quindi tutto ciò conferma la diagnosi precedente eseguita sopra la terminologia loro applicata., che consiste in vocaboli mutuati da una comunità priva di casta sacerdotale.

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2) Il compito specifico dei vescovi/presbiteri

Dovevano sorvegliare «il gregge» loro affidato e «pascerlo» con la predicazione (At 20, 28). La loro missione, di conseguenza, non riguardava direttamente i rapporti tra gli uomini e Dio – per i quali basta solo Gesù – bensì l'ordinamento collettivo sociologico e la direttiva da dare ai cristiani perché non deviino dalla verità e dalla morale cristiana poggiante sopra l'amore. La « Chiesa » o « comunità cristiana », pur essendo un insieme di sacerdoti che direttamente si rivolgono a Dio tramite Gesù Cristo, ha bisogno di ordine, di guida, di nutrimento. Per il suo buon andamento funzionale è giusto che vi siano dei « sorveglianti » (vescovi-presbiteri) che presiedano all'attività comune (1 Ti 5, 17) e ne impediscano l'accesso ai lupi rapaci (At 20, 29 ss; cf 1 Pt 5, 1s). Essi poi devono sviluppare la maturità spirituale dei credenti « pascendoli» con la predicazione e l'insegnamento, così come il pastore fa con il proprio gregge che difende dai lupi e conduce verso pascoli ubertosi (At 20, 28). Come si vede tali compiti non sono propriamente sacerdotali. La stessa unzione degli infermi, di cui parla Giacomo, era solo un gesto paterno verso gli ammalati che i presbiteri compivano su di loro unendo assieme la medicina del tempo (olio) con la preghiera (Gc 5, 14).

Ad essi – ma non in modo esclusivo – competeva la predicazione, che sia detto in modo ben chiaro e preciso, non crea una particolare qualifica sacerdotale. Il « mistero della riconciliazione» (diakonìa ketallagês), che era di pertinenza apostolica, consisteva nel predicare più che nel battezzare e nel testimoniare la morte e la resurrezione di Cristo a loro apparso (1 Co 1, 17; 15, 1-11). La « remissione dei peccati» , che allora si attuava con « il battesimo», consisteva nel suscitare la fede, il ravvedimento e la volontà di farsi battezzare per venire così innestati alla morte e alla resurrezione del Cristo (Gv 20, 23 e paralleli; si veda il capitolo della penitenza). Non basta insistere sul fatto che agli apostoli (quali testimoni) competeva in modo particolare la predicazione, per concludere che essi erano una speciale classe di sacerdoti. Il predicare, che aveva lo scopo di suscitare la fede, era un obbligo particolare per loro in quanto solo loro erano «testimoni » della resurrezione del Cristo; ma anche gli altri cristiani dovevano e devono ancora oggi trasmettere a chi non crede la testimonianza degli apostoli sopra Gesù.

I vescovi-presbieri differiscono dai cristiani non vescovi solo perché i primi, scelti tra le persone più mature ed esemplari, intendono dedicarsi in modo tutto particolare al servizio della comunità alla quale essi collegialmente presiedono. L'evangelista, che pure si dedica alla predicazione, lavora piuttosto tra i non credenti, mentre i vescovi si consacrano maggiormente allo sviluppo di coloro che già credono. A ragione J. Delorme osserva, contro Feuillet, che i ministri ecclesiastici non sono mai presentati nel Nuovo Testamento come l'esercizio di un sacerdozio analogo a quello dei sacerdoti ebrei o pagani, e tanto meno come una partecipazione al sacerdozio di Gesù. Le connotazioni del vocabolario sacrificale sono trasferite a vantaggio del servizio della predicazione; i vari ministeri sono partecipazione alla diakonìa di Cristo, vale a dire al suo servizio, senza che includano un potere sacerdotale superiore a quello di ogni altro credente. Il sacerdozio istituzionale scompare a beneficio del sacerdozio comune di tutti i credenti.

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3) Tutti celebrano il culto

Il culto durante il periodo apostolico si celebrava in case private, che però (almeno in tale occasione) erano distinte da quelle in cui si mangiava e si beveva (1 Co 11, 32 ss). La « casa» (òikos) era il nucleo dell'assemblea; l'ospitalità del capo di casa serviva da mezzo per attirare altre persone, che tutti insieme formavano « i familiari della fede» (oikéioi tês pìstos) e i « familiari di Dio» (Ef 2, 29), superando in tal modo la realtà sociologica della famiglia. Tutta la famiglia cristiana, riunita in assemblea, ha la sua patria in cielo (Fl 3, 20) e riceve l'eredità « dei consacrati » (At 20, 32; cf Ga 1, 12; Ef 1, 18). Tutti i credenti sono quindi dei sacerdoti e, come tali, compivano il culto senza bisogno di intermediari costituiti da sacerdoti istituzionali.

L'atto essenziale della cena del Signore consisteva nel mangiare il pane e nel bere il vino « in memoria» di Gesù e non nel consacrare i due elementi (1 Co 11). Paolo fu inviato in missione dallo Spirito Santo mentre i profeti e i dottori «celebravano il culto liturgico al Signore» (leitourgoûntos tò Kyrìo, At 13, 2). Ancora una volta in questo atto cultuale – che probabilmente includeva anche la cena – non si parla di sacerdoti, bensì di profeti e dottori. Alla cena vi sono delle persone che presiedono, ma non si parla di loro come di sacerdoti: quando Paolo parla di benedizione « che noi benediciamo» non si riferisce a una speciale classe di sacerdoti, bensì a tutti i cristiani di Corinto ai quali egli manda la sua lettera. La benedizione non consisteva in una consacrazione, bensì in una preghiera di ringraziamento realizzata sul calice per indicare che il suo contenuto non aveva più il significato di vino comune ma serviva, in quel momento, da segno del Cristo morto e risorto. Paolo poi non era nemmeno presente a Corinto, dove per di più mancavano ancora i presbiteri e dove dominava un clima di carismi non istituzionali, almeno in quel tempo.. Che già presso i primi cristiani, ancora antecedentemente al tempo di Ignazio e di Giustino (II secolo), vi fosse chi presiedeva alla cena del Signore, risulta evidente dagli usi ebraici. Nelle cene festive degli ebrei, soprattutto al momento della « benedizione », vi era sempre uno che presiedeva: il padrone di casa, il padre di famiglia, un ospite di riguardo (Billerbeck IV, 621-627). Anche l'ultima cena di Gesù fu presieduta dallo stesso salvatore in persona.

La mancanza di un sacerdote istituzionale era tuttora esistente al tempo della Didaché (Siria, fine I secolo o inizio del II) dove si legge: «Ai profeti permettete di ringraziare (eucharistéin) per l'Eucarestia come vogliono » (10, 7). Quindi la preghiera non spettava ad eventuali sacerdoti! Solo in seguito i vescovi e i diaconi succedono ai profeti e ai maestri nel servizio liturgico: « Costituitevi dunque – è perciò ancora la comunità postapostolica che se li sceglie – dei vescovi e dei diaconi degni del Signore... perché essi esercitano per voi il ministero liturgico (leitourgoûsi... tên leitourgìan) al posto dei profeti e dei maestri». Dunque secondo i primi documenti cristiani la cena del Signore era compiuta non solo dai vescovi/presbiteri, ma anche dai profeti e dai maestri, che non si distinguevano dagli altri cristiani per uno speciale carattere sacerdotale. Anzi, secondo Paolo, la cena è un'azione comunitaria del cui buon andamento tutti sono responsabili, perché in essa tutti mangiano del pane e bevono del vino – è l'azione essenziale – e tutti proclamano la morte del Signore finché venga (1 Co 16, 25 s). Per questo la Didaché, rivolgendosi a tutti i fedeli, e non a una speciale classe sacerdotale, dice:

Dopo esservi riuniti nel giorno del Signore, spezzate il pane e offrite il ringraziamento, avendo prima confessato i vostri sbagli, affinché il vostro sacrificio sia puro (Didaché 14, 1). In ogni luogo e in ogni tempo si offre il sacrificio puro a Dio (Didaché 14, 3).

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c) L'imposizione delle mani

Quando era attuata, non consisteva affatto in una consacrazione sacerdotale. Va anzitutto ricordato che il Nuovo Testamento non parla mai della imposizione delle mani quando si tratta di scegliere i vescovi/presbiteri. Il verbo cheirotonéo degli Atti non indica «imporre le mani », bensì «scegliere, eleggere una data persona per un particolare compito», il che all'origine si compiva con alzata di mano. L'imposizione delle mani che Timoteo è invitato a compiere con circospezione non si riferisce necessariamente ai vescovi/presbiteri, in quanto alcuni studiosi la riferiscono alla riconciliazione dei peccatori ravveduti, quale segno di comunione fraterna. Ma se anche si volesse riferire ai vescovi/presbiteri, Paolo, con tale sua affermazione, vuole solo raccomandare all'evangelista Timoteo di non affidare un incarico – che non era propriamente sacerdotale – a una persona senza averla prima provata, affinché egli non sia ritenuto responsabile dei danni causati da una scelta precipitosa. Del resto Timoteo era solo un evangelista e non un vescovo, come avrebbe potuto consacrare vescovo una persona, lui che ne sarebbe stato inferiore?

L'imposizione delle mani (anche se ci fosse stata) era un uso ebraico compiuto per conferire ad una persona un incarico speciale. Con tale rito Mosè conferì a Giosuè la saggezza indispensabile per ben guidare Israele nella conquista della Palestina (Nm 27, 18-23; Dt 34, 9). Con l'imposizione delle mani gli scribi abilitavano i loro discepoli alla dignità di « rabbini » (maestri). Con tale rito Paolo e Barnaba vennero incaricati nella loro prima missione tra i pagani (At 13, 2 s). I sette ellenisti di Gerusalemme ricevettero l'imposizione delle mani da parte degli apostoli perché si dedicassero con amore al servizio delle vedove bisognose di cibo. A Timoteo furono imposte le mani da parte di Paolo e del « presbiterio», perché ricevesse il carisma « dell'insegnamento » (1 Ti 4, 14 ss; 2 Ti 1, 6 ss) e lo rivolgesse da buon evangelista «senza alcun timore » disposto anche a « soffrire per il vangelo » (2 Ti 1, 6 ss). Dunque l'imposizione delle mani – se vi fosse stata – non giustifica la conclusione che con essa i cristiani scelti a divenire vescovi/presbiteri erano consacrati sacerdoti. Va poi ricordato che nell'Antico Testamento i sacerdoti non erano consacrati con l'imposizione delle mani, ma con l'unzione sacra (Es 29); ora di una unzione su un particolare gruppo di cristiani non si parla mai nella Bibbia.

Da parte cattolica di tenta ora di spostare l'accento dal culto a quello della funzione propriamente stimolante dei vescovi/presbiteri. Secondo il Lyonnet « i presbiteri neotestamentari si dovrebbero comparare ai settanta anziani di Israele, chiamati a dividere con Mosè il peso della nazione (Nm 11, 17), anziché con i preti levitici ». Ora tutto ciò non milita certo a favore del loro carattere sacerdotale. Ad ogni modo quanto i teologi cattolici affermano la qualifica sacerdotale dei vescovi/presbiteri, lo fanno purtroppo senza alcuna prova. I più ecumenici tendono a presentarli solo come persone deputate dalla comunità a compiere a nome suo delle azioni religioso-cultuali. Tuttavia ricorre pur sempre la domanda: con tale deputazione rappresentativa si dona loro un potere che viene tolto agli altri membri della comunità, oppure anche gli altri cristiani restano pur sempre abilitati a compiere le medesime funzioni? Sembra logico che sia vera la seconda soluzione dal momento che, secondo questi teologi, è solo la Chiesa stessa che deputa tali persone a un ministro particolare.

I cristiani ufficialmente deputati a compiere determinate azioni, non hanno perciò stesso dei poteri superiori a quello delle altre persone che li deputano. Ogni credente è in condizione, per il fatto che è cristiano, di svolgere tali funzioni pure lui. Di più nel Nuovo Testamento di una tale deputazione sacerdotale non vi è alcuna traccia.

Va poi ricordato che i vescovi dell'epoca apostolica e subapostolica erano ancora sinonimi dei presbiteri – come abbiamo già documentato nel volume sopra la gerarchia – per cui le varie considerazioni odierne della teologia cattolica circa la ordinazione sacerdotale e la consacrazione episcopale sono del tutto superflue.. Dal momento poi che secondo la Bibbia tutti i cristiani sono sacerdoti, l'odierna distinzione tra clero (sacerdoti) e laici (non sacerdoti) manca di qualsiasi fondamento. In realtà essa risale a Origene, che per primo applicò il vocabolo « clero » (klêros) ai ministri della Chiesa. Anche per Tertulliano il « clero» include tutti coloro che sono addetti al servizio del culto. Secondo Girolamo « i chierici (clero) sono così chiamati o perché sono la porzione dei cristiani scelta dal Signore (come dice l'etimologia) o perché il Signore costituisce la loro eredità». Agostino, invece, accogliendone il significato etimologico, giustifica l'uso del vocabolo con il fatto che l'apostolo Mattia fu eletto per sorte. Klêros significa appunto « sorteggiato ». Secondo il Nuovo Testamento tutti i cristiani sono dei laici in quanto appartengono al popolo (laòs) di Dio; ma essi sono pure tutti membri del clero in quanto sono scelti a divenire tali tra i pagani (Girolamo) o tra gli ebrei increduli. Pietro usa la parola klêroi (plurale di clero) per designare i cristiani affidati in sorte agli anziani (1 Pt 5, 3). Paolo è invitato ad aprire gli occhi delle persone perché « passino dalle tenebre alla luce, dal potere di Satana a quello di Dio e per mezzo della fede in Cristo ricevano il perdono dei peccati; essi hanno la felice sorte (klêros) dei santi nella luce » (At 26, 17 s; cf Cl 1, 12). Ancora Ignazio di Antiochia bramava «di essere trovato nel clero dei cristiani di Efeso» e di partecipare così alla loro sorte, mentre Simone il mago per la sua cattiva volontà « non potè avere parte (lett. «sorte») alla parola» della salvezza (At 8, 21). Il termine « sorte » (clero) designa nella Bibbia la salvezza che Dio dona ai credenti senza alcun merito da parte loro.

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6) Conclusione

Concludo questa ricerca sul sacerdozio biblico con una citazione tratta dallo studio di un gesuita che mi sembra nella sostanza (anche se non in alcuni particolari) assai pertinente.

Nel mondo antico greco e romano il sacerdote è una figura eminentemente sacra: Aureolato di una sacralità personale religiosa e separato dalla profanità comune, funge da mediatore tra gli uomini profani e la divinità con azioni sacre, consacrate alla divinità. Questa descrizione vale, sostanzialmente anche per il sacerdozio di Israele, presso il quale assume nei tempi più remoti un aspetto divinatorio, poi la forma di predicatore della legge di Dio, ed alfine, nell'epoca postesilica, la figura di servitore dell'altare nel tempio. Ma nel Nuovo Testamento scompaiono tutti questi elementi di sacralità. Mancano le famiglie e le tribù sacerdotali; tutti possono essere chiamati carismaticamente alla diaconia ecclesiale. Mancano i luoghi sacri: il tempio è Cristo, il cielo, i fedeli; il mondo intero è il luogo a cui devono rivolgersi tutti i servitori del vangelo, per invitarlo all'obbedienza della fede. Manca un sacerdozio specifico o una casta di persone particolarmente sacre; tutti i fedeli costituiscono il popolo sacerdotale. Mancano specialmente i mediatori per il semplice fatto che tramite il Cristo e in Cristo tutti gli uomini hanno direttamente accesso la Padre. Mancano speciali azioni sacre rituali: la vita stessa è santa, in quanto è stata redenta e santificata da Dio in Cristo, e il culto è, giustamente la fede e l'amore della Chiesa, che ne sono le sue espressioni più autentiche. Non è quindi sorprendente che nel Nuovo Testamento manchi una nomenclatura sacerdotale per i ministri del vangelo o per i pastori della Chiesa (F.A. Pastor, Teologia del Ministerio Eclesial, in «Est Ecles» 45 (1970) pp. 53-90 (citazione p. 73 s).

L'immediatezza di un rapporto con Dio – continua R. Pesch – che conferisce la certezza di essere a lui accolti nel suo Figlio e la possibilità di invocarlo con l'appellativo familiare di Abba (Rm 8, 14-16), non consente più alcuna mediazione: infatti uno solo è Dio e uno solo è anche il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti (R. Pesch, Nuovo Testamento e democrazia, in Concilium 1971 n. 3 p. 64 o 464 dell'annata).

Colui che meglio di altri cattolici ha compreso il pensiero biblico sopra l'argomento trattato è indubbiamente l'assunzionista Daniel Olivier, il quale si orienta decisamente verso la presentazione luterana del sacerdozio dei fedeli. Per lui la Bibbia riconosce solo il sacerdozio dei fedeli, che è una partecipazione al sommo sacerdozio di Cristo nel quale siamo tutti innestati tramite il battesimo. Come si vede anche i teologi cattolici, quando si lasciano guidare dalla Bibbia, finiscono per capire, come credevano i cristiani del primo secolo, che tutti i cristiani partecipano al sacerdozio di Cristo senza alcun bisogno di una speciale classe di super sacerdoti. Ecco la vera vi del retto ecumenismo: la parola di Dio.

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