INTRODUZIONE AI VANGELI
CAPITOLO V°

IL VANGELO SECONDO MARCO

Fra i 27 libro del Nuovo Testamento il vangelo di Marco occupa il secondo posto dopo quello di Matteo, ma secondo il parere pressoché unanime degli studiosi questo vangelo è quello che è stato messo per iscritto per primo.

Non ha però goduto in passato di grande considerazione forse perché ha di suo soltanto 63 versetti mentre il resto si trova anche in Matteo e Luca (90% in Matteo e 50% in Luca). Per questo motivo è stato parecchio trascurato dai commentatori e dai teologi fino al secolo scorso quando è stato riscoperto dalla critica storica.

Nella ricerca delle fonti dei sinottici questo vangelo è apparso come il documento che molto probabilmente è stato alla base della rielaborazione definitiva del vangelo di Matteo e di quello di Luca.

Ecco perché oggi in qualsiasi introduzione al Nuovo Testamento il vangelo di Marco viene esaminato per primo per studiare soprattutto il materiale che esso contiene. Recentemente poi si è anche scoperto che questo vangelo ha un grande valore, non solo per il materiale antico che esso contiene, ma anche per la struttura in cui questo materiale è stato inserito. Pur essendo questa struttura difficilmente riconoscibile, essa tuttavia ci prospetta, come vedremo, una grande profondità teologica.

Autore

Dalla lettura dell’opera, scritta in un greco semitizzante, non si può dedurre altro che l’autore è un cristiano ellenistico, probabilmente giudeo. Che l’autore sia un giudeo, oltre che dai semitismi, si deduce anche dal fatto che l’opera venne subito accolta come una testimonianza autorevole della tradizione su Gesù; questo accadeva di solito per le testimonianze dei cristiani palestinesi che godevano di grande autorità.

L’opera venne pubblicata in un primo tempo in forma anonima, come scritto redatto da un membro della comunità al servizio della stessa, ed è per questo che il nome dell’autore non vi compare.

L’aver voluto poi identificare l’autore con l’anonimo giovane nudo di cui si parla in Marco 14, 51-52 è stato un tentativo apprezzabile, ma privo di fondamento. Questa ipotesi è stata avanzata dallo studioso Stauffer il quale afferma che Marco abbia voluto in questo modo «introdurre il proprio ritratto in questo angolo oscuro della scena notturna, come spesso gli artisti amavano fare anche nell’antichità» quasi come una firma dell’evangelista che sembra volersi identificare con questo giovinetto.

Il vangelo di Marco circolava all’inizio senza alcuna indicazione dell’autore e solo successivamente comparve nei manoscritti l’indicazione «secondo Marco».
Questa indicazione dell’autore si basa su una tradizione molto antica che risale alla fine del primo secolo. Eusebio di Cesarea, uno storico vissuto tra il 3° e 4 ° secolo e morto nel 339 d.C., nella sua opera «Storia Ecclesiastica» riferisce quanto Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia (110-130 d.C.), aveva udito dire dal presbitero Giovanni di Efeso.

Papia, vescovo di Gerapoli, appartenente al periodo sub apostolico e testimone della predicazione orale degli apostoli, nacque verso il 60 o il 70 d.C. e scrisse un libro di Esegesi degli Oracoli del Signore (loghiôn Kuriakôn exeghéseos) del quale conosciamo il proemio perché ci è stato conservato da Eusebio:

« Non esiterò a raccogliere nelle mie spiegazioni tutto ciò che ho appreso dai presbiteri e che ho ben conservato nella mia memoria, garantendone la verità. Io infatti non ho mai gustato i grandi parlatori, ma solo chi insegna il vero, non coloro che riferiscono precetti profani, ma solo chi riferisce i precetti del Signore, i quali vanno creduti perché provengono dalla Stessa Verità.
Appena mi si presentava l’occasione di incontrare uno che avesse conosciuto i presbiteri, io chiedevo loro ciò che avevano detto questi presbiteri, ciò che aveva detto Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni, Matteo, qualche altro discepolo del Signore e ciò che dicono Aristione o Giovanni (discepoli del Signore). Io non credevo che quanto contengono i libri, mi potesse rendere più grande servizio della voce viva e sussistente ».

Egli parla poi di Marco:

« Diceva quel presbitero (Giovanni): Marco, interprete di Pietro, scrisse con cura, ma senza ordine, tutto ciò che ricordava di quanto Cristo aveva detto e fatto»

Sono concordi con la stessa tradizione anche Giustino, Ireneo e Clemente Alessandrino. Le testimonianze di questi antichi padri della chiesa acquistano maggior valore se si pensa che Marco non fu un apostolo rinomato, ma un semplice collaboratore di Pietro e di Paolo, per cui se si fosse voluto inventare un nome per dare maggior credito al vangelo, la scelta sarebbe senz’altro caduta sulla persona di un apostolo, come si fece sempre nel caso degli scritti apocrifi. Non avere preferito il nome di un apostolo depone a favore della storicità di questa tradizione.

Si è pensato di poter identificare questo Marco con il Giovanni, detto Marco, figlio di Maria, di cui si parla in Atti 12, 12; quello stesso Marco, compagno di  Paolo e di Barnaba all’inizio del primo viaggio missionario (Atti 12, 25; Atti 13, 5.13). Lo stesso Marco fu poi anche causa di un’aspra lite fra i due apostoli che andarono ciascuno per la loro strada. Come abbiamo letto infatti in Atti 13, 13, a Perge di Panfilia Marco si separò da loro per ritornare a Gerusalemme. Per questo motivo Paolo non nutriva più molto fiducia in Marco e non voleva portarselo dietro nel secondo viaggio missionario. Sicché Barnaba, che era tra l’altro anche legato a Marco da vincoli di parentela, essendo cugini, lo prese con sé e si recarono insieme a Cipro (Atti 15, 35-39).

Successivamente ci deve essere stata una pacificazione fra l’apostolo Paolo e Marco perché troviamo costui presente accanto a Paolo che era prigioniero a Roma (Cl. 4, 10; Filem 24; 2 Ti 4, 11). Marco viene anche nominato in una lettera di Pietro come «suo figlio », appellativo da intendersi probabilmente come paternità spirituale, non potendosi escludere che Marco sia stato convertito a Cristo dalla predicazione dell’apostolo Pietro quando frequentava la casa di sua madre (1 Pietro 5, 13; Atti 12, 12).

Destinatari

L’analisi interna del vangelo sembra confermare la tradizione secondo la quale Marco deve aver scritto il suo vangelo se non proprio a Roma per lo meno in un ambiente latino. Come se si trovasse di fronte a persone che non conoscevano le usanze ebraiche, si sofferma a spiegarle:
« Poiché farisei e tutti i giudei non mangiano se non si sono con gran cura lavate le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi; e quando tornano dalla piazza non mangiano se non si sono purificati con delle aspersioni. E vi sono molte altre cose che ritengono per tradizione, come lavatura di calici, di brocche, di vasi di rame e di letti » (Mc 7, 3-4).

Di solito l’evangelista traduce in greco le parole che riferisce in aramaico, come: Effata ("apriti"), Eloi lamma sabactanì ("Dio mio, perché mi hai abbandonato"), Boanerges ("figlio del tuono"), geenna ("fuoco indelebile"), Bartimeo ("il figlio di Timeo"), Abbù ("padre"), Golgotà ("luogo del cranio"). Conserva tuttavia Rabbunì ("Maestro mio!") senza tradurlo (Mc 11, 51).

Il vangelo di Marco è quello che più degli altri presenta i vocaboli latini, confermando in tal modo di essere stato scritto in una regione latina (forse la stessa Roma), come kràbattos (lat. grabatus = letto); legio (lat legio = legione Mc 5, 9.15); speculator o soldato romano incaricato di far la guardia ai prigionieri (Mc 6, 27); sextarion (kséstès = sextarius); dênàrion (da denarius = denaro, Mc 12, 42); kénsos (lat census = censo); kodràntês (lat quadrans = quadrante, Mc 12, 42); flagello (flagellatus, flagellati); praitòrion (= pretorio, Mc 15, 16; c’è però anche in Mt 27, 27, forse copiato da Marco); kenturiòn (= centurione, anche Matteo perché era di uso comune); mòdios (lat modius = modia, moggio, Mc 4, 21, ma vi è pure nei paralleli di Matteo e Luca che derivano da Marco).

Questo è ancora più chiaro per il fatto che usa vocaboli latini per spiegare un termine greco: Leptù duo (= due spiccioli) che fanno un quadrante (kodràntês) (Mc 12, 42); «L’aula (eso tês aulês) del tribunale di Pilato, "vale a dire il preto-rio"» (Mc 15, 16; Matteo parla solo di "pretorio").

Forse il ricordo, in Mc 15, 21, dei figli del Cireneo, vale a dire di Alessandro e Rufo, si spiega con il fatto che, scrivendo a Roma, Marco ricorda questi due cristiani ivi probabilmente conosciuti. Paolo, infatti, rivolgendosi ai Romani, vi saluta un certo "Rufo", là residente con la madre, e che potrebbe anche essere il figlio del Cireneo (cf Rm 16, 13).

Marco usa inoltre uno stile semplice, nel quale moltiplica la parola "ecco" all’inizio delle frasi (Mc 2, 24; 3, 22; ecc.); preferisce le coniugazioni con il verbo essere e il participio al posto dell’imperfetto del verbo ("Gesù era loro precedente" anziché "precedeva"). Ama la doppia negazione, il presente storico (151 volte), specialmente con i verbi "egli dice", "essi dicono" (72 volte). Ama congiungere le frasi con il semplice "e" (paratassi), oppure con la parola "euthùs" (42 volte), che si dovrebbe tradurre con "subito, tosto, immediatamente", ma che presso Marco ha il significato ridotto di "poi". Tutto questo si spiega sia con il fatto che il semita Marco riporta una traduzione aramaica, sia con il fatto che egli, senza pretese letterarie, non intende creare delle novità, ma solo riferire quanto ha sentito oralmente in forma colloquiale. Il che potrebbe avvalorare la tradizione che gli attribuisce l’intento di riportare la "lieta notizia" così come era predicata da Pietro, senza variarla affatto e che egli conosceva a memoria.

Anche il contenuto del vangelo di Marco coincide con la predicazione petrina conservata in riassunto dagli Atti (c. 10) e che inizia con la vita pubblica di Gesù dopo il battesimo ad opera di Giovanni (così almeno secondo la trama dei discorsi riportati da Luca).

C.H. Turner, in una serie di studi dal titolo Marcan Usage, mostra tra l’altro che il pronome di terza persona – per la vividezza del contenuto – sembra talora tradire il ricordo dell’originario pronome di prima persona usato da Pietro. Così, ad esempio, Mc 1, 29 suppone un originario: « Io entrai a casa assieme a Giacomo e Giovanni; e la mia suocera era ammalata, a letto con la febbre, e subito io lo avvisai di ciò ».

Anche l’aggiunta « e a Pietro» del colloquio del giovinetto con le donne sul Gesù risorto : « Andate a dirlo ai suoi discepoli e a Pietro . . . » (Mc 16, 7), che manca presso gli altri evangelisti, si può spiegare meglio come una reminiscenza personale petrina.

Secondo il Masson l’origine romana del vangelo di Marco risulterebbe confermata anche dal fatto che l’evangelo evita il termine "giudei", malvisto presso i romani (Tacito, Annali XV), per insistere sui particolari che Gesù era un galileo; che in Galilea devono avverarsi anche le sue apparizioni; che la sua morte è frutto della cospirazione giudaica la quale, facendo leva sulla folla, forza la mano di Pilato, ottenendo l’esecuzione di Gesù, da lui ritenuto innocente. Egli preferisce il verbo didàskein (insegnare) al verbo Keryssein (annunciare, spesso mediante un araldo), perché si presta meno all’interpretazione di un Gesù facinoroso. Nell’invio dei dodici, egli ricorda solo l’invito al ravvedimento senza l’annunzio del regno (Mc 6, 12), quasi temesse che il Maestro fosse identificato con un propagandista del regno giudaico in opposizione a quello di Cesare. L’omissione del "Padre nostro" e l’enfasi data alla pericope sul tributo da offrire a Cesare potranno rispondere alla medesima preoccupazione.

Si può quindi concludere che l’autore del secondo vangelo fu un giudeo convertito, che, trasferitosi in una comunità "romanizzata" e forse esistente a Roma, scrisse il suo vangelo seguendo, come testimone auricolare, la predicazione di Pietro. Ora tutto ciò conferma la tradizione che il secondo vangelo fu scritto dal giudeo Marco, mentre si trovava a Roma, dove pose in iscritto la predicazione petrina. Da quanto precede risulta meglio comprensibile l’ispirazione del libro in quanto – come fecero i discepoli nel caso dei profeti veterotestamentari – Marco non presentò uno scritto personale, ma solo raccolse ciò che un ispirato testimone oculare andava predicando.

Data di composizione

Si presume che il vangelo di Marco sia stato scritto fra gli anni 64 e 70 in quanto il discorso escatologico del capitolo 13 riflette probabilmente la situazione del 64-66 prima dell’assedio di Gerusalemme da parte dei Romani, mentre l’insistenza sulla sofferenza e sulla persecuzione si spiega molto bene con il tempo della persecuzione di Nerone avvenuta nell’anno 64.

D’altra parte, nel discorso del c. 13 si parla con minor precisione della distruzione di Gerusalemme, che invece Luca, per esempio, segnala con maggior precisione. Mentre Marco dice: «Or quando vedrete l’abominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta dove non dovrebbe essere » (Mc 13, 14) , Luca dice: « Or quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate che allora la sua desolazione è vicina» (Lc 21, 20). La minor precisione di Marco è un indizio che ci fa presumere che egli scriva prima dell’evento vero e proprio della distruzione di Gerusalemme.

Qualità stilistiche del Vangelo di Marco

Pur non essendo stato testimone oculare dell’attività del Cristo, l’autore del secondo vangelo è assai vivo, smagliante, pittorico e incisivo come lo poteva essere il testimone oculare da lui riprodotto.

Scorrendo il secondo vangelo, il lettore diviene partecipe a quelle scene così vivamente descritte: vede la folla dai colori smaglianti che, seduta sull’erba verde, vi forma quasi delle variopinte aiuole (Mc 6, 39s); partecipa allo stupore di coloro che erano presenti alla guarigione dell’indemoniato (Mc 1, 23-28); vede Gesù che riposa in barca con il capo appoggiato su di un "cuscino" (Mc 4, 36ss) ed è colpito dal colore delle vesti di Gesù, che durante la trasfigurazione diventano « luccicanti, bianche assai, come nessun lavandaio sulla terra riesce a sbiancare » (Mc 9, 3); l’asinello condotto da Gesù « era legato dinanzi alla porta fuori nel bivio » (Mc 11, 4); l’aula di Caifa doveva essere posta al di sopra dell’atrio (Mc 14, 66 "giù", Matteo "fuori", Luca "in mezzo alla corte"). Non c’è quasi un sol racconto in cui Marco non presenti un suo tratto caratteristico. Si noti come questi particolari non possono che risalire ad un testimone oculare e cioè a Pietro il quale fu presente a tali fatti, più degli altri apostoli.

Anche la persona di Gesù è colta nel vivo: Marco ci parla del suo sguardo ad un tempo severo e dolce:
« E guardando attorno con collera, costernato dalla durezza del loro cuore, disse» (Mc 3, 5).
« Guardando verso il cielo, disse: Effata, che significa "apriti" » (Mc 7, 34).
« E Gesù, avendolo fissato negli occhi (emblépsas), l’amò » (Mc 10, 21).

L’evangelista ricorda pure i molti rimproveri che Gesù rivolse ai discepoli:
« Rientrato in casa, lungi dalla folla, i suoi discepoli lo interrogarono sulla parabola ed egli disse loro: Anche voi non siete intelligenti? Non comprendete? » (Mc 7, 18).
« Un’altra volta, conosciute le loro preoccupazioni, Gesù disse loro: Perché andate così pensando tra voi? Non abbiamo del pane? Non avete ancora riflettuto? Non avete ancora compreso? Dunque anche voi avete un cuore di pietra? Con gli occhi non vedete e con le orecchie non intendete? » (Mc 8, 17-21).

Non di rado poi egli presenta il luminoso amore di Gesù che Pietro aveva intuito nel suo perdono.
« E abbracciandoli (i piccoli) Gesù li benediceva imponendo loro le mani » (Mc 10, 16).

L’immagine derivata da questi tratti è impressionante e piena di vita. Il vangelo di Marco è la testimonianza di uno che ha visto gli eventi. È plausibile quindi che egli riporti fedelmente la predicazione di Pietro imparata a memoria.

Marco, riferendo storie simili, le racconta in modo assai simile, evitando variazioni, il che si spiega ancora con il fatto che cerca di ripetere fedelmente una tradizione o insegnamento orale. Le due scene della sinagoga sono identiche (Mc 1, 21-27; Mc 6, 1-2); lo stile di certi esorcismi è sempre quello (Mc 1, 23-27; Mc 5, 2-20); la preparazione sull’ingresso trionfale di Gesù è identica ai preparativi della cena pasquale (Mc 11, 1-4; Mc 14, 13-16).

Critica Testuale

Noi sappiamo che il testo greco attuale dei vangeli e degli altri scritti neotestamentari non è quello originale scritto dai rispettivi autori. Il testo originale su papiri o su pergamene come tutte le cose deperibili di questo mondo è stato perduto. Il testo greco giunto fino a noi è il risultato della copiatura del testo originale da parte di scribi che pazientemente trascrivevano con scrupolosità parola per parola questi testi su papiri o su pergamene, sia perché gli originali con l’uso erano diventati vecchi e consunti, sia perché c’era la necessità di riprodurre altre copie per scopi liturgici, catechetici e missionari. Queste copie a loro volta diventavano vecchie e venivano ricopiate nuovamente. Le scoperte archeologiche hanno portato alla luce alcuni di questi testi ricopiati che sono stati chiamati codici.

Sono stati trovati codici in molte località dell’Asia, dell’Africa e dell’ Europa, alcuni molto antichi, risalenti ad appena pochi anni dagli originali, altri più recenti, che messi insieme riproducono per intero tutti i libri del Nuovo Testamento. Come avviene sempre nelle cose umane, gli scribi che hanno copiato  e ricopiato questi testi, pur avendo svolto questo lavoro con la massima scrupolosità, qualche volta hanno commesso degli errori di trascrizione su qualche parola o su qualche brano. Mettendo a confronto tutti i manoscritti in nostro possesso, provenienti da diverse località e da diverse epoche, si notano alcune piccole differenze che non intaccano però la sostanza dell’intero messaggio cristiano. La critica testuale è quindi la scienza che, per mezzo di alcuni criteri appositamente studiati, ha il compito di ricostruire, confrontando i vari manoscritti, un testo che sia il più vicino possibile a quello originale. Tutti oggi sono concordi nel dire che solo il testo originale è quello ispirato e non le copie che sono giunte fino ai nostri giorni. È quindi assolutamente indispensabile ricostruire questo testo originale per essere sicuri di poter leggere oggi lo stesso testo che gli autori ispirati hanno scritto parecchi secoli fa.

Secondo le conclusioni della critica testuale, il testo originale di Marco ci è giunto in forma completa ed in condizioni sostanzialmente buone, attestato in papiri, manoscritti, traduzioni, lezionari e testimonianze indirette di scrittori che risalgono agli inizi del 3° secolo. Il papiro 45 degli inizi del terzo secolo ha di Marco soltanto alcuni frammenti, mentre i manoscritti Sinaitico e Vaticano del 4° secolo lo contengono in versione integrale. E’ composto di 16 capitoli che vanno da 1, 1 a 16, 8, con un appendice (16, 9-20) aggiunta in epoca molto antica poiché vi sono indizi della sua esistenza fino dall’anno 150 d.C.. Inoltre nel vangelo di Marco ci sono dei versetti che sembrano non appartenere all’opera originale e quindi non sono autentici. Si tratta dei versetti 7, 16; 9, 44.46; 11, 26; 15, 28 che mancano nei maggiori o più antichi manoscritti e non sono neppure riportati in alcune traduzione cattoliche ed in quella del Luzzi, come ho avuto modo di constatare.

Esiste inoltre il dubbio se l’inzio del vangelo di Marco sia «Il principio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio » o più semplicemente «Il principio del vangelo di Gesù Cristo», come viene riportato da alcuni manoscritti. Il valore ed i numero dei manoscritti pro o contro questa lezione non ci permettono di decidere in favore o contro di essa. Il versetto 1 è da considerarsi come il titolo dell’intera opera di Marco ed un titolo lungo spiegherebbe bene il contenuto dell’intero vangelo che presenta Gesù come Figlio di Dio nei punti più salienti: nella trasfigurazione, nella condanna di Gesù e nella sua crocifissione.

Il problema più grande di critica testuale riguarda però la finale di Marco, quella che abbiamo chiamato prima l’appendice e che va dal v. 9 al v. 20 del cap. 16. Questa finale o appendice si presenta nei vari manoscritti in nostro possesso in quattro maniere diverse:

a) Finale mancante. In questa forma il vangelo termina al v. 16, 8 con le donne che fuggono e non dicono nulla a nessuno perché avevano paura (efobûnto gàr), come possiamo leggere nei primi 8 versetti del capitolo 16. Troviamo il vangelo di Marco che termina in questo modo nei due migliori manoscritti greci del 4° secolo: il Sinaitico (S) ed il Vaticano (B). Troviamo inoltre questa finale mancante anche nella versione Siro-sinaitica (manoscritti scoperti nel Sinai), in alcuni manoscritti delle versioni armena, etiopica e georgiana. L’assenza dei versetti da 9 a 20 è testimoniata anche da Clemente Alessandrino, Origène, Eusebio e Girolamo.

b) Lezione breve. Un codice parigino dell’8° secolo (L), un altro del Monte Athos (8°-9° secolo), il Bobiense (latino del 5° secolo)  e qualche altro, hanno questa finale dopo il versetto 8:
« Esse raccontarono brevemente ai compagni di Pietro quanto era stato loro detto. In seguito lo stesso Gesù fece loro portare dall’oriente all’occidente il messaggio sacro e incorruttibile di salvezza ».

c) Finale lunga. È quella generalmente presentata nelle traduzioni del nostro vangelo; si trova nella Volgata latina, nell’antica latina, nei codici greci A (Alessandrino del 5° secolo), C (Efraimita del 5° secolo), D (Cambridge, Beza, Cantabrigense, 5° - 6° secolo). Questa finale narra brevemente le apparizioni di Gesù alla Maddalena e agli apostoli, ai quali impose l’obbligo di recare l’evangelo a tutte le creature assicurando la conferma prodigiosa da parte dello Spirito Santo (vv. 9-20).

d) Finale lunghissima. E’ stessa finale lunga precedente con un’ulteriore aggiunta dopo il v. 14 nella quale Gesù rimprovera l’incredulità degli apostoli. Si legge nel codice W (Washington), pure detto codice Freer (4° - 5° secolo): « E questi dissero a loro difesa: Questo secolo d’incredulità e d’iniquità è sotto il dominio di satana che non permette a coloro che stanno sotto il giogo degli spiriti impuri di conoscere la verità e la potenza di Dio. Rivela dunque da questo momento la tua giustizia! Ecco quanto essi dicevano al Cristo. E il Cristo rispose loro: Il termine degli anni della dominazione satanica è completo; tuttavia altre cose terribili sono vicine. Io fui dato in balia della morte per coloro che hanno peccato, affinché essi si convertano alla verità e più non pecchino, affinché ereditino la gloria della giustizia spirituale e incorruttibile del cielo. Ma andate . . . ».

Per semplificare il problema di queste finali possiamo senz’altro eliminarne due:

1. La finale lunghissima che, essendo riportata da un solo codice W (Washington) detto Freer , può essere semplicemente trascurata.

2. La finale breve, riportata solo da pochi manoscritti, non è certamente genuina e non può competere con la finale lunga.

Quindi il problema sostanzialmente si limita a verificare la genuinità della sola finale lunga.

A favore della sua autenticità abbiamo la maggioranza dei manoscritti greci e delle versioni di provenienza cosmopolita. Inoltre il fatto che questa finale fosse già nota ad Ireneo ed inserita nel Diatessaron di Taziano, ci fa capire che essa risale almeno al 2° secolo d.C.. Anche il tenore del testo, assai semplice, è ben diverso dal colorito fantastico degli scritti apocrifi.

D’altra parte contro la sua autenticità si ergono difficoltà non indifferenti:

1. Come abbiamo detto prima, i vv. 9-20 del c. 16 sono omessi dai migliori  manoscritti: Sinaitico (S) e Vaticano (B), e dalla versione siro-sinaitica. Per la loro importanza questi soli manoscritti controbilanciano tutti i manoscritti degli altri codici e versioni che riportano invece la finale lunga. L’omissione di questi versetti è attestata anche da Clemente e Origène e manoscritti senza questa finale erano noti anche ad Eusebio e Girolamo, i quali ci avvertono che tutti i manoscritti più accurati terminano con Mc 16, 8 (vedi Eusebio in Questiones ad Marcum 1 e Girolamo in Epistola 120, 3).

2. La stessa critica letteraria interna è contraria all’autenticità della finale perché si osserva:

a) che manca continuità tra il v. 8 (donne che fuggono senza dire nulla) ed il v. 9 (nuova apparizione alla Maddalena);

b) contro lo stile usuale di Marco, che ama la vivacità ed i particolari, appare qui un brano schematico che presenta alcune apparizioni di Gesù, come se non vi fosse stato alcun preannunzio precedente (vedi Mc 16, 1-8);

c) presenta Maria Maddalena come una donna dalla quale Gesù aveva cacciato sette dèmoni, quasi fosse una sconosciuta, mentre questa stessa donna era stata appena nominata al v. 1 dello stesso capitolo;

d) appaiono forme stilistiche nuove, mai usate da Marco, come il termine Kýrios (Signore) al v. 19;

e) anche la parola indicante "settimana" che troviamo al v. 9 (pròte sabbàtu = lett. primo del sabato) è diversa da quella usata al v. 2 (tê miâ tôn sabbàton = lett. primo giorno dei Sabati);

f) il brano aggiunto è semplicemente un riassunto degli altri vangeli, specialmente di Luca (v. 12 i due discepoli di Emmaus);

g) nel v. 18 appare un motivo taumaturgico che riscontriamo spesso anche negli apocrifi.

Tutte queste ragioni militano contro la provenienza del brano dall’evangelista Marco e conseguentemente contro la sua genuinità ed ispirazione. Tuttavia, data la sua antichità (2° secolo), si può essere d’accordo sul fatto che siamo in presenza di un’autentica reliquia della prima generazione cristiana che ci testimonia il pensiero e la prassi dei primi cristiani.

Dobbiamo aggiungere, come ulteriore informazione, che i cattolici sono generalmente favorevoli alla sua canonicità in quanto la Pontificia Commissione Biblica del 26 giugno 1912 (Denz. Sch. 2156) ha affermato che non vi sono sufficienti ragioni per negarne l’autenticità. Di più, siccome dal decreto del Concilio di Trento risulta che la Bibbia (si intende la Volgata) con tutte le sue parti è ispirata, essi deducono che vi debba essere inclusa anche la finale di Marco, aggiunta posteriormente al suo vangelo (Decreto 8 aprile 1546 EB 57-60).

D’altra parte, essendo difficile pensare che il Vangelo di Marco terminasse con il v. 8 per i seguenti motivi:

a) sia per le due profezie di apparizioni in Galilea (Mc 14, 28; 16, 7) senza indicarne il loro avverarsi;

b) sia per l’improvvisa finale che sembra in attesa di un ulteriore completamento;

c) sia perché sembra strano che un vangelo termini con la paura delle donne.

molti studiosi pensano che questo scritto sia rimasto incompiuto o per l’improvvisa morte dello scrittore, oppure perché la vera finale, in cui si parlava probabilmente dell’apparizione di Gesù a Pietro (cf Gv 21 e 1 Cor. 15, 5), sia andata sfortunatamente perduta in quanto era possibile per gli antichi manoscritti perdere l’ultima pagina.

Il materiale letterario

Qual è stato il materiale letterario usato da Marco nel suo vangelo? Da un primo sguardo generale a questo materiale possiamo dedurre le seguenti caratteristiche:

* Mancano i grandi discorsi che troviamo invece in Matteo. Se facciamo eccezione per il discorso in parabole (4, 2-34) ed il discorso escatologico (13, 5-37), quello di Marco è soprattutto uno stile narrativo. Gesù è presentato per mezzo di fatti e in questi fatti è inserito il suo insegnamento.

*I fatti stessi e le narrazioni non hanno tutti il medesimo stile. Accanto a narrazioni vivide, immediate, ricche di particolari visivi (ad es.: l’indemoniato geraseno in 5, 1-20 o la guarigione della figlia di Giairo in 5, 21-43), ci sono anche narrazioni brevi e scarne, fatte con termini generali, come quella sulla elezione dei dodici (3, 13-15) ambientata vagamente in un "monte", o quella sullo sbarco a Gennesaret (5, 53-55).

Da un punto di vista formale il materiale letterario di Luca può essere diviso in:  apoftegmi, racconti di miracoli, narrazioni su Gesù e sommari. Vediamo ora di definire e fare qualche esempio di ciascuna di queste particolari forme letterarie.

1) Gli apoftegmi

Questo è un termine tecnico usato comunemente dagli studiosi per identificare alcune  brevi narrazioni, spesso accompagnate da dispute, che tendono a mettere in evidenza un particolare detto di Gesù. Nel vangelo di Marco se ne contano circa una ventina:

– guarigione di un paralitico: Gesù, il Figlio dell’uomo, ha il potere di perdonare in peccati in terra (Mc 2, 1-12);
– Levi: Gesù mangia con i peccatori, egli è venuto per loro (Mc 2, 13-17);
– digiuno: Gesù inaugura un nuovo ordine, non si digiuna mentre c’è lo sposo, ma soltanto alla sua partenza (vino nuovo e vino vecchio, vestito nuovo e vestito vecchio; Mc 2, 18-22);
– superiorità di Gesù sul Sabato (Mc 2, 23-28);
– ciò che è lecito di Sabato: il precetto morale (fare il bene sta al di sopra del rito di Sabato; Mc 3, 1-6);
– i veri parenti di Gesù (Mc 3, 31-35);
– tributo a Cesare (Mc 12, 13-17)
– elemosina (Mc 12, 41-44).

Parecchi di questi apoftegmi li troviamo radunati in gruppi, secondo la materia trattata. Ad esempio in Mc 2, 1 -3, 6 troviamo un primo gruppo di cinque controversie che vengono comunemente chiamate «le cinque controversie galilaiche» nelle quali viene ogni volta messo in risalto un particolare detto di Gesù.

2) I racconti di miracoli

Anche tra gli apoftegmi ci sono alcuni racconti di miracoli, come ad esempio quello del paralitico in 2, 1-12 o quello dell’uomo dalla mano secca in 3, 1-6. Ma per racconti di miracoli qui si intendono quelle narrazioni in cui l’interesse centrale è il miracolo stesso, mentre negli apoftegmi l’apice è costituito dal detto di Gesù.
In genere i racconti di miracoli hanno una struttura tripartita: le circostanze, il miracolo in sé, gli effetti. I racconti di miracoli in Marco, pur mantenendo questo schema generale, hanno però spesso un particolare numero di dettagli visivi e circostanziati, che sono caratteristici di Marco, e la cui esistenza si spiega facilmente se si ammette che alla base di questi racconti c’è la presenza di un testimonio oculare. Nel caso di Marco si pensa alla persona dello stesso Pietro di cui Marco avrebbe riferito la predicazione orale imparata a memoria e ricordata nel suo vangelo. Le narrazioni di questo tipo sono circa 17:

– indemoniato di Cafarnao (Mc 1, 23-28);
– suocera di Pietro (Mc 1, 29-31);
– lebbroso (Mc 1, 40-45);
– tempesta del lago (Mc 4, 35-41);
– indemoniato di Gadara (Mc 5, 1-19)
– figlia di Giairo (Mc 5, 21-24.35-43)
– donna con il flusso di sangue (Mc 5, 25-34);
– pani per cinquemila (Mc 6, 35-44);
– epilettico (Mc 9, 14-29).

Anche i racconti miracoli, come gli apoftegmi, sono raggruppati insieme. Bisogna però notare che, mentre gli apoftegmi sono per lo più riuniti con riferimento alla dottrina che contengono, i miracoli sono raggruppati per mezzo di riferimenti di carattere geografico e cronologico: « subito, usciti dalla sinagoga» (Mc 1, 29), « venuta la sera » (Mc 1, 32), « il mattino assai prima dello spuntar del giorno » (Mc 1, 35). Usualmente, salvo rare eccezioni come nel caso del lebbroso e dell’epilettico, i miracoli sono connessi con una località.

3) Narrazioni su Gesù

Simili ai racconti di miracoli, ma diversi per il contenuto, sono altre narrazioni, spesso vivide e ricche di particolari, che hanno uno scopo più specificamente biografico, cioè di descrivere eventi della vita di Gesù:

– Giovanni il Battista (Mc 1, 1-8);
– battesimo di Gesù (Mc 1, 9-11);
– tentazione (Mc 1, 12-13);
– chiamata dei primi 4 discepoli (Mc 1, 16-20);
– Gesù da solo (Mc 1, 35-37);
– Gesù respinto dai Nazaretani (Mc 6, 1-6);
– narrazione della passione ( 14, 1 - 16, 8).

Sembrano derivare da un testimone oculare; invece i seguenti racconti sono assai meno vividi e scritti in una lingua meno pittoresca:

– la elezione dei dodici (Mc 3, 13-15)
– timori dei parenti di Gesù (Mc 3, 20-21);
– missione dei dodici (Mc 6, 7).

4) I sommari

Oltre al materiale classificato fin qui, vi sono ancora nel vangelo di Marco alcuni brani che non rientrano nelle categorie sopra indicate e che pure hanno una notevole importanza per la struttura dell’opera. Per la loro funzione di non riferirsi ad un solo evento particolare, ma di esprimere il ripetersi di alcuni fatti o atteggiamenti nella vita di Gesù, sono detti "sommari". Il tempo che li caratterizza è l’imperfetto, mentre il tempo proprio delle altre narrazioni è l’aoristo o il presente storico.

Affini ai sommari sono anche alcune frasi di carattere ugualmente generale, che ammettono però, a differenza dei sommari strettamente intesi, anche l’uso del presente e talora dell’aoristo che servono per introdurre o legare tra loro gruppi di narrazioni.

Ecco un elenco dei sommari e delle frasi introduttive o conclusive:

- Mc 1, 14-15.21-22.39;
- Mc 2, 13;
- Mc 4, 33-34;
- Mc 6, 7a.12-13.55-56;
- Mc 7, 24.31;
- Mc 8, 10.27;
- Mc 9, 30;
- Mc 10, 1.32

Vi sono ragioni per pensare, ed alcuni studiosi hanno avanzato questa ipotesi, che anche questi sommari, come il materiale narrativo nel suo complesso, preesistessero al vangelo di Marco. Infatti essi, letti di seguito, prescindendo dal materiale narrativo, ci danno per sé stessi una sintesi della vita di Gesù che stranamente corrisponde a quella presente nei discorsi di Pietro e di Paolo negli Atti degli Apostoli (specialmente At 10, 37-40; 13, 31) costruiti con materiale antico. Inoltre essi non sembrano costruiti in relazione ai fatti che li precedono o li seguono immediatamente. Questo fa pensare ad una certa indipendenza di questi sommari dal materiale narrativo, e ha fatto esprimere l’ipotesi che Marco abbia unito insieme elementi in qualche modo già preesistenti anche della tradizione verbale. Tuttavia in tempi recenti i critici hanno preferito piuttosto sottolineare che Marco stesso abbia di sua mano compilato questi sommari per legare insieme il materiale preesistente e dare ad esso una struttura e dividere così le varie sezioni del suo vangelo secondo un ben preciso pensiero teologico.

Dall’analisi di tutto questo materiale nel suo complesso, come abbiamo già visto, Marco, più che riferire i discorsi di Gesù, ama presentarne i miracoli, i quali nel suo breve vangelo assommano a diciannove ed alcuni gli sono propri, come la guarigione del muto e del cieco di Betsaida (Mc 7, 31-37; 8, 22-26). Tra i miracoli egli predilige la liberazione degli indemoniati, dei quali riferisce estesamente ben quattro episodi, contro i tre di Matteo e di Luca ed il silenzio totale di Giovanni.

Divisione e struttura del vangelo di Marco

Da Papia apprendiamo che già anticamente il presbitero Giovanni, del 2° secolo, affermava che Marco scrisse il suo vangelo «senza ordine». Più recentemente lo studioso Loisy ha definito questo vangelo come « un’amalgama di miracoli e istruzioni, un ammasso di ricordi ». Eppure mediante un’analisi più profonda anche il vangelo di Marco rivela una sua unità e l’intenzione dell’autore di presentare nella stesura di questo vangelo un insegnamento teologico.

Tenendo infatti conto del suo contenuto e di alcuni sommari possiamo riconoscere in questo vangelo almeno quattro grandi sezioni:

I. Introduzione: predicazione del Battista (Mc 1, 1-13). La prima sezione, composta soltanto di 13 versetti, è molto breve e può essere anche chiamata il "prologo". In questi 13 versetti Marco rievoca i fatti precedenti l’attività di Gesù in Galilea. Ciò che Matteo e Luca trattano in maniera più ampia, Marco lo presenta in maniera molto sintetica.

II. Prima parte: ministero galilaico o progressiva rivelazione di Gesù come Messia. Questa seconda sezione è molto diffusa e va da Mc 1, 14 a Mc 8, 30. Alla fine, ai versetti 28-30, Pietro riconoscerà Gesù come il Messia, Questo è quanto i discepoli avevano un po’ alla volta percepito stando assieme a Gesù. Questa sezione può essere suddivisa a sua volta in tre sottosezioni:

a) Inizio del ministero galilaico (Mc 1, 14 - 3, 6); è preceduta dai sommari che troviamo ai vv. 14-15 in cui è compendiata l’attività che Gesù svolgerà in Galilea. Abbiamo all’inizio un cauto insegnamento di Gesù alle folle che suscita tuttavia impressione e stupore per l’autorità e la potenza con cui questa predicazione viene svolta.

b) Dopo l’iniziale successo l’attività di Gesù incontra l’opposizione della sua stessa famiglia e degli scribi venuti apposta da Gerusalemme. Dopo alcune parabole e miracoli, Gesù viene scacciato da Nazaret; missione dei dodici (Mc 3, 7 - 6, 13).

c) Compiuti alcuni miracoli, tra cui due moltiplicazioni di pani; Gesù si allontana dalla Galilea (Mc 6, 14 - 8, 30).

III. Parte seconda: dalla Galilea alla Giudea. La seconda grande parte o terza sezione può essere intitolata il mistero del Figlio dell’uomo e va da Mc 8, 31 a Mc 13, 37. Anche questa seconda parte o terza sezione può essere suddivisa in due sottosezioni:

a) Dopo il punto centrale del Vangelo che è la confessione di Pietro nei riguardi di Gesù (Mc 8, 29), Gesù si rivolge ai discepoli e cerca di indicare loro che la sua missione richiede la sua morte a Gerusalemme (Mc 8, 31; 10, 31-32). Con la trasfigurazione mostra ad alcuni apostoli la propria gloria, che esige ubbidienza («ascoltatelo » - Mc 9, 7) e prontezza alla rinun-cia personale pur di accogliere le esigenze del Maestro (Mc 9, 34-38).

b) Gesù entra trionfalmente a Gerusalemme e sfugge alle insidie che gli vengono tese dai farisei (Mc 11, 1 - 13, 37).

IV. Terza parte: rievoca gli episodi della passione di Gesù con un sintetico cenno alla resurrezione del Cristo (Mc 14-16).

In questa suddivisione del vangelo, Marco ci consente di distinguere a grandi linee i periodi dell’esistenza terrena di Gesù. Quella di Marco non è una vera e propria biografia, ma almeno l’essenziale ci viene dato. In precedenza abbiamo distinto cinque tempi della vita terrena di Gesù, più un sesto tempo che è quello della chiesa.

Nei riguardi di questi tempi possiamo dire che il vangelo di Marco ci dà le seguenti notizie:

1. Nazaret. Il primo periodo è caratterizzato dal silenzio di Marco sull’esistenza di Gesù a Nazaret. Abbiamo qua e la qualche accenno indiretto a questa sua esistenza a Nazaret, ma nulla di più. C’è per esempio in Mc 3, 31 un accenno alla sua famiglia ed il famoso episodio della cacciata di Gesù da Nazaret, che mostra come i suoi concittadini e gli stessi suoi familiari non l’abbiano riconosciuto. Possiamo quindi concludere che su Nazaret Matteo e Luca dedicano due capitoli ciascuno, mentre Marco ha solo un ricordo indiretto.

2. Deserto. Il tempo del deserto ha pochissimi dati che vengono ricordati brevemente in Mc 1, 9-11

3. Galilea. Abbiamo invece molto sulla predicazione del Regno in Galilea.

4. Esilio. Abbastanza diffuso anche sull’esilio (Mc 6, 30 - Mc 10, 52).

5. Gerusalemme. L’ultimo periodo a Gerusalemme va da Mc 11, 1 a Mc 16, 8. Sappiamo dagli altri vangeli, anche da Giovanni, che Gesù visse circa 6 mesi a Gerusalemme, ma singolarmente Marco sembra mettere questo periodo a Gerusalemme dentro a una settimana. Tutti questi sei capitoli, cioè quei sei mesi di permanenza a Gerusalemme, Marco li rievoca dentro uno schema settimanale. Evidentemente le sue preoccupazioni non sono cronologiche, ma probabilmente liturgiche.

6. Tempo della Chiesa. Infine dell’ultimo periodo, quello della Chiesa abbiamo soltanto degli accenni riassuntivi. Quel mattino di Pasqua, ci sono delle donne spaventate davanti alla tomba vuota mentre un giovinetto in vesti bianche (un angelo o Gesù stesso?) annunzia loro che Gesù è risorto. Dopo il vangelo di Marco si ferma bruscamente al v. 16, 8. A questo versetto l’appendice dal v. 9 al v.20 con le apparizioni a Maria Maddalena, ai due discepoli in cammino, infine agli undici riuniti insieme, a cui dà il grande mandato di predicare il vangelo ad ogni creatura, assicurando l’assistenza dello Spirito Santo. Da quel momento comincia a formarsi il tempo della chiesa.

Marco, pur scrivendo il vangelo secondo l’ordine che abbiamo appena visto e cioè in quattro sezioni con i sei periodi della vita di Gesù ben individuabili, inserisce il materiale letterario non secondo un ordine cronologico, ma seguendo un ordine tematico. Ci troviamo così in presenza di unità letterarie e tematiche ben precise con episodi che, pur essendo capitati in tempi diversi, vengono raggruppati insieme. Questo ci dimostra che la preoccupazione di Marco non è tanto l’ordine cronologico, ma la catechesi e la liturgia. Così sfogliando il Vangelo di Marco troviamo:

* Una giornata di Gesù a Cafarnao: Mc 1, 20-45. È molto chiara. Comincia al mattino, quando va in sinagoga al Sabato, fino alla sera tardi, quando si intrattiene con i malati e con le persone. Viene elabora una giornata tipo di Gesù a Cafarnao.

*Controversie  galilaiche di Gesù: Mc 2, 1-3.6. Ancora più evidenti sono le controversie galilaiche di Gesù. Si tratta di cinque episodi chiaramente capitati in tempi diversi. Anche Luca e Matteo ce le hanno abbastanza ravvicinate, ma Marco le dispone in maniera letteraria sorprendente. Probabilmente ha uno scopo catechetico, liturgico.

* Le parabole circa il regno di Dio: Mc 4, 1-34. Così anche le parabole, ma questo è un po’ comune a tutti i sinottici. La giornata delle parabole dal mattino fino alla sera. La sera è lì sulla sponda del lago e dice ai discepoli: passiamo la notte in mare, e avviene la tempesta.

* I grandi miracoli di Gesù: Mc 4, 35 - Mc 5, 43. Un lotto anche questo.

* La sezione dei pani: Mc 6, 30 - Mc 8, 30.

* La sequela di Gesù portando la croce: Mc 8, 31 - Mc 10, 52.

* L’ultima settimana di Gesù: Mc 11, 1 - Mc 16, 8.

Alla fine possiamo constatare che Marco non è un’antologia di episodi messi lì alla rinfusa, senza un ordine. Più che un antologia di episodi è una guida, letterariamente ben curata, sulla conoscenza di Gesù e del suo vangelo.

Il messaggio di Marco

Cosa vuole dirci Marco nel suo vangelo? Per comprendere il lavoro svolto da Marco nella compilazione del suo vangelo è interessante leggere quanto ha scritto lo studioso tedesco Ed. Schweizer nell’introduzione al suo commento di questo vangelo:

« L’evangelista ha fatto una raccolta di tradizioni, che generalmente parlando, erano giunte fino a lui come racconti isolati o detti singoli: l’evangelista per primo li ha incorniciati e iscritti in un insieme. Lo si potrebbe paragonare ad un bambino che infila delle perle che prima erano sparse innanzi a lui. Se così stanno le cose, è giocoforza trarne la conclusione seguente: quel che Marco vuol dirci, va cercato proprio in questa cornice, ossia nella struttura del suo vangelo. Dobbiamo quindi prestare la massima attenzione a questi elementi».

Ecco alcune caratteristiche degli insegnamenti che possiamo ricavare dal vangelo di Marco:

1. L’evangelo di Marco è l’evangelo del segreto messianico , in quanto fa risaltare che Gesù all’inizio della sua predicazione conservò il silenzio più assoluto sulla sua funzione messianica e impose tale silenzio anche agli altri. Gesù ordina di tacere ai demoni che lo riconoscono (Mc 1, 25.34; 3, 12), agli ammalati che guarisce (Mc 1, 44; 7, 36; 8, 26), ai morti che risuscita (Mc 5, 43), ai discepoli che lo confessano (Mc 8, 30; 9, 9). Marco stesso sottolinea che egli « non voleva che alcuno lo sapesse» (Mc 7, 24; cf 9, 30).

Vi è pure « il segreto circa il regno di Dio» (Mc 4, 10-12) , la spiegazione "privata" della parabola (Mc 4, 34) e dei miracoli (Mc 9, 28), della persona di Gesù (Mc 9, 2) e della realtà futura (Mc 13, 3). Una presentazione più completa è spesso data solo ai quattro discepoli chiamati per primi (Mc 1, 16-20.29; 5, 37; 9, 2; 13, 3; 14, 33); e anche la profezia della passione è data a loro mentre essi sono "in via" lungi dalle moltitudini (Mc 8, 27; 9, 33; 10, 32). Il segreto di Marco deve essere stato un ricordo della precedente tradizione orale, alla quale Marco ha dato un risalto particolare. Il titolo sulla croce, la confessione di Pietro, l’ingresso a Gerusalemme, il processo di Gesù mostrano la presenza di una tensione tra la realtà messianica di Gesù e la sua manifestazione, in quanto essa poteva venire malamente intesa.
Quindi Gesù stesso doveva avere interesse a non proclamarsi apertamente in quanto non voleva prestarsi alla strumentalizzazione degli Ebrei, che si attendevano un Messia politico, pronto a liberare la nazione dall’occupazione romana. Proprio per tale motivo Marco non chiama mai Gesù con il nome di Messia o con quello di Cristo, che del precedente è la traduzione greca e che significano "unto".

Tale silenzio è però rotto dalla scena di Cesarea, la quale sta appunto al centro del vangelo e segna una svolta nell’insegnamento di Gesù.

« E cominciò da allora a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto» (Mc 8, 31). Il "cominciò" indica un orientamento nuovo nell’insegnamento di Gesù, che si esprime più "apertamente" e non in modo velato (v. 32). Alle porte di Gerico un cieco alza la voce dicendo ben due volte « Figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Mc 10, 47s), eppure Gesù non gli impose il silenzio, in quanto il segreto messianico ormai non urgeva più.

A Gerusalemme Gesù parla della sua autorità (Mc 11, 15-18.27-33), espone la parabola dei vignaioli omicidi ben compresa dagli avversari (Mc 12, 1-12), parla della resurrezione dei morti (Mc 12, 18-27) e perfino del Figlio di Davide (Mc 12, 35s da Sal 110). Il tocco finale è dato dalla confessione pubblica di Gesù dinanzi al sommo sacerdote (Mc 14, 61-65).

Secondo Marco, Gesù, pur possedendo la dignità di inviato divino, pur sapendo che per essa ha una potenza taumaturgica indiscutibile, la soffoca, non solo per non dare adito alla incomprensione giudaica, ma anche perché egli prima doveva soffrire con spirito ubbidiente e compiere la parte dello "schiavo" sofferente, e così divenire il Kyrios, il Signore (At 2, 36).

Il segreto messianico è un modo di esprimere l’obbedienza di Gesù che Luca e Matteo sottolinearono con il racconto delle tentazioni. La tentazione della gloria doveva essere sempre presente in Gesù e di continuo egli doveva soffocarla con il silenzio messianico.

La tentazione provata da Gesù tende a divenire pure la tentazione costante dei cristiani e della chiesa, quella cioè di strumentalizzare a proprio tornaconto i valori religiosi e supernaturali, dimenticando la funzione di "schiavo". Con il suo segreto messianico, Marco mette in guardia anche noi contro questa tentazione.

2. Figlio dell’Uomo. Nel vangelo di Marco Gesù si rivendica il titolo di Figlio dell’Uomo (14 volte).  Dal fatto che tale espressione fu usata solo da Gesù e non da coloro che gli si rivolgono, appare che essa risale davvero al Salvatore e che non fu la chiesa ad applicarglielo. Tale titolo, precocemente dimenticato dalla cristianità, fu ben presto sostituito da altri più suggestivi.

Ma il "Figlio dell’Uomo" era pure un’espressione ricalcata da Daniele (Dan 7, 13s) per descrivere un misterioso personaggio inviato da Dio per dominare sull’universo e che viene dall’alto delle nubi. E’ in tal senso che lo usa Gesù, innestando tuttavia in questo contesto di dominio la nota della sofferenza incomprensibile agli Ebrei. Il trionfatore che viene dalle nubi si identifica così con lo "schiavo sofferente di Jhwh" (Is 53).

Marco anche nella passione di Gesù non usa il titolo di "Servo di Jhwh", abituale nella comunità di Gerusalemme, ma quello di "Figlio dell’Uomo" « il figlio dell’uomo deve patire» (Mc 8, 31; 9, 12; cf 9, 31; 10, 33ss), quasi per sottolineare che la gloria di Gesù è conseguenza immancabile della sua sofferenza. E’ confessando come Messia il Figlio dell’uomo abbassatosi che si può partecipare alla sua gloria (Mc 8, 38 - 9, 1).

3. Figlio di Dio. Il secondo appellativo che ricorre nel vangelo di Marco è quello di "Figlio di Dio", da intendersi non filosoficamente, nel senso di avente la stessa natura di Dio, ma nel senso semitico di persona appartenente in modo particolare alla sfera divina. Marco lo usa meno di Matteo, ma gli dà maggior risalto perché lo adopera nei momenti più decisivi del suo vangelo.

E’ la voce stessa di Dio che lo proclama tale durante il battesimo di Gesù, dicendo: « Tu sei mio Figlio», così come il re ebreo era proclamato tale al momento della sua incoronazione regale (Mc 1, 11; cf Sal 2, 7; Sal 110).

Dio designa nuovamente Gesù come suo figlio durante la "gloriosa" trasfigurazione sulla montagna (Mc 9, 7); infine un centurione pagano lo riconosce tale al momento della sua crocifissione: «Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio» (Mc 15, 39).

Il centro del secondo vangelo non sta tanto nell’insegnamento, quanto piuttosto nella persona di Gesù; egli è il misterioso, umile "Figlio dell’Uomo" nella quale la fede scopre, a poco a poco, la potenza salvatrice del Figlio di Dio.

« Il contenuto dell’insegnamento (di Gesù) non è riferito, oppure è solo brevemente riassunto. Non è dunque il contenuto di quell’insegnamento che distingue Gesù dagli altri: non il fatto che insegna qualcosa di molto diverso, ma il fatto che insegna con un’autorità tale che qualcosa succede: degli uomini vengono messi in movimento, degli infermi sono sanati; in conclusione nell’insegnamento di Gesù Dio parla di nuovo con gli uomini in modo tale da inserire nuovamente nella comunione con lui coloro che ne erano separati». (Ed. Schweizer)

Il popolo di Cafarnao ha la sensazione dell’autorità di Gesù attraverso la semplice lettura del brano evangelico e il suo commento della Scrittura. La fede si accorge dunque che in Gesù vi è la presenza di Dio. Per Matteo lo stupore della folla è posto alla fine del discorso del monte ed è documentato dal contenuto dell’insegnamento (Mt 7, 28s). Marco invece vuole sottolineare l’importanza della fede nel fatto che essa ci fa capire e accogliere Gesù. All’opposto vi è l’incomprensione che non comprende nemmeno le parabole (Mc 4, 34).

« Le immagini non sono dunque solo dei sussidi pedagogici: hanno bisogno dell’aiuto di Gesù per essere capite. Solo in comunione con lui si impara a capire il linguaggio di Dio. Le immagini sono il mezzo per inserire l’uditore nella comunione con lui che le pronuncia».(Ed. Schweizer).

Questo aspetto è messo in rilievo da Tagawa, nel suo studio su Marco. I miracoli tendono a suscitare l’impressione sulla sua persona: Gesù è il theìos anèr (l’uomo divino) che suscita meraviglia, stupore e spavento con la sua attività. «Per Marco nulla è più stupefacente dell’esistenza stessa di Gesù. C’è Gesù – questo è tutto quel che dice nel suo vangelo –. Si può definire questa fede come esperienza diretta con il Gesù vivente ».

Il "vangelo" per Marco si identifica con il Cristo: «Chi perderà l’anima sua per me e per il vangelo, la salverà » (Mc 8, 35). «Non v’è nessuno che abbia abbandonato casa, padre . . . per me e per il vangelo che non ne riceva il centuplo», dove il vangelo si identifica per importanza con Gesù, quindi il suo contenuto è lo stesso Gesù (Mc 10, 29).

Secondo il Trocmè l’esaltazione del Cristo tende a far passare in seconda linea le persone. Marco non esalta affatto l’importanza di Pietro che pur nomina varie volte e neppure quella dei figli di Zebedeo (Matteo ne attenuerà l’impressione negativa, attribuendo la domanda di sedere alla destra e alla sini-stra di Gesù nel regno, alla loro madre). Marco non ha interesse per Giacomo, fratello di Gesù, in quanto riporta la parola del Maestro: « Nessun profeta è sprezzato se non nella sua patria e tra i suoi parenti e in casa sua» (Mc 6, 4) e riferisce che i suoi fratelli, sua madre compresa, andarono per impadronirsi di Gesù «perché si diceva: E’ fuori di sé » (Mc 3, 21), e lo mandarono a chiamare (Mc 3, 31s) in termini molto più autoritari che non presso Matteo e Luca.

Pur ricordando i dodici una decina di volte, Marco non attribuisce loro un posto privilegiato, anzi la loro vocazione è quella di servire, non di dominare (Mc 10, 42s). Essi devono «stare con Lui che li manda a predicare con il potere di cacciare i demoni » (Mc 3, 14s); l’inciso «che chiamò come apostoli» è quasi certamente un’interpolazione. Il termine "apostoli" si trova presso Marco solo in 6, 30 quando i Dodici tornarono dalla missione compiuta. Marco preferisce il verbo "inviare" (apostéllein) che indica l’idea di una missione escludendone il rango, la dignità. Per Marco la comunità è diretta dalla costante presenza di Gesù vivente con i suoi discepoli.

4. Alla salvezza sono chiamati anche i gentili . Il vangelo di Marco allude pure al fatto che anche i gentili sono chiamati alla salvezza: nel racconto della siro-fenicia l’evangelista non fa dire a Gesù, come Matteo: «Sono inviato solo per le pecore di Israele» (Mt 15, 24), ma: «Lascia prima che io sazi i figli », poi logicamente, verranno gli altri (Mc 7, 24ss).

La rimozione degli animali e degli uccelli dal tempio significa che è giunta la fine dei sacrifici ebraici; il tempio deve essere la casa di preghiera « per tutte le nazioni» e non solo per gli Ebrei (Mc 11, 17).

Anche il rilievo con cui il centurione proclama che Gesù Cristo è figlio di Dio, mostra come egli sia il primo gentile che apre gli occhi alla verità prima ancora degli stessi Ebrei. E’ il prototipo degli etnici-cristiani che da Gesù sofferente sono chiamati a salvezza (Mc 15, 39).

Il vangelo di Marco si può descrivere come «una missione in marcia» senza esclusivismi nazionali (Mc 3, 7s), né regionali, né sociali: tutti sono inclusi: popolo del paese, frequentatori delle sinagoghe, pubblicani, miserabili, lebbro-si, ecc. La missione è pure aperta ai pagani.

5. I l centro del vangelo, dato dalla confessione di Cesarea, mette in risalto la diversità di dottrina insegnata nella prima parte e nella seconda. Nella prima si insiste sulla necessità di comprendere il regno, per cui ricorrono i vocaboli come "comprendere" (Mc 4, 12; 6, 52; 7, 14; 8, 17-21), "incapace di comprendere" (Mc 7, 18), "capire" (Mc 7, 18; 8, 17), "vedere" (nel senso di capire Mc 3, 5; 6, 52; 8, 17), "ascoltare" (nel senso di ubbidire), "conoscere" (Mc 4, 13), "nascondere - rivelare" (Mc 4, 22). Occorre comprendere le parabole e capire il significato dei miracoli, in modo da afferrare il valore del vangelo, del Regno di Dio. Ma nonostante le speciali spiegazioni ricevute, anche i discepoli non comprendono la parabola del seminatore (Mc 4, 13), non capiscono come mai Gesù possa acquietare una tempesta (Mc 4, 40) o camminare sul lago (Mc 6, 49-51). Non capiscono come mai possa con dei pani saziare le turbe affamate (Mc 6, 51; 8, 14-21). Non capiscono perché Gesù debba morire (Mc 8, 32), anzi non afferrano nemmeno il fatto della "resurrezione" (Mc 9, 10).

Dopo la confessione di Cesarea il tono cambia: non basta più comprendere, occorre l’impegno esistenziale della propria persona. Solo chi perde la propria vita la salverà (Mc 8, 35), bisogna lasciare casa, fratelli, sorelle, parenti, figli e campi per il Vangelo e la vita eterna (Mc 10, 28-30-47); non basta conoscere, è necessario "entrare" nel regno (Mc 9, 47; 10, 15.23ss). Dalla fase di "conoscenza" sperimentale (non solo intellettualistica) si deve passare ad una vita di comunione con il Cristo.

Come si vede il vangelo di Marco, nonostante l’apparenza di un’opera di-sordinata, contiene una teologia assai profonda; basta scoprirla tra le righe della sua lieta notizia.