INTRODUZIONE AI VANGELI
CAPITOLO VIII°

IL VANGELO SECONDO GIOVANNI
L'autore del quarto Vangelo

Quando agli inizi del 1800 la critica ha cominciato ad interessarsi del vangelo di Giovanni sono sorti parecchi problemi circa l’autore, la data di composizione, la dipendenza o meno di questo vangelo dai sinottici, il testo e lo stesso contenuto. Vedremo pertanto di esaminare attentamente tutti questi problemi valutando le soluzioni che sono state presentate.

Fino agli inizi del 1800 (19° secolo) l’attribuzione del quarto vangelo all’apostolo Giovanni costituisce un dato tradizionale universalmente accolto ed indiscusso. Da questa data in poi la critica letteraria ha messo in discussione questo dato proponendo altre soluzioni. Per poter stabilire l’identità dell’autore del quarto vangelo abbiamo a disposizione la testimonianza dell’antica tradizione ecclesiastica ed alcune testimonianze interne relative al testo dello stesso vangelo.

Testimonianze esterne

La più antica ed esplicita testimonianza concernente l’autore del quarto vangelo è quella di Ireneo nell’opera Adversus Haereses (circa 180), nella quale è affermato: «In seguito (cioè: dopo Matteo, Marco e Luca) Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul petto di lui (si allude a Gv 13, 23), ha pubblicato anch’egli un vangelo, quando dimorava in Efeso, in Asia» (III, 1, 1). In un altro testo della stessa opera, ancora più esplicito, Ireneo dichiara quanto segue: « . . . Tutti i presbiteri che si erano riuniti in Asia presso Giovanni, il discepolo del Signore, attestano che Giovanni ha tramandato la stessa notizia, poiché egli è rimasto presso di loro fino al tempo di Traiano » (II, 22, 5). Il passo citato anche da Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica III, 23, 3, ha un notevole valore, poiché poggia sulla stessa testimonianza dei presbiteri presso i quali dimorava Giovanni.

Ireneo per la sua provenienza dalla Frigia e per il suo episcopato a Lione è testimone sia delle chiese orientali che di quelle occidentali. Il suo valore è ancora maggiore se si pensa che fu l’amico di infanzia di Florino, con il quale stette ai piedi di Policarpo, un discepolo di Giovanni apostolo. Così egli scriveva:

« Io ti ho conosciuto quand’eri ragazzo, ed è stato nell’Asia Inferiore, presso Policarpo di cui cercavi la stima. . . Le cose di allora le ricordo meglio delle recenti, perché ciò che si apprende nella fanciullezza forma un tutt’uno con la nostra vita, si sviluppa e cresce con essa. Io ti potrei segnare ancora il luogo dove il beato Policarpo era solito sedersi per parlarci, e come entrava in argomento; quale vita conduceva, quale era l’aspetto della sua persona, quali i discorsi che teneva al popolo, come ci parlava degli intimi rapporti da lui avuti con Giovanni e con gli altri che avevano visto il Signore dei quali rammentava le parole e le cose da loro udite intorno al Signore, ai suoi miracoli e alla sua dottrina. Tutto ciò Policarpo l’aveva ricevuto da testimoni oculari del Verbo di vita e lo ripeteva in armonia con le Sacre Scritture. Ciò io, per misericordia divina, ascoltavo con cura e fissavo, non su un papiro, ma nel mio cuore e per sempre; per grazia di Dio me ne ricordo esattamente ».

Un’altra testimonianza esterna è costituita dal cosiddetto Frammento muratoriano (ca. 180-200). A Roma contro la setta dei montanisti, i quali per esaltare la potenza dello Spirito Santo, poggiano sul vangelo di Giovanni, sorse il movimento degli Alogi capeggiato dal presbitero Gaio, i quali negavano il valore del quarto vangelo che iniziava appunto con la dottrina del Logos. Contro Gaio fu scritto il frammento muratoriano, che alcuni attribuiscono a Ippolito per il fatto che esso (al pari di Ippolito) insiste nell’accordo del quarto vangelo con i sinottici. Ippolito (m.  235) fu antipapa e poi santo. Il nome Muratoriano gli proviene dal fatto che fu rinvenuto l’anno 1740 dal Muratori nella Biblioteca Ambrosiana di Milano; ecco quel che vi si legge:

« Dietro richiesta dei suoi condiscepoli e coepiscopi, Egli (Giovanni) disse: Digiunate con me tre giorni ( a partire da) oggi, e ciò che sarà rivelato all’uno o all’altro di noi, ce lo narreremo. La stessa notte fu rivelato ad Andrea, uno degli apostoli, che Giovanni avesse a mettere in iscritto tutte le cose, a patto di mostrarle agli altri. Così, benché gli inizi dei vangeli siano diversi in ognuno, ciò non interessa affatto i fedeli, perché per l’azione dello Spirito unico e principale, esposero tutte le cose riguardanti la natività, la passione, la resurrezione di Gesù con i suoi discepoli e la sua duplice venuta: la prima in umiltà, disprezzata, che già ebbe luogo; la seconda in vera potenza e illustre, che deve ancora avverarsi. Quale meraviglia allora che Giovanni si esprima con tanta autorità anche nelle sue lettere, dicendo di se stesso: Ciò che abbiamo visto con i nostri occhi e abbiamo inteso con le nostre orecchie e ciò che le nostre mani hanno toccato, è quello che noi scriviamo. Così egli confessa di essere non solo testimone oculare e auricolare, ma anche scrittore di tutte le meraviglie del Signore secondo un certo ordine» (1.9-34).

Clemente Alessandrino (m. ca 219 d.C.. In un’opera, ora persa, detta le Ipotiposi, e della quale ci sono stati conservati alcuni frammenti da Eusebio, Clemente così dice a proposito del Vangelo di Giovanni:

« Giovanni dunque, l’ultimo (degli scrittori) vedendo che i tratti esteriori (della vita di Cristo) erano stati messi in buona luce dagli evangelisti, mosso a questo dai discepoli e sospinto dallo Spirito Santo, compose un vangelo spirituale»

A parte queste tre testimonianze quasi contemporanee di Ireneo, di Clemente Alessandrino e del frammento muratoriano, ce ne sono anche altre, ma sarebbe troppo lungo elencarle tutte. Sta di fatto che la tradizione è stata sempre concorde nell’identificare nell’apostolo Giovanni l’autore del quarto vangelo.

Testimonianze interne

Per identificare l’autore del quarto vangelo sono a nostra disposizioni anche prove interne allo stesso vangelo che in forma diretta o indiretta ci forniscono notizie sulla persona che lo ha composto.

Il testo più esplicito è quello offertoci dalla conclusione del cap. 21 che troviamo al v. 24: «Questo è il discepolo che rende testimonianza di queste cose e che ha scritto queste cose; e noi sappiamo che la sua testimonianza è verace ». Quattro cose vengono dette chiaramente in questo versetto:

a) " Questo è il discepolo". Il discepolo viene identificato nella persona di quel « discepolo che Gesù amava», come apprendiamo dal v. 20 dello stesso capitolo

b) Tale discepolo rende testimonianza di queste cose.

c) Ha scritto queste cose

d) La sua testimonianza è vera.

Pur ritenendo che il capitolo 21, come vedremo, è stata un’aggiunta al vangelo ad opera di un discepolo della cerchia o della scuola dell’autore del quarto vangelo, rimane il fatto che il redattore di questo capitolo finale indica nella persona del «discepolo che Gesù amava » il garante della verità dei fatti narrati nel vangelo e gli attribuisce senza dubbio la paternità di esso.

In Gv 19, 24-35 si ricorda l’episodio del colpo di lancia vibrato sul fianco di Gesù che era appena spirato sulla croce; dalla ferita aperta da questo colpo uscì sangue ed acqua; subito dopo questa constatazione l’evangelista si affretta a dichiarare: «E colui che ha visto ne ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è verace; ed egli sa che dice il vero, affinché voi crediate » (v. 35). Con questa segnalazione l’autore del vangelo intende ricordare un fatto di cui è stato testimonio oculare: « ha visto». Chi poteva essere questo testimonio oculare che aveva visto direttamente il fatto? Non può essere altro che «il discepolo che Gesù amava» di cui si era parlato poco sopra al v. 26 ed al quale Gesù affida Maria.

Questa designazione intenzionalmente velata «il discepolo che Gesù amava» che copre con l’anonimato l’autore del quarto vangelo e l’uso della terza persona con la quale l’autore parla di se stesso può sembrare alquanto strana, ma potrebbe trattarsi semplicemente di un artificio letterario in uso a quei tempi.

Ma chi era questo « discepolo che Gesù amava»? La sua identificazione costituisce uno dei problemi più discussi del quarto vangelo a cui sono state date le più svariate soluzioni.

Secondo Gv 21, 20 il discepolo che Gesù amava era presente all’apparizione del Cristo risorto sulla riva del mare di Tiberiade. Poiché sappiamo sia da Matteo (Mt 28, 16) che da Marco (Mc 16, 14) che alle apparizioni in Galilea erano presenti solo gli undici apostoli, possiamo supporre che questo discepolo appartenesse al gruppo dei Dodici. Tanto più che questo discepolo che Gesù amava era, come dice sempre il versetto 20, « quello stesso che durante la cena si era anche posato sul petto di Gesù e aveva chiesto: "Signore chi è colui che ti tradisce?" ». In occasione della cena pasquale con Gesù erano presenti soltanto i dodici, come ci informano sia Matteo (Mt 26, 20), che Marco (Mc 14, 17), che Luca (Lc 22, 14).
Giovanni non precisa il numero dei discepoli presenti alla cena pasquale. Comunque in quell’occasione egli promette loro il Consolatore, lo Spirito di verità (Gv 14, 26; 16, 12-13) che avrebbe ricordato e suggerito agli apostoli la verità che essi dovevano predicare e sulla quale sarebbe stata fondata la chiesa (Ef 2, 20). La promessa del Consolatore è una promessa che riguarda in modo particolare soltanto i dodici come appare poi dagli sviluppi ulteriori della predicazione apostolica nella quale gli apostoli assumono una posizione di guida della Chiesa presente mediante la predicazione orale e di quella futura mediante gli scritti del Nuovo Testamento.

In Gv 19, 26 è ricordato che il discepolo che Gesù amava si trovava sul Calvario accanto alla croce con Maria, la madre di Gesù, con la sorella della madre di Gesù, con Maria di Cleofa e con Maria di Magdala; a questo discepolo Gesù morente affida la propria madre.

Nel racconto della resurrezione di Cristo il quarto evangelo ricorda che Pietro ed il discepolo che Gesù amava (Gv 20, 2), avvertiti da Maria di Magdala della tomba trovata vuota, corrono verso il sepolcro per constatare ciò che era stato loro detto.
Va osservato che la designazione del «discepolo che Gesù amava » appare soltanto nella seconda parte del vangelo, cioè nei racconti della passione e resurrezione (Gv 13, 23; 19, 26; 20, 2; 21, 7.20). In altri passi si parla di un discepolo non meglio identificato (Gv 1, 35-40; 18, 15-16) che potrebbe identificarsi con il discepolo amato da Gesù.

Da queste indicazioni possiamo anzitutto concludere:

a) che questo anonimo discepolo, amato da Gesù era uno dei dodici apostoli;

b) che aveva una stretta relazione con Pietro, in quanto più volte lo troviamo ad agire insieme a lui (Gv 13,23-24; 18, 15-16; 20, 2-10; 21, 20-24)

c) che doveva essere una figura di rilevo tra i discepoli, in quanto viene ricordato nei momenti più importanti.

Da notare che nel libro degli Atti viene spesso segnalata la stretta relazione che intercorre tra Pietro e Giovanni che spesso agiscono insieme (At 3, 1-4; 4, 13.19; 8, 14). Giovanni è ricordato inoltre da Paolo, nella lettera ai Galati, come una delle colonne della chiesa di Gerusalemme, assieme a Pietro e a Giacomo (Gl 2, 9). Tutto questo potrebbe indurci a pensare che il discepolo innominato che Gesù amava altri non era se non lo stesso Giovanni apostolo.

Il quarto vangelo si riferisce ai dodici apostoli con il termine "dodici" solo in pochi casi, ben delimitati e precisamente in Gv 6, 67.70 e in Gv 20, 24; in tutti gli altri casi per designare i dodici apostoli egli usa il termine "discepoli". Ora il discepolo amato è ricordato più volte come una persona appartenente al gruppo dei "discepoli" e cioè dei dodici apostoli. Costui, dopo essere stato discepolo del Battista, seguì il Cristo fin dal primo istante della predicazione di Gesù. Questo sembrerebbe escludere Lazzaro che secondo alcuni studiosi sarebbe "il discepolo amato da Gesù", in quanto il quarto vangelo è l’unico che parli di Lazzaro e che lo presenta come una persona amata da Gesù (Gv 11, 3.5.36). Sarebbe infatti molto strano che il quarto vangelo, dopo aver parlato del discepolo amato da Gesù senza nominarlo, ad un certo punto ne presenti il nome Lazzaro senza segnalare che si identificava con il discepolo amato.

Dal fatto che Giovanni e Giacomo non sono mai nominati nel quarto vangelo se non genericamente come i figli di Zebedeo in Gv 21, 2 pur avendo avuto grande importanza nella vita di Gesù, non potrebbe farci pensare che proprio uno di loro e precisamente Giovanni sia il "discepolo amato"? Tanto più che il Battista è chiamato con il semplice nome di Giovanni, come se non ci fosse la preoccupazione di confonderlo con qualcun altro.

Concludendo possiamo affermare da quanto abbiamo finora visto che questo "discepolo amato":

a) è strettamente collegato alla vita di Gesù, in quanto lo segue fin dall’inizio (Gv 1, 35-40);

b) è in intimità con Pietro, come lo fu anche l’apostolo Giovanni (Gv 13,23-24; 18, 15-16; 20, 2-10; 21, 20-24; cf anche Lc 22, 8; At 3, 1-4; 4, 13.19; 8, 14);

c) è presente alla crocifissione (Gv 19, 26);

d) partecipa pure all’ultima Cena, dove si trovano solo i dodici, i più intimi di Gesù (Mt 26, 20; Mc 14, 17; Lc 22, 14), a cui Gesù promette l’invio del Consolatore, lo Spirito di verità che ricorderà loro gli insegnamenti di Gesù, anche quelli che non erano per il momento alla loro portata (Gv 14, 26; 16, 12-13);

e) infine è presente anche nelle apparizioni di Gesù in Galilea ai dodici (Gv 21, 1.24; cf anche Mt 28, 16; Mc 16, 14).

Quindi il "discepolo amato" non è Pietro, perché lo si distingue da lui; non è Giacomo, in quanto costui ebbe una vita breve (At 12, 2). Non ci rimane che l’apostolo Giovanni, che di conseguenza si presenta come l’autore del quarto vangelo, confermando così la tradizione più antica.

Ci si potrebbe chiedere come mai Gesù avesse un «discepolo amato». Attenzione, non dice un discepolo prediletto, ma semplicemente un discepolo amato. Molto probabilmente la ragione di tale amore va ricercata nella sua fedeltà a Gesù, ma non va neppure esclusa la possibilità che l’apostolo Giovanni forse era legato a Gesù anche da vincoli di parentela. Questo fatto potrebbe dedursi da un confronto dei quattro vangeli circa le donne presenti sul Calvario e che prepararono l’imbalsamazione del cadavere di Gesù. Sono quattro:

1)  Maria Maddalena

2) Maria madre di Giacomo e di José (Mt 27, 56)

3) La madre dei figli di Zebedeo (Mt 4, 21; 10, 2; 27, 56; Mc 1, 19-20; Mc 3, 17; 10, 35; Mc 15, 40; Lc 5, 10; Gv 21, 2), chiamata Salomé da Mc (16, 1)

4) La madre di Gesù

Ecco come ne parla Giovanni:
« Or presso la croce di Gesù stavano sua madre     4)
e la sorella di sua madre ,                                     3)
Maria (moglie) di Cleopa                                       2)
e Maria Maddalena »                                            1)

Se si accettano le precedenti concordanze Salomé, madre dei Zebedei, sarebbe stata appunto sorella di Maria, madre di Gesù e i suoi figli diverrebbero quindi cugini primi di Gesù. Di qui l’amore di Gesù per Giovanni.

Se gli accordi precedenti sono esatti:

– Si comprende la richiesta dei Zebedei (Mc 10, 35-45)

– L’intervento della loro madre, zia di Gesù (Mt 20, 20)

– L’affidamento di Maria, madre di Gesù, al nipote Giovanni (Gv 19, 26)

– L’amore per Giovanni.

Giovanni presbitero

Nonostante le prove esterne ed interne che indicano nella persona dell’apostolo Giovanni l’autore del quarto vangelo, qualcuno ha avanzato l’ipotesi che il vero autore del quarto Vangelo sia stato un certo presbitero Giovanni che Papia sembra distinguere dall’apostolo Giovanni in un suo scritto riportatoci da Eusebio. Papia così scrive:

« Io non esito a inserire nelle mie interpretazioni, facendomi garante di verità, quanto un tempo ho appreso dai presbiteri e ho conservato nella memoria. . . Se si avverava da qualche parte che qualcuno avesse frequentato i presbiteri, mi informavo sulle parole dette dai presbiteri, chiedendo ciò che hanno detto Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni, Matteo e qualche altro discepolo del Signore e ciò che dicono Aristione ed il presbitero Giovanni, discepoli del Signore. Ero infatti persuaso che i racconti tratti dai libri non potevano avere per me lo stesso valore di una voce viva e sonora ».

Eusebio commentando questo passo pensa che Papia, nominando due volte Giovanni, intendesse parlare di due persone distinte; inoltre Eusebio aggiunge che a Efeso si trovano due sepolcri portanti lo stesso nome di Giovanni (ivi 3,39,6).
Occorre distinguere il problema dell’esistenza a Efeso di due Giovanni e quello dell’origine del vangelo. Tutti, anche Eusebio e Policrate, che parlano del presbitero Giovanni, attribuiscono il vangelo all’apostolo e al presbitero solo l’Apocalisse, per il semplice motivo che essendo essi contrari a certe idee di tale libro volevano negarne l’ispirazione attribuendolo ad un presbitero non apostolo.

Tuttavia anche il passo di Papia può essere inteso in modo da escludere il presbitero Giovanni: egli infatti si riferisce a due situazioni diverse. Ascoltava ciò che altri avevano udito dai presbiteri circa la predicazione degli apostoli (Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni), in gran parte già morti, e poi ciò che il presbitero Giovanni – l’unico vivente assieme ad Aristione – gli diceva personalmente quando Papia poteva incontrarsi con lui. Di qui il duplice ricordo del nome Giovanni e la diversità di tempo («avevano detto » . . . «dicono »). Di più il titolo «presbitero » è quello che si legge all’inizio della seconda e terza epistola di Giovanni (2 Gv 1; 3 Gv 1). Anche Eusebio sembra riconoscere nei due Giovanni la stessa persona, perché nella sua Cronaca scrive che Papia ascoltò Giovanni l’apostolo e nella sua Storia Ecclesiastica che udì invece Giovanni il presbitero.

Dal momento che la tradizione antica, ad eccezione di Papia e di quelli che su di lui poggiano, ignorano l’esistenza di un Giovanni presbitero, è ben difficile insistere su di esso per sostenere la non genuinità del vangelo.

Non è poi possibile che questo presunto presbitero Giovanni abbia potuto attribuirsi un titolo come quello di «discepolo amato», che poteva essere plausibile soltanto nei confronti degli apostoli Giovanni e Giacomo suo fratello, i quali, poggiando certamente sull’amore di Gesù, si accostano a lui per ottenere i primi posti nel regno (Mt 20, 20ss).

Anche i discorsi di Gesù, pur essendo talora una meditazione dell’apostolo ispirato, presentano un tipico colore semitico, per cui possono benissimo risalire a Giovanni e per mezzo suo allo stesso Gesù.

Va tuttavia ricordato che il quarto vangelo, così come oggi appare, fu rivisto dai condiscepoli di Giovanni; questa era l’idea anche del canone muratoriano nel 2° secolo dove si legge che il quarto vangelo fu «riveduto» (recognescere) dai suoi condiscepoli. Gv 21, 24 ha il carattere di attestazione degli anziani della chiesa di Efeso. Anche la parentesi di Gv 4, 2 (non era Gesù che battezzava) sembra una correzione aggiunta, per chiarire meglio il testo ambiguo. Si può pure aggiungere che per gli antichi uno era considerato "autore" di un libro, anche se questo veniva scritto o continuato dai suoi condiscepoli.

Si è avanzata l’ipotesi che il quarto vangelo sia stato scritto da questo presbitero Giovanni basandosi anche sulla profezia di Gesù, riportata da Marco, che allude al martirio degli apostoli Giacomo e Giovanni: « Voi certo berrete il calice che io bevo e sarete battezzati del battesimo di cui io sono battezzato» (Mc 10, 39). Alcuni infatti pensano che questa, riportata da Marco, sia in realtà una profezia posteriore all’evento e che quindi l’apostolo Giovanni, essendo morto assieme al fratello Giacomo nel 44 d.C., non poteva essere l’autore del quarto vangelo. Questa idea della presunta prematura morte dell’apostolo Giovanni non sembra trovare alcun riscontro nel Nuovo Testamento. Viene infatti smentita dal silenzio degli Atti che riferiscono solo il martirio di Giacomo apostolo senza ricordare quello di Giovanni (At 12, 2). Paolo nella lettera ai Galati parla di Giovanni come una delle colonne della chiesa tuttora vivente assieme a Pietro e a Giacomo « il fratello del Signore» (Gl 2, 9). Anche la profezia di Gesù afferma solo il loro martirio (Mc 10, 39), ma non la contemporaneità di esso; anzi il «calice» da lui profetizzato non significa necessariamente la morte, bensì la sofferenza dei due fratelli, le persecuzioni che avrebbero dovuto subire per il Cristo. Il racconto dell’ultimo capitolo di Giovanni non può essere sorto senza la sopravvivenza considerevole e inaspettata dell’apostolo (Gv 21, 18-24).