Estratti
da: Robert Fishman, Bourgeois Utopias. The Rise and Fall of Suburbia,
Basic Books, New York 1987 (cap. VII, pp. 182-186). Traduzione
di Fabrizio Bottini
Oltre Suburbia: ascesa del Tecnoburbio
Se il diciannovesimo secolo può
essere chiamato l’Era delle Grandi Città, l’America del dopo 1945
sembra essere l’Era dei Grandi Suburbi. Mentre le città centrali
stagnavano o declinavano sia in termini di popolazione che di imprese,
la crescita era orientata quasi esclusivamente verso le periferie. Fra
il 1950 e il 1970 le città centrali americane sono cresciute di
10 milioni di persone, i loro sobborghi di 85 milioni. In più, i
sobborghi potevano contare su almeno tre quarti di tutti i nuovi posti
di lavoro nell’industria e commercio nello stesso periodo. Al 1970 la percentuale
di Americani che vivevano nei sobborghi era quasi esattamente il doppio
di quella del 1940, e nelle zone suburbane vivevano più Americani
(37,6%) che nelle città centrali (31,4%) o nelle aree rurali (31%).
Negli anni Settanta le città centrali sperimentano un saldo netto
di emigrazione di 13 milioni di individui, combinato ad una deindustrializzazione
senza precedenti, crescenti livelli di povertà, e degrado delle
condizioni abitative.
Mentre le città centrali declinavano,
il suburbio emergeva come centro dell’interesse nazionale. Per la prima
volta in qualunque società, la casa singola unifamiliare era messa
alla portata economica della maggior parte dei nuclei familiari. Per molti,
questa evoluzione fu motivo di entusiasmo. Nel classico film populista
di Frank Capra del 1946, It’s a Wonderful Life, l’eroe George Bailey
(interpretato da James Stewart) è il direttore di una società
di costruzioni e prestiti. Egli rinuncia al suo sogno di diventare architetto
o ingegnere, e creare vaste nuove città, per rimanere nella cittadina
natale e aiutare i vicini ad acquistare la propria casa. Il risultato che
lo inorgoglisce di più è una lottizzazione suburbana di villette,
che battezza Bailey Park. Il cattivo (interpretato da Lionel Barrymore)
è un miserabile banchiere la cui egoistica pratica professionale
costringe le famiglie a pagare gli affitti per le case che lui possiede.
Il film contribuisce di molto a spiegare la politica americana sulle abitazioni
dei decenni successivi.
Altri erano meno ottimisti di Capra, per
quanto riguardava i suburbi. Nel mezzo di un boom edilizio senza precedenti
negli anni Cinquanta, un dibattito fra studiosi sui suburbi incolpava il
nuovo stile di vita del crescente conformismo nella American way of
Life. Negli anni Sessanta e Settanta quella condanna fu seguita da
analisi che ritenevano la “fuga dei bianchi” responsabile per la segregazione
e povertà delle zone centrali. Ma sia i critici che quelli a favore
erano d’accordo sul fatto che la cosa più importante negli sviluppi
del dopoguerra era, per dirla con una frase di Kenneth Jackson, “la suburbanizzazione
degli Stati Uniti”. E davvero il fenomeno era così imponente che
fu come una marea, che superava tutte quelle precedenti. Come se la suburbanizzazione
fosse iniziata, nel 1945.
Qui, voglio proporre una interpretazione
molto diversa dell’America di dopo la guerra. Secondo me la massiccia ricostruzione
che cominciò nel 1945 non rappresenta il culmine di duecento anni
di storia dei suburbi. Questo grande cambiamento, non è per niente
suburbanizzazione, ma creazione di un nuovo tipo di città, con principi
esattamente opposti al vero suburbio.
Dalle sue origini nella Londra del diciottesimo
secolo, il suburbio ha svolto funzione di porzione specializzata della
metropoli che si espandeva. Estero o interno ai confini amministrativi
della città centrale, era sempre funzionalmente dipendente dal nucleo
urbano. Correlativamente, la crescita dei suburbi significava sempre un
rafforzamento dei servizi specializzati al centro.
Secondo me, il carattere più importante
dello sviluppo americano del dopoguerra è stato il quasi simultaneo
decentramento di abitazioni, industrie, servizi specializzati e occupazione
terziaria; il conseguente distacco della periferia urbana da una città
centrale di cui non aveva più bisogno; la creazione di un ambiente
decentrato che nondimeno possiede tutto il dinamismo economico e tecnologico
che noi associamo alla città. Questo fenomeno, notevole tanto quanto
unico, non è suburbanizzazione, ma una nuova città.
Sfortunatamente, ci manca un nome per
questa nuova città, che ha preso forma sui margini di tutti i nostri
principali centri urbani. Alcuni hanno usato il termine “Esurbio” o “Città
Esterna”. Io suggerisco (e me ne scuso) due neologismi: il “Tecnoburbio”
e la “Tecno-città”. Per Tecnoburbio intendo una zona periferica,
di dimensioni circa provinciali, che si è affermata come solida
entità socioeconomica. Diffusi lungo i suoi corridoi stradali di
crescita stanno centri commerciali, lottizzazioni industriali, complessi
di uffici integrati come in un campus, ospedali, scuole, e una gamma completa
di tipi di abitazioni. I suoi residenti si riferiscono al proprio ambiente
immediato anziché alla città, sia per il lavoro che per altri
bisogni; e le industrie vi trovano non solo i dipendenti di cui hanno bisogno,
ma anche i servizi specializzati.
La nuova città è un tecnoburbio
non
solo perché le industrie ad alta tecnologia hanno trovato le loro
sedi più congeniali in tecnoburbi archetipici come la Silicon Valley
in nord California o la Route 128 in Massachusetts. Nella maggior parte
dei tecnoburbi queste industrie costituiscono solo una piccola minoranza
dei posti di lavoro, ma è la stessa esistenza della città
decentrata ad essere resa possibile solo attraverso le tecnologie avanzate
delle comunicazioni, che hanno così totalmente superato i rapporti
faccia a faccia della città tradizionale. Il tecnoburbio ha generato
la differenziazione urbana senza la tradizionale concentrazione urbana.
Con “Tecno-città” intendo l’intera
regione metropolitana che è stata trasformata dall’avvento del tecnoburbio.
La tecno-città di solito porta ancora il nome del suo centro principale,
per esempio “l’area metropolitana di New York”; le sue squadre sportive
portano quel nome di città (anche se non giocano più entro
i confini della città centrale); le sue stazioni televisive sembrano
trasmettere ancora dalla città centrale. Ma la vita economica e
sociale della regione sempre più scavalca il suo supposto centro.
La tecno-città è davvero multicentrica, secondo lo schema
creato per la prima volta a Los Angeles. I tecnoburbi, che possono estendersi
per oltre 150 chilometri dal centro in tutte le direzioni, sono spesso
in più diretta comunicazione l’uno con l’altro – o con altre tecno-città
del paese – di quanto non lo siano col centro. La vera struttura della
tecno-città è ben rappresentata dalle autostrade ad anello
o strade di cintura, che servono a definire i perimetri della nuova città.
I percorsi di cintura mettono ogni parte della periferia urbana in contatto
con ciascuna altra parte senza passare in alcun modo attraverso il centro.
Per la maggior parte degli Americani,
il vero centro della propria vita non è né urbano né
rurale, così come queste entità sono state tradizionalmente
concepite, ma piuttosto il tecnoburbio, i cui confini sono definiti dalle
località che essi posso raggiungere convenientemente con le proprie
automobili. Il vero centro di questa nuova città non è in
qualche distretto d’affari centrale, ma in ciascuna unità residenziale.
Da questo punto di partenza centrale, i membri della famiglia creano la
propria città a partire dalla moltitudine di destinazioni che si
trovano ad una adeguata distanza di automobile. Un coniuge può lavorare
in un’area industriale distante due uscite dell’autostrada; l’altro in
un complesso di uffici cinque uscite nell’altra direzione; i figli viaggiano
su autobus verso centri scolastici integrati nello stesso distretto, o
guidano da soli la propria auto verso la sezione locale dell’Università
di stato; la famiglia fa spese in parecchi diversi centri commerciali posti
lungo varie diverse strade; ogni fine settimana compie un viaggio in macchina
di cento chilometri, fino a un’area di campagna (ma in rapido sviluppo)
dove possiede una seconda casa; tutto quello di cui hanno bisogno e che
consumano, dai più sofisticati servizi medici a frutta e verdura
di stagione, si trova lungo le strade. Una volta all’anno, magari a Natale,
si va “in centro”, ma non ci si sta mai a lungo.
Le vecchie città centrali sono
diventate sempre più marginali, mentre il tecnoburbio si è
affermato come il punto focale della vita americana. Il tradizionale abitante
dei suburbi – che fa il pendolare a costi crescenti verso un centro dove
i servizi disponibili sono solo un doppione di quelli che ha già
vicino a casa – diventa sempre più raro. In questa ecologia urbana
trasformata, la storia dei sobborghi è arrivata alla sua fine.
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