Estratti da: Valeria Erba, Strumenti
urbanistici per interventi di qualità, F. Angeli, Milano 2001
(Naturalità
e storia: componenti essenziali per la creazione di parchi di cintura urbana,
pp. 76-80)
Lo spazio extraurbano nella tradizione
disciplinare urbanistica
La disciplina urbanistica, nata per far
fronte ai problemi crescenti, in dimensione e complessità, dello
sviluppo insediativo dei centri urbani, ha per lungo tempo concepito lo
spazio non direttamente interessato dal processo di urbanizzazione come
uno spazio esterno ed estraneo alla città, un luogo dove si esercitano
funzioni diverse da quelle propriamente urbane, la campagna che si contrappone
alla città, oppure come un’area bianca destinata a ospitare le successive
urbanizzazioni e, in attesa, le funzioni che la città espelle, ad
esempio le industrie rumorose e inquinanti, i depuratori, le discariche.
Questa duplice concezione dello spazio
extraurbano si manifesta con chiarezza nei piani regolatori di ampliamento
redatti sulla base della legge del 1865, ma anche in tutta la prima generazione
di piani regolatori redatti in base alla legge del 1942.
Nei primi, infatti, l’interesse del pianificatore
è esplicitamente e giuridicamente diretto verso la regolazione dell’edificato
e il suo ampliamento e sono ben pochi i piani che considerano le aree sottoposte
a nuova urbanizzazione come uno spazio dotato di elementi costitutivi,
naturali o storici, da salvaguardare, conservare o valorizzare.
Infatti, il tracciato del piano di ampliamento
segue logiche interne, di funzionalità insediativa, e si sovrappone
alla morfologia locale imponendo il proprio disegno d’insieme (orientamento
dello sviluppo, estensione e direzione dei tracciati), recuperando solo
alcuni tracciati storici di particolare importanza e permanenza nella morfologia
regolare dell’ampliamento.
Il passaggio dal piano di ampliamento
al piano azzonato della legge urbanistica del ‘42 non introduce immediatamente
alcun nuovo elemento di attenzione al territorio che circonda la città,
anzi il riconoscimento dell’area non urbana come area agricola, in assenza
di normative specifiche che identifichino e regolamentino tale funzione,
determina spesso un uso improprio delle aree che non sono azzonate con
funzioni urbane, un utilizzo in negativo che modifica il concetto di contrapposizione
tra città e campagna in un concetto di subordinazione dello spazio
extraurbano allo spazio urbano. Le aree agricole diventano, in questo tipo
di piani, aree bianche, di riserva, oppure aree di edificabilità
diffusa, o ancora aree dove si insediano funzioni incompatibili con il
contesto residenziale.
Esistono eccezioni a questo modello, ad
esempio il piano per Assisi di Astengo o quello per Siena di Bottoni e
Piccinato, dove si analizzano le destinazioni d’uso anche del suolo extraurbano
salvaguardandone i valori fisico-ambientali, costitutivi, ma sono casi
che non incidono sulla generale prassi professionale, e bisognerà
attendere il decreto interministeriale del 1968 per assistere a una progressiva
capacità di considerare lo spazio che circonda la città,
inteso comunque solo come lo spazio da riservare alle funzioni agricole.
L’avvento delle regioni a statuto ordinario negli anni ‘70 rappresenta
il punto di svolta nella politica di pianificazione del territorio sovracomunale
e quindi anche nella capacità di gestione la dovuta attenzione al
territorio extraurbano che si manifesta, da un lato, attraverso l’ approvazione
di leggi specifiche di tutela delle attività e dello spazio agricolo,
dall’altro attraverso lo svilupparsi di una cultura nuova, attenta ai valori
del territorio non edificato inteso come territorio dotato di valori naturali,
ambientali, ecologici e, con le dovute attenzioni, ricreativi.
La tensione della cultura regionali sta
verso l’affermazione di un possibile primato della pianificazione territoriale
non solo nel momento in cui si esercita il governo dell’infrastrutturazione
e dello sviluppo insediativo, ma anche nella tutela ambientale e nella
protezione della natura, si esprime in una prima generazione di leggi regionali
che inseriscono esplicitamente il tema delle misure di salvaguardia per
la tutela del patrimonio naturale tra quelli di carattere urbanistico.
È il caso della L. 51/75 della
regione Lombardia che anticipa, di ben 10 anni, le stesse disposizioni
della legge Galasso 431/85, individuando forme di tutela delle principali
componenti naturali del paesaggio lombardo. Il titolo V della legge, infatti,
vieta ogni nuova edificazione sulle sponde di laghi, fiumi, canali, per
una profondità di 50-100 m. in tutte le aree di boschi ad alto fusto
o soggette a dissesto, in attesa dell’approvazione del piano territoriale
di coordinamento regionale.
Una simile disposizione legislativa dimostra
la chiara volontà di escludere dall’edificazione alcune parti del
territorio regionale riconoscendone il prevalente carattere di naturalità.
Da una legge di carattere urbanistico perché regolamenta l’edificabilità
dei suoli, emerge l’identificazione, pur se ancora grossolana, delle componenti
e degli ambiti che possono definirsi come “aree naturali” da salvaguardare.
La tutela naturalistica, cioè la protezione degli aspetti più
naturali del territorio da ogni forma di trasformazione urbanizzativa,
sembra quindi essere l’obiettivo primario di queste prime leggi, che superano
il concetto del vincolo autorizzativo della L. 1497 del 1939, per affermare
un principio in termini assoluti. Tale anticipazione verrà confermata
nel secondo decreto di trasferimento delle funzioni dello Stato alle regioni
(decreto 616/77) con l’ art. 83 che delega alle regioni l’esercizio delle
funzioni amministrative concernenti gli interventi per la protezione della
natura, le riserve, i parchi naturali.
Le leggi istitutive dei parchi regionali
L’interesse delle regioni per gli aspetti
di tutela naturalistica del territorio si può riscontrare, ancor
prima della delega di competenze contenuta nel DI. 616/77, nelle iniziative
legislative e di piano mirate alla formazione di parchi regionali, attraverso
cui si identificano e si tutelano particolari porzioni di territorio dotate
di carattere di alto valore naturale.
Tra le prime leggi di questo tipo si deve
ricordare quella che ha portato alla istituzione del Parco Lombardo della
Valle del Ticino definendo le “Norme urbanistiche per la tutela delle aree
comprese nel piano regionale delle riserve e dei parchi naturali di interesse
regionale” (n. 2/74), cui seguirà l’approvazione dello specifico
piano territoriale di coordinamento avvenuta con legge regionale (n. 33/80
contenente le norme tecniche di attuazione del piano territoriale di coordinamento
del Parco Lombardo della Valle del Ticino). Infine sarà l’approvazione
del “Piano regionale delle aree regionali protette. Norme per l’istituzione
e la gestione delle risorse dei parchi e dei monumenti naturali, nonché
delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale”, ex legge 86/83,
che consentirà la formazione di un piano settoriale di protezione
della natura esteso a tutto il territorio regionale.
L’approvazione di queste leggi in Lombardia
e di analoghi ordinamenti nella gran parte delle altre regioni dimostra
come, in assenza di una legge quadro statale, che giungerà solo
nel 1991, il governo regionale sia stato in grado di identificare e di
intervenire all’interno di un rilevante ambito di pianificazione territoriale,
quello che presiede alla protezione della natura, legandolo in via prioritaria
agli strumenti urbanistici, cioè alla definizione di normative di
uso del suolo capaci di proteggere le componenti naturalistiche da una
inopportuna trasformazione o dalla completa distruzione.
L’istituto dei parchi regionali rappresenta
un primo passo, ancora carente sul versante dei contenuti propri di una
completa cultura ambientalista, naturalistica e paesaggistica, ma che ha
consentito di avviare una politica di protezione della natura su parti
rilevanti del territorio regionale.
I contesti territoriali individuati come
meritevoli di salvaguardia ambientale sono gli ambiti fluviali, quelli
montani, quelli costieri marini e lacuali, gli stessi ambiti geografici
che verranno individuati come aree d’appoggio dei vincoli di inedificabilità
preliminari al piano paesistico regionale della L. 431/85.
L’approvazione di leggi regionali istitutive
di parchi e riserve naturali può dunque essere vista come la dimostrazione
di una palese volontà di operare nel campo della tutela del territorio
esercitando poteri e sviluppando atti di protezione della natura. Ciò
è tanto più vero in quelle regioni, come la Lombardia, dove,
a fronte di una grossa difficoltà propositiva nella più complessa
materia della pianificazione socio-economico-territoriale, si sviluppa
la capacità di individuare vaste aree di territorio regionale (pari
complessivamente a circa il 20% ) da sottoporre a tutela per gli aspetti
naturali. La lettura dei documenti di piano relativi ai parchi regionali
nella provincia di Milano e Lodi ci conferma, oltre all’estensione, anche
la validità dell’approccio scientifico e culturale elaborato in
merito alla definizione di strumenti di controllo e di indirizzo delle
azioni di tutela.
I contenuti e gli esiti della pianificazione
dei parchi regionali
Ancor prima dell’ approvazione di leggi
nazionali quadro come la 431/85 e la 394/91, le regioni hanno esercitato
poteri ed espresso capacità di protezione della natura sia attraverso
la definizione dei contenuti dei piani territoriali di coordinamento regionale,
sia attraverso le azioni mirate alla istituzione di parchi regionali che,
come risulta dalla precedente trattazione, si concretizzano già
a partire dalla metà degli anni ‘70 e quindi producono esiti negli
anni ‘80 e ‘90.
L’analisi dei contenuti dei piani dei
parchi regionali ci dimostra la capacità di individuare motivatamente
le aree dotate di valori naturalistici e di definire le normative con cui
si intendono salvaguardare i valori rilevati. La qualità dei documenti
di piano, redatti in scala 1:10.000 e accompagnati da norme tecniche specifiche,
riesce a imporre l’osservanza di criteri di intervento che vanno dall’esclusione
totale della trasformazione (riserva integrale), alla calibrazione di possibilità
di modifica della copertura vegetazionale (riserve orientate e parziali),
alla conferma delle colture compatibili in atto (aree agricole).
Gli esiti di questo tipo di normative,
classificabili come normativa vincolistica, sono certamente positivi rispetto
all’obiettivo di preservare aree naturali dalla trasformazione, più
incerti e contraddittori si rivelano là dove si vorrebbero mantenere
funzioni e destinazioni d’uso “storiche”, come le coltivazioni miste, il
paesaggio agrario, le cascine e le strutture agricole, la viabilità
storica interpoderale, i fontanili, l’irrigazione tradizionale, che non
si giustificano più con l’attuale tecnologia ed economia agraria.
La stagione dei piani paesistici introduce
già nella seconda metà degli anni ‘80 la consapevolezza di
una visione di tutela più complessa che consideri sia le componenti
naturali del paesaggio, sia le componenti antropiche, riconoscendo che
la gran parte degli aspetti naturali del nostro territorio deriva da un’azione
antropica che deve continuare a sussistere.
L’esperienza della pianificazione paesistica,
anche per le regioni come la Lombardia che non sono riuscite ad arrivare
all’approvazione ufficiale del piano nei tempi richiesti, ha rappresentato
un momento di grande approfondimento delle questioni relative ai contenuti
e ai metodi dell’analisi e di pianificazione ambientale arrivando a precisare,
con sempre maggior ricchezza di contenuti, un approccio territorialista
dell’urbanista capace di individuare e di leggere le componenti fisiche
del territorio che interagiscono con le più evidenti forme di trasformazione
umana del territorio stesso e di evidenziare i valori primigeni (naturali
e geologici), i valori acquisiti (storico architettonici), oltre che indicarne
le modalità di conservazione e di trasformazione compatibile.
L’approfondimento concettuale culturale,
che si manifesta nella seconda metà degli anni ‘80 in merito alla
pianificazione paesistica, si riflette anche sui contenuti e sugli esiti
della pianificazione dei parchi regionali, contribuendo a un progressivo
spostamento di interessi e di elaborazioni tecniche dal puro momento vincolistico
al momento propositivo e operativo. Le norme di tutela e salvaguardia si
integrano con norme dirette alla riqualificazione e al recupero dell’ambiente
naturale e dei beni storico-culturali. La possibilità di riqualificazione
ambientale si lega alla capacità di cogliere e di individuare le
cause del degrado dell’ambiente e di proporne l’eliminazione, mentre il
recupero dell’ambiente naturale e dei beni storico-culturali è espresso
nei termini di auspicati interventi di restauro e di ripristino dei valori
naturali, storici, architettonici del territorio. Le analisi si arricchiscono
di letture più raffinate e incrociate sui caratteri morfologici,
climatici, paesaggistici, storici, etnografici e archeologici del territorio,
le norme si arricchiscono con proposte di regimi di tutela, di interventi
e di opere per la tutela idrogeologica, per l’incremento della vegetazione
e della fauna, di criteri e di norme per la definizione delle opere, dei
servizi e delle infrastrutture per la gestione e funzione del parco, arrivando
sino a definire le aree da espropriare o le modalità di acquisizione
di spazi pubblici entro un processo di cooperazione tra attori diversi
e operatori territoriali.
Si può quindi affermare che i piani
più recenti dei parchi regionali hanno espresso con coerenza l’obiettivo
di definire un ambito di protezione naturalistica, sia attraverso i contenuti
vincolistici propri dello strumento pianificatorio, sia attraverso l’arricchimento
degli strumenti stessi di intervento, in particolare con l’introduzione
del piano di gestione che deve documentare tempi, modi, azioni e risorse
per la realizzazione degli interventi previsti.
Il caso del Parco Agricolo Sud Milano
L’istituzione dei parchi regionali ha
positivamente innovato la tradizione urbanistica di intervento sulle aree
extraurbane, riconoscendo l’esistenza di valori naturali presenti sul territorio
che circonda la città, tuttavia non ha del tutto risolto la tradizionale
dicotomia città-campagna che si manifesta ancora nei termini di
una contrapposizione tra funzioni insediative e uso agricolo del suolo.
Il progressi vo accrescimento degli spazi
urbanizzati e, soprattutto, l’affermarsi della cosiddetta città
diffusa, cioè l’espansione residenziale a bassa densità nelle
aree periurbane, ha determinato una crescente debolezza delle attività
agricole in queste aree e una loro subordinazione ai meccanismi di valorizzazione
immobiliare imposti dalla rendita urbana.
L’agricoltura nelle aree peri urbane si
configura come agricoltura d’attesa, caratterizzata anche da incolti e
da usi marginali e quindi perde la propria funzione di tutela dell’ambiente
non edificato. Questo determina un progressivo deperimento delle aree e
dei manufatti agricoli e una perdita dei valori storici, culturali e ambientali
della campagna.
Il Parco agricolo Sud Milano può
essere inteso come il primo tentativo di opporsi a questa progressiva perdita
d’identità delle aree periurbane, attraverso la proposta di istituire
un parco basato sulla valorizzazione della funzione agricola, in quanto
attività compatibile con la tutela dell’ ambiente e del paesaggio,
e su una politica di promozione di interventi di recupero finalizzati alle
attività culturali e del tempo libero.
Il Parco agricolo Sud Milano, in questo
senso, costituisce un’eccezione tra i parchi naturali regionali Lombardi,
più simile al progetto della cintura verde parigina o londinese,
che al parco fluviale del Ticino o al Parco delle Groane, tant’è
che la sua legge istitutiva (24/90) lo definisce come parco regionale di
cintura metropolitana. La stessa legge definisce le finalità del
parco nei termini di tutela e recupero paesistico e ambientale delle fasce
di collegamento tra città e campagna e di connessione con i verdi
urbani, di salvaguardia, qualificazione e potenziamento delle attività
agro-silvo-culturali, di formazione culturale e ricreativa da parte dei
cittadini.
L’area interessata dal parco comprende
il territorio non edificato di 61 comuni, Milano compresa, quindi l’azione
di tutela si esercita su tutte le aree extraurbane comprendendo sia le
aree dotate di valori naturali, sia quelle con presenza di valori storico-paesistici,
sia le aree produttive agricole. Sarà il piano territoriale di coordinamento
che svilupperà forme diverse di salvaguardia e/o trasformazione
delle aree in funzione degli obiettivi generali del parco.