I Piani urbanistici (a cura di Fabrizio Bottini)

 
 
 
 

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Estratti da: Edoardo Salzano, Fondamenti di Urbanistica. La storia e la norma, Laterza, Bari 2003

Indice degli estratti: (1) Nasce il “piano regolatore”; (2) “Fisico” e “funzionale”:  una distinzione che è utile chiarire; (3) Che cos’è un piano regolatore; (4) Il contenuto tecnico di un piano regolatore e il metodo della “zonizzazione”; (5) La pianificazione in Italia prima del 1942; (6) Nasce l’Istituto nazionale di urbanistica; (7) La legge urbanistica del 1942; (8) Il sistema della pianificazione

Il piano urbanistico nella legislazione e nella prassi italiane

Nasce il “piano regolatore”
Nella nostra rapida visita alle radici dell’urbanistica moderna abbiamo incontrato autori ed esperienze soprattutto inglesi e francese: dei paesi guida (insieme alla Germania) della borghesia capitalistica. Torniamo adesso all’Italia, e domandiamoci che cosa si intende oggi, nel nostro paese, per urbanistica. 
Ho già affermato che l’urbanistica è una disciplina attiva: per operare sul territorio in vista di alcune necessità. L’urbanistica moderna (anche questo lo abbiamo visto) nasce come tentativo di dare una risposta alle esigenze formali e funzionali, di organizzazione fisica e di organizzazione funzionale, nate dall’impetuoso e distorto sviluppo capitalistico.
Da un lato, c’è l’esigenza di evitare, o ridurre, il caos derivante dallo spontaneismo. C’è la necessità di programmare gli usi del territorio: la necessità cioè di far sì che le trasformazioni, anche vistose, connesse allo sviluppo del sistema produttivo e ai conseguenti movimenti migratori della popolazione, avvengano secondo un disegno d’insieme. Questa necessità si lega, in Italia, al processo di unificazione nazionale e alla esigenza di costruire spazi e forme adeguati alle nuove funzioni centrali; ricordiamo che in Italia diverse città si sono fregiate del titolo di “capitale”: Napoli, Torino, Firenze, Roma. Come dall’altra parte si lega all’intreccio tra rendita e profitto che sta alla base del blocco sociale dominante nel processo di unificazione del paese, e in particolare all’opportunità di compiere operazioni finanziariamente vantaggiose di valorizzazione delle proprietà fondiarie.
Si pone insomma l’esigenza di “regolare” le trasformazioni fisiche e funzionali, e di “valorizzare” le proprietà fondiarie coinvolte nel processo di trasformazione. 
Nasce così il Piano regolatore generale comunale, come strumento, a un tempo, di regolazione a priori delle trasformazioni fisiche e funzionali e di valorizzazione delle proprietà fondiarie. Ma prima di addentrarci ad esaminare questo attrezzo, cerchiamo di chiarire il significato che assumono per noi i termini “fisico” e “funzionale”.

“Fisico” e “funzionale”:  una distinzione che è utile chiarire (torna all'Indice)
“Distinguere” è diverso da “separare”. Separare vuol dire dividere una cosa in più cose. Distinguere vuol dire individuare, all’interno d’una medesima realtà, due aspetti, o momenti, o componenti, che hanno caratteristiche riconoscibilmente diverse. Per “distinguere” la testa dal corpo di una persona, bastano gli occhi dell’osservatore; per “separarla” ci vuole la ghigliottina, o uno strumento analogo. Rilevanti sono perciò le conseguenze pratiche d’una confusione tra i due termini.
Ora nell’assetto di un determinato oggetto territoriale (una città, una regione, in complesso di edifici, ecc.), oppure nelle trasformazioni che avvengono, si possono distinguere due aspetti. Il primo concerne la struttura fisica di quell’oggetto (le strade, le case, l’acqua, il suolo, gli alberi, le stanze, i tetti, il sottosuolo, le pavimentazioni esterne, elencando alcuni esempi a casaccio), e lo chiamiamo fisico. Il secondo aspetto riguarda il funzionamento di quel determinato oggetto, e quindi gli usi cui le varie parti sono adibite, le relazioni che legano le sue parti, i servizi che vengono erogati, le attività che vi vengono svolte, i gruppi sociali che vi vivono: lo chiamiamo, appunto, funzionale. 
Non esiste città, non esiste territorio, non esiste “oggetto territoriale” nel quale non siano evidenziabili, e presenti, questi due aspetti. E non esiste operazione urbanistica, “progetto” della città e del territorio, e dunque pianificazione urbanistica e territoriale, se non si prendono in considerazione l’uno e l’altro di questi aspetti: se non si danno regole per le trasformazioni fisiche e, contemporaneamente, per le trasformazioni funzionali.

Che cos’è un piano regolatore (torna all'Indice)
Cominciamo adesso a vedere che cos’è un “piano urbanistico” (il Piano regolatore generale, in sigla Prg, è la prima forma di un genere che si è successivamente molto sviluppato), descrivendo alcune sue caratteristiche essenziali. Le caratteristiche che ora descriverò si basano sul Prg, ma riguardano sostanzialmente tutti i piani urbanistici.
Fisicamente, se esaminiamo la sua forma, la sua apparenza, un piano è costituito da una serie di elementi grafici e da una serie di elementi alfanumerici: disegni e testi. I disegni, e in particolare le cartografie, sono sempre essenziali: il piano si riferisce a un determinato territorio, e (per ora) l’unica simulazione relativamente comoda di un territorio che si è stati capaci di inventare è costituita dalla cartografia. I testi sono sempre necessari, perché il piano deve essere non solo descritto, raccontato, illustrato (ciò che di solito è argomento della relazione), ma soprattutto trasmette “ordini”, “comandi”: definisce norme, che devono essere espresse nella lingua corrente. Il fatto che il disegno sia formato attraverso i metodi tradizionali, depositando cioè delle linee e dei campi su supporti cartacei, oppure che sia formato mediante una simulazione elettronica contenuta su una base magnetica, poco importa: in entrambi i casi, l’importante è che la rappresentazione delle decisioni sia riferita al territorio con la precisione richiesta, che sia cioè “georeferenziata”.
Geneticamente il piano deve essere l’espressione, tecnicamente compiuta, d’una volontà collettiva, quindi politica. Il piano è quindi il prodotto della collaborazione tra i saperi (e i voleri) dei tecnici, e i voleri (e i saperi) del rappresentante politico della comunità il cui territorio il piano regola. Oppure, per adoperare un’espressione di Francesco Indovina, il piano è “l’espressione di una volontà politica tecnicamente assistita”. Tra i tecnici, diverse discipline devono concorrere alla definizione del piano; ma tra queste quella dell’urbanista è indubbiamente centrale: come responsabile della sintesi tra i diversi saperi, e della regia del loro ruolo.
Istituzionalmente, il piano deve essere efficace: le volontà in esso espresse devono essere tradotte in concrete trasformazioni fisiche e funzionali da una pluralità di operatori. Il piano deve perciò essere “opponibile ai terzi”, deve avere una precisa, definita e chiara cogenza normativa. La parte illustrativa del piano può essere formulata come si vuole: la sua unica finalità è far comprendere, documentare, convincere, argomentare, illustrare. Ma la sostanza istituzionale del piano è trasmettere ordini. Poiché il piano è riferito al territorio, l’efficacia normativa deriva da una corretta congiunzione tra la cartografia e la normativa scritta.
Operativamente: il piano ha un significato diverso per l’operatore pubblico che ne è l’autore e per l’operatore privato. Per l’operatore pubblico il piano è soprattutto un programma: è il programma degli interventi di trasformazione (urbanizzazione) che l’operatore pubblico si propone di compiere. Per l’operatore privato il piano è, a un tempo, l’indicazione delle opportunità di trasformazione (e di valorizzazione) e dei vincoli (o più precisamente delle condizioni) cui egli deve sottostare.

Il contenuto tecnico di un piano regolatore e il metodo della “zonizzazione”(torna all'Indice)
Dall’Unità d’Italia alla Seconda guerra mondiale i piani regolatori avevano, nel nostro paese, essenzialmente una funzione di regolazione delle trasformazioni della parti costruite delle grandi città (dovute sia alla crescita del ruolo delle “capitali”, sia a esigenze di risanamento igienico ed edilizio) e di definizione di un disegno di massima delle zone d’espansione. Dopo la Seconda guerra mondiale, e fino a tutti gli anni Settanta, ai piani regolatori viene assegnata soprattutto una funzione di definizione dell’assetto delle vastissime zone d’espansione e delle infrastrutture, soprattutto quelle per la viabilità automobilistica. 
In riferimento soprattutto a questa seconda fase, il “linguaggio” del piano regolatore è costituito essenzialmente da due elementi: il disegno di massima della rete delle infrastrutture per il trasporto (linee ferroviarie e, soprattutto, viabilità carrabile) e la suddivisione del territorio dell’ambito interessato (per esempio, il territorio comunale, oppure la città esistente e le zone di espansione) in “zone”, ciascuna caratterizzata da specifiche caratteristiche funzionali e fisiche. Più esattamente, da zone alle quali, con l’attribuzione di destinazioni, parametri e indici, si intende attribuire un differente carattere funzionale e fisico.
Si tratta della procedura tecnica cosiddetta della “zonizzazione”, alla quale la pianificazione urbanistica ha tradizionalmente fatto ricorso e della quale ancor oggi generalmente ci si avvale (sebbene sia stata negli ultimi decenni sottoposta a critica, per ragioni che appresso vedremo). La procedura consiste sostanzialmente nell’attribuire a ciascuna zona, in cui viene articolato il territorio, particolari “destinazioni d’uso” e particolari quantità e tipologie di edificazione.
L’attribuzione di destinazioni d’uso sostanzialmente consiste nell’individuare e prescrivere qual è la “funzione” prevalente cui quella parte del territorio deve essere adibita (residenza, industria, artigianato, commercio, servizi pubblici ecc. ecc.), e nell’esprimere normativamente quali sono le utilizzazioni cui possono essere adibite le diverse unità di spazio, edificate e libere, che compongono quella zona (così, ad esempio, nelle “zone residenziali” possono essere consentite abitazioni, altre attività compatibili fino a una certa percentuale, mentre sono escluse industrie, attività artigianali ecc. ecc.). 
Le quantità e le tipologie di edificazione sono generalmente espresse, nella pianificazione tradizionale, da indici e parametri di carattere sintetico o di carattere analitico. Quelli sintetici consistono nell’attribuire, alle diverse zone, densità di utilizzazione (per esempio, nelle zone residenziali si adoperava il parametro di abitanti per ettaro) o di edificazione (metri cubi per metro quadrato), o rapporti tra superficie fondiaria (cioè superficie di pertinenza delle costruzioni) e superficie territoriale (cioè superficie totale della zona o dell’ambito, comprese le strade le piazze, le aree per servizi pubblici ecc.). Quelli analitici consistono nel definire, più precisamente, le specifiche caratteristiche fisiche dell’edificazione: ciò che avviene o in sede di definizione delle norme, oppure in successivi piani urbanistici attuativi. Le grandezze che si adoperano sono costituite prevalentemente dai seguenti elementi: dimensione minima e massima del lotto edificabile, rapporto tra la superficie copribile con la costruzione e la superficie totale del lotto (rapporto di copertura), rapporto tra cubatura o superficie utile edificabile e superficie del lotto (indice di fabbricabilità), numero dei piani e/o altezza massima delle costruzioni, distanze dai confini, dalla strada, dall’edificio vicino ecc. (distacchi).
È facile comprendere come l’attribuzione di funzioni e di quantità alle proprietà fondiarie determina una forte trasformazione di valori immobiliari. Ma su questo torneremo in seguito.

La legge urbanistica del 1942

La pianificazione in Italia prima del 1942 (torna all'Indice)
Fino alla Seconda guerra mondiale, in Italia non c’era una legge che definisse gli istituti, le procedure e i contenuti della pianificazione urbanistica. Ogni volta che si riteneva necessario formare un piano urbanistico, si procedeva secondo regole e norme stabilite caso per caso: generalmente, ogni piano veniva approvato con legge dello Stato. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento e all’inizio del Novecento prevalevano i “piani d’ampliamento”, relativi a singole zone d’espansione o alla valorizzazione tramite ristrutturazione di aree centrali.
I piani riguardano soprattutto le grandi città: Firenze (piano Poggi del 1865), Roma (piani Viviani del 1873 e del 1982, piano Saintjust-Nathan del 1911), Milano (piani d’ampliamento e di ristrutturazione, poi il piano Beruto del 1889, il piano Pavia-Masera del 1912), Torino (numerosi “piani d’ampliamento” nel corso dell’Ottocento, poi il piano regolatore del 1906 e le successive varianti), Genova (numerosi piani d’ampliamento), Napoli (rilevante il “piano di risanamento” del 1885 , poi il piano De Simone del 1914), Bologna, Ancona, Cuneo, Bergamo e numerose altre città grandi e medie .
Tra il 1926 e la fine degli anni Trenta si sviluppa in Italia la grande impresa della bonifica della Pianura Pontina, a sud di Roma. Il regime fascista promuove  l’organizzazione ed esecuzione d’un vastissimo programma di trasformazione territoriale. Sessantamila mila ettari di terreno paludoso. vengono bonificati e messi a coltura, mediante un razionale sistema di appoderamento, la realizzazione di 2 mila km di canali e 900 km di strade, e la costruzione di numerose città. Littoria, oggi Latina, è il nuovo capoluogo di provincia; ad essa si affiancano Pontinia, Sabaudia, Pomezia, Aprilia e una ventina di borghi, i cui nomi ricordano luoghi veneti della della guerra 1915-18 (Borgo Podgora, Piave, Grappa, Bainzizza, Carso, Ermada, Isonzo, Montello). L’operazione è infatti gestita dall’Opera nazionale combattenti, un organismo istituito nel dopoguerra per il reinserimento e l’assistenza degli ex combattenti della guerra, spesso privati delle loro case e poderi per le distruzioni o gli spostamenti del confine, o ridotti in miseria per la carestia.  Ancora oggi, nei borghi della provincia di Latina il dialetto veneto è il più diffuso. Nella progettazione delle nuove città si cimentano i migliori architetti e ingegneri italiani, divenuti urbanisti .

Nasce l’Istituto nazionale di urbanistica (torna all'Indice)
Nel gennaio del 1930, a conclusione del XII Congresso internazionale della Fédération internationale pour l’habitation et l’aménagement du territoire (Fihuat), viene fondato l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica). I promotori avevano deciso di costituire un istituto di cultura che si proponesse “lo studio dei problemi tecnici, economici e sociali, relativi allo sviluppo dei centri urbani e l’esame delle questioni relative all’organizzazione e al funzionamento dei servizi pubblici di carattere municipale”. Era una organizzazione di élite, e tale è rimasta per molti anni. Raccoglieva, nel primo decennio della sua vita, professionisti e studiosi in vario modo legati al dominante regime fascista. Fu però uno dei luoghi nei quali si preparò il futuro democratico dell’Italia. Consentì all’Inu di svolgere questo ruolo il fatto che esso programmaticamente si era posto il compito di aprire un rilevante segmento della società italiana a esperienze tecniche, ma quindi anche a più profondi influssi culturali maturati fuori dalla “provincia” italiana: prevalentemente, nell’ambito delle democrazie anglosassoni .
La prima fase della vita dell’Inu si concluse, nel 1942, con l’approvazione, da parte della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, della prima legge urbanistica italiana. È la legge ancora oggi vigente, arricchita e complicata dalle numerose integrazioni e dalle parziali modifiche che da allora si sono susseguite: fra poco ne parleremo ampiamente. Ma diciamo subito che fu il prodotto, di notevole livello, di uno scontro aspro tra i difensori a oltranza della proprietà privata e quelli che volevano porre dei limiti ai diritti di utilizzazione fondiaria. Già in quegli anni, negli anni del regime fascista, l’azione dell’Inu aveva alla sua base una proposta che ancora oggi è attuale e avanzata: una proposta che prevedeva l’esproprio preventivo delle aree urbane e il pagamento, per le aree non ancora urbanizzate, di un’indennità che tenesse conto soltanto delle utilizzazioni produttive in atto .
Oltre che sulle caratteristiche tecniche del sistema di pianificazione previsto, per le quali il monopolio culturale dell’Inu rende in qualche misura ovvia l’accettazione delle sue proposte, l’influenza dell’Istituto è perciò anche individuabile nelle parti più “politiche” della legge. In quelle sue parti che avrebbero potuto consentire ai comuni di espropriare le aree d’espansione individuate dal Piano regolatore generale, pagando un’indennità che non tenesse conto degli incrementi di valore derivanti dalle previsioni di piano. È una parte della legge che soltanto eccezionalmente è stata applicata. Ma il divario tra leggi positive, e cattive o pessime attuazioni, è una caratteristica tipica dell’Italia.
Quasi a suggello del contributo dell’Inu alla legge urbanistica lo Stato, con regio decreto del 1943, eresse l’Inu in ente morale e lo riconobbe come “Istituto di alta cultura”. Nella nomenclatura giuridica italiana, si trattava di un riconoscimento molto significativo, che faceva dell’Inu, libera associazione di cultori della materia, l’espressione più autorevole e ufficiale della cultura urbanistica in Italia.

La legge urbanistica del 1942 (torna all'Indice)
Ma è tempo ormai di vedere un po’ da vicino la legge urbanistica italiana, la legge 1150 del 1942. Scrive Vezio De Lucia:
La legge urbanistica italiana ha cinquant’anni. Fu promulgata lunedì 17 agosto 1942 da Vittorio Emanuele III a Sant’Anna di Valdieri, dov’era in vacanza. La stampa di quei giorni da notizia di una grande vittoria navale dell’Asse nel Mediterraneo, denuncia Londra per sanguinose repressioni in India, invita alla cura degli orti di guerra. La nuova legge era stata preceduta da lunghi studi e non può essere liquidata tout court come una legge fascista. Nelle commissioni legislative del Senato e della Camera dei fasci e delle corporazioni si scontrarono i difensori ad oltranza della proprietà privata con quelli che alla proprietà intendevano porre dei limiti. Intervenne anche l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) che aveva elaborato una proposta basata sull’esproprio preventivo delle aree urbane. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva comunque dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione” .
La legge 1150 del 17 agosto 1942 è ancor oggi la legge fondamentale in materia urbanistica. Nonostante il mezzo secolo trascorso, nonostante che dal 1972 le regioni a statuto ordinario abbiano la pienezza della potestà legislativa in materia, nonostante le numerosissime “modificazioni e integrazioni” intercorse con successivi atti legislativi, l’impianto complessivo della pianificazione è ancora determinato, in Italia, dagli istituti, i contenuti e le procedure stabilite dalla legge 1150/1942.
Esamineremo adesso alcuni aspetti essenziali della legge così come fu originariamente emanata, prescindendo dalle modifiche successivamente introdotte.

Il sistema della pianificazione (torna all'Indice)
Finalità della legge è la disciplina de “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno” (articolo 1). Tale disciplina “si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali e delle norme sull’attività costruttiva” (articolo 2).
Il cuore della legge, e del sistema di pianificazione che essa instaura, è il “piano regolatore generale comunale” (Prg). Esso (e questa è una novità rispetto alla precedente pianificazione) dev’essere esteso all’intero territorio comunale, e deve indicare essenzialmente (articolo 7)
1. la rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e, laddove occorra, navigabili, concepita per la sistemazione e lo sviluppo dell’abitato, in modo da soddisfare alle esigenze del traffico, dell’igiene e del pubblico decoro;
2. la divisione in zone del territorio, con precisazione di quelle destinate all’espansione dell’aggregato urbano, e i caratteri e i vincoli di zona da osservare nell’edificazione;
3. le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciale servitù;
4. le aree da riservare a sede della casa comunale e della casa del Fascio, alla costruzione di scuole e Chiese e ad opere e impianti d’interesse pubblico in generale.
Sono obbligati a fare il Prg tutti i comuni compresi in appositi elenchi che il Ministero dei lavori pubblici è tenuto a formare e aggiornare. Ne hanno facoltà tutti gli altri. I comuni che non sono dotati di Prg devono comunque adottare un Regolamento edilizio, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni, e che contiene un allegato cartografico denominato “Programma di fabbricazione”.
Il Prg è attuato, secondo la legge, o per intervento diretto (licenza edilizia, oggi concessione edilizia), o con il tramite di un “piano particolareggiato d’esecuzione” (Pp). Il piano particolareggiato è esteso a una parte del territorio comunale, e precisa per essa la disciplina prevista dal Prg a livello di dettaglio. Esso può giungere a indicare le sagome planimetriche e altimetriche dei singoli edifici (planovolumetrico). Più precisamente, la legge prescrive (articolo 13):
Il piano regolatore generale è attuato a mezzo di piani particolareggiati di esecuzione nei quali devono essere indicate le reti stradali e i principali dati altimetrici di ciascuna zona e debbono inoltre essere determinati:
- le masse e le altezze delle costruzioni lungo le principali strade e piazze;
- gli spazi riservati ad opere od impianti di interesse pubblico;
- gli edifici destinati a demolizione o ricostruzione ovvero soggetti a restauro o a bonifica edilizia;
- le suddivisioni degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia indicata nel piano;
- gli elenchi catastali delle proprietà da espropriare o da vincolare; 
- la profondità delle zone laterali a opere pubbliche la cui occupazione serva ad integrare le finalità delle opere stesse ed a soddisfare prevedibili esigenze future.
Ciascun piano particolareggiato di esecuzione deve essere corredato dalla relazione illustrativa e dal piano finanziario di cui al successivo articolo 30.
Oltre alla pianificazione comunale, la legge prevede altri due livelli di pianificazione, entrambi sovracomunali. Un primo livello è costituito dal “piano regolatore intercomunale” (Pic), che è un piano regolatore identico al Prg ma esteso al territorio di più comuni limitrofi: ha quindi il medesimo contenuto del Prg. Un secondo livello è costituito dal “piano territoriale di coordinamento” (Ptc). Mentre il Pic è formato per iniziative dei comuni, il Ptc è di competenza del Ministero dei lavori pubblici il quale (dove occorra formarlo) ne stabilisce il perimetro e lo redige. Per quanto riguarda il suo contenuto, la legge stabilisce (articolo 5):
Nella formazione dei detti piani devono stabilirsi le direttive da seguire nel territorio considerato, in rapporto principalmente:
a) alle zone da riservare a speciali destinazioni ed a quelle assoggettate a speciali vincoli o limitazioni di legge;
b) alle località da scegliere come sedi di nuovi nuclei edilizi od impianti di particolare natura ed importanza;
c) alla rete delle principali linee di comunicazione stradali, ferroviarie, elettriche, navigabili esistenti e in programma.
I piani, elaborati d’intesa con le altre Amministrazioni interessate previo parere del Consiglio, superiore dei lavori pubblici, sono approvati per decreto Reale su proposta del Ministro per i lavori pubblici, di concerto col Ministro per comunicazioni, quando interessino impianti ferroviari, e col Ministro per le corporazioni ai fini della sistemazione delle zone industriali nel territorio nazionale.
E che inoltre (articolo 6):
II piano territoriale di coordinamento ha vigore a tempo indeterminato e può essere variato con decreto reale previa la osservanza della procedura che sarà stabilita dal regolamento di esecuzione della presente legge.
I Comuni, il cui territorio sia compreso in tutto o in parte nell’ambito di un piano territoriale di coordinamento, sono tenuti ad uniformare a questo il rispettivo piano regolatore comunale.
In tal senso si dice che il Ptc è sovraordinato rispetto al piano regolatore comunale, o agli altri piani di livello sottordinato.
Nella successiva evoluzione legislativa si può dire che si sono sviluppate le “figure pianificatorie” derivate, rispettivamente, dal piano particolareggiato d’esecuzione (soprattutto con le leggi per la casa degli anni Sessanta e Settanta) e dal piano territoriale di coordinamento (con le legislazioni regionali e con la legislazione nazionale degli anni Ottanta). Ma su questo torneremo più avanti.