La Bhagavad Gítá

INTRODUZIONE

La Bhagavad Gítá, che letteralmente significa il canto del glorioso Signore, è insieme alle Upanisad   l'opera sanscrita più diffusa nel mondo e la più venerata dal popolo indiano. È particolarmente importante per i seguaci del visnuismo bhágavata, poiché adorano l'avatára Krishna, diretta incarnazione di Visnu, il quale è il maestro che impartisce, all'interno del poema, gli insegnamenti filosofici, etici e spirituali.

La Gítá costituisce un episodio del Bhísmaparvan, il sesto capitolo del poema Mahábhárata, la grande epopea dei Bhárata . Questa gigantesca opera sanscrita - che rappresenta forse il più esteso componimento letterario dell'intera umanità - narra la storia leggendaria dei principali antenati di questo paese, in particolar modo delle famiglie dei Pándava e dei cugini Kaurava e della loro guerra per il dominio del regno. Pándu ebbe cinque figli: Yudhisthira, Bhíma, Arjuna, Nakula e Sahadeva, tutti di origine divina, in quanto, a causa di una maledizione lanciatagli da un saggio, non poteva avere figli, poiché sarebbe morto appena si fosse avvicinato ad una donna.  Sua moglie, Kuntí, ricevette, però, dal saggio Durvása un mantra  mediante il quale avrebbe potuto evocare qualsiasi divinità e farsi da quella ingravidare. Nacquero, così, Yudhisthira dal dio Dharma, Bhíma dal dio Váyu, Arjuna dal dio Indra e infine i gemelli Nakula e Sahadeva dalla coppia degli dèi Asvin. A sua volta Dhritarástra, capostipite dei Kaurava, ebbe, grazie ad un intervento divino, ben cento figli; il primogenito si chiamava Duryodhana. La rivalità tra le due famiglie aumentò sempre più fino a quando nel secondo libro del Mahábhárata, il Sabháparvan , Duryodhana sfidò Yudhisthira, il più anziano dei Pándava, al gioco dei dadi, che rappresenta nel rituale vedico l'atto conclusivo dell'incoronazione di un sovrano. A causa di un inganno Yudhisthira perdette tutto ciò che possedeva e l'intera famiglia dei Pándava fu costretta ad un esilio di dodici anni. In questo periodo pellegrinarono in tutti i luoghi santi imbattendosi in avventure di ogni tipo, dalle quali uscirono sempre vittoriosi.

Dopo tredici anni di esilio, i Pándava ritornarono in patria a chiedere la metà del regno. Dopo vari tentativi di mediazione, Duryodhana si rifiutò di accordar loro la sovranità sulle terre che gli spetterebbero di diritto. Falliti tutti i tentativi di mediazione a causa dell'ostinazione di Duryodhana, lo scontro armato fu inevitabile. Si apre così il sesto libro, il Bhísmaparvan, nel quale Vyása concede a Sañjaya, l'auriga di Dhritarástra, il potere di vedere tutto ciò che accade sul campo di battaglia di Kurukshetra. Inizia così la Bhagavad Gítá, caratterizzata dallo sconforto e dai dubbi che assalgono Arjuna alla vista dell'esercito nemico - costituito dai suoi parenti, amici e maestri - e dall'insegnamento che Krishna gli impartisce per superare le illusioni mondane e motivarlo a combattere.
I tre libri successivi, raccontano le fasi del combattimento, nel quale trovano la morte alcuni condottieri dei kaurava. A trionfare, alla fine sono i Páñðava, che si riconciliano con il vecchio re Dhritarástra.
Questa breve sintesi del Mahábhárata è utile per conoscere in quale contesto viene a trovarsi la Gítá e per quale motivo i due eserciti schierati l'uno di fronte all'altro sono in procinto di darsi battaglia.
È di fondamentale importanza notare, inoltre, che la Bhagavad Gítá può essere compresa a fondo ed interpretata solamente nel contesto del Mahábhárata. Prima di tutto la Gítá è il momento più alto di tutta la riflessione filosofica, metafisica ed escatologica dell'epopea; in secondo luogo la sua chiave di lettura è inscritta nell'insieme del grande poema. Una conferma di queste affermazioni deriva dalla presenza di alcuni temi fondamentali della Gítá, all'interno del Mahábhárata.
Per esempio, l'insegnamento dell'azione disinteressata, cioè senza attaccamento ai frutti che ne possono derivare,  è preannunciato nel terzo libro, il Vanaparvan , quando, di fronte alla domanda di Draupadí sulle motivazioni che inducevano i Páñðava a non essere mossi dall'ira nei confronti dei Kaurava dopo ciò che avevano fatto loro, Yudhisthira risponde che egli non cerca il frutto delle azioni, ma dà perché si deve dare e sacrifica perché si deve sacrificare . Nella Gítá viene detto, infatti, che all'uomo compete solamente l'azione e non i frutti che ne derivano .
Anche il concetto dell'ineluttabilità delle azioni viene anticipato da Draupadí, nello stesso libro: l'azione "deve essere inevitabilmente compiuta da chiunque nasce; solo i sassi e gli altri oggetti inanimati non agiscono, non le altre creature" . Krishna afferma che la vita fisica non può sussistere senza l'azione .
Un altro tema della Gítá che ricorre più volte nel testo è quello della teofania. La più significativa è quella del quinto libro nel quale Krishna, dopo essersi recato dai Kaurava per cercare di evitare la guerra, si manifesta nella sua forma cosmica .
Alla luce di queste osservazioni, si deduce che la Gítá non sia stata inserita per caso nel poema, ma che invece costituisca il momento più elevante della riflessione filosofica, poiché approfondisce i concetti appena abbozzati negli altri libri, per portarli sino al loro culmine.
Fin dai tempi più antichi il principale interesse dell'India è sempre stato il senso religioso, tanto che tutte le antiche filosofie indiane trattano, in ultima analisi, di come l'uomo può liberarsi dalla miseria, dal dolore e giungere a quell'assoluto stato di esistenza chiamato Brahman. Secondo il pensiero filosofico indiano esistono quattro fini che l'uomo deve realizzare nella sua vita (purusártha). Il primo è káma (il piacere, la soddisfazione del desideriore), il secondo è l'artha (la ricchezza, il benesse e il successo), viene poi il dharma  (l'ordine e la giustizia), per il finire con il moksha (la liberazione dai vincoli della rinascita) .
Il fine escatologico a cui l'uomo deve tendere è la liberazione dalla realtà apparente e illusoria, rappresentata dall'universo materiale, e la conseguente unione col divino. La visione dell'esistenza umana del popolo indiano è prettamente ciclica; dopo la morte, infatti, l'uomo si reincarnerebbe nuovamente in un'altro essere, e così di seguito, fino al conseguimento della liberazione totale. Questo peregrinare continuo da un corpo ad un altro, che viene chiamato il ciclo del saµsára, è ciò da cui l'uomo deve liberarsi seguendo uno dei differenti sentieri ideati per conseguire la salvezza.

La Bhagavad Gítá sintetizza al suo interno tre fondamentali correnti di pensiero. Parlo di semplici correnti di pensiero e non di dottrine sistematizzate, in quanto all'epoca in cui è stato composto il testo (si presuppone intorno al II sec. a. C.) non erano ancora state teorizzate organicamente. Esse sono la via dell'azione, karma-márga, la via della conoscenza, jñána-márga e la via della devozione bhakti-márga. La Gítá cerca di operare una sintesi, un compromesso, tra questi diversi modi di vedere la via per raggiungere la salvezza.

Il karma-márga, che viene ribattezzato dalla Gítá karma-yoga, è la via della condotta mediante la quale l'individuo desideroso di servire il Signore può raggiungere la liberazione. Ai tempi della Gítá erano diffuse diverse dottrine soteriologiche. La teoria vedica prescriveva l'osservanza dei riti e delle cerimonie, la dottrina upanißadica la ricerca della verità, mentre l'idea buddhista l'abbandono di ogni azione. La Bhagavad Gítá tenta di raccogliere tutte queste concezioni etiche in un unico sistema coerente,  non sostenendo una morale ascetica ed interpretando in maniera più positiva la teoria buddhista dell'inazione . La vera inazione è l'azione compiuta senza alcuna speranza di ricompensa . La vera legge della moralità non è il naishkarmya, cioè l'astensione dall'agire, bensì la nishkámatá, cioè l'essere disinteressati . Nell'intero universo tutto è in continuo movimento, per cui anche l'uomo, se vuole sopravvivre, è obbligato ad agire . L'intera tendenza della Gítá dimostra chiaramente che l'insegnamento di Krishna è un'esortazione all'azione. Fin tanto che non si consegue la liberazione finale, bisogna operare per amore della stessa libertà e, una volta  raggiunta, si deve agire come strumenti del divino .

La Bhagavad Gítá riprende e trasforma la teoria vedica dei sacrifici - karma-márga, laddove karma significa l'atto rituale -, conciliandola con la vera conoscenza spirituale . Il dono esterno non è altro che un simbolo della disposizione interiore: i sacrifici non sono che sforzi compiuti per sviluppare l'autocontrollo; il vero sacrificio è il sacrificio dei piaceri dei sensi. La Gítá, quindi, chiede all'uomo di agire in modo che l'azione non vincoli al ciclo della rinascita, ma conduca invece, al moksha . Per karman non si intende, allora, l'azione prescritta dai riti vedici - la quale ha solo un valore puramente strumentale, poiché è compiuta per ottenere favori in questa e nelle prossime esistenze ed inoltre non conduce alla liberazione - ma il karman visto come sacrificio a Dio, in uno spirito di completo disinteresse.

Lo jñána-márga, rinominato jñána-yoga, è la via che conduce alla perfezione utilizzando le facoltà intellettuali. La Gítá, a tale riguardo, accoglie, con alcune fondamentali distinzioni, il pensiero metafisico Sánkhya. Questo sostiene il dualismo di purusha e prakriti, mentre la Gítá li considera entrambi subordinati a Dio. Il purusha è il principio immutabile, il Sé che soggiace a tutti i cambiamenti della realtà esteriore, identificabile con la prakriti, il non-Sé. Essa è costituita da tre modi o guña (sattva, rajas e tamas) che, a seconda della loro mescolanza, danno luogo al mondo manifesto. Sattva rappresenta la leggerezza, la bontà e la luminosità, rajas il movimento, la passione e la collera, tamas la pesantezza, l'ottusità e l'oscurità. L'uomo, che nel suo essere naturale è fondamentalmente legato ai guna, deve prendere coscienza del fatto che il Sé è distinto dalla prakriti, per questo motivo, può liberarsi dai condizionamenti dei modi della natura e giungere al mokßa. La conoscenza metafisica della realtà può essere convertita in realizzazione pratica se si  attuano pratiche di concentrazione spirituale. Lo yoga, che fu sistematizzato in seguito da Patañjali, è l'arte della soppressione dell'attività mentale, attaverso la quale è possibile attingere a conoscenze sovramentali e comprendere la sostaziale unità di tutto ciò che esiste. Il fine dello jñána-yoga è quello di conoscere sia la realtà della creazione a livello filosofico-metafisico, sia le profondità dello spirito umano, per prendere coscienza della divinità che risiede all'interno di ogni essere vivente.

L'ultima corrente di pensiero è il bhakti-márga, che la Gítá definisce bhakti-yoga, e che delinea il sentiero della devozione. La bhakti è un attaccamento sentimentale nei confronti del Signore, a cui sono dedicate tutte le capacità emotive. Attraverso il sentimento religioso si instaura un legame tra il devoto e Dio, che lo fa approdare alla percezione dell'Essere supremo. Questa via è aperta a tutti, poiché essendo la più facile, può essere perseguita da chiunque, infatti, mediante il bhakti-yoga, gli illetterati, gli ignoranti, i deboli e gli umili possono raggiungere l'unione col divino . Al contrario, il karma-yoga e lo jñána-yoga sono vie ardue, in quanto è necessario accordare la volontà umana con quella divina, attuare una disciplina ascetica ed operare strenui sforzi con le facoltà intellettuali. Nella via della devozione è, invece, sufficiente amare intensamente il Signore, che a sua volta libererà il devoto dai legami del mondo materiale. Nella Gítá, Krishna afferma che la meditazione sull'assoluto, essendo immanifesto, è estremamente ardua, in quanto non offre all'uomo alcun punto d'appoggio, mentre coloro che si dedicano completamente al Signore, nella Sua manifestazione personale, saranno aiutati nel loro cammino verso la perfezione da un libero atto di amore di Dio . È necessario, quindi, abbandonarsi completamente al Signore prendendo rifugio solamente in lui. Così, Dio, richiedendo una devozione incondizionata, cancellerà in cambio tutti i peccati degli uomini trasfigurandoli nella sua luce . L'amore del vero bhakta è questa bruciante follia davanti alla quale ogni altra cosa svanisce. Tutto l'universo, per lui, è pieno di amore e solo di amore. Pertanto, solo quando un uomo ha in sé questo amore, diventa eternamente beato, eternamente felice .

Le tre vie sono i pilastri su cui si basa la Gítá. Nel corso dei secoli non sono mancati commentatori che hanno interpretato gli insegnamenti espressi nel testo accentuando lo jñána-yoga, piuttosto che il bhakti-yoga a seconda del sistema filosofico a cui appartenevano. Ai nostri giorni, invece, c'è la tendenza, come sottolinea anche Aurobindo , a considerare la Gítá un'opera eminentemente pratico-sociale. Vengono evidenziati soprattutto, in un'interpretazione prettamente etico-sociale, i passi nei quali Krishna esorta Arjuna a compiere il proprio dovere . Se tuttavia è necessario che ognuno compia il suo dovere per il bene della società, non bisogna dimenticare che questo è solo uno e nemmeno il più importante degli insegnamenti della Bhagavad Gítá.

È un errore, infatti, interpretare un testo che è stato scritto più di duemila anni fa con la mentalità attuale, poiché si altera il proponimento originale. È anche vero, però, che la grandezza di un poema è proporzionale all'attualità degli argomenti trattati.



Analizzeremo ora le tre principali vie di liberazione alla luce degli insegnamenti di Krishna presenti nella Gítá.

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