PALAZZO SANSEVERO

Il vetusto edificio si trova in Piazza San Domenico, al numero civico 9. Costruito verso la metà del XVI secolo, per volere di Don Giovan Francesco Paolo de’ Sangro, il palazzo divenne subito noto a tutti per un fatto di sangue che vi accadde.

Nel 1590, abitavano in quella casa il principe Don Carlo Gesualdo di Venosa, dedito alla musica e alla composizione di madrigali, e la sua consorte, Maria d’Avalos d’Aragona. La notte tra il 26 e il 27 di ottobre, in assenza del marito, la principessa si concedeva, per l’ennesima volta, ad un amore proibito, clandestino, con il giovane e bellissimo Fabrizio Carafa, duca d’Andria. Il principe, le cui vicende coniugali già da tempo erano sulla bocca di tutti, si stancò di tanto disonore e ordinò ad alcuni sicari di recarsi al palazzo e di uccidere i due concubini. Questi erano stati anche avvisati dell’imminente pericolo da una persona amica; ma, anziché scappare, preferirono, l’uno nelle braccia dell’altra, aspettare i loro assassini e mettere fine ad un idillio impossibile.

Un secolo e mezzo più tardi, il principe Raimondo e le sue "alchimie" contribuirono ad avvolgere ancor più nelle tenebre le vicende di Palazzo Sansevero. Dal piano nobile, una comoda galleria aerea conduceva direttamente alla Cappella di famiglia, situata a pochi passi, nella via Sansevero. Purtroppo, il 28 settembre del 1889, a causa di una annosa infiltrazione d’acqua, tale galleria venne giù e danneggiò gravemente un’ala della casa, che, da quel momento, non fu mai più ricongiunta alla Pietatella, meglio conosciuta come Cappella Sansevero.

Annesso al palazzo appena edificato, sorgeva il giardino, chiuso da un muro di cinta, che, per breve tratto, costeggiava la strada. Un giorno, passarono di lì dei gendarmi e un uomo in manette, che veniva condotto al processo e rischiava la galera. Al passaggio di quel disperato, un pezzo di muro rovinò e venne alla luce un dipinto, una Madonna che piange il Figlio morto, una Pietà. L’uomo si prostrò ai piedi di quella figura e fece voto di dedicarle un’edicola, se avesse riottenuta la libertà. Cosa che accadde; e quell’immagine, da allora, fu creduta misericordiosa. In seguito, il principe Giovan Francesco Paolo de’ Sangro ampliò la piccola cappella fatta erigere dall’uomo graziato, pregando la Madonna di aver pietà anche di lui, afflitto com’era da inguaribili malanni. La chiesetta, nel 1590, fu battezzata "Santa Maria della Pietà", o "Pietatella"; e, alcuni anni dopo, si cominciò a utilizzarla come sepolcro di famiglia. Fu poi ulteriormente ingrandita agli inizi del ‘600; ma fu nel XVIII secolo, proprio ai tempi di Raimondo de’ Sangro, che la chiesa si arricchì di stupefacenti opere d’arte. L’immagine miracolosa della "Pietatella" è in alto, sull’altare maggiore. Lungo le pareti della navata riposano i componenti della famiglia. Di Raimondo, invece, c’è il monumento commemorativo (la tomba è a Torremaggiore), situato nei pressi dell’ingresso alla cavità sotterranea, che custodisce le due impressionanti macchine anatomiche. Tutte le sculture presenti nella chiesa, in special modo le statue, sono originalissimi esempi di virtuosismo artistico. Da osservare è il sottilissimo velo che copre le belle forme della "Pudicizia", a sinistra del presbiterio. La statua fu dedicata alla madre di Raimondo, Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, la cui vita, come la lapide che le è accanto, veniva spezzata quando ella era ancora nel fiore di una bellezza pudica. La morte prematura della donna gettò nel più profondo sconforto Antonio de’ Sangro, marito di Cecilia e padre di Raimondo. Costui trascorse un’esistenza errabonda, alla quale solo la forza della ragione e dell’intelletto posero rimedio, più tardi, con il ritiro a vita monastica. Di qui, la rappresentazione del "Disinganno", a destra del presbiterio, con l’uomo in atto di liberarsi dalla rete, simbolo dell’inganno che avvolge e confonde la mente dell’uomo, quando questi rifiuta di accettare la dolorosa realtà. Ma il gioiello del Settecento napoletano è posto al centro della Cappella: è il "Cristo Velato", eseguito dallo scultore Giuseppe Sammartino, nel 1753. L’opera sprigiona una potenza espressiva che induce alla commozione. Anche in questo caso, come in quelli della "Pudicizia" e del "Disinganno", si tratta di un unico blocco di marmo, scolpito con tale perizia, da sortire effetti mozzafiato: il Cristo traspare dal leggerissimo velo, che annulla, con i suoi effetti chiaroscurali, la reale consistenza del marmo e crea l’illusione di un corpo esanime che giace sotto un’impalpabile sudario.

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