Il sacerdozio della donna all'orizzonte della sua
liberazione.
Il tema del sacerdozio della donna fa parte della tematica più generale
della liberazione della donna. La società attuale con maggior o minore intensità
secondo la regione, ma un po' dappertutto, si caratterizza per un progresso nel
campo delle libertà individuali con rischio di una dilatazione simultanea delle
forze di strangolamento di questo medesimo ambito delle libertà.
Dopo millenni di affermazione del sistema patriarcale, nella nostra epoca si
verifica una sensibile trasformazione della coscienza per quanto concerne le
relazioni tra uomo e donna e i ruoli diversi che essi svolgono nella società.
L'aspirazione generale è di veder riconosciuta la differenza tra i due sessi,
senza privilegiare nessuno di essi.
La tendenza poi del nostro processo di civilizzazione è di superare il
patriarcalismo e il matriarcalismo e di incamminarsi nella direzione di una
società di persone libere associatesi sulla base della loro libertà nella
formazione della famiglia e indipendenti nella loro realizzazione personale nel
rispetto della diversità del proprio sesso e nell'affermazione del diritto di
vivere secondo questa diversità.
Inoltre si può percepire che la ricchezza umana sta proprio nella realizzazione
di ciò che è peculiare in ogni sesso, diversità intesa come reciprocità e
alterità. Pur nella diversità si ricercano le ragioni dell'uguaglianza.
L'esercizio dell'autorità tra due esseri diversi nell'affermazione
dell'uguaglianza personale, non è tanto compreso come funzione di uno dei sessi
(ciò diede origine al matriarcato e al patriarcato), ma come funzione di
consenso tra i due sessi la quale può essere esercitata ora dall'uomo ora dalla
donna.
In seguito a questa nuova tendenza, la donna sta sempre più liberandosi dalle
ingiunzioni della cultura patriarcale ereditata. Essa sta uscendo da una
funzione storica a cui fu relegata, ossia dall'esclusiva funzione sessuale alla
personalizzazione.
La donna non era capita a partire da se stessa, ma dall'uomo e dalle risposte
sociali che l'uomo da lei si attendeva. Socialmente la sua identificazione era
posta nel sesso, mentre quella dell'uomo era collegata alla sua funzione sociale
e alla sua professione.
Il cambiamento di coscienza nella relazione tra i due sessi è rivolto a far
emergere la personalità nella donna.
In ciò la sessualità svolge una funzione importante senza che, d'altro
canto, sia l'esclusivo momento. La sessualità prende il suo giusto posto
nell'ambito più vasto della personalizzazione.
L'inserimento sempre più logico della donna nella storia come persona e
l'uguaglianza dei sessi davanti a Dio potrà a poco a poco, finalmente, condurre
all'abolizione della sottomissione e umiliante e millenaria della donna.
In questo processo di liberazione, il cristianesimo ai suoi inizi svolse un
ruolo decisivo; infatti affermava che davanti a Dio non c'è differenza di
persone e che perciò "non c'è più uomo né donna poiché tutti voi
siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3: 28). Gesù
stesso prese le difese della donna contro le arbitrarietà della legislazione
giudaica nel campo del matrimonio. Prende strada così una uguaglianza profonda
tra uomo e donna. Insieme e non separatamente essi sono immagine e somiglianza
di Dio (Gn 1:27).
In se stesso il cristianesimo include il germe di una completa liberazione
della donna dalle discriminazioni della cultura patriarcale in vigore fino a
poco tempo fa; tuttavia col tempo aderì alle strutture sociali discriminatorie
della cultura greco-romana e giudaica, permettendo la loro presenza continua
nelle istituzioni ecclesiastiche fino ai nostri giorni.
San Paolo stesso prescrive la sottomissione della moglie al marito, così
come la Chiesa è sottomessa a Cristo(Cfr.Ef 5:22-23),
analogia questa difficilmente accettabile per i tempi moderni.
Le norme del diritto canonico (1918) si esprimono a tutto svantaggio della
condizione giuridica delle donne nella Chiesa. Secondo il canone 118 è loro
vietato l'accesso agli incarichi ecclesiastici che riguardano il potere
dell'ordine sacro e della giurisdizione. Esse sono semplicemente inabili al
sacerdozio. Di conseguenza non possono prestare servizio all'altare, avvicinarsi
a esso durante la celebrazione della Messa o compiere altri atti liturgici (c.
813).
Si raccomanda che nelle chiese restino separate dagli uomini e a capo coperto
(c. l267); non è loro permesso celebrare il battesimo in casi di pericolo di
morte, quando vi è presente un uomo (c. 742); salvo in caso di necessità, non
possono confessarsi fuori dei confessionali (c. 910); non hanno facoltà di
intervenire nelle cause di beatificazione e di canonizzazione dei santi (c.
2004); non hanno il diritto di predicare (c. 1327) e neppure possono
amministrare i beni di una parrocchia (c. 1521); la donna sposata deve tenere
come suo domicilio quello del marito (c. 93), ecc.
Dopo il Concilio però queste disparità giuridiche tendono a scomparire e
avremo certamente una ristrutturazione giuridica generale del Codice di Diritto
Canonico, ora in fase di riformulazione, anche per quanto riguarda la posizione
della donna nella Chiesa. Così già ora le è permessa un'ampia partecipazione
nella liturgia. In Brasile, soprattutto, è in atto un vero diaconato liturgico
esercitato da religiose, un diaconato nella catechesi, nella carità,
nell'assistenza sociale, un diaconato pastorale nella direzione della parrocchia
con tutte le funzioni, una volta riservate ai preti, escluse la Messa e la
confessione.
Vi è pure una notevole presenza di donne che lavorano nei vari organismi
romani del governo centrale della Chiesa con incarichi rappresentativi ufficiali
come funzionari e consultori. Fino dove potrà arrivare la Chiesa, forse fino a
una totale uguaglianza dei due sessi nel poter accedere ai sacri ministeri, ivi
compresa l'ammissione al sacerdozio? O vi saranno anche qui strutture definite
di ordine e di diritto divino che lo impediscono?
Recentemente si sono moltiplicati i pronunciamenti di associazioni femminili
a favore del conferimento del sacerdozio anche alle donne. "Se Dio ama
le donne tanto quanto gli uomini", affermava in una recente intervista
una professoressa di sociologia della religione all'università di Farleigh
Dickinson di New Jersey, "perché allora la Chiesa tiene riservati i
ministeri e le funzioni più alte esclusivamente agli uomini?".
Commentava un teologo brasiliano: "Una donna può concepire un
sacerdote(fisicamente e spiritualmente); il suo esempio di madre può far sì
che un bambino un giorno diventi vescovo. Mai però essa potrà ricevere
l'ufficio di sacerdote o di vescovo".
A che cosa serve sostenere una teoria di liberazione in teologia nei riguardi
della donna (Gal 3:28) se poi continua a perdurare una
prassi ecclesiastica oppressiva?
La discussione teologica si era già accesa circa quindici anni fa. Le
opinioni sono molto divergenti. Un numero significativo di teologi, proprio per
il loro peso morale, non ritengono più convincenti gli argomenti tradizionali
secondo i quali si escludeva la donna dall'ordine sacro nella Chiesa. Altri
invece considerano ancora valide queste argomentazioni, soprattutto avvalendosi
degli esempi neotestamentari e della prassi ininterrotta confermata dalla
tradizione. Gli echi della discussione e la presa di partito a favore del
sacerdozio delle donne si fecero sentire nel Sinodo dei Vescovi a Roma negli
interventi del cardinale canadese George B. Flahiff. Egli riassumeva
succintamente ma in termini precisi le ragioni di una corrente teologica.
Affermava: "La risposta classica su questo argomento, vent'anni fa era
la seguente: a) Cristo era un uomo e non una donna. b) Egli scelse dodici uomini come suoi primi pastori e nessuna donna. c) S. Paolo dichiarò espressamente che le donne devono tacere nella
Chiesa, per cui non possono essere ministri della Parola (1Cor
14,34-35). d) Paolo affermò anche che per il fatto di aver peccato per prima
nell'Eden, essa non può aver autorità sull'uomo (1Tm 2,
12-15). e) La Chiesa primitiva riconosceva come ministri le donne, particolarmente
nell'Oriente fino al sec. VI, però esse non ricevevano l'ordine. La conclusione perciò era questa : il ministero spetta soltanto agli
uomini. Le donne si accontentino della sorte toccata alla Vergine Maria e alle
altre donne che stavano con Gesù: siano serve fedeli e devote".
Questa dimostrazione storica, concludeva il card. Flahiff, non può più
oggi essere considerata valida.
Difendeva così nel Sinodo una proposizione che era emersa da un appello
delle donne canadesi e assunta dall'episcopato nei seguenti termini: "I
rappresentanti della Conferenza Cattolica Canadese chiedono ai loro delegati di
raccomandare al Santo Padre la formazione di una commissione mista (formata da
vescovi, sacerdoti, laici di ambo i sessi, di religiosi e religiose) per
studiare in profondità la questione dei ministeri femminili nella Chiesa".
In seguito a questo invito, la Santa Sede, il 3 maggio 1973 creò una
commissione incaricata di studiare "la missione della donna nella Chiesa
e nella società". Poco tempo dopo, attraverso un memorandum si
fissavano gli estremi di tale studio. Tra il resto si affermava : "Fin
dall'inizio della ricerca, si deve escludere la possibilità dell'ordine sacro
dato alle donne".
Su cosa si fonda tale intervento? Il Magistero ecclesiastico si appoggia
ancora sugli argomenti tradizionali oppure giudica inopportuna, dal punto di
vista pastorale e disciplinare l'ordinazione delle donne?
Gesù: la voce di un uomo in difesa della donna.
Nella nostra esposizione cercheremo di sottoporre a un'analisi critica le
argomentazioni classiche citate prima dal card. Flahiff, e infine di porre di
nuovo il problema in una prospettiva più ampia della missione della Chiesa e
del significato dei suoi ministeri. Conviene prima sottolineare l'atteggiamento
di Gesù Cristo di fronte alla donna del suo tempo. Questo ci servirà come
motivo costante di critica alla Chiesa e alle sue istituzioni che purtroppo sono
ancora discriminatorie nel confronto della donna solo per essere donna.
Se per femminista intendiamo tutti coloro che difendono l'uguaglianza
fondamentale della donna con l'uomo, considerandola come persona umana in
opposizione alle istituzioni che la trasformano in semplice oggetto, allora Gesù
Cristo fu decisamente un femminista. Infatti il tessuto di fondo delle sue
argomentazioni etiche consisteva nel liberare gli uomini da una morale legalista
e discriminatoria, proponendo un atteggiamento morale di decisione, di libertà
e di fratellanza. Come Dio non discrimina nessuno e ama tutti (Mt
5:45), così l'uomo non deve far distinzione di persone. Amerà tutti
indistintamente e indiscriminatamente, perché tutti sono figli di Dio e perciò
fratelli tra loro. Questa rivoluzione etica creò un nuovo spazio per la
liberazione della donna come persona. Tale dimensione salta subito agli occhi se
confrontiamo gli atteggiamenti di Gesù con la posizione sociale della donna
nella società giudaica.
La donna era in tutto inferiore all'uomo. Veniva considerata in stato di
inferiorità anche se era sposata o vedova. Non potendo essere ovviamente
circoncisa, non entrava a far parte dell'Alleanza abramica. Lo stesso decalogo
pare sia indirizzato esclusivamente agli uomini e considera la donna come un
oggetto di proprietà dell'uomo (Es 20:8). Nelle sinagoghe
le donne occupavano posti speciali dietro grate o sui matronei. Non potevano
leggere, parlare o interpretare la legge. Non potevano intervenire come
testimoni. Non potevano istruire i bambini e nemmeno dire le orazioni a mensa.
Non potevano imparare la legge santa. "Chi insegna la Torà alla figlia
è come se le insegnasse il libertinaggio... é meglio bruciare la Legge Santa
piuttosto che consegnarla a una donna". Secondo la teologia rabbinica
il giudeo deve ogni giorno ringraziare Dio per tre privilegi:
a) perché Dio non l'ha fatto nascere pagano;
b) per non essere nato donna;
c) per non far parte di coloro che ignorano la legge.
Inoltre la donna nel periodo delle mestruazioni diventava impura e impuro
tutto ciò che toccava. Non poteva apparire in pubblico, soprattutto seguire e
ascoltare i rabbini (maestri). Neppure suo marito le rivolgeva la parola in
pubblico o davanti agli ospiti di casa.
Come si comporta Gesù di fronte a questa tradizione contrassegnata dalla
repressione e dalla discriminazione? Con il suo comportamento libera l'uomo dal
peso del suo passato. Indica una via nuova di amore fraterno e di
riconciliazione. Permette di essere seguito da un gruppo di donne della Galilea
(Lc 8,1-3 - 23,49 - 24,6-10 - Mt 17,55-56 - Mc 15,40 - Gv 19,
25) delle quali Luca conosce i nomi di alcune come Maria Maddalena,
Giovanna, moglie di Cusa amministratore di Erode, Susanna e altre (Lc
8,1-3). Anche se gli apostoli si scandalizzano, si intrattiene a
conversare con una nemica, la samaritana, una donna che aveva avuto cinque
mariti (Gv 4, 27). Nella grande peccatrice, la
Maddalena che con le sue lacrime e i profumi aveva unto i piedi di Gesù, non
vede prima la donna decaduta e la prostituta, ma una creatura umana che merita
accoglienza e perdono, andando così contro tutto il buon senso farisaico e
religioso dei vari "Simone" di ieri e di oggi (Lc
7,36-50).
Con l'adultera (Gv 7:53-8, 11) avviene un
incontro come scrive S. Agostino (Omelia sul Vangelo di Giovanni:
33,5) tra la degradazione e la misericordia, in cui vince quest'ultima
perché il Signore invece di considerare la donna come oggetto del sesso, scopre
in essa la persona caduta che dev'essere aiutata e non semplicemente giudicata e
poi lapidata. Sono molte le donne che Cristo aiutò e guarì: ciò mostra la sua
superiorità nel rompere con i tabù sociali: la suocera di Pietro (Mt
8,14-15 - Mc 1,29-3l - Lc 4,38-39); la madre senza più speranza del
giovane di Nain (Lc 7,11-l7); la figlioletta morta
di Giairo (Mt 9,l8-26; Mc 5,21-43; Lc 8,40-56); la
donna da otto anni incurvata (Lc 13,l0-17); la
cananea pagana a cui Gesù risponde pieno di ammirazione: donna, grande è la
tua fede; la donna che da dodici anni soffriva per una perdita di sangue,
considerata impura e socialmente rifiutata (Mt l9,20-22; Mc 5,
25-35; Lc 8,43-48). A dispetto delle leggi della purificazione e del
tabù della donna colpita da questa malattia, Gesù la guarisce pubblicamente.
In molte parabole di Gesù, la donna entra a far parte come protagonista
principale (Mt 25,l-13; Lc 15,8-l0; Lc 21,1-4; Lc 20, 27-40;
Mt 22,23-33; Mt l2,4l-42; Lc ll,31-32; Lc 4,25-27; Mt 24,40-41); mai
essa è presentata secondo i cliché discriminatori dell'epoca.
Sorprendente è poi l'atteggiamento di Gesù con Marta e Maria (Lc
10, 38-42; Gv 11,1-12). Ciò che un rabbino ortodosso mai farebbe,
Gesù se lo permette con la massima semplicità: cioè discutere di questioni
teologiche con una donna che come qualsiasi altro discepolo si siede ai piedi
del maestro(Lc 10,39).
In tutti questi brani la donna appare come persona, come figlia di Dio e
perciò degna di identico rispetto e amore come gli uomini. Ciò è messo in
luce quando qualcuno, pieno di entusiasmo, esclama: "Felice il seno che
ti ha generato e il petto che ti ha nutrito". Tale frase viene
pronunciata in una prospettiva che afferma la donna nelle sue proprietà
sessuali e in quanto madre. Nella risposta appare il clima in cui Gesù si
muove: l'affermazione della donna prima di tutto in quanto persona. "Felici
piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica".
L'uomo è persona in quanto ascolta la parola che viene detta dall'altro e dal
Grande Altro nella dimensione di dialogo esistenziale.
Dagli atteggiamenti di Gesù non si deduce per nulla una discriminazione nei
confronti della donna, ma l'affermazione della sua uguaglianza e dignità.
Non potrà forse la Chiesa mettersi a confronto col suo divino fondatore e
prendere proprio da lui la misura critica per farsi una giusta idea della donna?
In una società in cui la donna sta riscoprendo la sua identità, non potrà
forse la Chiesa essere un fattore di liberazione o vorrà ancora una volta
essere strumento ideologico per legittimare situazioni che portano alla
spersonalizzazione della donna?
Alla luce di queste domande, torneremo ad analizzare gli argomenti
tradizionali addotti contro l'accesso della donna agli ordini sacri.
Non ci sono argomenti teologici determinanti contro
l'ordinazione della donna, ma solo disciplinari.
Nella presentazione degli argomenti e dei testi della Scrittura, la teologia
fu in genere poco critica.
Si fondava sul fatto che c'erano solo uomini come sacerdoti con funzione
ministeriale.
E questo fatto era ritenuto indiscutibile. Di conseguenza si verificò una
interpretazione ideologica della tradizione e una lettura tendenziosa dei testi
della Scrittura. Tale prassi è sostenuta ancor oggi, anche da teologi di un
certo nome. Non è sufficiente ricorrere semplicemente a ciò che affermano le
Scritture e la Tradizione. Esiste a questo riguardo una questione ermeneutica.
Come dobbiamo leggere la Scrittura e la Tradizione? Esse consentono ai stabilire
un fatto dogmatico e di diritto divino oppure dipendono anche da un contesto
culturale e teologico? Esprimono in modo adeguato il contenuto del messaggio
cristiano per ogni sviluppo della storia oppure sono un'incarnazione temporanea
e circostanziale del grande avvenimento del messaggio cristiano di uguaglianza,
di fraternità e di superamento di tutte le barriere spersonalizzanti tra gli
uomini, affermate in nome di Dio?
Il messaggio cristiano non si esaurisce in un semplice decorrere della
storia. Esso avrà sempre i suoi limiti e perciò sarà sempre suscettibile di
superamento, di miglioramento e di correzione. La Chiesa stessa riconobbe come
uno dei segni dei tempi moderni la rivendicazione da parte delle donne di
uguaglianza di diritto e di fatto con gli uomini (GS 9,227).
Ciò non potrà o anche dovrà essere un luogo ermeneutico che ci permetterà
di esprimere un giudizio critico sul passato ammettendo i suoi limiti? Con
questo criterio ermeneutico analizzeremo gli argomenti classici ancor oggi
sostenuti in certi ambienti teologici.
a) Prima obiezione: la fedeltà storica: Gesù era uomo e non donna Conferendo il sacerdozio soltanto agli uomini, si dice, la Chiesa perpetua il
ricordo che il sacerdozio deriva da Cristo che fu storicamente un uomo concreto
e sessuato. Il sacerdote maschio agisce "in persona Christi",
rappresenta nell'aspetto visibile e sacramentale della Chiesa, Cristo-Capo, cioè
la persona concreta di Gesù Cristo, origine della nostra salvezza.
A queste affermazioni obiettiamo con le seguenti riflessioni:
è un fatto contingente che il Salvatore sia stato un uomo. Gesù stesso non
avanzò nessun principio teologico da questo fatto. E mai sottolineò questa
differenza. Anzi, contrariamente a ciò, quando si rivolgeva al pubblico,
insisteva perché fossero superate le divisioni tra gli uomini. Escludeva
proprio il fattore biologico e sessuale nell'annunciare l'uomo nuovo. "Chi
è mia madre e chi sono i miei fratelli? Chiunque fa la volontà del Padre mio
che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre"(Mt
12,48-50).
San Giovanni ha intuito la novità del messaggio cristiano che fa gli uomini
essere figli di Dio: "A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di
diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da
sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati
generati" (Gv 1,12-13). Con questa frase Gesù
supera i limiti del giudaismo come religione fondata su fattori razziali. Il
cristianesimo certamente non potrà tollerare, come principio dogmatico, che in
esso si affermi, per quanto riguarda i ministeri, un fattore di ordine sessuale.
Con Gesù Cristo si inaugurò una nuova solidarietà tra gli uomini, per cui
"non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non
c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù"
(Gal 3,28).
Fare appello alla mascolinità di Cristo per giustificare il privilegio del
sacerdozio ministeriale maschile non è altro che portare in campo una semplice
dimensione fisica che non ha nulla a vedere con la fedeltà storica verso Gesù.
Non è a questo livello che tale fedeltà deve essere collocata.
Se questa motivazione dovesse avere valore, allora non comprenderemmo perché
i sacerdoti non dovrebbero essere non soltanto maschi come Gesù, ma anche
giudei come Gesù o meglio galilei come Gesù. Perché il Nuovo Testamento che
fu scritto nella 1ingua greca, perché la Chiesa che parlava ufficialmente il
greco e in seguito il latino e oggi le lingue parlate di tutto il mondo non
osservarono la fedeltà storica nel Gesù storico, ma abbandonarono la lingua
parlata da Gesù, l'aramaico, e si liberarono dai costumi, dalla religione e
dalla cultura del giudaismo? L'argomento della fedeltà storica complica la
questione più che chiarirla.
Ciò che fa sì che qualcuno rappresenti Cristo non sono fattori di carne e
di sangue, ma la dimensione della fede e l'adesione a Cristo e alla sua Chiesa.
Che fino a oggi nella Chiesa abbiano avuto accesso al sacerdozio ministeriale
soltanto uomini è dovuto non al fatto che Cristo era uomo, ma ad altri fattori
di ordine storico e sociologico.
b) Seconda obiezione : Gesù Cristo scelse solo uomini come apostoli e non
donne. Può significare questo fatto che era volontà esplicita di Gesù Cristo - e
perciò di diritto divino - che nessuna donna potesse avere autorità apostolica
e che pertanto fosse un soggetto inabile per il ministero sacerdotale? Di tale
supposizione non vi è nessun indizio nel messaggio di Gesù e nella Chiesa
primitiva. Il sacerdozio e l'apostolato di ufficio nella Chiesa costituiscono
(semplicemente) una funzione sociale.
L'attuazione di questa funzione varia secondo la società e l'ambiente
culturale. Come abbiamo prima considerato, al tempo di Gesù, nonostante tutte
le libertà affermate come principio a favore della donna, era semplicemente
impossibile che una donna svolgesse una funzione religioso-sacerdotale. Lo
affermava anche l'Ambrosiaster (autore ignoto di un commento alle tredici
lettere di San Paolo nel secolo IV): "al tempo di Gesù non vi era
nessuna donna preparata a questo compito". Se non le era concesso di
conoscere la legge, come poteva spiegarla? Se nemmeno poteva apparire in
pubblico ed entrare con pieno diritto nella sinagoga, come poteva esercitare una
funzione sociale e religiosa?
In queste condizioni, ben comprendiamo come Gesù e gli apostoli non abbiano
ammesso le donne come testimoni del Risorto e di conseguenza non siano state
incorporate nel collegio apostolico. Certamente si deve a questo fatto che la
prima testimonianza scritta sulla risurrezione (1Cor 15,3)
non nomini le donne come testimoni delle apparizioni del Signore risorto come
fanno posteriormente i Vangeli. Le loro prove, per quell'epoca, non sarebbero
state accettate perché non avevano valore giuridico.
Non vogliamo discutere qui della posizione sociale e religiosa della donna,
ma, date le condizioni ambientali, ci domandiamo: chi poteva rappresentare
ufficialmente, in quella situazione culturale, Gesù Cristo e la sua causa?
Soltanto gli uomini. Però questo non significa che Gesù e la Chiesa
primitiva fin da principio e per sempre così avessero stabilito in modo
definitivo. Tirare tali conclusioni con simili ragionamenti urterebbe contro la
più elementare ermeneutica e si metterebbero in rilievo, dando loro un valore
assoluto, frasi o situazioni separate dal loro contesto vitale che è dato dalla
cultura socio-religiosa dell'epoca.
Se qualcuno volesse insistere affermando che Gesù disse soltanto agli
apostoli nell'ultima cena "Fate questo in memoria di me" e che
con tale affermazione non includeva le donne, allora dovremmo domandarci: Cristo
intendeva soltanto consacrare il pane e il vino oppure in senso più ampio,
chiedeva di celebrare il memoriale della sua morte come sacrificio comprendendo
anche l'atto di mangiare e bere, la preghiera comunitaria e la celebrazione
della Cena dell'unità dei fratelli? Se la seconda alternativa è quella vera,
ciò vorrà dire che soltanto gli uomini possono celebrare la Cena e che le
donne quindi ne resterebbero escluse?
c) Terza obiezione. San Paolo affermò che le donne non possono parlare
nella Chiesa. Come potranno perciò presiedere alla parola e all'eucaristia? Ci sono tre testi di San Paolo che entrano in questione: 1Cor 11,5: "Ogni
donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio
capo (marito)".
1Cor 14,34-35. "Come in tutte le comunità dei fedeli le donne nelle
assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece
sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa,
interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare
in assemblea".
1Tm 2,11-12: "La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione.
Non concedo a nessuna donna di insegnare, ne di dettare legge all'uomo;
piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo". I testi citati sembrano talmente chiari da esimerci dal discutere sul
problema dell'accesso della donna al sacerdozio. La questione sarebbe risolta da
San Paolo: se essa non può insegnare, tantomeno consacrare.
Isolati dal loro contesto, i testi potrebbero arrivare a queste conclusioni,
essi però devono essere interpretati secondo i criteri di quella società in
cui la donna non godeva nessun diritto pubblico.
San Paolo viveva in tale cultura; egli rispecchia la situazione del suo
tempo, e non poteva essere diversamente. Derivare da tale cultura una norma
valida per ogni tempo, sarebbe bloccare la storia, il che significa distruggerla
o negarla.
La fede cristiana trascende il tempo. Essa però è sempre inserita nelle
particolarità di un'epoca, con le sue coordinate di significato storico, con i
suoi costumi, con le sue leggi e i ruoli dei vari gruppi umani. La fede non
interviene a sacralizzare tali espressioni, essa si inserisce in esse, senza però
confondersi con esse. Per questo bisognerà sempre fare distinzione fra fede e
teologia, tra messaggio cristiano e la sua espressione sociale, tra
cristianesimo e la sua incarnazione dentro un determinato e limitato universo
linguistico e culturale. Queste distinzioni, nel caso della posizione della
donna nella Chiesa, hanno un loro peso e carattere indispensabile di necessità,
se vogliamo capire le finalità fondamentali del cristianesimo che non sono
affatto quelle di sacralizzare determinate espressioni culturali.
Passiamo ora all'analisi dei passi citati:
Il primo testo di 1Cor 11,5 non comporta difficoltà. In esso Paolo concede
alla donna contrariamente alla tradizione giudaica, il diritto di profetizzare
nella comunità. Però dovrà farlo secondo le norme che allora dovevano essere
dettate dal decoro e dal buon senso. Oggi esse non avrebbero alcun significato
perché nessuna donna usa più il velo per il culto.
E ancora. Paolo svolge il suo discorso in maniera che per noi oggi non ha
nessun carattere costringente: "Non è forse la natura stessa a
insegnarci che è indecoroso per l'uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è
una gloria per la donna lasciarseli crescere?" (1Cor
11,14). Tale asserzione, come pure altre che si riferiscono alla donna,
dipende da un modo di pensare che non deve e non può essere più valido per
noi, soprattutto in un mondo, come l'attuale, in cui gli uomini portano con
vanto i capelli lunghi. E ciò non è proprio un'offesa alla natura umana.
Il secondo testo di 1Cor 14,34-35 presenta due possibilità di
interpretazione esegetica. La prima, che oggi pare abbia più peso, afferma che
i versetti che si riferiscono alla donna sono un'interpolazione di un
giudeo-cristiano. Gli argomenti sono tenuti in molta considerazione.
L'avvertimento interrompe il discorso di Paolo che sta trattando dell'ordine
nella comunità, cioè quando si deve parlare e quando si deve tacere nella
comunità. Avverte particolarmente i profeti. Lasciando da parte il testo
riferito alle donne, giacché la sua posizione fu risolta nel capitolo 11,
troviamo una sequenza logica e normale con il testo successivo: (v. 31) Tutti
infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possono imparare ed
essere esortati. (v. 32) Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse
ai profeti. (v. 33) Perché Dio non è un Dio di disordine ma di pace. ( Si
omette il testo riferentesi alle donne: versi 34-35). Forse la Parola
di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto al voi? Chi ritiene di essere
profeta o dotato di doni dello Spirito deve riconoscere che quanto scrivo è
comando del Signore.
Come si può notare, l'ordine logico è rigorosamente osservato, se
ammettiamo l'interpolazione.
Essa pare plausibile per un ordine testuale. L'espressione "Chiesa
dei Santi " è un'espressione tecnica delle comunità giudeo-cristiane,
in cui la donna secondo la legge mosaica, doveva rimanere in silenzio durante le
riunioni cultuali.
Di fronte a ciò, non si può attribuire a Paolo questo avvertimento
proibitivo, perché non dobbiamo supporre che l'apostolo nella stessa lettera si
contraddica con se stesso: prima dà ordine di parlare (1Cor 11,5)
e poi di tacere (1Cor 14,34).
Il secondo tipo di esegesi non si presta per una discussione sull'autenticità
paolina del testo del cap.14, che porta il titolo: Norme pratiche: che tutto si
faccia per edificare (v.26. cfr. v. 3.4.5.12.17). In
questo contesto non si afferma soltanto che le donne devono tacere in chiesa (1Cor
14,34: taceant in Ecclesia), ma pure che colui che ha il dono
delle lingue ugualmente se ne deve stare in silenzio (taceat in Ecclesia)
a meno che non sia presente un interprete (v. 28). Quando qualcuno in una
comunità riceve una rivelazione, parli pure, ma il profeta taccia (v.30: taceat).
Ora in questo contesto di ordine e disciplina anche la donna deve restare in
silenzio, a meno che il suo intervento non serva per l'edificazione di tutti.
Senza dubbio non dobbiamo ammettere che Paolo voleva che sempre le donne
tacessero nelle comunità, perché non possiamo onestamente supporre che un
discorso delle donne in una comunità sia sempre negativo per l'edificazione.
In questo senso non risulta sia intenzione di Paolo determinare una
proibizione come principio.
Rimane il terzo testo di 1Tm 2,11-12: ...La donna deve restare in silenzio
...Non concedo a nessuna donna di insegnare. Le parole sono di per sé molto
chiare.
Ma proprio per questo motivo tali parole possono ricevere un'interpretazione
ideologica per giustificare una situazione protrattasi fino ai giorni nostri. Se
oggi le donne potessero parlare come loro spetterebbe (già lo possono fare, e
ancor più di quanto lo fanno), questo testo non sarebbe visto come impedimento
e disobbedienza all'avvertimento di Paolo.
Aggiungiamo semplicemente: dobbiamo cercare di capire Paolo, o uno dei suoi
discepoli, autore della lettera, nel contesto di discriminazione generalizzata
nei confronti della donna. Infatti è proprio questo che si verifica nel testo
successivo a quello che ordina il silenzio delle donne. In esso si dice
tassativamente: Alla stessa maniera voglio che facciano le donne, con abiti
decenti, adornandosi di pudore e riservatezza, non di trecce e ornamenti d'oro,
di perle o di vesti sontuose, ma di opere buone, come conviene a donne che fanno
professione di pietà. (1Tm 2,9-10) Oggi lasciamo
perdere questo "voglio" tassativo di Paolo perché comprendiamo
che le sue parole non possono essere usate per finalità di convenienze
cosmetiche inventate dalla rivelazione e dall'ispirazione.
Perché la teologia insiste tanto sul silenzio delle donne e non si preoccupa
del loro decoro esterno?
Non è perché il passo di 1 Tm 2, 11-12 si presta a giustificare
ideologicamente uno status religioso a cui solo uomini possono avere accesso? E
ancora più. Questa stessa lettera ordina che per la consacrazione di un vescovo
deve essere scelto un uomo che abbia una sola donna (1Tm 3,2)
... e che mantenga i suoi figli sottomessi e in grande onestà (3,4).
Dove esiste ciò nella Chiesa? Se oggi un uomo sposato, come avviene nella
Chiesa Brasiliana, per ipotesi fosse consacrato vescovo secondo i riti e le
intenzioni canoniche, la Chiesa considererebbe valida questa consacrazione. Se
fosse una donna la riterrebbe invalida forse proprio in riferimento al testo di
1Tm 2,11-12.
Per quale ragione la Chiesa non segue anche oggi le prescrizioni molto chiare
a riguardo delle vedove contenute in 1Tm 5,3-16?
La risposta è semplice e universalmente accettata: perché nella nostra
società le vedove occupano una funzione religiosa e sociale diversa da quella
del tempo degli apostoli. Quali vescovi oggi potrebbero ripetere ciò che si
afferma in 1Tm 6,1: "Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù,
trattino con ogni rispetto i loro padroni, perché non vengano bestemmiati il
nome di Dio e la dottrina". Agli oppressori moderni la Chiesa non
ripeterà questo testo, perché essa sa che il messaggio in esso contenuto è
condizionato dall'ambiente dell'epoca in cui la schiavitù costituiva un dato di
fatto intoccabile. Come cerchiamo di interpretare questi brani nel significato
ermeneutico di allora, nello stesso modo dobbiamo interpretare il testo che si
riferisce alla posizione della donna, a meno di voler alimentare l'ideologia
dello status ecclesiale. Si tratta quindi non di un jus divinum, ma
semplicemente di un jus ecclesiasticum suscettibile di riforme.
Quarta obiezione: nella tradizione della Chiesa mai esistettero
sacerdotesse e neppure la madre di Cristo lo fu. È un dato concreto che la tradizione non parla mai di sacerdotesse. Ci sono
accenni a diaconesse che ricevevano il ministero, soprattutto a partire dal
secolo IV, per mezzo di un'ordinazione fatta con l'imposizione delle mani e che
appartenevano alla gerarchia ecclesiastica. Non soltanto si occupavano della
pastorale del battesimo delle donne, ma era loro concesso anche di leggere
l'Epistola e il Vangelo, portare la stola, distribuire la comunione. Il rito
dell'ordinazione corrispondeva, nel secolo XI, esattamente all'ordinazione dei
diaconi 23. Ci sono accenni a sacerdotesse cristiane tra i Priscilliani, però
questo è espressamente contestato dal Sinodo di Nimes (394). Il papa Gelasio in
una lettera ai vescovi dell'Italia Meridionale nell'anno 494 condanna gli abusi
da parte di certe donne "che prestano servizio all'altare e che compiono
tutto ciò che è strettamente riservato agli uomini".
Qui non si tratta di diaconesse, bensì di veri ordini maggiori. Tuttavia
questa prassi non fu mai accettata. La tradizione della Chiesa riservò alla
donna tale trattamento che risale fin dalle origini. Non si facevano altre
discussioni al riguardo, ne da parte delle donne era portato avanti nessun tipo
di rivendicazione.
Haye van der Meer che studiò dettagliatamente la dottrina della tradizione
su questo tema concludeva: "In nessun luogo in tutta la letteratura
della patristica a riguardo del sacerdozio della donna troviamo riflessioni che
per motivi essenziali negano il sacerdozio alle donne. Troviamo espressioni del
genere: gli apostoli non inviarono in missione nessuna donna. Maria non battezzò
Gesù; la donna fu sedotta; la donna istruì una sola volta l'uomo (nel
Paradiso) e ciò fu causa di perdizione; Paolo lo vietava...". Neppure
Maria era sacerdote ...; non ricevette il sacramento dell'Ordine né esso
avrebbe senso per lei perché possiede un sacerdozio superiore a quello dei
sacerdoti ordinati. Come corredentrice e mediatrice essa fu sempre considerata e
venerata come sacerdote " eminentiori modo". Poiché Maria era
portatrice di un sacerdozio ben superiore a quello dei ministri della Chiesa,
non può essere addotto tale fatto come argomento per escludere le donne dal
sacramento dell'ordine. Per Maria non è una diminuzione il fatto di non aver
celebrato l'eucaristia. Essa fece molto di più di questo: era la Madre di Dio;
educò e offrì il suo Figlio e insieme a lui divenne causa della nostra
salvezza.
Conclusioni: ciò che rimane è un costume e non una tradizione
dottrinale. Dalle riflessioni fatte fin qui possiamo dedurre le seguenti affermazioni:
a) Dal punto di vista dell'ermeneutica e dell'esegesi non ci sono argomenti
scritturistici determinanti che escludano la donna dall'ordine sacerdotale.
b) La tradizione non porta nessun principio teologico fondamentale che
giustifichi la prassi attuale di conferire il sacerdozio solo agli uomini. Si può
affermare con sufficiente chiarezza che tale prassi è dovuta a uno sviluppo
storico sociologico. La donna però un po' alla volta prese coscienza della sua
parità di diritti con l'uomo, distruggendo le barriere discriminatorie che
furono erette anche nel cristianesimo. L'esclusione della donna dal sacerdozio
rifletteva la sua condizione di inferiorità nella società stessa.
c) Si tratta quindi non di una tradizione dottrinale, ma del sopravvivere di
un costume millenario, costume che può essere suscettibile di trasformazioni in
seguito alla nuova coscienza della dignità della donna e della collaborazione
che essa può dare nella Chiesa.
Così concludeva il card. Daniélou: "Nulla di decisivo fu
contrapposto a un'eventuale ordinazione delle donne; lo studio della questione
può quindi proseguire...".
d) In base a questa nuova riflessione sulla condizione della donna, la Chiesa
luterana ormai da più di quindici anni conferisce l'ordine ministeriale alle
donne.
Nello stesso modo anche la Chiesa anglicana, anche se con maggiori riserve.
Nel 1971 Sally Jane Priesand, superando una tradizione millenaria, fu consacrata
rabbino a Cincinnati.
Nella Chiesa cattolica vi sono religiose che assunsero in alcune regioni
tutte le funzioni sacerdotali tranne quella di consacrare e confessare. È già
un grande passo in avanti. Fin dove potremo arrivare?
Il sacerdozio della donna non può essere il sacerdozio attuale degli
uomini. Non è sufficiente pronunciarsi a favore della possibilità dell'ordinazione
della donna al sacerdozio.
A quale tipo di sacerdozio potrà dunque essere ordinata?
Il sacerdozio attuale che esiste nella Chiesa è segnato profondamente
dall'immagine dell'uomo maschio e celibe. La Chiesa nel suo significato
gerarchico è molte volte chiamata col nome di madre premurosa; tale immagine
però sembra assai strana quando si nota che questa sollecitudine materna è
esclusivamente affidata agli uomini, i quali segnano con caratteri maschili
tutte le istituzioni ufficiali della fede. Sarebbe un'aberrazione se la
donna-sacerdote volesse imitare il modello concreto di sacerdozio vissuto
storicamente dagli uomini. A questo punto si devono sottolineare tutte le
differenziazioni che decorrono dalla diversità specifica della donna con tutto
il valore che la femminilità porta con se a livello ontologico, psicologico,
sociologico, biologico ecc. e che deve segnare la realizzazione storica di un
possibile sacerdozio della donna. Essa non dovrà essere semplicemente colei che
sostituisce il sacerdote, ma dovrà avere una espressione specifica del proprio
sacerdozio.
L'esperienza portata avanti in Brasile da religiose che sono a capo di
parrocchie può essere doppiamente significativa. Prima di tutto come
testimonianza di una Chiesa che aprì la via a un processo di liberazione
ecclesiale per la donna e comprese la sua maturità cristiana nell'affidarle la
direzione di molte chiese locali. In secondo luogo tale esperienza sta a
indicare uno strumento di criticità per le attuali istituzioni sacerdotali. Si
adegueranno alla specificità della donna? Permetteranno che la religiosa
esprima tutta la ricchezza della sua femminilità, valore imprescindibile anche
per la stessa Chiesa? Oppure non si correrà il rischio di un'operazione di
innesto non ben riuscita, con pregiudizio di tutte le parti, dell'uomo, della
donna e della Chiesa? L'esperienza brasiliana indica qualche reale progresso.
È significativa infatti l'opinione di una teologa specializzata su questo
tema: "Bisogna riconoscere che la donna non si adatta ai ruoli
ecclesiali derivatici da un lungo processo storico e che ancor oggi sussistono.
Solo quando queste funzioni saranno riformulate a partire dalla comunità e in
relazione a essa, avrà senso conferirle alle donne. Con ciò risulta chiara la
conclusione che il sacerdozio particolare della donna non è ancora adeguato
alla fase dello sviluppo attuale (storico-salvifico) della Chiesa".
Prospettive teologiche per un sacerdozio della donna
Le riflessioni fin qui sviluppate fanno capire che parlare del sacerdozio
della donna non significa semplicemente rivendicarle un posto che per secoli le
fu negato. Si tratta invece di analizzare se, nella fase di sviluppo della
nostra società in cui la donna assume una parità con l'uomo, le spetta pure un
ruolo sacerdotale.
Tra i molti compiti che la donna sta svolgendo nella società e nella Chiesa
le spetta pure il sacerdozio? Oppure questo è un limite invalicabile? Abbiamo
notato che dal punto di vista dogmatico non ci sono barriere dottrinali. Le
discriminazioni contro la donna nella società civile stanno a poco a poco ma
naturalmente scomparendo. La Chiesa cattolica, come corpo sociale,
nell'organizzazione del suo potere e nell'esercizio delle sue responsabilità
pastorali, cambierà oppure resterà una trincea di conservatorismo e un
ristretto ambiente poggiato su strutture di un mondo definitivamente passato?
Gli uomini di oggi comprendono molto bene, e non senza il contributo degli
ideali cristiani, che il bene dell'uomo e della donna sono interdipendenti, che
ambedue resteranno pregiudicati se, in una qualsiasi comunità, uno di essi non
potrà portare il contributo di tutta la ricchezza delle sue potenzialità.
La chiesa stessa resterebbe sminuita nel suo corpo organico se nelle sue
istituzioni non concedesse spazio alla ricchezza della donna con la sua
maturazione nella fede. Anche se vi fosse un numero sufficiente di sacerdoti e
se nella chiesa rifiorisse un laicato adulto, il quale in ragione della propria
fede non per della gerarchia portasse avanti la causa di Cristo nel mondo,
avrebbe senso porre la domanda per uno status della donna di fronte al
sacerdozio. Senza la donna ci sarebbe un vuoto nella chiesa, ossia la mancanza
di una ricchezza che solo lei può offrire e nessun altro.
Non si tratta evidentemente di descrivere la funzione della donna nella
Chiesa. Sarebbe un fatto esterno e perciò oppressivo perché verrebbe stabilito
un ruolo predeterminato in cui si vorrebbe trovasse posto la donna. La strada da
percorrere deve essere esattamente l'inverso, perché tutti rifiutano con giusta
ragione, una funzione prestabilita. Bisogna aprire gli occhi sulla nuova
autocoscienza che le donne si conquistano e sul processo sociale esteso a tutti
i
settori che tende a non privilegiare più uno dei due sessi. Perciò bisogna
far attenzione alla nuova funzione dei sessi e non alla funzione dell'uomo e
della donna. Il compito è quello di creare una società diversa. Se non sarà
modificata la funzione dell'uomo non sarà modificata neppure quella della donna
e viceversa. Si dovrà inoltre far prendere coscienza della funzione propria e
specifica dei sessi nella loro particolarità, e da questo potranno essere
desunte le nuove funzioni anche nella Chiesa.
Questo compito è affidato alle donne stesse. Non riceveranno più come
imposto quello che loro stesse devono compiere.
Oggi tutti noi, uomini e donne, stiamo cercando la nostra identità in un
processo sociale che risulta sempre più accelerato.
Bisogna essere pazienti per non dare risposte affrettate e inadeguate.
Compito della teologia non è quello anzitutto di stabilire il cammino da
percorrere, ma di permettere che le nuove esperienze, condotte avanti nell'amore
silenzioso di Dio, si sviluppino da se stesse, facendo capire il senso di
direzione intrapreso. La teologia accetterà il mutamento della coscienza umana
come una sfida e come una possibilità di nuove incarnazioni del messaggio
cristiano. Il cristianesimo non si sceglie un mondo per sé, è invece il mondo
intero che diviene possibilità concreta di realizzazione storica.
La trasformazione avviene non solo all'interno della cultura, per la donna,
ma anche nell'ambito della chiesa di fronte ai suoi ministeri. Senza dubbio un
ripensamento su i servizi e le diaconie nella chiesa potrà allargare
l'orizzonte in modo poter comprendere anche il valore di partecipazione della
donna per il bene di tutta la comunità ecclesiale.
Il sacerdozio universale delle donne C'è una certa teologia sul sacerdozio che prende i caratteri dell'ideologia:
è una riflessione che si basa su un tipo unico di sacerdozio, come attualmente
esiste nella Chiesa, considerandolo come l'unico possibile. Tale teologia non si
domanda se alla luce della ipsissima intentio Jesu e sul valore positivo
della fede cristiana, la Chiesa, di fronte a nuovi condizionamenti culturali,
non possa permettere altri modelli e anche altri significati della missione
sacerdotale. Il Concilio Vaticano II gettò una base ben sicura, carica di
conseguenze strutturali, nel momento in cui suggeriva l'idea della Chiesa popolo
di Dio e l'affermazione del sacerdozio universale dei fedeli. Anteponendo il
capitolo della Chiesa popolo di Dio a quello della Chiesa gerarchica, esso ci
insegna che ogni potere nella Chiesa deve essere espresso all'interno e a
servizio del popolo di Dio.
Riproponendo il tema del sacerdozio universale dei fedeli, sollevò una
questione teologica oggi non ancora sufficientemente interpretata: quale
relazione esiste tra il sacerdozio universale e il sacerdozio ministeriale?
Se vogliamo dare un senso più giusto e adeguato al sacerdozio, dobbiamo
avvicinarci con criteri più aperti di quanto comunemente si faccia. Solo allora
apparirà possibile anche per la donna.
Sacerdote è quella persona che si propone di essere strumento di mediazione
e di riconciliazione tra realtà diverse. Percepiamo che l'esistenza è vissuta
come un mistero: di fronte a Dio, agli altri, alla realtà che ci circonda e di
fronte a se stessi. Vi sono divisioni e menzogne che rendono drammatica la vita
umana. Questa aspira all'unità, alla pace e alla riconciliazione di tutte le
cose nel significato più profondo.
Il sacerdote cerca di proporre un'esperienza comune a tutti gli uomini e di
vivere in funzione di essa. Per questo egli si separa dal mondo, non perché lo
disprezzi, ma per compiere, a beneficio del mondo, una missione di unità e di
mediazione.
Gesù Cristo che era un laico (cfr.Eb 7:13-14) assunse
questo compito di riconciliazione. Visse la sua esistenza in modo così profondo
che riconciliò gli uomini con Dio. Le sue parole erano parole di amore, di
rinuncia allo spirito di vendetta e di odio, e li riconciliazione universale
perfino con i nemici (Mt 5,45). Egli era un essere-per-gli-altri
fino alla fine (Gv 13,1). La novità del suo
servizio di riconciliazione sta nel fatto di non aver agito unicamente
nell'ambito del culto, ma in tutta la vita: nello stare con le masse, nella
predicazione, nell'incontro con le persone, nella preghiera, nella vita e nella
morte.
La sua morte sulla croce come conclusione della sua fedeltà alla causa di
Dio ispirata dall'amore e dal perdono, è il più bell'esempio di donazione e di
sacrificio per gli altri, compresi i nemici. Risorgendo si fa presente nel tempo
per sempre con la sua azione riconciliatrice tra gli uomini.
La comunità primitiva ha capito subito. In lui Dio ha riconciliato tutte le
cose (Col 1,20), unificò il mondo distruggendo tutte le
barriere che erano state elevate (Ef 2,14). Egli realizzò
la speranza contenuta in ogni atto sacerdotale: riconciliare l'uomo con Dio e
con gli altri uomini.
Vi riuscì in modo totale e perfetto (Eb 9,26 s; 1Pt 3, 18).
Per questa sua azione Lo chiamarono, lui che era nella società un laico,
sommo Sacerdote (Eb 10,21) e Unico Mediatore (1Tm
2,5).
Il sacerdozio inoltre non è uno stato, ma un modo di esistere che propone la
riconciliazione. Poiché Gesù visse nella sua vita, morte e risurrezione in
modo esaustivo e in senso escatologico il tema della riconciliazione, dell'unità
e dell'amore, può essere chiamato sommo ed eterno sacerdote (Eb
6,20).
Cristiano è colui che cerca di orientare la sua vita sulle tracce e secondo
lo spirito che in Gesù Cristo si manifestava.
In questo senso tutta la vita cristiana è vita sacerdotale.
Nella fede e nei sacramenti siamo fatti partecipi del sacerdozio di Cristo (Lumen
Gentium 10,28). Non soltanto, ma anche partecipi di tutta la sua
ricchezza di servizio, di annuncio e di santificazione (LG 10,12;
AA 3/l335).
In altre parole il cristiano è responsabile della missione di tutta la
Chiesa di portare l'annuncio di salvezza con la parola e l'esempio, ai
santificare il mondo, di servire ed essere responsabile dell'ordine e della
concordia nella comunità.
Nella Chiesa inoltre riscontriamo, in un primo momento, un'uguaglianza
fondamentale: tutti sono in Cristo e formano il suo popolo santo, tutti
partecipano del suo sacerdozio di riconciliazione. Se col termine laico
intendiamo, secondo la parola greca, colui che fa parte del popolo (laos)
allora tutti sono nella Chiesa necessariamente laici: papi, vescovi, sacerdoti e
semplici fedeli perché tutti sono membra del popolo di Dio.
Da ciò possiamo dedurre che la differenza tra gerarchia e laicato non è
primaria, ma secondaria.
Essa solo può esistere sul piano dell'uguaglianza radicale degli uomini a
servizio e in funzione di questa e non sopra e indipendentemente da essa.
Il sacerdozio universale dei fedeli non si articola soltanto a livello
culturale. Esso trova precisamente nel culto la sua più alta espressione. Però
deve essere vissuto nel vasto orizzonte della vita, come lo visse Gesù Cristo.
Non soltanto la sua morte sulla croce fu causa di redenzione: tutta la sua
esistenza, nei momenti di culto e nella "profanità" della
vita, quando parlava al popolo e nella realtà di ogni giorno fu strumento di
riconciliazione e perciò sacerdotale. Ecco perché Paolo avvertiva i romani a
"offrire la loro vita come olocausto vivo, santo e gradito a Dio"
(Rm 12,1).
Nel caso specifico delle donne che hanno fede in Cristo ogni momento della
vita può avere una funzione sacerdotale e riconciliatrice: la loro attenzione
ai figli, il loro servizio nell'edificare in buona armonia la famiglia, la loro
professione che le pone a contatto con altre persone sia come insegnanti,
infermiere, dottoresse, segretarie, commesse ecc.
Per la donna cristiana la professione non ha soltanto il fine di guadagnare
il pane; può diventare il mezzo attraverso il quale essa rende effettivo il
servizio agli altri, la concordia, la riconciliazione tra gli uomini e diventare
lo strumento col quale avvicinare gli uomini, superando divisioni e accettando
con dignità e silenzio situazioni alle volte penose e apparentemente
insuperabili.
Il servizio che si esprime nella riconciliazione deve essere compiuto da
tutti i cristiani. Tale impegno li rende sacerdoti, tanto gli uomini quanto le
donne. In questo modo essi prolungano nel tempo e nello spazio la funzione
unificatrice di Cristo sommo sacerdote per sempre.
b) Lo specifico del sacerdozio ministeriale non è la facoltà di
consacrare, ma di essere principio di unità nella comunità. Questo modo di intendere il sacerdozio come abbiamo sottolineato sopra non
crea problemi per la donna. La difficoltà sorge quando si affronta il
sacerdozio ministeriale, cioè quello che è proprio degli uomini che hanno
ricevuto il sacramento dell'ordine. Qual è la loro specificità che li
distingue da tutti gli altri sacerdoti-del-popolo-di-Dio? Potranno le
donne accedere a esso?
Esiste una definizione classica espressa già nel Documento del Sinodo dei
Vescovi del 1971, a riguardo del sacerdozio ministeriale, che definisce la
condizione specifica del sacerdote, considerato in se stesso, senza relazione
diretta con il popolo di Dio.
Attraverso l'ordinazione sacerdotale, esso è abilitato a essere il
rappresentante ufficiale di Cristo: "I presbiteri sono consacrati da
Dio, mediante il Vescovo, in modo che, resi partecipi in modo speciale del
Sacerdozio di Cristo nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di colui
che ininterrottamente esercita la sua funzione sacerdotale in favore nostro
nella liturgia per mezzo del suo Spirito" (Presbyterorum
Ordinis,5).
Ciò che è specifico del sacerdote è la facoltà di consacrare. Lo spazio
in cui il sacerdozio è limitato è il settore cultuale e sacramentale.
Ora ciò non significa affatto una riduzione del grande significato che aveva
il sacerdozio di Gesù Cristo. Questo non si limita soltanto al culto, ma deve
essere vissuto nel contesto di tutta la vita, che deve portare i segni della
unità, della pace e della riconciliazione. Si noti bene inoltre che
l'ordinazione non conferisce propriamente un potere in funzione del culto
e della consacrazione. Non è infatti il sacerdote che consacra, battezza e
perdona. È Cristo che perdona, battezza e consacra. I presbiteri mettono a
disposizione la loro persona perché il Cristo invisibile si faccia
sacramentalmente visibile. Il potere non è quello di consacrare, ma quello di rappresentare
ufficialmente il sacerdozio unico ed eterno di Gesù Cristo. Il sacramento
dell'ordine innalza la persona a questa funzione.
Qual è la relazione del presbitero con il popolo di Dio?
Non lo dobbiamo pensare al di fuori, al di sopra o indipendente dal popolo di
Dio. Il suo ruolo non deve essere determinato in base ai suoi poteri
sacramentali, posto davanti ad un popolo che è privato di questi poteri. Il
punto di partenza deve essere ecclesiologico e comunitario: è infatti per il
servizio della Chiesa che esiste il presbitero e non indipendente da essa.
La Chiesa-comunità nasce come sacramento universale di salvezza. Attraverso
le sue istituzioni, con la parola e i sacramenti, con i ministeri essa deve
rendere attuale la riconciliazione portata da Gesù Cristo.
Tutti i fedeli sono corresponsabili in questa missione e non soltanto quelli
che hanno ricevuto l'ordine. In questa comunità radunata nel nome di Cristo le
differenze di nazione, di intelligenza e di sesso non hanno alcun valore (Gal
3, 28). Tutti indistintamente sono inviati. In base a questo concetto
acquista significato l'uguaglianza e la fratellanza di tutti in Cristo.
Se vi è una uguaglianza così fondata, non significa però che tutti debbano
fare le stesse cose.
La Chiesa è infatti una comunità di uguali e organizzata, ma dove i compiti
sono posti in un certo ordine gerarchico.
Vi è in essa diversità di carismi che per Paolo sono sinonimo di funzioni.
"Ciascuno ha il proprio dono (carisma) da Dio, chi in un modo, chi in un
altro" (1Cor 7,7), ma tutti questi carismi
sono per il bene comune (1Cor 12,7). Questi carismi
(funzioni) appartengono alla struttura della Chiesa, in modo tale che senza di
essi non sarebbe la Chiesa di Cristo. Esiste poi una simultaneità di carismi
nella Chiesa.
È a questo punto che bisogna porsi la domanda: a chi spetta il compito di
esprimere dei carismi? Il carisma dell'unità deve essere a servizio di tutti i
carismi affinché tutto concorra per il buon ordine, l'armonia e il bene comune.
Il Nuovo Testamento parla di carismi di guida e di governo e di quelli che
presiedono alla comunità (1Ts 5,12; Rom 12,8; 1Tm 5,17).
I presbiteri (anziani), i Vescovi (episkopen) e i diaconi sono i
portatori del carisma dell'unità in seno alla comunità.
Lo specifico del presbitero-sacerdote consiste in questo carisma: coordinare
le varie funzioni nella comunità (carismi), orientarle tutte a beneficio della
Chiesa, promuovendone alcune e incoraggiandone altre, svelare i carismi già
presenti ma non ancora sorti a livello di coscienza nella comunità e ammonire
chi mette in pericolo l'unità della comunità.
Il sacerdote non convoglia verso se stesso tutte le funzioni, ma deve far
convergere nell'unità tutti i servizi.
Il presbitero diventa così il responsabile principale dell'unità della
Chiesa locale, sia nella diaconia dell'amore fattivo attraverso l'assistenza ai
fratelli più poveri e nel contesto dei servizi nella comunità, sia
nell'annunciare il Vangelo con la catechesi, la predicazione, i corsi di
aggiornamento sia, infine, nel servizio del culto e dei sacramenti.
In ogni settore egli deve promuovere l'unità e la armonia affinché la
comunità sia un solo corpo nel Cristo Gesù.
In conformità a questa interpretazione, lo specifico del sacerdote non è di
consacrare e insegnare, ma di essere segno di unità nel culto e nell'annuncio
del messaggio. In ragione di questo suo carisma spetta a lui presiedere la
celebrazione e annunciare con autorità.
I compiti che il presbitero compie nella Chiesa locale spettano al Vescovo
nella Chiesa di una regione e al Papa nella Chiesa Universale: a tutti spetta
essere principium unitatis visibile.
Ci domandiamo se questo compito di radunare nell'unità può essere affidato
esclusivamente agli uomini.
La storia attuale e la verità dei fatti ci indicano che la donna può avere
le stesse capacità dell'uomo, sia nel governo della società civile come nelle
esperienze già in atto nella Chiesa, nelle quali delle religiose assunsero la
direzione della Chiesa locale.
La donna svolge il ruolo di unità secondo la sua specificità femminile,
diversa da quella dell'uomo, lo stesso risultato di concordia, progresso e unità
nella comunità dei fedeli.
Il sacramento dell'ordine designa nella comunità la persona che coordinerà,
nel segno dell'unità e della riconciliazione, i vari servizi inerenti alla vita
comunitaria.
Tutti hanno il compito di preoccuparsi dell'unità.
Però il sacerdote, sia uomo che donna, è preposto ufficialmente in nome di
Gesù Cristo a presiedere la diaconia della riconciliazione e della coesione
della comunità.
Il sacramento non conferisce un qualcosa di esclusivo, raggiungibile
soltanto attraverso il sacramento e senza il quale tale sacramento non potrebbe
essere dato nella Chiesa. Invece il sacramento conferisce una visibilità più
nitida a ciò che deve essere ricercato da tutti nella comunità e cioè
l'unione e l'amore.
Per questo, come negli altri sacramenti, anche in quello dell'ordine c'è una
stretta relazione tra la funzione di tutti i fedeli e quella del sacerdote.
È compito del sacerdote presiedere l'assemblea che si raduna per ascoltare
la parola e celebrare l'eucaristia. Perciò spetta a lui, in modo ufficiale, il
potere di rappresentare Cristo principio e fonte di unità. Di conseguenza
spetterà a lui, a maggior diritto, consacrare e celebrare l'eucaristia.
Se la donna può essere, come lo è già di fatto in molte parrocchie,
principio di unità, allora teologicamente non troviamo nulla che possa opporsi
a che lei possa, per mezzo dell'ordinazione, consacrare e rendere Cristo
sacramentalmente presente quando la comunità è radunata per compiere un atto
di culto.
Non è questo il momento di esplicare come lo potrà fare. Non potrà
certamente essere spiegato attraverso la teoria; la risposta potrà venire solo
dall'esperienza concreta e dalla realtà di un determinato contesto.
Conclusione: l'umano e il religioso sono "animus" e
"anima". Le prospettive che abbiamo fin qui sviluppate inseriscono il sacerdote, sia
uomo che donna, nell'ambito della comunità umana ed ecclesiale. Ciò fa parte
della più antica tradizione neotestamentaria.
Lo stesso canone VI del Concilio di Calcedonia (451) dice espressamente:
"Nessuno deve essere ordinato nel modo più assoluto ne presbitero, ne
diacono, ne chierico in genere, se non gli viene assegnata soprattutto una
Chiesa urbana o rurale o un martyrion o una Chiesa monastica. Per quanto
riguarda coloro che sono ordinati senza qualcuna di queste funzioni, il Santo
Concilio decide che la sua ordinazione è nulla e inesistente e che, ad onta di
chi conferì loro l'ordine,non potranno esercitare le loro funzioni in
nessun luogo".
Il risultato della nostra esposizione vuol indicare, in sintesi, che non
ci sono argomenti determinanti per impedire che la donna possa accedere al
sacerdozio ministeriale. Aggiungiamo anche che una giusta collocazione
di esso, alla luce del sacerdozio di Cristo, non pone la specificità del
sacerdozio nel potere di consacrare, ma nell'essere principio di unità nella
comunità. Ora la donna può compiere questa diaconia altrettanto bene quanto
l'uomo.
La posizione della donna nella Chiesa deve accompagnare l'evoluzione della
donna nella società civile. Quest'ultima ha oggi la tendenza di concedere la
stessa parità di diritti alla donna come all'uomo, per cui risulta sempre più inconcepibile
qualsiasi discriminazione fondata sulla differenziazione biologica e culturale.
La Chiesa che vuole essere, a ragione, cattolica, non dovrebbe per nessun motivo
in base a tali fattori, mantenere la sua restrizione tradizionale.
Una riflessione più dilungata del compito di rappresentare la salvezza in
Gesù Cristo dovrebbe far capire agli ecclesiastici l'umiltà di riconoscere che
"la pienezza della divinità e dell'umanità di Cristo" non può
esaurirsi nella rappresentanza di soli uomini. L'antropologia moderna avverte
con sufficienti ragioni che non si può più semplicemente parlare di qualità
esclusivamente femminili e qualità maschili.
L'umano è sempre composto di caratteri maschili e caratteri femminili che si
trovano articolati, con intensità diversa, in ogni esistenza umana individuale.
Un normale processo di personalizzazione e di maturazione umana esige e
suppone che l'uomo esprima, in grado sempre superiore, il suo aspetto di anima
(l'aspetto femminile nel maschio) e la donna il suo aspetto di animus
(l'aspetto maschile nella donna). Secondo questa distinzione, gli uomini per la
propria realizzazione agirebbero bene se creassero più spazio di libertà e di
liberazione per la donna, così lei a sua volta avrà più possibilità di
rappresentare Gesù Cristo uomo, che come tutti gli uomini possedeva nella sua
umanità le dimensioni maschili e femminili. Solo così si potrà esprimere con
la vita, nella nostra storia, la parola profetica di Paolo:
« Non c'è più uomo ne donna, poiché tutti noi
siamouno in Gesù Cristo »
[Gal 3]