Cuncti se scire fatentur
Quid fortuna ferat populi, sed dicere mussant.
Virgilio, Eneide, lib. XI
Impune quaelibet facere id est regem esse
Sallustio, Guerra Giugurtina, cap. XXXI
PREVIDENZA DELL'AUTORE
Dir più d'una si udrà lingua maligna,
(Il dirlo è lieve; ogni più stolto il puote)
Che in carte troppe, e di dolcezza vuote,
Altro mai che tiranni io non dipigna:
Che tinta in fiel la penna mia sanguigna
Nojosamente un tasto sol percuote:
E che null'uom dal rio servaggio scuote,
Ma rider molti fa mia Musa arcigna.
Non io per ciò da un sì sublime scopo
Rimuoverò giammai l'animo, e l'arte,
Debil quantunque e poco a sì grand'uopo.
Né mie voci fien sempre al vento sparte,
S'uomini veri a noi rinascon dopo,
Che libertà chiamin di vita parte.
LIBRO PRIMO
ALLA LIBERTÀ
Soglionsi per lo più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono
ritrarne chi lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o DIVINA LIBERTÀ, spente
affatto in tutti i moderni cuori le tue cocenti faville: molti ne'loro scritti vanno or
qua or là tasteggiando alcuni dei tuoi più sacri e più infranti diritti. Ma quelle
carte, ai di cui autori altro non manca che il pienamente e fortemente volere, portano
spesso in fronte il nome o di un principe, o di alcun suo satellite; e ad ogni modo pur
sempre, di un qualche tuo fierissimo naturale nemico. Quindi non è meraviglia, se tu
disdegni finora di volgere benigno il tuo sguardo ai moderni popoli, e di favorire in
quelle contaminate carte alcune poche verità avviluppate dal timore fra sensi oscuri ed
ambigui, ed inorpellate dall'adulazione.
Io, che in tal guisa scrivere non disdegno; io, che per nessun'altra cagione scriveva,
se non perché i tristi miei tempi mi vietavan di fare; io, che ad ogni vera incalzante
necessità, abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la
spada; ardisco io a te sola dedicar questi fogli. Non farò in essi pompa di eloquenza,
che in vano forse il vorrei; non di dottrina, che acquistata non ho; ma con metodo,
precisione, semplicità, e chiarezza, anderò io tentando di spiegare i pensieri, che mi
agitano; di sviluppare quelle verità, che il semplice lume di ragione mi svela ed addita;
di sprigionare in somma quegli ardentissimi desiderj, che fin dai miei anni più teneri ho
sempre nel bollente mio petto racchiusi.
Io, pertanto, questo libercoletto, qual ch'egli sia, concepito da me il primo d'ogni
altra mia opera, e disteso nella mia gioventù, non dubito punto nella matura età
(rettificandolo alquanto) di pubblicar come l'ultimo. Che se io non ritroverei forse più
in me stesso a quest'ora il coraggio, o, per dir meglio, il furore necessario per
concepirlo, mi rimane pure ancora il libero senno per approvarlo, e per dar fine con esso
per sempre ad ogni mia qualunque letteraria produzione.
Capitolo primo
COSA SIA IL TIRANNO
Il definire le cose dai nomi, sarebbe un credere, o pretendere che elle fossero
inalterabilmente durabili quanto essi; il che manifestamente si vede non essere mai stato.
Chi dunque ama il vero, dee i nomi definire dalle cose che rappresentano; e queste
variando in ogni tempo e contrada, niuna definizione può essere più permanente di esse;
ma giusta sarà, ogni qualvolta rappresenterà per l'appunto quella cosa, qual ella si era
sotto quel dato nome in quei dati tempi e luoghi. Ammesso questo preamboletto, io mi era
già posta insieme una definizione bastantemente esatta e accurata del tiranno, e
collocata l'avea in testa di questo capitolo: ma, in un altro mio libercolo, scritto dopo
e stampato prima di questo, essendomi occorso dappoi di dover definire il principe, mi son
venuto (senza accorgermene) a rubare a me stesso la mia definizione del tiranno. Onde, per
non ripetermi, la ommetterò qui in parte; né altro vi aggiungerò, che quelle
particolarità principalmente spettanti al presente mio tema, diverso affatto da
quell'altro DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE; ancorché tendente pur questo allo stesso
utilissimo scopo, di cercare il vero, e di scriverlo.
TIRANNO, era il nome con cui i Greci (quei veri uomini) chiamavano coloro che
appelliamo noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà pur anche del popolo
o dei grandi, otteneano le redini assolute del governo, e maggiori credeansi ed erano
delle leggi, tutti indistintamente a vicenda o re o tiranni venivano appellati dagli
antichi.
Divenne un tal nome, coll'andar del tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi
dovea. Quindi ai tempi nostri, quei principi stessi che la tirannide esercitano,
gravemente pure si offendono di essere nominati tiranni. Questa sì fatta confusione dei
nomi e delle idee, ha posto una tale differenza tra noi e gli antichi, che presso loro un
Tito, un Trajano, o qual altro più raro principe vi sia stato mai, potea benissimo esser
chiamato tiranno; e così presso noi, un Nerone, un Tiberio, un Filippo secondo, un Arrigo
ottavo, o qual altro mostro moderno siasi agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere
appellato legittimo principe, o re. E tanta è la cecità del moderno ignorantissimo
volgo, con tanta facilità si lascia egli ingannare dai semplici nomi, che sotto altro
titolo egli si va godendo i tiranni, e compiange gli antichi popoli che a sopportare gli
aveano.
Tra le moderne nazioni non si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente
e tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le
vite, gli averi, e l'onore. Re all'incontro, o principi, si chiamano quelli, che di
codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le
lasciano; o non le tolgono almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E
benigni, e giusti re si estimano questi, perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con
piena impunità, a dono si ascrive tutto ciò ch'ei non pigliano.
Ma la natura stessa delle cose suggerisce, a chi pensa, una più esatta e miglior
distinzione. Il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non
si dee dare se non a coloro, (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno,
comunque se l'abbiano, una facoltà illimitata di nuocere: e ancorché costoro non ne
abusassero, sì fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro,
che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere abborevoli abbastanza. Il
nome di re, all'incontro, essendo finora di qualche grado meno esecrato che quel di
tiranno, si dovrebbe dare a quei pochi, che frenati dalle leggi, e assolutamente minori di
esse, altro non sono in una data società che i primi e legittimi e soli esecutori
imparziali delle già stabilite leggi.
Questa semplice e necessaria distinzione universalmente ammessa in Europa, verrebbe ad
essere la prima aurora di una rinascente libertà. È il vero, che nessuna cosa poi tra
gli uomini riesce permanente e perpetua; e che (come già il dissero tanti savj) la
libertà pendendo tuttora in licenza, degenera finalmente in servaggio; come il regnar
d'un solo pendendo sempre in tirannide, rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertà. Ma
siccome per quanto io stenda in Europa lo sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi
di schiavi; siccome non può oramai la universale oppressione più ascendere, ancorché la
non mai fissabile ruota delle umane cose appaja ora immobile starsi in favor dei tiranni,
ogni uomo buono dee credere, e sperare, che non sia oramai molto lontana quella necessaria
vicenda, per cui sottentrare al fin debba all'universale servaggio una quasi universal
libertà.
Capitolo secondo
COSA SIA LA TIRANNIDE
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è
preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle,
impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi,
o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o
tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare,
è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è
schiavo.
E, viceversa, tirannide parimente si dee riputar quel governo, in cui chi è preposto
al creare le leggi, le può egli stesso eseguire. E qui è necessario osservare, che le
leggi, cioè gli scambievoli e solenni patti sociali, non debbono essere che il semplice
prodotto della volontà dei più; la quale si viene a raccogliere per via di legittimi
eletti del popolo. Se dunque gli eletti al ridurre in leggi la volontà dei più le
possono a lor talento essi stessi eseguire, diventano costoro tiranni; perché sta in loro
soltanto lo interpretarle, disfarle, cangiarle, e il male o niente eseguirle. Che la
differenza fra la tirannide e il giusto governo, non è posta (come alcuni stoltamente,
altri maliziosamente, asseriscono) nell'esservi o il non esservi delle leggi stabilite; ma
nell'esservi una stabilita impossibilità del non eseguirle.
Non solamente dunque è tirannide ogni governo, dove chi eseguisce le leggi, le fa; o
chi le fa, le eseguisce: ma è tirannide piena altresì ogni qualunque governo, in cui chi
è preposto all'eseguire le leggi non dà pure mai conto della loro esecuzione a chi le ha
create.
Ma, tante specie di tirannidi essendovi, che sotto diversi nomi conseguono tutte uno
stesso fine, non imprendo io qui a distinguerle fra loro, né, molto meno, a distinguerle
dai tanti altri moderati e giusti governi: distinzioni, che a tutti son note.
Se più sopportabili siano i molti tiranni, o l'un solo, ella è questione problematica
assai. La lascierò anche in disparte per ora, perché essendo io nato e cresciuto nella
tirannide d'un solo, ed essendo questa la più comune in Europa, di essa più volentieri e
con minore imperizia mi avverrà forse di ragionare; e con utile maggiore fors'anco pe'
miei cotanti conservi. Osserverò soltanto di passo, che la tirannide di molti, benché
per sua natura maggiormente durevole (come ce lo dimostra Venezia) nondimeno a chi la
sopporta ella sembra assai men dura e terribile, che quella di un solo. Di ciò ne
attribuisco la cagione alla natura stessa dell'uomo, in cui l'odio ch'egli divide contro
ai molti, si scema; come altresì il timore che si ha dei molti, non agguaglia mai quello
che si ha riunitamente di un solo; ed in fine, i molti possono bensì essere continuamente
ingiusti oppressori dell'universale, ma non mai, per loro privato capriccio, dei diversi
individui. In codesti governi di più, che la corruzione dei tempi, lo avere scambiato
ogni nome, e guasta ogni idea, hanno fatto chiamar repubbliche; il popolo in codesti
governi, non meno schiavo che nella mono-tirannide, gode nondimeno di una certa apparenza
di libertà, ed ardisce profferirne il nome senza delitto: e, pur troppo il popolo, allor
quando corrotto è, ignorante, e non libero, egli si appaga della sola apparenza.
Ma, tornando io alla tirannide di un solo, dico; che di questa ve n'ha di più sorti.
Ereditaria può essere, ed anche elettiva. Di questa seconda specie sono, fra i moderni,
lo stato pontificio, e molti degli altri stati ecclesiastici. Il popolo, in tali governi,
pervenuto all'ultimo grado di politica stupidità, vede a ogni tratto, per la morte del
celibe tiranno, ricadere in sua mano la propria libertà, che egli non conosce, né cura;
quindi se la vede tosto ritogliere dai pochi elettori che gli ricompongono un altro
tiranno, il quale ha per lo più tutti i vizj degli ereditarj tiranni, e non ne ha la
forza effettiva per costringere i sudditi a sopportarlo. E questa tirannide pure
tralascerò, come toccata in sorte a pochissimi uomini; e, per la loro smisurata viltà,
indegni interamente di un tal nome.
Intendo io dunque di ragionare oramai di quella ereditaria tirannide, che da lunghi
secoli in varie parti del globo più o meno radicata, non mai, o rarissimamente o
passeggeramente, ricevea danni dalla risorta libertà; e non veniva alterata o distrutta,
se non se da un'altra tirannide. In questa classe annovero io tutti i presenti regni
dell'Europa, eccettuandone soltanto finora quel d'Inghilterra e la Pollonia ne
eccettuerei, se alcuna parte di essa salvandosi dallo smembramento, e persistendo pure nel
volere aver servi e chiamarsi repubblica, servi ne divenissero i nobili, e libero il
popolo.
MONARCHIA, è il dolce nome che la ignoranza, l'adulazione, e il timore, davano e danno
a questi sì fatti governi. A dimostrarne la insussistenza, credo che basti la semplice
interpretazione del nome. O monarchia vuol dire, la esclusiva e preponderante autorità
d'un solo; e monarchia allora è sinonimo di tirannide: o ella vuol dire, l'autorità di
un solo, raffrenato da leggi; le quali, per poter raffrenare l'autorità e la forza,
debbono necessariamente anch'esse avere una forza ed autorità effettiva, eguale per lo
meno a quella del monarca; e in quel punto stesso in cui si trovano in un governo due
forze e autorità in bilancia fra loro, egli manifestamente cessa tosto di essere
monarchia. Questa greca parola non significa altro in somma, fuorché Governo ed autorità
d'uno solo; e con leggi; s'intende; perché niuna società esiste senza alcuna legge tal
quale: ma, ci s'intende pur anco Autorità di un solo sopra alle leggi; perché niuno è
monarca, là dove esiste un'autorità maggiore, o eguale, alla sua.
Ora, io domando in qual cosa differisca il governo e autorità di un solo nella
tirannide, dal governo e autorità d'un solo nella monarchia. Mi si risponde:
"Nell'abuso". Io replico: "E chi vi può impedire quest'abuso?" Mi si
soggiunge: "Le leggi". Ripiglio: "Queste leggi hanno elle forza ed
autorità per se stesse, indipendente affatto da quella del principe?" Nessuno più a
questa obiezione mi replica. Dunque, all'autorità d'un solo, potente ed armato, andando
annessa l'autorità di queste pretese leggi (e fossero elle pur anche divine)
ogniqualvolta le leggi e costui non concordano, che faranno le misere, per se stesse
impotenti, contro alla potestà assoluta e la forza? Soggiaceranno le leggi: e tutto
giorno, in fatti, soggiacciono. Ma, se una qualunque legittima forza effettiva verrà
intromessa nello stato per creare, difendere, e mantenere le leggi, chiarissima cosa è
che un tale governo non sarà più monarchia; poiché al fare o disfare le leggi
l'autorità d'un solo non vi basterà. Onde, questo titolo di monarchia, perfettissimo
sinonimo di tirannide, ma non così abborrito finora, non viene adattato ai nostri governi
per altro, che per accertare i principi della loro assoluta signoria; e per ingannare i
sudditi, lasciandoli o facendoli dubitare della loro assoluta servitù.
Di quanto asserisco, se ne osservi continuamente la prova nella opinione stessa dei
moderni re. Si gloriano costoro del nome di monarchi, e mostrano di abborrire quel di
tiranni; ma nel tempo stesso reputano assai minori di loro quegli altri pochi principi o
re, che ritrovando limiti infrangibili al loro potere, dividono l'autorità colle leggi.
Questi assoluti re sanno dunque benissimo, che fra monarchia e tirannide non passa
differenza nessuna. Così lo sapessero i popoli, che pure tuttora colla loro trista
esperienza lo provano! Ma i principi europei, di tiranni tengono caro il potere, e di
monarchi il nome soltanto: i popoli all'incontro, spogliati, avviliti, ed oppressi dalla
monarchia, la sola tirannide stupidamente abborriscono.
Ma i pochi uomini, che re non sono né schiavi, ove per avventura non tengano a vile
del paro i principi tutti; i monarchi, come tiranni; ed i principi limitati, come
perpetuamente inclinati a divenirlo; i pochi veri uomini pensanti, si avveggono pure
quanto sia più onorevole, più importante, e più gloriosa dignità il presiedere con le
leggi ad un libero popolo d'uomini, che il malmenare a capriccio un vile branco di pecore.
Tralascio ogni ulteriore prova (che necessaria non è) per dimostrare che una monarchia
limitata non vi può essere, senza che immediatamente cessi la monarchia; e che ogni
monarchia non limitata è tirannide, ancorché il monarca in qualche istante, non abusando
egli in nessun modo del suo poter nuocere, tiranno non sia. E tali prove tralascio, per
amor di brevità, e perché intendo di parlare a lettori, a cui non è necessario il dir
tutto. Passerò quindi ad analizzare la natura della mono-tirannide, e quai siano i mezzi
per cui, così ben radicatasi nell'Europa, inespugnabile ella vi si tiene oramai.
Capitolo terzo
DELLA PAURA
I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci
conoscitori del cuor dell'uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala Dea, le
assegnavano sacerdoti, e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me pajono una viva
immagine di questo culto antico, benché per tutt'altro fine instituite. Il tempio è la
reggia; il tiranno n'è l'idolo; i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e
quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtù, l'onor vero, e noi stessi; son
queste le vittime che tutto dì vi s'immolano.
Disse il dotto Montesquieu, che base e molla della monarchia ella era l'onore. Non
conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico, e spero di provare; Che
base e molla della tirannide ella è la sola paura.
E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sì
nella cagione che negli effetti; la paura dell'oppresso, e la paura dell'oppressore.
Teme l'oppresso, perché oltre quello ch'ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi
essere altro limite ai suoi patimenti che l'assoluta volontà e l'arbitrario capriccio
dell'oppressore. Da un così incalzante e smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se
l'uom ragionasse) una disperata risoluzione di non voler più soffrire: e questa, appena
verrebbe a procrearsi concordemente in tutti o nei più, immediatamente ad ogni lor
patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure, al contrario, nell'uomo schiavo ed oppresso, dal
continuo ed eccessivo temere nasce vie più sempre maggiore ed estrema la circospezione,
la cieca obbedienza, il rispetto e la sommissione al tiranno; e crescono a segno, che non
si possono aver maggiori mai per un Dio.
Ma, teme altresì l'oppressore. E nasce in lui giustamente il timore della coscienza
della propria debolezza effettiva, e in un tempo, dell'accattata sterminata sua forza
ideale. Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno (se l'assoluta autorità non lo ha fatto
stupido appieno) allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato
potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti.
La conseguenza del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del
suddito; o, per meglio dire, ella è simile in un senso contrario; in quanto, né egli,
né i popoli, non emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero; i
popoli, col non voler più soggiacere all'arbitrio d'un solo; i tiranni, col non voler
più sovrastare a tutti per via della forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria
potenza, sempre mal sicura quando ella è eccessiva, pare che dovrebbe il tiranno renderla
alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili limiti, almeno coll'addolcirne ai
sudditi il peso. Ma, nella guisa stessa che i sudditi non diventano disperati e feroci,
ancorché altro non resti loro da perdere se non una misera vita; così, neppure il
tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro non gli rimanga da acquistare, se non la
fama, e l'amore dei sudditi. Il timore e il sospetto, indivisibili compagni d'ogni forza
illegittima (e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce) offuscano talmente
l'intelletto del tiranno anche mite per indole, che egli ne diviene per forza crudele, e
pronto sempre ad offendere, e a prevenire gli effetti dell'altrui odio meritato e sentito.
Egli perciò crudelissimamente suole punire ogni menomo tentativo dei sudditi contro a
quella sua propria autorità ch'egli stesso conosce eccessiva; e non lo punisce allor
quando eseguito sia, o intrapreso, ma quando egli suppone, o finge anche di supporre, che
un tal tentativo possa solamente essere stato concepito.
La esistenza reale di queste due paure non è difficile a dimostrarsi. Di quella dei
sudditi, argomentando ciascuno di noi dalla propria, non ne dubiterà certamente nessuno:
della paura dei tiranni, assai ne fan fede i tanti e così diversi sgherri, che giorno e
notte li servono e custodiscono.
Ammessa questa reciproca innegabile paura, esaminiamo quali debbano riuscire questi
uomini che sempre tremano: e parliamo da prima dei sudditi, cioè di noi stessi, che ben
ci dobbiamo conoscere; parleremo dei tiranni, per congettura, dappoi. E scegliamo nella
tirannide quei pochi uomini, a cui e la robustezza delle fibre, e una miglior educazione,
e una certa elevazion d'animo (quanta ne comportino i tempi) e in fine una minor
dipendenza, dovrebbero far conoscere più il vero, e lasciarli tremare assai meno che gli
altri: investigati quali siano, e quali possano, e debbano essere questi, dal loro valore
argomenteremo per induzione quali siano ed esser debbano poi gli altri tutti. Questi
pochissimi, degni per certo di miglior sorte, veggono pure ogni giorno nella tirannide il
coltivatore, oppresso dalle arbitrarie gravezze, menare una vita stentata e infelice. Una
gran parte di essi ne veggono estrarre per forza dai loro tugurj per portar l'armi; e non
già per la patria, ma pel loro e suo maggior nemico, e contro a se stessi: veggono
costoro il popolo delle città, l'una metà mendico, ricchissimo l'altra, e tutto
egualmente scostumato; veggono inoltre, la giustizia venduta, la virtù dispregiata, i
delatori onorati, la povertà ascritta a delitto, le cariche e gli onori rapiti dal vizio
sfacciato, la verità severamente proscritta, gli averi la vita l'onore di tutti nella
mano di un solo; e veggono essere incapacissimo di tutto quel solo, e lasciare egli poi il
diritto di arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno incapaci, e più tristi:
tutto ciò veggono palpabilmente ogni giorno quei pochi enti pensanti, che la tirannide
non ha potuti impedire; e in ciò vedere, sommessamente sospirando, si tacciono. Ma,
perché si tacciono? per sola paura. Nella tirannide, è delitto il dire, non meno che il
fare. Da questa feroce massima dovrebbe almeno risultarne, che in vece di parlare, si
operasse; ma (pur troppo!) né l'uno né l'altro si ardisce.
Se dunque a tal segno avviliti sono i migliori, quali saranno in un tal governo poi gli
altri? qual nome inventar si dovrà per distinguerli da coloro, che nei ragguardevoli
antichi governi cotanto illustravano il nome di uomo? Si affaticano tutto dì gli
scrittori per dimostrarci, che il caso e le circostanze ci vogliono sì fattamente diversi
da quelli; ma nessuno ci insegna in qual modo si possano dominare il caso e le
circostanze, né fino a qual punto questa diversità intendere e tollerare si debba. Si
affaticano per altra parte i tiranni, e i loro tanti fautori più vili di essi, nel
persuaderci che noi non siamo più di quella generosa specie antica. E, certo, finché
sopportiamo il loro giogo tacendo, ella è quasi minore infamia per noi il credere
piuttosto in ciò ai tiranni, che non ai moderni scrittori.
Tutti dunque, e buoni e cattivi, e dotti e ignoranti, e pensatori e stupidi, e prodi e
codardi; tutti, qual più qual meno, tremiamo nella tirannide. E questa è per certo la
vera universale efficacissima molla di un tal governo; e questo è il solo legame, che
tiene i sudditi col tiranno.
Si esamini ora, se il timor del tiranno sia parimente la molla del suo governare, e il
legame che lo tiene coi sudditi. Costui, vede per lo più gli infiniti abusi dello informe
suo reggere; ne conosce i vizj, i principj distruttivi, le ingiustizie, le rapine, le
oppressioni; e tutti in somma i tanti gravissimi mali della tirannide, meno se stesso.
Vede costui, che le troppe gravezze di giorno in giorno spopolano le desolate provincie;
ma tuttavia non le toglie; perché da quelle enormi gravezze egli ne va ritraendo i mezzi
per mantenere l'enorme numero de' suoi soldati, spie, e cortigiani; rimedj tutti (e
degnissimi) alla sua enorme paura. E vede anch'egli benissimo, che la giustizia si
tradisce o si vende; che gli uffizj e gli onori più importanti cadono sempre ai peggiori;
e queste cose tutte, ancorché ben le veda, non le ammenda pur mai il tiranno. E perché
non le ammenda? perché, se i magistrati fossero giusti, incorrotti, ed onesti, verrebbe
tolto a lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le sue private vendette sotto il nome di
giustizia. Ne avviene da ciò, e da altre simili cose, che dovendo egli mal grado suo, e
senza avvedersene quasi, reputare se stesso come il primo vizio dello stato, traluce
all'intelletto suo un fosco barlume di verità che gl'insegna, che se alcuna idea di vera
giustizia si venisse a introdurre nel suo popolo, la prima giustizia si farebbe di lui:
appunto perché nessun altr'uomo (per quanto sia egli scellerato) non può mai in una
qualunque società nuocere sì gravemente ed a tanti, come può nuocere impunemente ogni
giorno quest'uno nella propria tirannide. Ciascun tiranno dunque, al solo nome di vera
giustizia, trema: ogni vero lume di sana ragione gli accresce il sospetto; ogni verità
luminosa lo adira; lo spaventano i buoni; e non crede mai sicuro se stesso, se egli non
affida ogni più importante carica a gente ben sua; cioè venduta e simile a lui, e
ciecamente pensante al suo modo: il che importa, una gente più assai ingiusta, più
tremante, e quindi più crudele, e più mille volte opprimente, ch'egli nol sia.
"Ma, un tal principe si può dare" (dirammi taluno) "il quale ami gli
uomini, aborrisca il vizio, e non lasci trionfare né rimuneri altro, che la sola
virtù". Al che rispondo io, col domandare: "Può egli esistere un uomo buono ed
amico degli uomini, il quale, non essendo stupido, si creda pure, o finga di credersi, per
diritto divino, superiore assolutamente non solo ad ogni individuo, ma alla massa di tutti
riuniti; e stimi non dover dar conto delle opere sue e di sé, fuorché a Dio?" Io mi
farò a credere che un tal ente possa essere un uomo buono, allor quando avrò visto un
solo esempio, per cui, avendo costui voluto veramente il maggior bene di quegli altri enti
suoi, ma di una minore specie di lui, egli avrà prese le più efficaci misure per
impedire che in quella sua società dove egli solo era il tutto, e gli altri tutti il
nulla, un qualche altro eletto da Dio al paro di lui, non potesse d'allora in poi
commettere illimitatamente e impunemente quel male stesso che egli sapea certamente
essersi commesso in quello stesso suo stato prima che ei vi regnasse; e che egli
certamente sapea, attesa la natura dell'uomo, dovervisi poi commettere di bel nuovo dopo
il suo regno. Ma, come potrà egli chiamarsi buono quell'uomo, che dovendo e potendo fare
un così gran bene a un sì fatto numero d'uomini, pure nol fa? E per qual altra ragione
nol fa egli, se non perché un tal bene potrebbe diminuire ai suoi venturi figli o
successori del suo illimitato orribil potere, del nuocere con impunità? E si noti di
più, che costui potrebbe con un tal nobile mezzo acquistare a se stesso, in vece di
quell'infame illimitato potere di nuocere ch'egli avrebbe distrutto, una immensa e non mai
finora tentata gloria; e la più eminente che possa cadere mai nella mente dell'uomo; di
avere, colle proprie legittime privazioni, stabilita la durevole felicità di un popolo
intero. Ora, ch'è egli dunque codesto buon principe, di cui ci vanno ogni giorno
intronando gli orecchi la viltà ed il timore? un uomo, che non si reputa un uomo; (ed
infatti non lo è; ma in tutt'altro senso ch'ei non l'estima) un ente, che forse vuole il
bene del corpo degli altri, cioè che non siano né nudi, né mendici; ma, che volendoli
ciecamente obbedienti all'arbitrio d'un solo, necessariamente li vuole ad un tempo e
stupidi, e vili, e viziosi, e assai men uomini in somma che bruti. Un tale buon principe
(che buono altramente non può esser mai chiunque possiede una usurpata, illegittima,
illimitata autorità) potrà egli giustamente da chi ragiona chiamarsi meno tiranno che il
pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall'uno come dall'altro ridondano? e, come
tale, si dovrà egli meno abborrire da chi conosce e sente il servaggio? Il conservare, il
difendere ad ogni costo, il reputare come la più nobile sua prerogativa lo sterminato
potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno imperdonabil delitto agli occhi di
tutti, ancorché pure chi è reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E si può
egli creder mai, che codesto sognato buon principe possa andare esente dalla paura,
poiché egli pure persiste nel rimanere, per via della forza, maggior delle leggi? E può
egli costui, più che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura, poich'essi
all'ombra di leggi in nulla sottoposte a soldati, non possono securamente mai ridersi di
niuno de' suoi assoluti capricci, che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo
sacro di legge? Io crederei all'incontro, che per lo più quei tiranni che hanno da natura
una miglior indole, riescano, quanto all'effetto, i peggiori pel popolo. Ed eccone una
prova. Gli uomini buoni suppongono sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo
più niente affatto conoscono gli uomini, presi universalmente; ma niente affatto poi
certamente conoscono quelli che non vedono mai, e pochissimo quelli che vedono. Ora, non
v'ha dubbio, che gli uomini che si accostano a loro son sempre i cattivi, perché un uomo
veramente buono sfuggirà di continuo, come un mostro, la presenza d'ogni altro uomo, la
cui sterminata autorità, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa, può anche per
l'influenza dell'esempio e della necessità, costringerlo a cessar di esser buono. Ne
avviene da ciò, che al tiranno cattivo accostandosi i cattivi uomini, vi si fanno l'un
l'altro pessimi; ma i ribaldi accostandosi all'ottimo tiranno, si fingono allora buoni, e
lo ingannano. E questo accade ogni dì; talché la tirannide per lo più non risiede nella
persona del tiranno, ma nell'abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla
necessaria tristizia de'cortigiani. Ma, dovunque risieda la tirannide, pe' miseri sudditi
la servitù riesce pur sempre la stessa; e anzi, più dura riesce per l'universale sotto
il tiranno buono, ancorché forse alquanto meno crudele riesca per gl'individui.
Il tiranno buono forse non trema da principio in se stesso, perché la coscienza non lo
rimorde di nessuna usata violenza; o, per dir meglio, egli trema assai meno del reo: che
infin ch'egli tiene un'autorità illimitata, ch'egli benissimo sa (per quanto ignorante
egli sia) non essere legittima mai, non si può interamente esimere dalla paura. Ed in
prova, per quanto sia pacifico e sicuro al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i
soldati al di dentro. Ma, anche supponendo che il mite tiranno non tremi egli stesso,
tremano pur sempre in nome di lui per se stessi quei pochi pessimi che, usurpata sotto
l'ombre del nome suo l'autorità principesca, la esercitano. Quindi la paura vien sempre
ad essere la base, la cagione, ed il mezzo di ogni tirannide, anche sotto l'ottimo
tiranno.
E non mi si alleghino Tito, Trajano, Marc'Aurelio, Antonino; e altri simili, ma sempre
pochissimi, virtuosi tiranni. Una prova invincibile che costoro non andavano mai esenti
dalla paura, si è, che nessuno di essi dava alle leggi autorità sovra la sua propria
persona; e non la dava egli, perché espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli
primo: nessuno di essi annullava i soldati perpetui, o ardiva sottoporgli ad un'altra
autorità che alla propria; perché convinto era che non rimaneva la persona sua
abbastanza difesa senz'essi. Ciascuno dunque di costoro era pienamente certo in se stesso,
che l'autorità sua era illimitata, poiché sottoporla non voleva alle leggi; e che
illegittima ell'era, poiché sussistere non potea senza il terror degli eserciti. Domando,
se un tale ottimo tiranno si possa dagli uomini reputare e chiamare un uomo buono? colui,
che trovandosi in mano un potere ch'egli conosce vizioso, illegittimo, e dannosissimo, non
solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non imprende almeno (potendolo pur fare con
laude e gloria immensa) di spogliarne coloro che verran dopo lui: gente, a cui, per non
esserne essi ancora al possesso, nulla affatto si toglie coll'impedir loro quella
usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita da quei tiranni che figli non
lasciano. Né sotto Tito, Trajano, Marc'Aurelio, e Antonino, cessava la paura nei sudditi.
La prova ne sia, che nessuno dei sudditi ardiva francamente dir loro, che si facessero
(quali esser doveano) minori delle leggi, e che la repubblica restituissero.
Ma facil cosa è ad intendersi perché gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a
codesti virtuosi tiranni; e nel dire, che se gli altri tutti potessero ad essi
rassomigliarsi, il più eccellente governo sarebbe il principato. Eccone la ragione.
Allorché una paura è stata estrema e terribile, il trovarsela ad un sol tratto scemata
dei due terzi, fa sì, che il terzo rimanente si chiama e si reputa un nulla. Qual ente è
egli dunque costui, che dalla sola sua spontanea e libera benignità possa e debba
dipendere assolutamente la felicità o infelicità di tanti e tanti milioni di uomini?
Costui, può egli essere disappassionato interamente? egli sarebbe stupido affatto. Può
egli amar tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non essere ingannato mai? può egli
aver la possanza di far tutti i mali, e non ne fare pur mai nessunissimo? può egli, in
somma, reputar sé di una specie diversa e superiore agli altri uomini, e con tutto ciò
anteporre il bene di tutti al ben di se stesso?
Non credo che alcun uomo al mondo vi sia, che volesse dare al suo più vero e
sperimentato amico un arbitrio intero sopra il suo proprio avere, su la propria vita, ed
onore; né, se un tal uom pur ci fosse, quel suo verace amico vorrebbe mai accettare un
così strano pericoloso e odioso incarico. Ora, ciò che un sol uomo non concederebbe mai
per sé solo al suo più intimo amico, tutti lo concederebbero per se stessi, e pe' lor
discendenti, e lo lascierebbero tener colla viva forza, da un solo, che amico loro non è
né può essere? da un solo, che essi per lo più non conoscono; a cui pochissimi si
avvicinano; ed a cui non possono neppure i molti dolersi delle ingiustizie ricevute in suo
nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta, se non istantaneamente, in pensiero ad
una moltitudine d'uomini: o, se pure una tale stupida moltitudine vi è stata mai, che
concedesse ad un solo una sì stravagante autorità, non potea essa costringer giammai le
future generazioni a raffermarla e soffrirla. Ogni illimitata autorità è dunque sempre,
o nella origine sua, o nel progresso, una manifesta e atrocissima usurpazione sul dritto
naturale di tutti. Quindi io lascio giudice ogni uomo, se quell'uno che la esercita può
mai tranquillamente e senza paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di poter
nuocere illimitatamente e impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni qualunque onesto
privato si riputerebbe infelicissimo di potere in simil guisa nuocere al miglior suo
amico, per dritto spontaneamente concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra
costoro verrebbe a cessare, all'incominciare della possibilità di esercitar un tal
dritto.
La natura dell'uomo è di temere e perciò di abborrire chiunque gli può nuocere,
ancorché giustamente gli nuoca. Ed in prova, fra que' popoli dove l'autorità paterna e
maritale sono eccessive, si ritrovano i più spessi e terribili esempj della
ingratitudine, disamore, disobbedienza, odio, e delitti delle mogli e dei figli. Quindi
è, che il nuocere giustamente a chi male opera, essendo nelle buone repubbliche una
prerogativa delle leggi soltanto; e i magistrati, semplici esecutori di esse, elettivi
essendovi ed a tempo; nelle buone repubbliche si viene a temer molto le leggi, senza punto
odiarle, perché non sono persona; si viene a rispettarne semplicemente gli esecutori,
senza moltissimo odiarli, perché troppi son essi, e tuttora si vanno cangiando; e si
viene finalmente a non odiar né temere individuo nessuno.
Ma all'incontro la immagine dell'ereditario tiranno si appresenta sempre ai popoli
sotto l'aspetto di un uomo, che avendo loro involato una preziosissima cosa, audacemente
lor nega che l'abbiano essi posseduta giammai; e tiene perpetuamente sguainata la spada,
per impedire che ritolta gli sia. Può non ferire costui; ma chi può non temerne? Possono
i popoli non si curare di ridomandargliela; ma il tiranno, non potendosi accertar mai
della lor non curanza, non si lascia perciò mai ritrovar senza spada. Non è dunque
coraggio contra coraggio, ma paura contro paura, la molla che questa usurpazione mantiene.
Ma, mentre io della PAURA sì lungamente favello, già già mi sento gridar d'ogni
intorno: " E quando fra due ereditarj tiranni si combatte, quei tanti e tanti animosi
uomini che affrontano per essi la morte, sono eglino guidati dalla paura, ovver
dall'onore?" Rispondo; che di questa specie d'onore parlerò a suo luogo; che anche
gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer nostro non conoscono onore, e che
riputiamo di sì gran lunga inferiori a noi, gli orientali anch'essi animosissimamente
combattono pe' loro tiranni, e danno per quelli la vita. Ne attribuisco in parte la
cagione alla naturale ferocia dell'uomo; al bollore del sangue che nei pericoli si
accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione, per cui nessun uomo vuol parere minore
di un altro; ai pregiudizj succhiati col latte; ed in ultimo lo attribuisco, più che ad
ogni altra cosa, alla già tante volte nominata PAURA. Questa terribilissima passione,
sotto tanti e così diversi aspetti si trasfigura nel cuor dell'uomo, ch'ella vi si può
per anco travestire in coraggio. Ed i moderni eserciti nostri, nei quali vengono puniti di
morte quelli che fuggono dalla battaglia, ne possono fare ampia fede. Questi nostri eroi
tiranneschi, che per pochi bajocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltà,
appresentati dai loro condottieri a fronte del nemico, si trovano avere alle spalle i loro
proprj sergenti con le spade sguainate; e spesso anche delle artiglierie vi si trovano,
affinché, atterriti da tergo, codesti vigliacchi simulino coraggio da fronte. Senza aver
molto onore, potranno dunque cotali soldati anteporre una morte non certa e onorevole ad
una infame e certissima.
Capitolo quarto
DELLA VILTÀ
Dalla paura di tutti nasce nella tirannide la viltà dei più. Ma i vili in supremo
grado necessariamente son quelli, che si avvicinano più al tiranno, cioè al fonte di
ogni attiva e passiva paura. Grandissima perciò, a parer mio, passa la differenza fra la
viltà e la paura. Può l'uomo onesto, per le fatali sue natìe circostanze, trovarsi
costretto a temere; e temerà costui con una certa dignità; vale a dire, egli temerà
tacendo, sfuggendo sempre perfino l'aspetto di quell'uno che tutti atterrisce, e fra se
stesso piangendo, o con pochi a lui simili, la necessità di temere, e la impossibilità
d'annullare, o di rimediare a un così indegno timore. All'incontro, l'uomo già vile per
propria natura, facendo pompa del timor suo, e sotto la infame maschera di un finto amore
ascondendolo, cercherà di accostarsi, d'immedesimarsi, per quanto egli potrà, col
tiranno: e spererà quest'iniquo di scemare in tal guisa a se stesso il proprio timore, e
di centuplicarlo in altrui.
Onde, ella mi pare ben dimostrata cosa, che nella tirannide, ancorché avviliti sian
tutti, non perciò tutti son vili.
Capitolo quinto
DELL'AMBIZIONE
Quel possente stimolo, per cui tutti gli uomini, qual più, qual meno, ricercando vanno
di farsi maggiori degli altri, e di sé; quella bollente passione, che produce del pari e
le più gloriose e le più abbominevoli imprese; l'ambizione in somma, nella tirannide non
perde punto della sua attività, come tante altre nobili passioni dell'uomo, che in un tal
governo intorpidite rimangono e nulle. Ma, l'ambizione nella tirannide, trovandosi
intercette tutte le vie e tutti i fini virtuosi e sublimi, quanto ella è maggiore,
altrettanto più vile riesce e viziosa.
Il più alto scopo dell'ambizione in chi è nato non libero, si è di ottenere una
qualunque parte della sovrana autorità: ma in ciò quasi del tutto si assomigliano e le
tirannidi e le più libere e virtuose repubbliche. Tuttavia, quanto diversa sia
quell'autorità parimente desiata, quanto diversi i mezzi per ottenerla, quanto diversi i
fini allor quando ottenuta siasi, ciascuno per se stesso lo vede. Si perviene ad
un'assoluta autorità nella tirannide, piacendo, secondando, e assomigliandosi al tiranno:
un popolo libero non concede la limitata e passeggera autorità, se non se a una certa
virtù, ai servigj importanti resi alla patria, all'amore del ben pubblico in somma,
attestato coi fatti. Né i tutti possono volere altro utile mai, che quello dei tutti; né
altri premiare, se non quelli che arrecano loro quest'utile. È vero nondimeno, che
possono i tutti alle volte ingannarsi, ma per breve tempo; e l'ammenda del loro errore sta
in essi pur sempre. Ma il tiranno, che è uno solo, ed un contra tutti, ha sempre un
interesse non solamente diverso, ma per lo più direttamente opposto a quello di tutti:
egli dee dunque rimunerare chi è utile a lui; e quindi, non che premiare, perseguitare e
punire debb'egli chiunque veramente tentasse di farsi utile a tutti.
Ma, se il caso pure volesse che il bene di quell'uno fosse ad un tempo in qualche parte
il bene di tutti, il tiranno nel rimunerarne l'autore pretesterebbe forse il ben pubblico;
ma, in essenza, egli ricompenserebbe il servigio prestato al suo privato interesse. E
così colui, che avrà per caso servito lo stato (se pure una tirannide può dirsi mai
stato, e se giovar si può ai servi, non liberandoli prima d'ogni cosa dalla lor servitù)
colui pur sempre dirà, ch'egli ha servito il tiranno; svelando con queste parole o il
vile suo animo, o il suo cieco intelletto. Ed il tiranno stesso, ove la paura sua, e la
dissimulazione che n'è figlia, non gli vadano rammentando che si dee pur nominare, almeno
per la forma, lo stato; il tiranno anch'egli dirà, per innavvertenza, di aver premiato i
servigj prestati a lui stesso.
Così Giulio Cesare scrittore, parlando di Giulio Cesare capitano, e futuro tiranno, si
lasciava sfuggir dalla penna le seguenti parole: Scutoque ad eum (ad Caesarem) relato
Scaevae Centurionis, inventa sunt in eo foramina CCXXX: quem Caesar, ut erat DE SE meritus
et de republica, donatum millibus ducentis, etc. Si vede in questo passo dalle parole, DE
SE meritus, quanto il buon Cesare, essendosi pure prefisso nei suoi commentarj di non
parlar di se stesso se non alla terza persona, ne parlasse qui inavvertentemente alla
prima; e talmente alla prima, che la parola de republica non veniva che dopo la parola DE
SE, quasi per formoletta di correzione. In tal modo scriveva e pensava il più magnanimo
di tutti i tiranni, allor quando non si era ancor fatto tale; quando egli stava ancora in
dubbio se potrebbe riuscir nella impresa: ed era costui nato e vissuto cittadino fino a
ben oltre gli anni quaranta. Ora, che penserà e dirà egli su tal punto un volgare
tiranno? colui, che nato, educato tale, certo di morire sul trono, se ne vive fino alla
sazietà nauseato di non trovar mai ostacoli a qualunque sua voglia?
Risulta, mi pare, da quanto ho detto fin qui; che l'ottenere il favore di un solo
attesta pur sempre più vizj che virtù in colui che l'ottiene; ancorché quel solo che lo
accorda, potesse esser virtuoso; poiché, per piacere a quel solo, bisogna pur essere o
mostrarsi utile a lui, mentre la virtù vuole che l'uomo pubblico evidentemente sia utile
al pubblico. E parimente risulta dal fin qui detto; che l'ottenere il favore di un popolo
libero, ancorché corrotto sia egli, attesta nondimeno necessariamente in chi l'ottiene,
alcuna capacità e virtù; poiché, per piacere a molti ed ai più, bisogna manifestamente
essere, o farsi credere, utile a tutti; cosa, che, o da vera o da finta intenzione ella
nasca, sempre a ogni modo richiede una tal quale capacità e virtù. In vece che il
mostrarsi piacevole ed utile a un solo potente col fine di usurparsi una parte della di
lui potenza, richiede sempre e viltà di mezzi, e picciolezza di animo, e raggiri, e
doppiezze, e iniquità moltissime, per competere e soverchiare i tanti altri concorrenti
per lo stesso mezzo ad una cosa stessa.
E quanto asserisco, mi sarà facile il provar con esempj. Erano già molto corrotti i
Romani, e già già vacillava la lor libertà, allorché Mario, guadagnati a sé i
suffragj del popolo, si facea console a dispetto di Silla e dei nobili. Ma si consideri
bene quale si fosse codesto Mario; quali e quante virtù egli avesse già manifestate e
nel foro e nel campo; e tosto si vedrà che il popolo giustamente lo favoriva, poiché
(secondo le circostanze ed i tempi) le virtù sue soverchiavano di molto i suoi vizj.
Erano i Francesi, non liberi, (che stati fino ai dì nostri non lo sono pur mai) ma in una
crisi favorevole a far nascere libertà, ed a fissare per sempre i giusti limiti di un
ragionevole principato, allorché saliva sul trono Arrigo quarto, quell'idolo dei Francesi
un secolo dopo morte. Sully, integerrimo ministro di quell'ottimo principe, ne godeva in
quel tempo, e ne meritava, il favore. Ma, se si vuole per l'appunto appurare qual fosse la
politica virtù di codesti due uomini, ella si giudichi da quello che fecero. Sully, ebbe
egli mai la virtù e l'ardire di prevalersi di un tal favore, e di sforzare con evidenza
di ragioni inespugnabili quell'ottimo re, a innalzare per sempre le stabili e libere leggi
sopra di sé e dei suoi successori? e se egli ne avesse avuto l'ardire, si può egli
presumere, che avrebbe conservato il favore di Arrigo? Dunque codesto favore di un tiranno
anche ottimo, non si può assolutamente acquistar dal suo suddito per via di vera politica
virtù; né si può (molto meno) per via di vera politica virtù conservare.
Esaminiamo ora da prima i fonti dell'autorità. I mezzi per ottenerla nelle
repubbliche, sono il difenderle e l'illustrarle; lo accrescerne l'impero e la gloria;
l'assicurarne la libertà, ove sane elle siano; il rimediare agli abusi, o tentarlo, se
corrotte elle sono; e in fine, il dimostrar loro sempre la verità, per quanto spiacevole
ed oltraggiosa ella paja.
I mezzi per ottenere autorità dal tiranno, sono il difenderlo, ma più ancora dai
sudditi che non dai nemici; il laudarlo; il colorirne i difetti; lo accrescerne l'impero e
la forza; l'assicurarne l'illimitato potere apertamente, s'egli è un tiranno volgare; lo
assicurarglielo sotto apparenza di ben pubblico, s'egli è un accorto tiranno: e a ogni
modo, il tacere a lui sempre, e sovra tutte le altre, questa importantissima verità: Che
sotto l'assoluto governo di un solo ogni cosa debb'essere indispensabilmente sconvolta e
viziosa. Ed una tal verità è impossibile a dirsi da chi vuol mantenersi il favor del
tiranno; ed è forse impossibile a pensarsi e sentirsi da chi lo abbia ricercato mai, e
ottenuto. Ma, questa manifesta e divina verità, riesce non meno impossibile a tacersi da
chi vuol veramente il bene di tutti: e impossibile finalmente riesce a soffrirsi dal
tiranno, che vuole, e dee volere, prima d'ogni altra cosa, il privato utile di se stesso.
Le corti tutte son dunque per necessità ripienissime di pessima gente; e, se pure il
caso vi ha intruso alcun buono, e che tale mantenervisi ardisca, e mostrarsi, dee tosto o
tardi costui cader vittima dei tanti altri rei che lo insidiano, lo temono, e lo
abborriscono, perché sono vivamente offesi dalla di lui insopportabil virtù. Quindi è,
che dove un solo è signore di tutto e di tutti, non può allignare altra compagnia, se
non se scellerata. Di questa verità tutti i secoli, e tutte le tirannidi, han fatto e
faranno indubitabile fede; e con tutto ciò, in ogni secolo, in ogni tirannide, da tutti i
popoli servi ella è stata e sarà pochissimo creduta, e meno sentita. Il tiranno,
ancorché d'indole buona sia egli, rende immediatamente cattivi tutti coloro che a lui si
avvicinano; perché la sua sterminata potenza, di cui (benché non ne abusi) mai non si
spoglia, vie maggiormente riempie di timore coloro che più da presso la osservano: dal
più temere nasce il più simulare; e dal simulare e tacere, l'esser pessimo e vile.
Ma, dall'ambizione nella tirannide ne ridonda spesso all'ambizioso un potere illimitato
non meno che quello del tiranno; e tale, che nessuna repubblica mai, a nessuno suo
cittadino, né può né vuole compatirne un sì grande. Perciò pare ai molti scusabile
colui, che essendo nato in servaggio, ardisce pure proporsi un così alto fine; di farsi
più grande che lo stesso tiranno, all'ombra della di lui imbecillità, o della di lui non
curanza. Risponda ciascuno a questa obiezione, col domandare a se stesso:
"Un'autorità ingiusta, illimitata, rapita, e precariamente esercitata sotto il nome
d'un altro, ottener si può ella giammai, senza inganno? Può ella esercitarsi mai, senza
nuocere a molti, e per lo meno ai concorrenti ad essa? Può ella finalmente mai
conservarsi, senza frode crudeltà e prepotenza nessuna?"
Si ambisce dunque l'autorità nelle repubbliche, perché ella in chi l'acquista fa fede
di molte virtù, e perch'ella presta largo campo ad accrescersi quell'individuo la propria
gloria coll'util di tutti. Si ambisce nelle tirannidi, perché ella vi somministra i mezzi
di soddisfare alle private passioni; di sterminatamente arricchire; di vendicare le
ingiurie e di farne, senza timor di vendetta; di beneficare i più infami servigj; e di
fare in somma tremare quei tanti che nacquero eguali, o superiori, a colui che la
esercita. Né si può in verun modo dubitare, che nella repubblica, e nella tirannide, gli
ambiziosi non abbiano questi fra loro diversi disegni. Già prima di acquistare
l'autorità il repubblicano benissimo sa che non potrà egli sempre serbarla; che non
potrà abusarne, perché dovrà dar conto di sé rigidissimo ai suoi eguali; e che
l'averla acquistata è una prova che egli era migliore, o più atto da ciò, che non i
competitori suoi. Così, nella tirannide, non ignora lo schiavo, che quella autorità
ch'egli ambisce, non avrà nessun limite; ch'ella è perciò odiosissima a tutti; che lo
abusarne è necessario per conservarla; che il ricercarla attesta la pessima indole del
candidato; che l'ottenerla chiaramente dimostra ch'egli era tra i concorrenti tutti il
più reo. Eppure codesti due ambiziosi, queste cose tutte sapendo già prima, senza punto
arrestarsi corrono entrambi del pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrà pure asserire
che l'ambizioso in repubblica non abbia per meta la gloria più assai che la potenza? e
che l'ambizioso nella tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la
infamia?
Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità. Quindi, nell'uno
e nell'altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi-ambiziosi, a cui
bastano i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui
basta il guadagno senza potenza né onori. E milita anche per costoro, nell'uno e
nell'altro governo, la stessa differenza e ragione. Gli onori nelle repubbliche non si
rapiscono coll'ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più
non vogliono onorare quell'uno, se egli non lo merita affatto; perché facendolo,
disonorano pur troppo se stessi. Gli onori nella tirannide (se onori chiamar pur si
possono) vengono distribuiti dall'arbitrio d'un solo; si accordano alla nobiltà del
sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca
obbedienza, cioè all'intera ignoranza di se stesso; al raggiro; al favore; e alcune
volte, al valore contra gli esterni nemici.
Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi
governi, sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide,
ciascuno vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno. Quindi un
titolo, un nastro, o altra simile inezia, appagano spesso l'ambizioncella d'uno
schiavicello; perché questi onorucci fan prova, non già ch'egli sia veramente stimabile,
ma che il tiranno lo stima; e perché egli spera, non già che il popolo l'onori, ma che
lo rispetti e lo tema. Nella repubblica, manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione
gli onori si cerchino; perché veramente onorano chi li riceve.
L'ambizione d'arricchire, chiamata più propriamente CUPIDIGIA, non può aver luogo
nelle repubbliche, fin ch'elle corrotte non sono; e quando anche il siano, i mezzi per
arricchirvi essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione
impunita del pubblico erario, ancorché il guadagno sia uno scopo per se stesso vilissimo,
nondimeno per questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù;
il coraggio, e la fede. L'ambizione d'arricchire è la più universale nelle tirannidi; e
quanto elle sono più ricche ed estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non
legittime da chiunque vi maneggia danaro del pubblico. Oltre questo, molti altri mezzi se
ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono i vizj del tiranno, e di chi lo
governa.
Lo scopo, che si propongono gli uomini nello straricchire, è vizioso nell'uno e
nell'altro governo; e più ancora nelle repubbliche che nelle tirannidi; perché in quelle
si cercano le ricchezze eccessive, o per corrompere i cittadini, o per soverchiar
l'uguaglianza; in queste, per godersele nei vizj e nel lusso. Con tutto ciò, mi pare pur
sempre assai più escusabile l'avidità di acquistare, in quei governi dove i mezzi ne son
men vili, dove l'acquistato è sicuro, e dove in somma lo scopo (ancorché più reo) può
essere almeno più grande. In vece che nei governi assoluti, quelle ricchezze che sono il
frutto di mille brighe, di mille iniquità e viltà, e dell'assoluto capriccio di un solo,
possono essere in un momento ritolte da altre simili brighe, iniquità e viltà, o dal
capriccio stesso che già le dava, o che rapire lasciavale.
Parmi d'aver parlato di ogni sorta d'ambizione, che allignare possa nella tirannide.
Conchiudo; che questa stessa passione, che è stata e può essere la vita dei liberi
stati, la più esecrabil peste si fa dei non liberi.
Capitolo sesto
DEL PRIMO MINISTRO
Ad consulatum non nisi per Sejanum aditus:
neque Sejani voluntas nisi scelere quaerebatur.
E fra le più atroci calamità pubbliche, cagionate dall'ambizione nella tirannide, si
dee, come atrocissima e massima, reputar la persona del primo ministro, da me nel
precedente capitolo soltanto accennata, e di cui credo importante ora, e necessarissimo,
il discorrere a lungo.
Questa fatal dignità altrettanto maggior lustro acquista a chi la possiede, quanto è
maggiore la incapacità del tiranno, che la comparte. Ma siccome il solo favore di esso la
crea; siccome, ad un tiranno incapace non è da presumersi che possa piacere pur mai un
ministro illuminato e capace; ne risulta per lo più, che costui non meno inetto al
governare che lo stesso tiranno, gli rassomiglia interamente nella impossibilità del ben
fare, e di gran lunga lo supera nella capacità desiderio e necessità del far male. I
tiranni d'Europa cedono a codesti loro primi ministri l'usufrutto di tutti i loro diritti;
ma niuno ne vien loro accordato dai sudditi con maggiore estensione e in più supremo
grado, che il giusto abborrimento di tutti. E questo abborrimento sta nella natura
dell'uomo, che male può comportare, che altri, nato suo eguale, rapisca ed eserciti
quella autorità caduta in sorte a chi egli crede nato suo maggiore: autorità, che per
altre illegittime mani passando, viene a duplicare per lo meno la sua propria gravezza.
Ma questo primo ministro, dal sapersi sommamente abborrito, ne viene egli pure ad
abborrire altrui sommamente; ond'egli gastiga, e perseguita, e opprime, ed annichila
chiunque l'ha offeso; chiunque può offenderlo; chiunque ne ha, o glie ne viene imputato,
il pensiero; e chiunque finalmente, non ha la sorte di andargli a genio. Il primo ministro
perciò facilmente persuade poi a quel tiranno di legno, di cui ha saputo farsi l'anima
egli, che tutte le violenze e crudeltà ch'egli adopera per assicurare se stesso,
necessarie siano per assicurare il tiranno. Accade alle volte, che, o per capriccio, o per
debolezza, o per timore, il tiranno ritoglie ad un tratto il favore e l'autorità al
ministro; lo esiglia dalla sua presenza; e gli lascia, per singolare benignità, le
predate ricchezze e la vita. Ma questa mutazione non è altro, che un aggravio novello al
misero soggiogato popolo. Il che facilmente dimostrasi. Il ministro anteriore, benché
convinto di mille rapine, di mille inganni, di mille ingiustizie, non discade tuttavia
quasi mai dalla sua dignità, se non in quel punto, ove un altro più accorto di lui gli
ha saputo far perdere il favor del tiranno. Ma, comunque egli giunga, ei giunge pure in
somma quel giorno, in cui al ministro è ritolta l'autorità e il favore. Allora bisogna,
che lo stato si prepari a sopportare il ministro successore, il quale dee pur sempre
essere di alcun poco più reo del predecessore; ma, volendosi egli far credere migliore,
innova e sovverte ogni cosa stabilita dall'altro, ed in tutto se gli vuole mostrare
dissimile. Eppure costui vuole, e dee volere (come il predecessore) ed arricchirsi, e
mantenersi in carica, e vendicarsi, e ingannare, ed opprimere, ed atterrire. Ogni
mutazione dunque nella tirannide, così di tiranno, che di ministro, altro non è ad un
popolo infelicemente servo, che come il mutare fasciatura e chirurgo ad una immensa piaga
insanabile, che ne rinnuova il fetore e gli spasimi.
Ma, che il ministro successore debba esser poi di alcun poco più reo dell'antecessore,
colla stessa facilità si dimostra. Per soverchiare un uomo cattivo accorto e potente,
egli è pur d'uopo vincerlo in cattività e accortezza. Un ministro di tiranno per lo più
non precipita, senza che alcuno di quelli che direttamente o indirettamente erano autori
della sua rovina, a lui non sottentri. Ora, come seppe egli costui atterrare quei tanti
ripari, che avea fatti quel primo per assicurarsi nel seggio suo? certamente, non per
fortuna lo vinse, ma per arte maggiore. Domando: "Se nelle corti una maggior arte
possa supporre minori vizj in chi la possiede e felicemente la esercita".
La non-ferocia dei moderni tiranni, che in essi non è altro che il prodotto della
non-ferocia dei moderni popoli, non comporta che agli ex-ministri venga tolta la vita, e
neppure le ricchezze, ancorch'elle siano per lo più il frutto delle loro iniquità e
rapine: né soffrono costoro alcun altro gastigo, che quello di vedersi lo scherno e
l'obbrobrio di tutti, e massime di quei vili che maggiormente sotto essi tremavano. Alcuni
di questi vicetiranni smessi, hanno la sfacciataggine di far pompa di animo tranquillo
nella loro avversa fortuna; e ardiscono stoltamente arrogarsi il nome di filosofi
disingannati. E costoro fanno ridere davvero gli uomini savj, che ben sapendo cosa sia un
filosofo, chiaramente veggono ch'egli non è, né può essere mai stato, un vicetiranno.
Ma perderei le parole, il tempo, e la maestà da un così alto tema richiesta, se
dimostrar io volessi che un ente cotanto vile ed iniquo non può né essere stato mai, né
divenire, un filosofo. Proverò bensì, (come cosa assai più importante) che un primo
ministro del tiranno non è mai, né può essere, un uomo buono ed onesto: intendendo io
da prima per politica onestà e vera essenza dell'uomo, quella per cui la persona pubblica
antepone il bene di tutti al bene d'un solo, e la verità ad ogni cosa. E, nell'avere io
definita la politica onestà, parmi di aver largamente provato il mio assunto. Se il
tiranno stesso non vuole, e non può volere, il vero ed intero ben pubblico, il quale
sarebbe immediatamente la distruzione della sua propria potenza, è egli credibile che lo
potrà mai volere, ed operare, colui che precariamente lo rappresenta? colui, che un
capriccio ed un cenno aveano quasi collocato sul trono, e che un capriccio ed un cenno ne
lo precipitano?
Che il ministro poi non può essere privatamente uomo onesto, intendendo per privata
onestà la costumatezza e la fede, si potrebbe pur anche ampiamente provare, e con ragioni
invincibili: ma i ministri stessi, colle loro opere, tutto dì ce lo provano assai meglio
che nessuno scrittore provarlo potrebbe con le parole. Si osservi soltanto, che non esiste
ministro nessuno che voglia perder la carica; che niuna carica è più invidiata della
sua; che niun uomo ha più nemici di lui, né più calunnie, o vere accuse, da combattere:
ora, se la virtù per se stessa possa in un governo niente virtuoso resistere con una
forza non sua al vizio, al raggiro, e all'invidia, ne lascio giudice ognuno.
Dalla potenza illimitata del tiranno trasferita nel di lui ministro, si viene a
produrre la prepotenza; cioè l'abuso di un potere abusivo già per se stesso. Crescono la
potenza e l'abuso ogniqualvolta vengono innestati nella persona di un suddito, perché
questo tiranno elettivo e casuale si trova costretto a difendere con quella potenza il
tiranno ereditario e se stesso. Una persona di più da difendersi, richiede
necessariamente più mezzi di difesa; e un'autorità più illegittima, richiede mezzi più
illegittimi. Perciò la creazione, o l'intrusione di questo personaggio nella tirannide,
si dee senza dubbio riputare come la più sublime perfezione di ogni arbitraria potestà.
Ed eccone in uno scorcio la prova. Il tiranno, che non si è mai creduto né visto
nessun eguale, odia per innato timore l'universale dei sudditi suoi; ma non ne avendo egli
mai ricevuto ingiurie private, gl'individui non odia. La spada sta dunque, fin ch'egli
stesso la tiene, in mano di un uomo, che per non essere stato offeso, non sa cui ferire.
Ma, tosto ch'egli cede questo prezioso e terribile simbolo dell'autorità ad un suddito,
che si è veduto degli eguali, e dei superiori; ad uno, che, per essere sommamente iniquo
ed odioso, dee sommamente essere odiato dai molti e dai più; chi ardirà mai credere
allora, o asserire, o sperare che costui non ferisca?
(continua...)
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