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Il "non possumus" dello Stato di Gustavo Zagrebelsky* Perchè la presa di posizione del giornale della Cei costituisce un inaccettabile vulnus agli accordi concordatari. L’EDITORIALE di Avvenire di martedì scorso ha il tono di una "nota
diplomatica", contenente un memorandum e un ultimatum, il tono
cioè di atti di natura ufficiale, nei rapporti tra Stato e Stato e, come
tale, deve essere valutato parola per parola, tanto più in quanto la
diplomazia vaticana è di solito maestra di cautela e sottigliezze. «Per questi motivi – si legge - se il testo che in queste ore circola come
indiscrezione fosse sostanzialmente confermato, noi per lealtà dobbiamo fin
d’ora dire il nostro non possumus. Che non è in alcun modo un gesto
di arroganza, piuttosto è consapevolezza di ciò che dobbiamo - per servizio
di amore – al nostro Paese» e «indicazione franca e disarmata di uno
spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana».
Si incomincia con Pietro e Paolo (Atti 4, 20) che, diffidati dal Sinedrio di
non parlare né insegnare in nome di Gesù, risposero: « Non possumus
non parlare di ciò che vedemmo e udimmo». Si dice poi che nel nonpossumus
si siano trincerati Clemente VII, il papa che negò il divorzio di Enrico
VIII da Caterina d’Aragona; Pio IX che si oppose al ritorno a casa di un
bimbo ebreo, nel famoso e crudele "caso Mortara"; ancora Pio IX che rifiutò
di partecipare alla coalizione anti-austriaca al tempo del Risorgimento e
non accolse l’ipotesi di un’occupazione pacifica di Roma da parte dei
piemontesi; il cardinale Antonelli, che escluse il riconoscimento papale di
Roma capitale d’Italia. Tutto questo è chiaro e riguarda comportamenti,
comunque li si voglia valutare storicamente, che rientrano nei loro compiti
e nelle responsabilità degli uomini di Chiesa. Ma che cos’è che "non
possono" i vescovi italiani, nella circostanza odierna? La risposta la danno
loro stessi. Non si tratta solo del diritto al dissenso circa una legge
dello Stato, diritto che nessuno contesta. Si tratta di una cosa molto
diversa: non possono non prospettare uno spartiacque, che inevitabilmente
peserà sul futuro della politica italiana. La discussione, su questo punto,
sarebbe senza costrutto. Ma qui la "indicazione" dei vescovi è del tutto
diversa: la Chiesa, attraverso un suo organo ufficiale – non un gruppo di
cittadini o deputati cattolici, nella loro autonomia, ciò che farebbe una
differenza essenziale - parla del futuro della politica italiana, parla cioè
della vita interna dello Stato e delle «inevitabili conseguenze» su di essa.
Così, viene, altrettanto inevitabilmente, messo in discussione l’altro
caposaldo dell’art. 7, quel riconoscimento di reciproca «indipendenza e
sovranità» dello Stato e della Chiesa, da cui discende l’esclusione di ogni
ingerenza interna reciproca, esclusione che è conditio sine qua non
del regime concordatario. Direi che mai, come in questo caso, nella storia
recente, i basamenti del concordato hanno traballato. Non ci si è resi conto
dell’implicazione? Se si vuole il concordato, occorre rispettare e difendere
le condizioni materiali che lo rendono possibile. Si dirà: ma qui l’ Avvenire si limita a una semplice, innocente
"indicazione" preventiva. Già, ma viene data per lealtà. Che significa
questa apparentemente innocua aggiunta? Non altro, mi pare, che un
avvertimento: non ci si venga poi a lamentare che non ve l’avevamo detto;
state in guardia per quel potrà accadere. La lealtà dell’annuncio significa
preannuncio di conseguenze perturbatrici del quadro parlamentare, in
definitiva della libertà di esercizio del mandato parlamentare e della
libera dialettica democratica. Ci sono questioni sulle quali anche da parte
dello Stato democratico dovrebbero essere detti dei non possumus. Ci
sono principi irrinunciabili di laicità e democraticità delle istituzioni
che sono non negoziabili. Ci sono casi su cui sarebbe bene che i soggetti
che le rappresentano facessero sentire una voce rassicurante per tutti,
pacata e ferma. Questo è uno di quelli. Con ogni garbo, naturalmente, e con
tutta la diplomazia necessaria, ma questo è uno di quelli. Ma che triste delusione, per chi crede in Gesù il Cristo o, semplicemente, ritiene che il messaggio cristiano sia comunque un fermento spirituale prezioso da preservare, il vedere la Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d’una partita, tentata di usare la discordia politica tra i cittadini e i suoi rappresentanti, come se fosse arma lecita delle sue battaglie. *Gustavo ZAGREBELSKY, ex Presidente della Corte costituzionale. (fonte la repubblica.it) del 21 marzo 2007 |
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