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                                                                   BERTINOTTI TRA ESKIMO E GRISAGLIA

 

 

Quel gioco di ruolo tra eskimo e grisaglia

Bertinotti sostiene che questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni. Ma c'è un limite, se non si vuole creare paura e caos

di Eugenio Scalfari

Fausto Bertinotti ha rilasciato un'intervista al 'Corriere della Sera' che l'ha pubblicata domenica 21 gennaio. È un'intervista politicamente interessante: prende posizione netta contro l'allargamento della base militare Usa a Vicenza, polemizza indirettamente ma abbastanza scopertamente con Prodi su parecchie e rilevanti questioni; al tempo stesso si augura che il suo governo duri per tutta la legislatura, anzi afferma che questa durata, di per sé, è una condizione non sufficiente ma necessaria per cambiare la società italiana, obiettivo da lui ritenuto assolutamente urgente.

Non starò a commentare i tanti aspetti politici di questa intervista, ma ce n'è uno che definirei filosofico, che voglio qui prendere in esame. L'intervistatore gli chiede ad un certo punto se sia possibile indossare al tempo stesso l'eskimo e la grisaglia, intendendo dire un atteggiamento di lotta (l'eskimo) e uno di governo (la grisaglia). La risposta è questa: "L'idea della fissità dei ruoli è una concezione sbagliata. Questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni, non delle separazioni e dell'albagia. Se si vuole cambiare la società c'è bisogno sia dell'eskimo sia della grisaglia".

C'è un'eco sessantottina in quest'immagine, quando i giovani del movimento studentesco sostenevano la necessità di abolire i ruoli e identificavano pubblico e privato. Era la rivolta contro una classe dirigente e una società incartapecorite, dove l'essenza delle persone e spesso la loro stessa dignità venivano soffocate dal ruolo ad esse assegnato: chi comanda e chi deve obbedire, l'uomo e la donna, i docenti e gli studenti, i genitori e i figli, ciascuno al suo posto con inesorabile continuità.

La lotta contro i ruoli fu la questione centrale del sessantottismo, che postulava la massima libertà e la massima eguaglianza come esiti positivi da ottenere, appunto, dall'azzeramento del 'ruolismo'. Di qui la contestazione accanita degli studenti nei confronti dei loro professori, dei figli contro l'autorità genitoriale, dei lavoratori contro i datori di lavoro e in generale contro l'ipocrisia della società borghese e contro il potere, culmine di tutti i ruoli e della loro schiacciante fissità.

La visione era seducente. Metteva in discussione alcune gravi lacune della democrazia rappresentativa, si rifaceva alla partecipazione diretta di tutti i cittadini al governo della società con evidenti riferimenti all'esperienza della Comune di Parigi del 1871 e alle tesi rivoluzionarie di Rosa Luxemburg che infatti fu allora una delle icone di quella rivoluzione giovanile.

Si sa come andò a finire. E non parlo qui della degenerazione violenta che coinvolse alcuni settori del movimento e imboccò la via sanguinosa e terribile degli anni di piombo, laddove l'insorgenza del Sessantotto era stata non violenta e gioiosa. Parlo invece del rapido fallimento della lotta contro i ruoli, della quale rimase come solo esito positivamente acquisito un mutamento reale nel rapporto uomo-donna che ha poi progredito e si è diffuso nella coscienza collettiva anche se resta largamente incompleto.

Dicevo che il movimento fallì nel suo intento principale e non solo: molti dei giovani che erano stati alla testa di quella rivoluzione virtuale rientrarono rapidamente nei ranghi ascoltando il 'rappel à l'ordre' che sempre sopraggiunge a rimettere in riga le avanguardie. Fecero carriera molti di quei giovani, proprio scalando quei ruoli che avevano vagheggiato di abbattere.

Ma torniamo a Bertinotti e alla sua teorizzazione dell'eskimo e della grisaglia.

Dicevo che c'è un'eco sessantottina in quella visione, ma c'è anche un'eco togliattiana nella tesi che fu del Pci considerato come partito di lotta e di governo. Fu definita la duplicità della linea di Togliatti e del gruppo dirigente comunista.

E fin qui siamo nella stretta politica, ma secondo me c'è anche dell'altro nella frase bertinottiana "questo è il tempo della mescolanza e delle contaminazioni"; qui si mette in gioco il concetto stesso della coerenza dell'io quando si postula che la contestazione del potere e la sua conquista e il suo esercizio possano coesistere con la stessa intensità e senza ipocrisie all'interno della coscienza individuale e di quella collettiva. Non credo che Bertinotti, nell'esprimere questa sua visione, avesse in mente anche i risvolti di carattere analitico-filosofico, ma se questo è il tempo della mescolanza e della contaminazione (e anche secondo me lo è) bisogna andare oltre il recinto troppo stretto del politichese.

Personalmente sono da tempo arrivato alla conclusione che l'io non sia affatto monolitico e che rappresenti l'usbergo della capacità riflessiva della mente. Del resto, dopo Freud, sarebbe difficile attestarsi ancora sull'icona delle monadi, chiuse e sempre eguali a se stesse.

Tuttavia trasferire la flessibilità dell'io e la sua mobilità alla funzione dei ruoli è un'operazione a perdere, da definire 'impossible mission'. Infatti è sempre fallita. Bisognerebbe chiedersene il perché.

Credo che una prima risposta possa essere questa: il ruolo soddisfa un bisogno insopprimibile di oggettività che la comunità esige come garanzia di propria certezza sulla quale costruire i suoi programmi di futuro. Tutto cambia intorno a noi e intorno a ciascuno di noi, ma non può cambiare il ruolo a capriccio di chi lo riveste senza - ove ciò accadesse - suscitare ondate collettive di insicurezza, paura, caos.

A meno che la tesi bertinottiana non sia affetta da ipocrisia, cosa che non vorrei prendere in considerazione.

(Fonte la repubblica.it)

(la repubblica di tersite 9 marzo 2007)                                                                                                  

 
eugenio scalfari
 
 

- la repubblica di tersite -