IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO SETTIMO

 

Che sciocca…

   Eppure, se davvero era così interessata ai vampiri, quella sciagurata avrebbe per lo meno potuto documentarsi al riguardo. Oppure, se si era presa la briga di scoprire le caratteristiche di quegli esseri oscuri, punti di forza e di debolezza compresi, allora era semplicemente un’incosciente. O una sciocca, sì. Perché, altrimenti, farsi gabbare così facilmente? Tanto valeva entrare in quella casa con un cartello al collo con su scritto ‘Mordimi’. Bah…

   Scosse il capo sospirando e passandosi una mano nuda e ghiacciata fra i capelli corti, zuppi di pioggia: ora gli sarebbe toccato andare a salvarli, lei e quel tizio da naso lungo che l’aveva seguita e che, a prima vista, sembrava senza dubbio alcuno il più prudente dei due. Bene, si disse cominciando quindi a muovere i primi passi verso la lugubre villa e sorridendo sempre più divertito dalla piega che stavano prendendo gli eventi, mettiamoci all’opera.

 

Se esternamente la casa sembrava cadente e abbandonata, una volta varcata la soglia di ingresso chiunque sarebbe rimasto a dir poco sbigottito per la meraviglia dell’arredamento. E fu con occhi sbarrati e labbra socchiuse che, rapiti da tanta fastosità, sia Nami che Usop si guardarono attorno: il prezioso mobilio antico, risalente per lo più all’epoca della grande Elisabetta, sembrava quasi nuovo, e le pesanti tende di velluto rosso che tappezzavano le finestre, che dall’esterno risultavano polverose e incrinate, ricadevano con delizia ai lati di una tenda più chiara e leggera che copriva i vetri. Le poltrone di quello che doveva essere il salotto del piano inferiore erano grandi, massicce, e anch’esse ricoperte di velluto trapuntato d’oro. Su un tavolino centrale, facevano bella mostra delle rose di un intenso color scarlatto che ricordava non poco quello del sangue vivo, ed erano state sistemate in un grosso vaso di vetro trasparente, senza collo e dalla pancia molto pronunciata.

   Addossati alle pareti vi erano poi decine di ritratti, tutti di famiglia, a quanto si poteva leggere dalle targhette applicate sul bordo inferiore delle grosse cornici lignee, tinte d’oro. Su ogni targhetta vi erano incisi il nome e le date di nascita e di morte del soggetto del quadro.

   Per un attimo, forse per via dell’improvviso calore che aveva investito il suo viso, ancora mezzo congelato per la rigida temperatura dell’acqua che scrosciava con insistenza giù dal cielo scuro, a Nami parve di risvegliarsi da una sorta di torpore che le aveva invaso i sensi, e ai suoi occhi balzò istantaneamente un piccolo, ma non per questo indifferente particolare: la morte dell’ultimo discendente di quella casata, presumibilmente il padre di Shanks The Red, risaliva a poco più di duecento anni prima.

   Fu come un flash, breve, perché, un secondo dopo, una mano bianchissima le pose davanti agli occhi un calice di cristallo finissimo e pieno fino a metà di un liquido rosso anche più delle rose che erano state poste sul tavolino centrale. “Del vino per scaldarvi?” fu la bella, seducente voce che la distolse da qualunque altro pensiero.

   “Grazie…” rispose lei, senza in realtà pronunciare quella parola, e si mosse per prendere la coppa di vino. Nello sfiorare le dita bianche del padrone di casa, però, ebbe un fremito: più gelide dell’aria e della pioggia di fuori. Fu a quel punto che, dopo un nuovo stato di inspiegabile sonnolenza dei sensi, Nami si risvegliò del tutto. Sorrise forzatamente al suo ospite, evitando tuttavia di guardarlo direttamente negli occhi, e voltò il viso verso il camino nel quale scoppiettava allegro un fuoco caldo ed invitante, fuoco presso il quale già il suo socio si era accomodato per riscaldarsi le mani e far sciogliere i geloni.

 

“Abbiamo ospiti, pare…” pronunciò con voce rauca l’uomo alto dalla zazzera bionda che aveva scrutato dall’alto delle scale l’ingresso dei due nuovi arrivati.

   “Chi sono?” domandò una donna, alle sue spalle.

   “Un nasone, roba di poco conto, ed una ragazza” continuò lui. “Lei sì che ne vale la pena… E’ bellissima”

   “Più di me?” scherzò l’altra, affiancandosi al giovane, e mostrando i capelli corvini acconciati come per una festa, i generosi seni messi in mostra da una profonda scollatura.

   “Chiama il cucciolo”

 

 

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