IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO TREDICESIMO

 

Dal modo in cui la sua compagna d’affari digrignava i denti, si poteva intuire che non era propriamente di buon umore, quel giorno. Beh, non che fosse una novità vederla facilmente irritabile, ma l’ordine del professore aveva portato i suoi nervi al limite; colpa sua che aveva chiesto spiegazioni, fece spallucce Usop, seguendola con fare docile, le mani in tasca. Lui, invece, era sollevato dalla piega che avevano preso gli eventi. Anzi, a dirla tutta, era contento. Ma, com’è logico che sia, si guardava bene dal mostrare il menomo sorriso: avrebbe rischiato la vita peggio che coi vampiri, se Nami se ne fosse accorta.

   Sbuffante, borbottante ed imprecante, la rossa procedeva con passo spedito e nervoso verso la polverosa via in cui il dottor Hillk li aveva indirizzati quello stesso giorno, dandogli appena il tempo di riprendersi dalla nottataccia. Erano quasi le cinque del pomeriggio, e l’alto, grosso orologio, costruito il secolo addietro, di lì a meno di dieci minuti avrebbe sommerso la città dei suoi rumorosi rintocchi, soffocando tutto il resto. Non pioveva quel giorno, ma il cielo era comunque coperto da un’enorme cappa di nembi color piombo; neanche quella era una novità, non a Londra. Anzi, sembrava quasi che il cielo e l’umore della bella Miss Nami fossero sempre del medesimo colore: nero.

   Quando arrivarono davanti alla pensione presso la quale alloggiava il loro uomo, la fanciulla non si curò minimamente di fingere il proprio disgusto: un luogo a dir poco squallido. Attraversarono la strada lasciando passare una vettura trainata da un baio, e salirono in fretta i sudici gradini che portavano all’ingresso della pensione.

   Venne ad aprire un omone dalla lunga e vistosa parrucca cotonata di fresco, da tempo passata di moda, tra l’altro. “I signori desiderano?”

   “Staremmo cercando una persona, signore…” cominciò Usop, con voce incerta, cercando di non far caso agli sbuffi e all’impazienza della propria collega. “Alloggia da voi, per caso, Roronoa Zoro?”

   “Chi lo cerca?” domandò l’energumeno, il cipiglio corrucciato: non parevano gendarmi né imbroglioni, ma meglio andarci cauti. Conosceva il proprio ospite, e sapeva bene quanto poco scostante egli fosse: non mancava mai, infatti, di lasciar detto che non c’era per nessuno.

   “Ecco, siamo due… come dire… siamo dei suoi colleghi, ecco” spiegò il nasone, sentendo Nami borbottare qualcosa di osceno alle sue spalle.

   “Mi rincresce, ma Mr Roronoa non è in casa” rispose l’omone, che si chiamava Igaram e che ora li guardava incuriosito: si era sempre chiesto che diamine di lavoro facesse lo scansafatiche del secondo piano, e mai una sola volta era riuscito a saperne qualcosa. Per quel che gli importava… Pagava l’affitto - anche se quasi sempre in ritardo - e tanto bastava sia a lui che alla sua consorte, la vera proprietaria della pensione. “Non preoccupatevi, riferirò di voi non appena sarà rientrato” assicurò ai due visitatori. “Buona serata” e così dicendo, chiuse la porta.

   “Accidenti, che sfortuna!” esclamò Usop, innervosito dal contrattempo, mentre cominciava a scendere i primi gradini e dal cielo scendevano le prime gocce di pioggia. “E adesso come faremo a…”

   “Aprite!” urlò invece Nami, battendo con violenza il batacchio di ferro scuro sul battente.

   “Nami, che diavolo fai?! Ha detto che non c’è!”

   “Che ci sia o non ci sia, non fa alcuna differenza!” replicò lei, testarda. “La cosa non dà il diritto a quell’armadio di lasciarci in mezzo alla strada proprio ora che inizia a piovere! Lo aspetteremo qui! Aprite, ho detto!” tornò quindi a chiamare, attirando l’attenzione di tutto il vicinato.

   Si sentì un gran vociare dietro il portone, l’infrangersi di un qualcosa, come una porcellana, e di nuovo fu aperta loro la soglia dell’edificio. “Che volete ancora?!” chiese ansimante Igaram, un evidente ematoma sullo zigomo, fresco fresco, oltretutto.

   “Siete un grandissimo maleducato!” attaccò immediatamente Nami, immusonita. “Fuori piove e fa freddo, e voi cosa fate? Ci lasciate fuori la porta!” urlò isterica. “Ci credo che quel bell’imbusto del vostro inquilino abita qui! Siete fatti della stessa pasta!”

   “Ma veramente…” tentò di aprir bocca l’omone, messo subito a tacere da un’altra ondata di insulti.

   “Sapete cosa ne penso? Penso proprio che voi non sappiate trattare con la gente!”

   “Nami, cosa…?!” si scandalizzava Usop che, poveretto, prese a vergognarsi come un ladro per l’essersi presentato insieme a lei.

   “O forse devo credere che trattiate così solo i conoscenti di quel pezzente farabutto?!” continuava la rossa, imperterrita, senza accorgersi di quel che accadeva intorno, e sovrastando il rumore della pioggia che cominciava a scendere pesantemente giù dal cielo, inzuppando i loro vestiti.

   Sì udì un tuono, in lontananza, e a questo fece eco la voce bassa e forte di una donna: “Che succede là fuori?! Possibile che tu non li abbia ancora invitati ad entrare?!”

   “Ma, cara…” iniziò timidamente Igaram, rivolgendosi all’interno della palazzina, succube come sempre di sua moglie. “Sono amici di Mr Roronoa!”

   “Quello ci deve ancora due mesi!” ululò la donna, spuntando di corsa dalla penombra della stanza e affiancando il marito, le mani sulle anche e lo sguardo severo.

   Usop spalancò la bocca e rimase di pietra: era spiccicata a suo marito, parruccone compreso. Nami, invece, non si lasciò sorprendere e rimbeccò con voce più calma: “Conoscendo il soggetto, questo non mi stupisce, signora. Tuttavia abbiamo urgente bisogno di vederlo”

   “Siete suoi creditori? Cascate male” rispose quella, squadrandola da capo a piedi. “E’ povero in canna. Dio solo sa come faccia a procurarsi il denaro per pagare quella topaia del suo appartamento: è il peggiore della nostra pensione”

   “No, signora, siamo suoi… ‘colleghi’…” mormorò lei con un moto di disgusto: non voleva mettersi allo stesso piano di quel mascalzone.

   “Oh, davvero?” s’incuriosì Terracotta, la moglie di Igaram. “E che lavoro fa?”

   “Ma come,” intervenne Usop, riacquistata parola. “non lo sapete?”

   “Non ci facciamo molto gli affari dei nostri clienti…” rispose lei. “Ci basta che sia gente onesta, e il vostro amico è sull’orlo dello sfratto, garantisco”

   “Non ci fate entrare?”

   “Voi ditemi che lavoro fa”

   “Hai appena detto che non ti interessano gli affari degli altri…” rispose una voce da basso, sulla strada, quasi sovrastata dai rintocchi del vecchio Ben che annunciava l’ora del tè. Si volsero tutti verso la figura scura e fradicia di pioggia che li osservava da chissà quanto, e tacquero. “…quindi, continua a pensare ai fatti tuoi, vecchia”.

 

 

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