IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

 

Se Nami e l’atmosfera londinesi erano a dir poco neri, costui, in qualche modo, aveva saputo superare quella tonalità. Era più che nero. Oscuro, fu il termine che attraversò fulmineamente i pensieri di Nami, prima di essere scacciato dall’aggressività di ben altri aggettivi, tra cui spiccarono alcune perle come ‘sbruffone’, ‘maleducato’ o il meno fine, ma certamente efficace, ‘puzzone’.

  Eppure magnetico. Come se cacciare i vampiri lo avesse dotato del loro stesso, magico polo attrattivo, capace di incantare ma, allo stesso tempo, di intimidire. Occhi profondi, neri, occhi che celavano segreti. E che maledicevano quella folla sulla sua strada. Non era abituato, ai contatti sociali; ed ebbe modo di mostrarlo immediatamente.

  “Richiudi quella bocca e fammi passare.” salutò lietamente Nami, evidentemente al settimo cielo all’idea di un nuovo incontro con quella graziosa e deliziosa fanciulla.

  “Stai zitto e fammi entrare!” cinguettò di rimando ella, visibilmente emozionata dal piacere di poter godere nuovamente della gentil compagnia di lui.

  “Ehm.” Usop decise che quello era il momento buono per fare il diplomatico della situazione. “Noi volevamo parlarvi…”

  “Ed io non intendo parlare con voi. Con permesso.” passò accanto a Nami, non dimenticando di scostarla con un distratto colpo di spalla, facendole quasi perdere l’equilibrio. Errore. Grosso errore.

  “Senti un po’, tu…” Lei allungò gli artigli, pronta a fargli lo scalpo, ma…

  “Senti un po’, tu!” calcando inconsapevolmente l’incipit della serie di insulti che Nami stava per rivolgere a Zoro, la signora Terracotta, al momento dimentica di quella faccenduola denominata buona creanza, afferrò Zoro per le spalle, shakerandolo come un cocktail. “Quando avresti intenzione di versare il tuo affitto, eh?”

  “Presto.” rispose mestamente il Cacciatore, tentando di mantenere un’espressione da duro pure in quella situazione leggermente imbarazzante. “Appena avrò finito un lavoro.”

  Un lavoro delizioso, sì. Quella stessa notte sarebbe tornato alla villa di quei mostri, li avrebbe bruciati vivi, impalettati, bagnati d’acqua santa… ed infine avrebbe sottratto alla loro abitazione l’occorrente per campare in modo decente per qualche altro mese.

  Avrebbe potuto rubare molto, molto di più. Sarebbe potuto diventare ricco, addirittura. Ma non erano questi gli obiettivi che si era posto da ragazzo; e quel Zoro, come Nami avrebbe presto avuto modo di apprendere, viveva in relazione dei suoi obiettivi. Come un martire difende il proprio credo sino alla morte, egli li inseguiva, indifferente al dolore, agli stenti. Indifferente alla solitudine.

  “Questi signori sono qui per parlarti di lavoro!” sibilò la signora Terracotta. “Trattali bene, e forse guadagnerai qualcosa, no?”

  Zoro, sollevato da terra dalla non troppo femminile energumena, mantenne tutto il contegno che poté, rivolgendo un ulteriore sguardo di sufficienza alla madamigella dietro di lui.

  Quella notte, in quel vicolo, gli era apparsa esattamente come ora: pericolosa, determinata, tesa come una balestra. Pronta a sfasciare il mondo, ed incapace di accettare l’idea che forse anche il mondo aveva la capacità di sfasciare lei. Tanto presuntuosa, quanto stupida.

  “Che cosa volete?” sbuffò.

  “Gettarti in pasto ai topi” spiegò Nami, quasi sbuffando nuvolette di fumo dal naso, come un temibile drago.

  “Vorremmo il vostro aiuto!” si apprestò a recuperare la conversazione Usop. “Potremmo pagarvi bene…”

  “Lo pagate? Ottimo!” la signora Terracotta lo rimise a terra, mollandogli un’incoraggiante pacca sulla schiena. “Lui accetta!”

  “DOVREMMO PURE PAGARLO?” Nami non estrasse la fidata pistola solo perché l’aveva lasciata a casa. Ed Usop dovette un cero acceso al suo santo protettore. “Non spreco i miei soldi per della feccia!”

  “Lo vedi, ragazzo? Prima o poi le buone occasioni arrivano per tutti!” proseguì nel complimentarsi la cara Terracotta, mollandogli certe altre pacche da togliergli il fiato. Una specie di messaggio morse, quei colpi sulla sua grande schiena: rifiuta questo incarico, e ti sfratto. No, anzi: prima di spello vivo, e poi ti sfratto. Zoro strinse le labbra, ben sapendo di avere poca scelta.

  “Digli che è licenziato!” proseguì la sua protesta formale Nami.

  “Ma Nami, l’ho appena assunto, non posso licenziarlo…” Usop si fece piccolo piccolo, ma stabilì che non avrebbe ceduto: già una volta, seguendo l’orgoglio e la smania di soldi di quella pazza, aveva rischiato d’essere addentato al collo da una specie di cadavere troppo vivace, e diciamo che ripetere l’esperienza non risultava certo fra le prime dieci cose che il ragazzo voleva fare entro l’anno. E nemmeno tra le prime cento. O tra le prime mille.

  “Allora quello licenziato sei TU!”

  “Siamo soci, non puoi licenziarmi…”

  E mentre Nami saltellava su un piede solo per liberare l’altro della scarpa ed usare il tacco della stessa sulla nuca del socio in affari (e licenziarlo così dalla vita), il padrone della pensione pensò di uscirsene con una proposta di pace che nessun inglese avrebbe mai osato rifiutare: un tè.

  “Farò un’eccezione alla regola, mister…” disse, unico nel gruppo che ancora chiamava quel poveraccio ‘mister’. “Ve lo porterò addirittura nel vostro appartamento, così da garantirvi una tranquilla riunione d’affari…” parve ammosciarsi, perdendo ogni traccia di contegno. “Ma vorrei pregare tutti voi di smetterla di dare spettacolo!”

  In effetti, una piccola folla di curiosi, attratta dall’isteria delle due donne, allungava ripetutamente il collo, cercando di capire cosa stesse succedendo. Esibito qualche timido sorriso di circostanza, il gruppo fece timidamente ingresso alla pensione.

  Nami ed Usop, la prima disgustata dall’arredamento non certo di classe, il secondo dall’aria spaventata per l’aspetto lugubre del posto, seguirono uno sbuffante Zoro sino al suo piccolo, sporco appartamento, confortati solo dall’idea del tè caldo che presto il signor Igaram avrebbe portato loro.

 

 

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