IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO SEDICESIMO

 

Vi era stato un bambino, un tempo. Un mocciosetto dalla zazzera verde e musetto perennemente imbronciato, orfano ignorato dalla comunità, cresciuto tra gli stenti. E nell’affetto di una famiglia che, incurante del suo caratteraccio, spesso e volentieri aveva allungato lui una coperta, o un pezzo di pane; o qualche parola gentile.

  Codesta famigliola aveva una figlia: Kuina. Era una bambina con occhi vispi, intelligenti, una bambina che sarebbe dovuta nascere maschio: vestiva come un maschio, urlava come un maschio, ma, soprattutto, faceva a botte peggio che un maschio. Suo avversario preferito, manco a dirlo, era l’orfanello di cui sopra.

  Nel profondo di quel suo cuore di brontolone, Zoro l’amava. Non di un sentimento adulto, certo, ma nella sostanza sempre amore era; un giorno, quando sarebbe stato così grande da toccare il lampadario con una mano, forse le avrebbe chiesto di sposarlo. Perché no? Le giornate trascorrevano, placide, condite dalle loro risse, dai loro litigi, dalle loro interminabili sfide, dai loro giochi complici.

  Fino a che non giunse quel bastardo.

  Arrivò in paese una sera di metà ottobre: pallido, riccamente vestito, dallo sguardo antico. Un uomo come gli altri, pensò Zoro, scorgendolo passare per il sentiero. Solo che metteva la pelle d’oca.

  Lui e Kuina erano acquattati dietro quelle felci, loro rifugio segreto che gli permetteva di spiare i movimenti sulla strada; cosa vi fosse da spiare, non si sapeva, eppure entrambi trovavano cosa molto speciale l’avere quel luogo tutto per loro.

  Avevano osservato quell’uomo avanzare nella penombra della sera – il sole, senza che loro, distratti dagli scherzi, se ne fossero accorti, già aveva trovato riposo dietro alle montagne – e non seppero spiegarsi il perché rabbrividirono.

  “Non mi piace…” aveva sussurrato Kuina, la voce tremante. Non era da lei, farsi spaventare da qualcosa. O da qualcuno.

  Aveva parlato piano, pianissimo. Eppure lo straniero si era bloccato, voltando lentamente il capo verso il loro nascondiglio. Ma no, non poteva averli sentiti. Impossibile.

  “Nemmeno a me.” l’orfanello, stringendosi inconsapevolmente all’amica, quasi non aveva mosso le labbra, per pronunciare quella frase a voce così bassa.

  “Zoro, io vado a casa.” Kuina era retrocessa a carponi, strisciando fuori dai cespugli.

  “Aspetta ti accompagn…”

  E poi lo straniero aveva fatto un balzo. A Zoro era quasi sembrato di vederlo volare.

 

Non è nell’etica dei vampiri lasciare testimoni: un testimone aizza un paese, un testimone ti procura una folla inferocita pronta a seguirti con forconi e torce. E non è piacevole, soprattutto quando, magari, si ha già un gran brutto mal di testa.

  Ma quel determinato vampiro, una creatura antica quanto il mondo, non aveva saputo resistere alla tentazione: una volta dissanguata la femmina che aveva catturato, aveva rivolto un orrendo ghigno al cucciolo maschio, terrorizzandolo dei propri canini ricoperti di sangue. Dentro di sé aveva goduto, consapevole di essere appena divenuto il nuovo protagonista degli incubi di quell’umano.

  Aveva abbandonato il cadavere della piccola innanzi a lui, ed era fuggito, sazio anche per quella notte. Il piccolo tanto aveva urlato, tanto aveva pianto, stringendosi a sé quel sacco di carne dissanguato, da far accorrere l’intero paese. Non vi era stato verso di staccarlo dalla bambina, fino a che ella non era stata sepolta.

  Ora quel bambino era un uomo. Cresciuto, irrobustito, vendicativo. Il Cacciatore.

  “Nessuno di quei mostri deve sopravvivere al mio passaggio. “ sibilò, sordo all’ennesima supplica di Usop.

  Nami, seduta sull’angolo di una a dir poco sudicia sedia, lo scrutò con maggiore attenzione: vedeva nei suoi occhi lo stesso furore omicida che, paradossalmente, aveva letto anche in quelli di Shanks il Rosso; non poi così diversi, il Cacciatore e le sue Prede.

  “Capisco la vostra posizione… etica?” intervenne infine, interrompendo con un brusco cenno del capo lo strampalato discorso di Usop. “Ma non dimenticate che non intendiamo graziare nessun vampiro; solo… rimandare la sua esecuzione.”

  “Oh, sì, sì!” Usop, grato, colse la palla al balzo. “Dopo che il dottore avrà eseguito i suoi esperimenti, voi potrete impalettarlo con comodo! Basterà solo qualche giorno…”

  “Non ho tempo da perdere!” scattò Zoro.

  “Nemmeno io!” abbaiò Nami.

  Vi fu uno sguardo di fuoco tra la Milady ed il buzzurro. Entrambi mantennero la propria posizione, disposti a lacrimare come dannati, pur di non battere le palpebre. Usop, diplomatico non per vocazione ma per necessità, sospirò sconsolato.

  “Voi avete bisogno di soldi. Noi abbiamo bisogno di voi.” spiegò per la ventesima volta. “Aiutateci a catturare uno di quei mostri, e divertitevi con il resto del gruppo, no?”

  “Potrei dar fuoco alla casa, mentre aspetto la fine degli esperimenti del dottore.” convenne miracolosamente Zoro, ponderando finalmente gli aspetti positivi della questione.

  “Assolutamente sì.” annuì felice Usop.

  “E decapitarli.”

  “Perché no?”

  “E cospargerli di acqua santa.”

  “Un toccasana.”

  “E…”

  “Abbiamo compreso il vostro livello di sadismo, Mister.” lo fermò infine Nami.

  Il signor Igaram giunse in quel momento, portando del buon tè.

 

 

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