IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

 

Quando i suoi padroni rincasarono, la bionda domestica, condannata a vivere in un eterno incubo nonostante quella strana parvenza di affetto che il Duca pareva nutrire nei suoi riguardi, si precipitò da loro: erano zuppi d’acqua, eppure, non appena misero piede in casa, tornarono asciutti come se la pioggia non avesse mai impregnato i loro abiti e, soprattutto, le loro bellissime chiome. Era, questa, una delle magie che la povera Kaya aveva dovuto imparare a sopportare senza dare troppi segni di stupore. Uno stupore che, tuttavia, questa volta non tardò a comparire nel suo sguardo e nel suo volto pallido per la paura e per l’anemia dovuta alle ovvie ragioni che il lettore può ben immaginare da solo: quella notte non si erano limitati ad andare a caccia.

   «Rilassati, ma petit cherì» sorrise il Duca, guardandola con fare benevolo e carezzandole teneramente il viso, le dita gelide che contrastavano non poco col tepore dell’umana. L’aveva desiderata tante di quelle volte che oramai non le ricordava neanche più. Ma gli piaceva così com’era, la dolce Kaya, troppo bella per essere uccisa come gli altri, troppo pura per farne un vampiro. «Il giovanotto che vedi non è morto»

   «Non ancora» precisò con sadico piacere il biondo Sanji, che aveva portato il povero Usop – rigorosamente privo di sensi come tutti i grandi e temerari eroi – fra le braccia fino alla vecchia villa.

   «Non spaventare la nostra piccola Kaya» lo rimbrottò pazientemente l’altro, guardandolo con fare ammonitore e tornando quindi a sorridere alla domestica, gli occhi di lei che, quasi spiritati dalla paura perenne, saettavano dall’uno all’altro.

   «Il cucciolo?» domandò Robin, levandosi il mantello dalle spalle nude e alzando le iridi chiare verso la lunga ed imponente rampa di scale che occupava gran parte dell’ingresso della reggia.

   «E’ rimasto nella sua stanza, ma’am» rispose all’istante Kaya, piegandosi leggermente sulle ginocchia con fare rispettoso e chinando il capo. Anche se vampiro, provava per il ‘cucciolo’ Rufy un sentimento di pena mista a tenerezza: si trovavano pressappoco nella stessa situazione, prigionieri in un limbo dal quale avrebbero entrambi voluto fuggire quanto prima.

   «Per tutto il tempo?» insistette Robin, la voce incerta: perché?, perché il suo bambino non riusciva a capirla?

   «Per tutto il tempo, ma’am» annuì l’altra, mentre i due uomini si accomodavano nel salotto e depositavano con affettata gentilezza il loro nuovo prigioniero su uno dei loro preziosi canapé.

    Non avevano affatto intenzione di ucciderlo, al momento, anzi: volevano semplicemente vendicarsi. Crudelmente. Di lui, della sua compagna dai capelli di fiamma, e, soprattutto, di quel maledetto ficcanaso che aveva rotto loro le uova nel paniere. Robin li aveva visti insieme dalla finestra della camera da letto di Zoro, sapeva che volto avesse, sapeva chi era, vista la sua fama che correva tra gli Immortali. E Shanks, il Duca, aveva in mente grandi progetti per quei due che, ne era sicuro, di certo di lì a poco sarebbero tornati a bussare alla loro porta… o a buttarla giù, sarebbe il caso di dire, vista la baraonda della notte precedente.

 

Non si contavano di certo sulla punta di una mano, le imprecazioni e le bestemmie tirate giù quella notte nel piccolo e sudicio appartamento al secondo piano della ‘Maison Toupet’. E neanche sulla punta di due mani, né di quattro, a dirla tutta. Sì, insomma, diciamo che in quanto a blasfemia, i due cacciatori di vampiri non erano poi di molto inferiori alle loro prede. Ma questi sono dettagli, concentriamoci sulla storia.

   Una volta compreso quanto era accaduto, e, cioè, una volta trovato completamente vuoto il letto in cui avrebbe dovuto invece trovarsi Usop, la finestra della stanza spalancata, le tendine impazzite al vento, la pioggia che, entrando scrosciante e prepotente, aveva ormai formato una pozza d’acqua a terra, Zoro non volle perdere un istante di più: al diavolo i piani di quei due idioti che erano venuti a chiedere il suo aiuto, al diavolo la prudenza, al diavolo tutto e tutti: li avrebbe uccisi dal primo all’ultimo quella notte stessa. Non era legato al nasone da nessunissimo affetto in particolare, ma non sopportava i Succhiatori di Sangue e, soprattutto, non sopportava che qualcun altro dovesse morire per mano di quelle bestie immonde.

   Si tuffò nuovamente nel proprio appartamento, si rivestì, ed una volta recuperato dalla camera da letto quanto gli occorreva per quella sortita notturna nella tana del leone, si precipitò giù per le scale.

   «Aspettatemi!» si sentì chiamare alle spalle. E gettando appena una frettolosa occhiata alla fanciulla che lo seguiva come un’ombra, proseguì dritto nel suo avanzare verso la porta d’ingresso. «Cos’avete intenzione di fare?»

   «Certo che ne fate, voi, di domande stupide!» ringhiò Zoro, allungando la mano verso la maniglia e lottando ed imprecando contro tutti i chiavistelli con cui quella vecchiaccia della sua padrona di casa aveva bloccato il portone.

   «Vengo con voi» affermò Nami, decisa, affiancandosi a lui mentre finiva di allacciarsi il mantello sulle spalle, incurante di essere ancora in camicia da notte, avendo avuto a malapena il tempo di infilarsi gli stivaletti ai piedi.

   Lui imprecò per l’ennesima volta. «Mi sarete soltanto di peso»

   «Usop è mio amico, ho il dovere di aiutarlo»

   «Ma non mi dite!» la prese in giro, un ghigno per nulla divertito sul volto tirato. «Vi preoccupate di lui e non dei soldi che potreste perdere quando li ucciderò tutti?» Nami non accettò la provocazione, sforzandosi di non cedere né al panico né tanto meno all’ira. «Ve lo ripeto, mi sareste solo d’impiccio»

   «Se così sarà, siete autorizzato a lasciarmi in balia del destino e della mia incoscienza, ma ESIGO di venire con voi»

   Zoro si volse a guardarla con sguardo furente, rimanendo in silenzio a fissarla negli occhi. Vi lesse una cocciutaggine pari soltanto alla sua. «Non ditemi che non vi avevo avvertito» e così dicendo, spalancò finalmente il portone.

   Due ombre si tuffarono quindi nella coltre d’acqua, di lì a poco risucchiate ad occhio nudo dall’oscurità della notte.

 

 

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