IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO VENTITREESIMO

 

Attese ancora quasi una decina di minuti, Kaya, prima di chiudere con cautela la porta del salotto del piano superiore, quello da cui si diramavano ben tre grandi camere da letto: la prima a sinistra, destinata alla bellissima coppia di vampiri, una stanza sobria ma raffinata; la seconda, quella centrale, era quella del loro innocente cucciolo, quella in cui il povero Rufy preferiva rintanarsi in quasi ogni ora del giorno e della notte, senza far caso all’alternarsi di sole e luna in cielo; l’ultima, la più ampia, la più elegante, sontuosa, ricca d’ogni comodità, era infine la camera che accoglieva il corpo addormentato del loro Padrone.

   Con il cuore in gola, quindi, la bella domestica discese le scale per tornare al primo piano del palazzo ducale, gli occhi stanchi e arrossati per l’ennesima notte passata insonne, e lentamente si introdusse nella momentanea prigione in cui il suo Signore aveva voluto rinchiudere l’ostaggio. Un ostaggio che però, a dire il vero, non serviva più. Era stato un madornale errore, quello di tenerlo in vita, e di questo Shanks the Red se ne sarebbe reso ben presto conto. Ma d’altra parte, aveva forse avuto il tempo di far qualcosa prima dell’alba? Nulla. Tant’è che aveva dovuto persino rimandare la resa dei conti con lui, con il Cacciatore, colui che già aveva fatto strage di molti altri loro simili.

   Kaya trovò Usop in uno stato alquanto pietoso: in preda ai brividi e a diversi tic nervosi, il giovane se ne stava raggomitolato dietro una poltrona, in un angolo, a balbettare parole su parole che la ragazza non riuscì subito a cogliere. Fu solo quando gli fu vicina abbastanza che riuscì a capire: stava pregando. Avvertì l’ennesimo tuffo al cuore per la pena che quel poveretto le faceva, e, umettandosi le labbra, decise che era giunto il momento di intervenire.

   “Signore…?” chiamò quindi con voce incerta.  Non ottenendo risposta, fece un altro passo verso di lui e riprovò: “Signore, mi sentite?”

   Usop sobbalzò, certo, ma non si scompose poi troppo. “… A-ah…” annaspò, aggrappato al soffitto con le unghie delle mani e dei piedi che, per l’occasione, avevano sfondato la suola delle scarpe per compiere quel miracolo in perfetto stile felino. “… Siete voi…”

   “Signore, non abbiate paura…” cercò di incoraggiarlo l’angelo biondo – perché tale appariva agli occhi del nostro povero cacciatore di vampiri – salendo sulla poltrona e tendendogli una mano per aiutarlo a scendere da lassù. “Il sole è sorto, e fino a che non scomparirà all’orizzonte, possiamo star tranquilli: nessuno turberà più la pace di questa casa fino ad allora”

   Gli occhi pieni di lacrimoni di Usop si fissarono a quelli chiari della fanciulla. “Ma… ne siete sicura?”

   “Avete la mia parola,” annuì lei. “che nessuno oserà più sfiorarvi, signore. Anzi, è proprio per questo che…” Esitò un attimo, abbassando il tono della voce, e infine continuò con sguardo languido: “… Voglio aiutarvi a fuggire di qui”

   Il tonfo sordo di un peso morto caduto dal soffitto sulla moquette della stanza-prigione, mise in allarme la povera Kaya, che subito accorse il suo protetto.

   “Vi siete fatto male, signore?!” sibilò col cuore che le batteva all’impazzata per la paura. E quando si accorse che Usop, cascato da circa tre metri e mezzo d’altezza, era ancora vivo, anche se un po’ ammaccato, riprese: “Ho un piano, ma ho bisogno della vostra collaborazione”

   “Ma… ma perché vi date tanta pena per me?” balbettò il giovane, ormai completamente succube del bel visino della cameriera.

   “Perché non voglio che moriate come tutti gli altri» mormorò Kaya, ad un passo dal pianto. «… Né, soprattutto… che diventiate come me” e, dicendolo, gli mostrò i polsi ed il collo: vi erano impresse diverse cicatrici ancora fresche, segno che i suoi padroni l’avevano assaggiata più volte.

   Da quanto durava tutto quello?, fu ciò che si chiese Usop quando l’orrore lo assalì. Ma non fu per se stesso, questa volta, che si preoccupò, che il sangue gli gelò nelle vene, no. Fu il pensiero di quell’angelo indifeso in balia di un branco di demoni che le succhiavano la vita notte dopo notte, a farlo diventare a dir poco furibondo.

   L’afferrò per uno di quei sottili e bianchi polsi martoriati dai mostri che aveva giurato di combattere e, possibilmente, uccidere. Al diavolo la ricompensa, al diavolo le minacce di Nami: aveva finalmente trovato qualcosa per cui valesse la pena di lottare. “Venite via con me”

   “Non posso, mio buon amico, non posso!” singhiozzò Kaya, colpita da quel gesto, violento e al contempo gentile. “Posso aiutarvi a fuggire, ma non posso venire via con voi!”

   “Perché no?!” non si capacitava lui, prendendola per le spalle e scuotendola con dolcezza. “Cosa ve lo vieta, mia cara, cosa?!”

   “Se fuggo con voi, mi ritroveranno presto: e con me, anche voi tornerete ad essere in pericolo. Oh, vi scongiuro, andate via! Subito!”

   “Ma non posso lasciarvi qui, non posso!” tentava di farle capire Usop. “Con che cuore potete chiedermi di abbandonarvi in questo inferno?! Voi, un angelo!”

   Lei si aggrappò al bavero della sua giacca, la fronte contro la sua spalla. Dovette attendere di recuperare il fiato, prima di rispondere:  “Vi scongiuro… fuggite via al più presto… A me non faranno niente, se seguirete il mio piano: faremo finta che sia avvenuta una colluttazione fra voi e me, di modo che non potranno rimproverarmi di avervi lasciato scappare”

 

 

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