IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO TRENTESIMO

 

La signora Terracotta urlò.

   Era sempre stata una donna forte, caparbia, difficilmente impressionabile. Da ragazza, aveva persino vinto una sfida con dei maschiacci proprio entrando in una casa famosa per essere infestata da orribili presenze, dalla quale, come soleva ricordare con gran orgoglio, era uscita con un ghigno più che sfacciato, sbalordendo gli altri giovani.

   Eppure quella sera, quando un lampo più feroce degli altri illuminò quasi a giorno le figure cui aveva appena aperto la porta della propria abitazione, lei urlò. Quella cupa ombra, che reggeva tra le braccia una donna bianca come la luna stessa, non poteva essere umana. Eppure, sosteneva di esserlo.

   “Fatemi entrare, svelta!” ordinò il Cacciatore, non attendendo certo che lei si scostasse dalla porta: la spintonò, portando all’interno il tiepido fagotto che reggeva tra le braccia. Un fagotto il cui cuore aveva continuato a battere, costante e testardo, nonostante le gravi perdite di sangue.

   “Per l’amor del cielo” dimenticando di chiudere l’ingresso, la donna seguì Zoro per il corridoio, saltellando sgraziatamente allo scopo di osservare meglio la Nami svenuta tra le sue braccia. Lui non le badò, e lei lo seguì per le scale, sempre più agitata.. “Che cosa le è successo?”

   “State zitta” ringhiò Zoro. Aprì la porta con un poco elegante calcio, ed entrò nel proprio squallido appartamento. “Non sono in vena di conversare. Se volete rendervi utile, portatemi dell’acqua e delle bende. E poi sparite!”

   I suoi occhi brillarono di una luce a dir poco inquietante. Mrs Terracotta, la donna forte e caparbia che da bambina aveva affrontato tutta sola una terribile casa infestata, non riuscì a far altro, se non a pigolare un sì.

   Portò ciò che lui le aveva chiesto e, nuovamente fulminata da quegli occhi spaventosi, strisciò fuori, lasciandoli soli. Zoro, borbottando qualcosa sulle donne stupide che fanno stupide stupidaggini e meriterebbe solo delle morti altrettanto stupide, adagiò Nami sul letto, inzuppando le lenzuola, indeciso su quale ferita fosse la più urgente. Il respiro di lei era rapido ed un poco irregolare; ma nulla di poi così preoccupante.

   Cominciò a curarla, muovendola come se fosse una bambola in ceramica; la testa rossiccia delle donna dondolava appena, quando lui la sollevava e la spostava, mettendola su un fianco o supina, curando i tagli che ne deformavano la morbida, invitante pelle. Era bella, in fondo. Attraente, dalle forme lussuriose. Aveva già notato quei seni e quei fianchi pieni, il Cacciatore, ma non vi si era mai soffermato più di tanto, troppo impegnato com’era a non sopportarne la proprietaria. Ma ora che stava finalmente zitta, dovette ammettere che l’insieme non era affatto male. Anzi.

   “Ahi!” con questo verso di protesta lei tornò alla realtà, pronunciandolo ancora prima di risvegliarsi del tutto. Zoro, infermiere poco gentile, le afferrò il braccio che stava medicando, costringendolo all’immobilità, e proseguì caparbio il proprio lavoro. Pian piano, guidata dal dolore portato dalle poco attente cure del Cacciatore, la coscienza di Nami ritrovò la via per il suo corpo, e le palpebre di lei si sollevarono. “Siamo vivi?” mormorò come prima cosa, osservando con aria confusa Zoro. Lui annuì, aiutandola ad alzarsi a sedere. Nami contenne a stento la sensazione di vuoto e di nausea causate dalle ingenti perdite di sangue, e fu costretta ad aggrapparsi ancora una volta al suo salvatore.

   “Avete preso un bel colpo.” Ammise, privandola del sostegno e costringendola a voltarsi, per dedicare la propria attenzione ad un grosso taglio all’altezza delle scapole. “Ma siete stata fortunata: se un vetro vi avesse tagliato la gola, ora non sareste qui.”

   Nami deglutì, agitata sì da quell’osservazione, ma soprattutto agitata dal fatto di avvertire solletico laddove il fiato dell’uomo le sfiorava la pelle. Fortuna che lui era alle sue spalle, impossibilitato a vedere il diffuso rossore spargersi per le guance della donna.

   Ma anche Zoro aveva i suoi bravi problemi di self control. Il collo di lei era una curva elegante, simile a quella di un cigno, quasi invitante, e così pure la sua schiena. Egli tentò di non badare a quei particolari, cercando di concentrare tutta la propria attenzione sulla ferita da medicare. Ma infine, muovendosi come in un sogno, scese verso la spalla nuda di Nami, posandovi un bacio leggero come il battito di una farfalla.

 

Usop e Kaya spalancarono le bocche dalla sorpresa, fissando quelli che il Dottor Hillk aveva definito ‘assi nella manica’.

   “Ecco qui, caro” lui, già dimentico degli assi e degli ospiti, stava chiocciando attorno al vampiro, offrendogli una sacca rigonfia di sangue. “E’ di mucca. Sei un po’ troppo pallido, anche per i canoni della tua specie.”

   Rufy l’afferrò, sbalordito. “Sangue non umano?” mormorò, rigirandola tra le bianche dita. “Voi non capite. Non posso. Io sono un mostro.”

   “Mostro è chi si comporta come tale, figliolo.” Lui gli batté una pacca sulla spalla, con fare cordiale, e rischiò di rompersi qualche osso contro quel pezzo di marmo che era il corpo di Rufy. “Bevi, su.” Lo incoraggiò, sempre sorridendo.

 

 

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