IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO


La gamma delle emozioni umane è così vasta, così spettacolare, così meravigliosa, da risultare praticamente infinita. Così come le espressioni, unico mezzo dell’animale uomo per comunicare ai suoi simili i propri sentimenti. Ah, la ricchezza delle espressioni di un viso! Ah, la sottile perfezione del movimento di ogni singolo muscolo facciale… uno dei piccoli miracoli degli esseri umani, che dovrebbero far piangere di gioia ogni poeta che si rispetti.

   Nami, per quante doti avesse, non era certo una poetessa. E così, quando la porta fu tirata giù da un pazzo coi capelli contrari a cosucce tipo la legge di gravità, quando lei, certamente un po’ troppo svestita, fu trovata a cavalcioni sul Cacciatore ridotto a così come mamma lo aveva fatto, non pianse certo di gioia nell’ammirare l’incredibile gamma di espressioni che le si profilò davanti.
   Una biondina dall’aria malaticcia aveva gli occhi sbarrati, la bocca bianca e rosa spalancata in una O perfetta; la creatura accanto a lei forse la guardava con meraviglia, ma, a causa della massa di pelo violaceo, la donna non ne poté certo essere sicura. Il dottor Hillk, quell’idiota senza ragione di esistere, abbandonò ogni sbigottimento per restringere gli occhi a due interessate fessure, volte a studiare il fenomeno in ogni suo particolare erotico. Colui che, in uno slancio di virile volontà, aveva tirato giù la porta, aveva perduto una lente degli occhiali da sole; infine, la piccola cosa pelosa dal naso blu, era corsa nell’altra stanza, urlando qualcosa di incomprensibile e certamente di inconcludente.

   Nami, quindi, come si è detto, non pianse di commozione. Ma di rabbia.

   “FUORI DI QUI!” tuonò, bersagliandoli con ogni tipo di oggetto contundente.


   “C’è… c’è qualcuno?” balbettò il ragazzo, scendendo con gambe tremanti la lunga rampa di scale. Era giorno, pomeriggio inoltrato. E lui, rincasando solo allora da un lungo viaggio, aveva trovato la sua povera casa in pessime condizioni: la porta quasi sfondata, i mobili parzialmente distrutti. Come se, aveva ponderato, qualcosa si fosse precipitata nella sua abitazione, eliminando ogni cosa trovata sul proprio cammino.

   Seguendo la spaventosa scia di distruzione, lui era arrivato all’ingresso della cantina. Era una bella cantina, la sua, una di quelle grandi stanze sotterrane adatte a contenere numerose bottiglie di preziosi e pregiati vini. Andava molto fiero, della sua cantina. Ma ora, aveva paura di entrarvi.

   Chissà perché, poi. Va bene, forse un gruppo di vandali (forse degli ubriaconi) erano entrati in casa sua. E avevano fatto un po’ di macello, dirigendosi alla cantina. Forse volevano bere altro. Certamente, una volta saziata la loro disgustosamente volgare sete, loro erano usciti, cercando altre case da distruggere in preda alla boriosa euforia tipica di chi ha bevuto troppo. Tutto qui, c’era da stare tranquilli.

   E allora perché la lampada che lui teneva in mano, protendendola verso i gradini che aveva incominciato a discendere, tremava impercettibilmente?

   Arrivò alla fine della scalinata, illuminando come gli era possibile l’ambiente. Si diresse nel punto del muro ove vi sarebbe dovuta essere una torcia ma – come si era inconsciamente aspettato – non la trovò. Deglutì a fatica, il nostro forzato eroe, percorrendo lo spazio vuoto tra i suoi pregiati vini con la sola, tremante luce della propria lampada ad olio.

   Quindi, inciampò su qualcosa. E cadde. La lampada si sfracellò al suolo, con un rumore di vetri infranti che, paradossalmente, gli ricordò la situazione attuale dei propri nervi. Mantenendo a stento la calma, tastò il terreno, cercando di capire chi o cosa lo avesse fatto cadere.
Tessuto. Una forma lunga… una superficie fredda, più del marmo. E, scolpita in essa, un naso. Delle labbra, troppo morbide per appartenere ad una statua.

   Un cadavere.

   Perse il respiro. E gli sfuggì un singulto di terrore. Scattò all’indietro, cozzando contro uno dei mobili in legno antico – così fiero, ne era sempre stato così fiero – che bloccò la sua fuga a gambero. Mosse convulsamente una mano ed essa, con suo sommo, totale, infinito orrore, trovò un’altra forma. La forma, ne era certo, di un morbido, abbondante seno, appartenente ad un altro corpo, freddo come il primo. Urlò, annaspando nel buio.

   Poi, qualcosa lo afferrò per il collo. Qualcosa di freddo, di invincibile, di totalmente e maledettamente inumano.

   Il nostro improvvisato ed, ahimé, poco duraturo eroe urlò per l’ultima volta nella sua vita.

   Quindi, vi fu il silenzio. I vampiri, soddisfati per aver depurato il loro nuovo rifugio da ogni fastidiosa presenza umana, si riassopirono, cullati dalla morbida freddezza delle tenebre.

 

 

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