IL SAPORE DEL SANGUE
CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO
Nami, per quante doti avesse,
non era certo una poetessa. E così, quando la porta fu tirata giù da un pazzo
coi capelli contrari a cosucce tipo la legge di gravità, quando lei, certamente
un po’ troppo svestita, fu trovata a cavalcioni sul Cacciatore ridotto a così
come mamma lo aveva fatto, non pianse certo di gioia nell’ammirare l’incredibile
gamma di espressioni che le si profilò davanti. Nami, quindi, come si è detto, non pianse di commozione. Ma di rabbia. “FUORI DI QUI!” tuonò, bersagliandoli con ogni tipo di oggetto contundente.
Seguendo la spaventosa scia di distruzione, lui era arrivato all’ingresso della cantina. Era una bella cantina, la sua, una di quelle grandi stanze sotterrane adatte a contenere numerose bottiglie di preziosi e pregiati vini. Andava molto fiero, della sua cantina. Ma ora, aveva paura di entrarvi. Chissà perché, poi. Va bene, forse un gruppo di vandali (forse degli ubriaconi) erano entrati in casa sua. E avevano fatto un po’ di macello, dirigendosi alla cantina. Forse volevano bere altro. Certamente, una volta saziata la loro disgustosamente volgare sete, loro erano usciti, cercando altre case da distruggere in preda alla boriosa euforia tipica di chi ha bevuto troppo. Tutto qui, c’era da stare tranquilli. E allora perché la lampada che lui teneva in mano, protendendola verso i gradini che aveva incominciato a discendere, tremava impercettibilmente? Arrivò alla fine della scalinata, illuminando come gli era possibile l’ambiente. Si diresse nel punto del muro ove vi sarebbe dovuta essere una torcia ma – come si era inconsciamente aspettato – non la trovò. Deglutì a fatica, il nostro forzato eroe, percorrendo lo spazio vuoto tra i suoi pregiati vini con la sola, tremante luce della propria lampada ad olio. Quindi, inciampò su qualcosa.
E cadde. La lampada si sfracellò al suolo, con un rumore di vetri infranti che,
paradossalmente, gli ricordò la situazione attuale dei propri nervi. Mantenendo
a stento la calma, tastò il terreno, cercando di capire chi o cosa lo avesse
fatto cadere. Un cadavere. Perse il respiro. E gli sfuggì un singulto di terrore. Scattò all’indietro, cozzando contro uno dei mobili in legno antico – così fiero, ne era sempre stato così fiero – che bloccò la sua fuga a gambero. Mosse convulsamente una mano ed essa, con suo sommo, totale, infinito orrore, trovò un’altra forma. La forma, ne era certo, di un morbido, abbondante seno, appartenente ad un altro corpo, freddo come il primo. Urlò, annaspando nel buio. Poi, qualcosa lo afferrò per il collo. Qualcosa di freddo, di invincibile, di totalmente e maledettamente inumano. Il nostro improvvisato ed, ahimé, poco duraturo eroe urlò per l’ultima volta nella sua vita. Quindi, vi fu il silenzio. I vampiri, soddisfati per aver depurato il loro nuovo rifugio da ogni fastidiosa presenza umana, si riassopirono, cullati dalla morbida freddezza delle tenebre.
© Tutti i personaggi sono di proprietà di Eiichiro Oda.
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