IL SAPORE DEL SANGUE

 

 

CAPITOLO TRENTASETTESIMO

 

Per quanto diverso potesse sembrare a primo acchito, Rufy era un vampiro come gli altri, legato, troppo, ai suoi simili ed in particolar modo a chi lo aveva creato: Nico Robin, sua madre. Si era sforzato di odiare lei e gli altri due suoi compagni, non sopportava di dover essere uguale a quegli assassini spietati, sadici succhiatori di linfa vitale. E invece… Invece, per quanto si sforzasse, era verso di loro che il suo cuore non umano batteva, era assetato della loro compagnia perché, appunto simile a loro. Voleva spezzare quel legame, voleva cambiare, voleva tornare quello che era un tempo; oh, sapeva bene che così non poteva essere, lo sapeva eccome… tuttavia si sforzava di crederci: prima o poi sarebbe riuscito a liberarsi di quella soffocante prigionia che, paradossalmente, derivava dall’amore che provava per loro e, soprattutto, per sua madre.

   Non voleva essere come loro.

 

Quando gli animi si furono placati, lì alla Maison Toupet, Kaya chiese a Rufy di condurli verso Shanks the Red e i suoi compagni. «A meno che voi non abbiate cambiato idea, si intende…» mormorò, timida come sempre.

   Lui sorrise, carezzandole il volto candido, e caldo rispetto al freddo marmoreo della sua mano. «Non siete gli unici a volere che questo orrore abbia fine. Fidati di me, Kaya: ti renderò la libertà che desideri tanto».

   «Squit!» protestò Usop, strattonando la fanciulla bionda per un braccio, pronto a sfidare persino quel vampiro pur di riprendersela. E non importa se le sue gambe tremavano e se piangeva a dirotto per la paura, rendendo il suo pelo lilla così zuppo da farlo sembrare uno yorkshire caduto nella ciotola dell’acqua e conferendogli un aspetto ancora più buffo, nonostante tutto.

   «Usop… non fraintendere…» arrossì la pudica cameriera, abbassando il capo. «Il signorino Rufy è solo una persona di buon cuore…»

   «Sì, sì… persona, vampiro, quello che è: l’importante è che ci porti dalle nostre prede» sbuffò Nami, maneggiando ancora col proprio corpetto.

   Zoro corrucciò lo sguardo. «A che ti servono quelle manette?» domandò, notando l’acciaio che la donna cercava di nascondere nella scollatura dell’abito. «Non avrai altre strane fantasie, spero… non ora, per lo meno» ci tenne a precisare.

   Lei alzò un sopracciglio, fissandolo con fare guardingo. «Amore della mia vita…» iniziò con voce dolce, gli occhi nei suoi. «Queste non sono per sollazzare le tue voglie, ma p…»

   «E lo credo, bene!» la interruppe il Cacciatore, sconcertato. «Io neanche volevo essere legato! Hai fatto tutto tu!»

   «…ma per fare del male, MOLTO male, a quegli schifosi» continuò Miss Nami con tranquillità, come se non avesse appena assestato una brutta ginocchiata nei testicoli dell’uomo, costringendolo in ginocchio per il dolore. Alzò la mano ed esibì un tirapugni. «Vedi? Questo è per spaccare il naso a quella tizia dalle tette gonfie che ha osato ridurmi in questo stato» spiegò, mostrandogli anche una delle fasciature che aveva sulle braccia. «E voialtri? Come vi siete armati?»

   Il dottor Hillk rise. «Armati? Oh, mia cara… le nostre armi segrete le hai già davanti! E sono invincibili!» esclamò, felice, facendo cenno verso il cyborg che pisciava nella pianta posta all’ingresso della pensione, e pertanto non prestava particolare interesse per i loro discorsi, e verso la renna che, sentendosi chiamata in causa, cominciò a sculettare con faccia da ebete e a dire:

   «Ma no, dottore, cosa dite? Io ‘invincibile’? Così mi lusingate!»

   «Continuo a nutrire seri dubbi sulla vostra sanità mentale» rispose invece Nami, scuotendo i capelli rossi e aprendo il portone. «Forza, andiamo!»

   «Forse dovremmo lasciare che ci guidi il signorino Rufy…» consigliò Kaya, la più saggia del gruppo.

   «Non mi fido di un vampiro!»

   «Neanch’io…» sospirò Zoro, una mano alla fronte, finalmente ripresosi dal colpo ricevuto. «Ma è la nostra unica carta: prendere o lasciare».

   «Squit! Squit! Squiiit!»

   «Che dice?» s’incuriosì il dottore.

   «Chiede se qualcuno ha preso il Super Sacror Liquidator…» tradusse Kaya, ormai divenuta abbastanza abile nel capire gli squittii del nasuto di pelliccia. «Dice che senza di quello non muoverà passo…»

 

 

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