Severino Vareschi : " Profili biografici dei principali personaggi della casa Madruzzo"

Quella che passerà alla storia come famiglia Madruzzo va distinta da una omonima stirpe di dinasti trentini che in qualità di vassalli dei vescovi di Trento possedettero il feudo e il castello di Madruzzo dal secolo XII fino al 1389, con la quale i moderni Madruzzo sono solo lontanamente collegati. Questi ultimi erano insediati nel tardo Medioevo nella bassa val di Non ed erano i signori di Castel Nanno, originari di Denno.

 

Carlo Emanuele Madruzzo (1599-1658)

Carlo Emanuele Madruzzo (1 599-1658) 115 (1622-1630 coadiutore dello zio cardinale Carlo Gaudenzio; 1630-1658 principe vescovo di Trento)

Carlo Emanuele nacque il 5 novembre 1599 nel castello di Issogne, come primogenito di Emanuele Renato Madruzzo, marchese di Challant e di Filiberta de la Chambre. Si approfondisce in tal modo il collegamento della famiglia Madruzzo con la nobiltà savoiarda e quell'orientamento verso Occidente che renderà via via più difficile la posizione dei Madruzzo nell'ambito imperiale e tirolese e che segnò sensibilmente il destino personale di Carlo Emanuele. In tempi di guerra dei Trent'anni, per un principe dell'impero germanico, non era più una referenza favorevole la vicinanza con ambienti savoiardi e dunque (in quei decenni) francesi. Carlo Emanuele venne battezzato nella cappella del castello dal vescovo di Aosta, Bartolomeo Ferreri. Il padrino era il duca Carlo Emanuele, da cui il neonato ricevette il nome. All'età di nove anni Carlo Emanuele venne in contatto con l'ambiente trentino, quando venne mandato presso il suo cugino Gianangelo Gaudenzío, prefetto e capitano di Riva. Seguirono gli studi, compiuti nelle accademie dei gesuiti della Germania Superiore di Monaco (tedesco e latino) e di Ingolstadt (retorica e filosofia), dove fu immatricolato il 19 maggio 1615. Successivamente studiò diritto canonico e civile a Perugia e si laureò nel 1621 o già nel 1617. Nel frattempo si andava impostando la sua carriera ecclesiastica: nel 1616, ancora al tempo degli studi, Carlo Emanuele ottenne le commende di S. Paolo in Besancon, S. Abbondio di Corno e la prepositura di S. Orso in Aosta, mentre nel 1618"' ottenne quella di S. Cristoforo di Nizza della Paglia nel Monferrato: benefici tutti che erano diventati ormai quasi un appannaggio di famiglia, tutti quanti situati a Occidente. Dal 1635 Carlo Emanuele era anche proposito di SaintGilles di Verrès in val d'Aosta, di cui i Challant erano patroni e in cui introdusse la riforma canonicale di S. Pietro Fourier. Il 27 luglio 1631 domandò e ottenne dal papa il priorato di Campiglio"I e probabilmente c'era insieme qualcun altro degli altri soliti "priorati" trentini. Mentre le commende erano delle pure fonti di reddito, la vera carriera ecclesiastica avveniva attraverso i canonicati nelle chiese cattedrali dell'impero e mirava sempre alla sede principesco-vescovile tridentina: ecco dunque Carlo Emanuele canonico a Trento nel 1616 per elezione capitolare (nonostante l'opposizione del conte del Tirolo Massimiliano e con prudenziale dispensa papale da qualsiasi eventuale difetto in rapporto agli statuti del capitolo) e nel 1621 anche in Bressanone per provvistone papale."' Quanto agli ordini sacri, nel 1621 Carlo Emanuele è suddiacono.

Carlo Emanuele, come primogenito, era però anche titolare dei beni di famiglia, dei quali venne investito il 1 agosto 1615, in qualità di ottavo conte di Challant e barone d'Aymavilles. Nella destinazione di Carlo Emanuele allo stato clericale non si va lontano dal vero supponendo il decisivo influsso dello zio cardinale Carlo Gaudenzio. Ormai a corto di discendenti, egli definì probabilmente molto sbrigativamente il destino del figlio primogenito del fratello Emanuele Renato, ignorando anche la tradizione che vedeva il primogenito assumere la successione secolare della famiglia. Ma nel frattempo proprio il principato vescovile di Trento era diventato il bene di famiglia più prezioso dei Madruzzo. Nel 1620 Carlo Gaudenzío si trasferii a Roma e subito cominciarono le operazioni per procurare a Carlo Emanuele la coadiutoria, cercando appoggi in Curia, in altri prelati dell'impero e nella Casa d'Austria."' Il capitolo dovette piegarsi e il 2 luglio 1622 postulò il nipote come coadiutore, imponendo da parte sua all'eletto delle capitolazioni elettorali. Il 24 agosto dello stesso anno Carlo Emanuele venne confermato come amministratore, con il titolo di episcopus Aureliopolitanus, fino a che non avesse compiuto il trentesimo anno di età, con riserva di una pensione per Carlo Gaudenzio di tremila talleri sulle entrate del principato."

Bisognava ora procedere all'assunzione degli ordini: 28 ottobre 1627 il presbiterato e tre giorni dopo, 31 ottobre 1627, l'episcopato. Nella festa di Ognissanti Carlo Emanuele cantò la sua prima Messa."' Due anni dopo, il 4 gennaiol629, venne confermato in concistoro vescovo di Trento, e nel mese seguente Carlo Gaudenzio prendeva i provvedimenti per il passaggio effettivo di tutti i poteri spirituali e temporali."' Nel corso di quell'anno Carlo Gaudenzío mori a Roma. Il 21 maggio 1630, dopo aver giurato le compattate davanti ai commissari dell'arciduca del Tirolo, Carlo Emanuele prese possesso della diocesi. Le circostanze dell'inizio dell'episcopato di Carlo Emanuele nei mesi estivi e autunnali del 1630 non erano fortunate: c'era un gran via vai di truppe per la guerra di Mantova, nel più ampio contesto della guerra dei Trent'anni, che per di più regalarono alle nostre terre la peste. Dal I°settembre 1630 al 20 gennaio 1631 le vittime furono 1242 in città e 553 al lazzaretto della badia di S. Lorenzo."' Due anni dopo la città adempì il voto fatto al suo patrono facendo approntare una nuova urna per riporvi le ossa di san Vigilo. 11 governo di Carlo Emanuele non era molto efficace, e dovette fare i conti con molteplici e dure opposizioni. Durissimo fu il contrasto con il capitolo di Trento, che di fronte all'evidente indebolimento del governo vescovile e della potenza dei Madruzzo era deciso a recuperare l'integrità dei propri diritti e cercava di risalire la china dell'insignificanza a cui per circa un secolo era stato ridotto. Il casus belli fu la nomina da parte del vescovo, contrastata dal capitolo, di Giovanni Todeschini alla dignità decanale. Costui era l'agente romano del vescovo ed era parroco di Pergine: italiano, diocesano di Feltre (politicamente controllata da Venezia), di nobiltà poco affermata, il Todeschini non presentava tutti i requisiti previsti dagli statuti capitolaci. Così la questione divenne di principio. Nel 1635, grazie alla mediazione di commissari imperiali, si addivenne a una composizione che prevedeva più solide garanzie per i diritti dei canonici nei processi decisionali e nel governo della diocesi. Ma poi il contrasto si riaccese nuovamente. Nel corso di queste e di successive controversie il Capitolo sollevò contro il vescovo accuse gravissime, inoltrando memoriali un po'' dappertutto, anche a Roma, dove invece il Todeschini trovava buon ascolto. Essi si erigevano a paladini delle sorti del vescovado; il vescovo infrangeva gli statuti del capitolo e ne comprimeva il ruolo; addirittura "notoria" sarebbe la sua "insufficienza e inettitudine"; criticavano l'eccessiva obbligazione del vescovo verso i suoi funzionari e consiglieri, specialmente i Particella e lamentavano "infiniti scandali e fallì"; il vescovo dilapidava anche le finanze del principato, avrebbe accumulato per sé più di 100 meta fiorini. Chiedevano pertanto al papa il potere (sebbene ritenevano di possederlo comunque) di deporre "questo povero vescovo, obbrobrio degli uomini, scandalo delle plebi, favola del mondo"; addirittura si serviva dei banditi per perpetrare le sue vendette contro i nemici."' Al di là di questo, Carlo Emanuele era sentito come estraneo, savoiardo, forse filofrancese, poco amico di Casa d'Austria e troppo dei sempre infidi veneziani; e anche in combutta con i bavaresi.

Contro il principe vescovo rialzarono la testa anche altre famiglie della nobiltà trentina che avevano subito per il passato il prepotere dei Madruzzo. Per esempio, sul territorio dei Quattro Vicariati, feudo vescovile detenuto dai Madruzzo contemporaneamente alla sede episcopale, avanzavano i loro presunti diritti (dal 1648 in poi, forse istigati da Paride Lodron) i signori di Gresta in quanto discendenti dei Castelbarco. In un processo in sede di consiglio aulico dell'imperatore i Gresta nel 1653 videro le loro ragioni prevalere su quelle del vescovo."' Da questa situazione di contrasto intestino nel principato vescovile gli arciduchi di Tirolo cercarono ancora una volta, come altre volte in passato, di trarre dei vantaggi e di rafforzare la loro posizione, in particolare a proposito di obblighi militari e fiscali che si intendeva imporre ai due principi vescovi di Trento e di Bressanone, interpretando assai estensivamente i termini del Landlibell di Massimiliano del 151 1. I rapporti con il governo tirolese divennero particolarmente difficili quando nel 1632 all'arciduca Leopoldo V succedette la vedova Claudia de' Medici. Nel corso di contrasti assai aspri l'arciduchessa fece addirittura occupare militarmente territori principesco vescovili, oltre a sequestrare beni vescovili in territorio tirolese, come aveva già fatto più di mezzo secolo prima l'arciduca Ferdinando Il. Come già in quella occasione, anche questa volta vennero interessate alla questione le somme istanze: la Santa Sede nel 1643, il congresso della pace di Miinster nel 1647 e la dieta dell'impero di Ratisbona nel 1653. Anche le relazioni sullo stato della diocesi spedite da Carlo Emanuele in curia romana lamentano diffusamente questi contrasti, nel corso dei quali il vescovo dice di aver speso un'infinità di soldi. Nel 1638 Carlo Emanuele si recò personalmente a Innsbruck per trattative con l'arciduchessa.

Anche il governo ecclesiastico risentiva di questa pressione tirolese e asburgica: per esempio, nulla poté fare il vescovo per punire il proposito di S. Michele Zigainer, reo di concubinato notorio, giacché il governo tirolese neutralizzava tutte le misure che Carlo Emanuele decideva di prendere. Nelle relazioni spedite ad límina il vescovo lamenta più volte le pastoie giurisdizionalistiche che il governo di Innsbruck frapponeva all'esercizio del potere spirituale nelle parti della diocesi sottoposte all'autorità temporale tirolese. Soprattutto ogni atto di amministrazione dei beni della Chiesa comportava la presenza di commissari arciducali."' Altro segnale di questa situazione era la trattativa, che durò per molti anni già durante la vita di Carlo Emanuele, per fargli assegnare come coadiutore il figlio dell'arciduchessa Claudia, Sigismondo Francesco, Il capitolo favoriva l'operazione e infatti alla morte del Madruzzo postulò l'arciduca, anche se poi imprevedibili eventi impedirono il perfezionamento della cosa e la conferma papale. Nonostante queste tensioni, l'etichetta veniva salvata il più possibile e così nel 1632 troviamo che Carlo Emanuele viene incaricato dal papa di battezzare in suo nome il figlio dell'arciduca Leopoldo e di Claudia."' Ugualmente i passaggi di eminenti membri della Casa d'Austria o di corti italiane, di legati pontifici e di altre personalità continuarono a venire solennizzati da parte delle autorità e delle popolazioni trentine. 120 Gran da fare in città anche nel 1655 al passaggio di Cristina di Svezia alla volta di Roma.

In una tale situazione di sfilacciamento del governo e dell'autorità del principe non fa meraviglia che anche il magistrato consolare della città sollevasse una quantità di lamentele, per esempio, sulla pesante situazione finanziaria, sulle intrusioni tirolesi che il principe non sapeva impedire, sulle continue leve e passaggi di soldati che la guerra richiedeva, sugli onerosi passaggi di personaggi e principi che bisognava costosamente intrattenere, sulle epidemie e le carestie che serpeggiavano o imperversavano, ecc.

L'attività pastorale di Carlo Emanuele forse non fu così insoddisfacente come farebbero supporre i memoriali del capitolo e la relazione con cui lo stesso accompagnò la richiesta di conferma papale della postulazione di Sigismondo Francesco d'Austria a vescovo di Trento dopo la morte di Carlo Emanuele. Di sicuro fu un vescovo residente, a differenza dei suoi avi e predecessori.121 Nell'attività di visita per la prima volta il vescovo assolse personalmente quell'incombenza anche al di fuori della città. Visitò nel 1632 le valli di Cembra e di Fiemme e l'anno seguente le Giudicarie e Ledro; nel 1636 la Vallagarina e il Basso Sarca e l'anno seguente (e ancora successivamente) la valle dei Laghi; nel 1644 la piana Rotaliana.124 Il 18 maggio 1636 ebbe la gioia di consacrare la chiesa dell'Inviolata a Riva; nel 1644 vennero introdotti a Trento i carmelitani.

Tuttavia per una serie di motivi Carlo Emanuele non poté avvicinarsi all'ideale tridentino di vescovo, né la diocesi di Trento poté conoscere quella stagione di riforma ecclesiastica che si verificò invece a Bressanone per iniziativa degli Spaur e dei loro successori, alcuni dei quali, come Crosina e Perkhofer furono attivi anche a Trento come vicari e ausiliari. Le relazioni sullo stato della diocesi durante l'episcopato di Carlo Emanuele conservate all'Archivio Vaticano sono degli anni 1634, 1647, 1652, 1658.

A rendere difficile e sterile l'opera di Carlo Emanuele e ad attizzargli contro ogni sorta di opposizione fu anche la sua vicenda personale, per la quale è famigerato nella storia trentina. Destinato alla carriera ecclesiastica essenzialmente allo scopo di salvaguardare alla casa Madruzzo il potere principesco vescovile, Carlo Emanuele si trovò a disagio in quel ruolo e più che l'ufficio ecclesiastico e principesco lo interessarono prima l'affetto per Claudia, figlia del funzionario vescovile Ludovico Particella e successivamente (ma probabilmente senza un rapporto diretto) il sopravvenuto bisogno della famiglia Madruzzo di trovare un erede e un continuatore.

L'obbligazione ai Particella sollevò le più aspre critiche da parte degli altri organismi di governo del principato, in primo luogo il capitolo, mentre il desiderio di dare una discendenza alla propria famiglia attirò sul vescovo la curiosità e lo scandalo di mezzo mondo. Illuso da fallaci speranze e da consiglieri sprovveduti se non approfittatori, Carlo Emanuele inoltrò alla Santa Sede (Santo Ufficio), forse per la prima volta il 17 aprile 1646, le ripetute richieste di venire esonerato dalla carica e dagli ordini sacri, ricercando al riguardo l'íntercessíone dell'imperatore, del re dei Romani, del re di Spagna, del granduca di Toscana e di altri. Le istanze vennero riproposte con singolare testardaggine fino all'anno della sua morte nel 1658. Fu un grave errore di valutazione, perché la curia romana non diede mai alcun segno di cedimento. Il suo biografo, collaboratore e buon conoscitore Vigilo de Vescovi fa ammontare a 100 mila fiorini le spese sostenute da Carlo Emanuele per questa causa. Su tutta la vicenda personale di Carlo Emanuele sono successivamente proliferate a partire dal Settecento le più strane dicerie, riguardanti una supposta prole e addirittura trame di morte contro la nipote ed ereditiera, Filiberta. Non è agevole una valutazione obiettiva di queste accuse. Sorprende, per esempio, che il testamento di Claudia Particella, che possediamo, non faccia parola dei presunti figli avuti con Carlo Emanuele. Neppure i libri parrocchiali dei SS. Pietro e Paolo in Trento (parrocchia della Particella) segnalano suoi figli.

Carlo Emanuele mori il 15 dicembre 1658 all'età di 59 anni a causa di un infarto, dopo che già quattro anni prima era rimasto parzialmente colpito. Era affetto anche dalla tubercolosi, che si riscontra anche presso altri membri della sua famiglia. A ogni buon conto il capitolo ordinò l'autopsia, di cui possediamo il referto. Venne deposto in cattedrale il 22 dicembre nel loculo di Bernardo Cles, quale unico tra i vescovi Madruzzo a non aver trovato ultima dimora in S. Onofrio a Roma.

Un episcopato difficile quello di Carlo Emanuele, certamente peggiorato da un approccio poco flessibile alle obiettive difficoltà che la sorte gli riservò. La difesa strenua dei diritti della sua chiesa e del suo ufficio furono la linea guida del suo comportamento.

Morto Carlo Emanuele senza testamento, poiché la sostanza Madruzzo, per quanto cospicua, era oberata da ingenti passività, venne aperto su di essa il concorso dei creditori. Questi vennero pagati con i beni allodiali. Riguardo ai beni feudali sorsero questioni. I canonici volevano in eredità i mobili, l'argenteria, ecc. La camera vescovile mirava alle decime e ai castelli di Nanno, di Toblino e di Madruzzo. A queste pretese si opposero Giovanna, figlia di Gianangelo Gaudenzio, sposata Wolkenstein-Trostburg e Carlotta Cristina, figlia di Ferdinando, moglie di Carlo Enrico marchese di Lenoncourt-Lorena. In seguito all'accordo del 14 novembre 1661 la lite si decise nel seguente modo: i marchesi Lenoncourt, eredi dei Madruzzo-Lorena ebbero Castel Madruzzo (successivamente passato ai marchesi Del Carretto di Genova). I conti Wolkenstein-Trostburg ebbero Castel Toblino, fino ai nostri giorni. Con un altro accordo del 16 ottobre 1666 la mensa vescovile ricevette castel Nanno, castel Pergine, S. Massenza, il possesso delle Sarche e il palazzo delle Albere.

I discendenti illegittimi di Nicolò Madruzzo, cioè i Madruzzo di Ungheria e quelli di suo fratello Aliprando, i Floriani di Calavino, continuarono il litigio per più di cento anni. La spesso citata Declaratio de extintione del 1766 non è però un documento ufficiale, ma il parere privato di una delle parti in causa.

 

 

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