Da Pietro al Papato
di Fausto Salvoni

CAPITOLO DECIMO

VERSO IL PRIMATO DELLA CHIESA ROMANA


INDICE PAGINA

Introduzione
Il prestigio della chiesa romana
Grandezza politica della città
Le decisioni conciliari
La grandezza di alcuni vescovi romani


Introduzione

La chiesa di Roma andò sempre più acquistando la supremazia sotto la spinta di alcune forze che sono state sintetizzate assai bene in una lettera che Teodoreto, vescovo di Ciro (presso Antiochia, m. ca. 460), indirizzò al vescovo di Roma, Leone:

Sotto tutti gli aspetti a te conviene il primato ( protéuein) poiché mille doti elevano la tua sede. Le altre città, infatti, traggono la loro gloria dall'estensione, dalla bellezza e dal numero degli abitanti; qualcuna priva di queste caratteristiche brilla per doti spirituali; ma alla tua chiesa il Dispensatore d'ogni bene ne diffuse in abbondanza. Essa è infatti contemporaneamente la più grande di tutte, la più brillante; essa è la capitale del mondo ed è ricolma di molteplici abitanti. Essa inoltre brilla per una egemonia che dura tuttora e ha fatto partecipare alla sua fama coloro ai quali essa comanda. Ma è specialmente la sua fede che ne costituisce la beltà, come testifica il divino apostolo quando proclama: la vostra fede è rinomata nel mondo intero.
Se tale chiesa, tosto che ebbe accolto il seme della predicazione salvifica, era già ricolma di frutti così ammirabili, quali parole si potrebbero trovare per celebrare la pietà che oggi vi fiorisce? Essa possiede pure le tombe dei nostri padri, i maestri della verità Pietro e Paolo, che illuminano le anime di coloro che hanno fede. Questa benedetta e divina coppia si alzò in Oriente e dovunque ha sparso i suoi raggi, ma è in Occidente che con coraggio hanno sopportato la fine della vita ed è di là che oggi rischiarano la terra; è essa che ha reso più illustre il tuo trono che è la corona delle ricchezze di questa tua chiesa. Ma il suo Dio, oggi ancora ha illustrato il suo trono stabilendovi la vostra Santità che spande i raggi dell'ortodossia (1) .

Il prestigio della chiesa romana

Tra le varie prerogative della chiesa romana eccellono il suo zelo, la sua carità, la purezza della fede e la presunta «fondazione» ad opera di Pietro e Paolo (2) .

a) Lo zelo di Roma

Quando a Corinto verso il 90 sorsero delle fazioni e dei fratelli vollero deporre senza ragione i loro presbiteri, la chiesa di Roma vi mandò una lettera per esortarli a rimanere sottomessi ai vescovi e a togliere ogni gelosia e discordia.

Da parte cattolica si dà grande valore a questa lettera scritta dal vescovo Clemente, quasi fosse il primo atto della supremazia papale. Va tuttavia notato che Clemente non vi si nomina affatto(3) e che la lettera è presentata come uno scritto della chiesa di Roma a quella di Corinto. Quindi Clemente fu solo delegato per la stesura materiale della lettera, in quanto in ogni azione collettiva occorre che uno se ne assuma personalmente la responsabilità. A quel tempo poi, come abbiamo visto, la direzione della chiesa romana era ancora collegiale. L'intervento di Roma, oltre che ad essere suggerito dalla reciproca cura e vigilanza che le chiese usavano avere tra di loro (si confrontino al riguardo le varie lettere di Ignazio), doveva essere stato suggerito anche dal fatto che, con la ricostruzione di Corinto nel 44 a.C. ad opera di Cesare, questa città era divenuta una colonia romana e quindi assai legata all'urbe da rapporti culturali e politici(4) .

Va poi ricordato che la chiesa di Roma non comanda a quei di Corinto, quasi fosse investita d'autorità, ma solo esorta fraternamente i dissidenti a sottomettersi non tanto a quanto dice Roma, bensì a Dio stesso (cc. 56-58).

b) Ricchezze e carità della chiesa romana

Ben presto le chiese si andarono arricchendo in vari modi, tant'è vero che nel IV secolo Teodosio emanò un «decreto che proibiva al clero di ereditare» « sub pretextu religionis» (5) Girolamo così scrive a Nepoziano: « E' da vergognarsi a dirlo: i sacerdoti degli idoli, i mimi, gli aurighi e le cortigiane, ricevono eredità: ai soli chierici e monaci ciò è proibito per legge, ed è proibito non da persecutori, ma da principi cristiani. Nè io mi lamento della legge, mi dolgo invece che noi abbiamo meritato tale legge » (6) .

La chiesa di Roma, situata al centro dell'orbe romano, eccelleva per ricchezze; i molti cristiani che vi confluivano da ogni parte della terra vi portavano pure molti beni, basti pensare che Marcione , un armatore del Ponto e figlio di un vescovo, divenuto poi eretico, le regalò 200.000 sesterzi(7) Testimonianze d'epoca posteriore ci descrivono le varie proprietà che le basiliche possedevano, anche per donazioni avute da Costantino. Un collare di cane da guardia, anteriore al 300, ricorda un « Felicissimus pecorarius» addetto alla basilica «Apostoli Pauli et trium dominorum nostrorum» (8) e conseguentemente occupato nell'allevamento dei greggi appartenenti alla basilica.

Abercio (II secolo) nel suo celebre epitaffio si dice inviato dal  « santo Pastore» a lasciare Gerapoli in Frigia, di cui forse era vescovo, per visitare la comunità romana, una «regina dall'abito d'oro e dai calzari d'oro»(9) .

L'ufficio di primo diacono, al quale competeva l'amministrazione di un così grande patrimonio, era quindi ambitissimo; il martirio di Lorenzo (m. 258) fu occasionato proprio dalla brama che il giudice aveva di mettere le mani addosso a un sì grande tesoro, che l'arcidiacono non aveva voluto consegnargli (10) .

Perciò la chiesa di Roma, già elogiata da Paolo per la sua carità (Rm 15, 14), veniva incontro alle richieste d'aiuto da parte di chiese più povere, ed è quindi esaltata da Dionigi in una lettera al vescovo romano Sotero (166-174).

Sin dai primordi avete la consuetudine di beneficiare in vario modo i fratelli e di mandare soccorsi a molte chiese. Voi amministrate il necessario ai fratelli che sono nelle miniere (11) .

Le osservazioni precedenti servono a meglio chiarire la espressione di Ignazio spesso addotta a favore del primato romano, che tra gli elogi rivolti a tale chiesa afferma pure che essa è «presidente della carità »

Chiesa degna di Dio, degna di gloria, degna di essere chiamata beata, degna di lode, degna di essere esaudita, degnamente pura, presidente della carità , (possedente) la legge di Cristo, (insignita) dal nome del Padre (12) .

La parola « agàpe» che designa l'amore di Cristo verso i fedeli, indica pure l'amore che i fedeli di Roma dovrebbero avere verso la chiesa di Siria rimasta orfana del suo vescovo. Nel passo citato più che a una presidenza giurisdizionale attribuita alla chiesa romana sulle altre chiese, si vuol affermare che la chiesa di Roma presiede nelle opere di carità che tengono legate tra loro le singole chiese. Che tale sia il senso della frase risulta evidente dal fatto che quando Ignazio vuol presentare il campo geografico della sua preminenza afferma senza alcun dubbio che essa «presiede nella regione dei Romani».

La chiesa di Roma, che per preminenza locale eccelle solo nella regione italiana (e colonie), in quanto ad azione caritativa si rivolge a tutta la «fratellanza» cristiana. Il primato di Roma in Italia e in Occidente – che sarà sancito dal Concilio di Nicea – le derivava dal fatto che solo la chiesa romana in tutto l'occidente era d'origine apostolica. Perciò Ignazio, mentre si rivolge con una certa autorità alle chiese che stavano sotto la sfera antiochena, scrive a Roma, sottratta al suo influsso, con molta maggiore deferenza e rispetto. « Io non intendo impartirvi ordini, come fecero Pietro e Paolo; essi erano liberi, io sono schiavo» (13) .

c) Purezza delle fede e costanza del martirio

Già Paolo scrivendo ai Romani ne esaltava la fede: «Prima di tutto ringrazio il mio Dio, per mezzo di Gesù Cristo, a riguardo di tutti voi, perché la vostra fede è divulgata in tutto quanto il mondo» (Rm 1, 8). La fede di questa chiesa, posta nel centro dell'impero dove si trovavano gli stessi persecutori imperiali, doveva suscitare profonda impressione e stima presso le altre comunità cristiane. Di più la chiesa romana più pratica che speculativa, rifuggiva da tutte le quisquilie e discussioni orientali e quindi era più adatta a conservare la fede tramandata dagli apostoli.

d) Fondazione della Chiesa da parte dei due massimi apostoli

« Soltanto le chiese fondate dagli apostoli – scrive il Quasten – possono servire d'appoggio per l'insegnamento corretto della fede e come testimoni della verità, perché la successione ininterrotta dei vescovi in queste chiese garantisce la verità della loro dottrina » (14) .

Perciò nella concezione antica – presentata anche da Ireneo – la venuta di un apostolo o la sua morte in una città accrescevano il valore della chiesa ivi esistente. Perciò la chiesa romana che aveva avuto il privilegio, secondo una tradizione allora corrente, d'essere stata fondata non da un apostolo, bensì da due apostoli, e non da due apostoli qualsiasi bensì dai massimi apostoli Pietro e Paolo, godeva di stima ed importanza presso tutte le altre chiese. E' ciò che afferma appunto Ireneo elogiando la chiesa di Roma come:

la grandissima, antichissima e universalmente nota chiesa, fondata e organizzata a Roma dai due famosi apostoli, vale a dire Pietro e Paolo (15) .

Proprio per il fatto che a Roma si trovava il sepolcro di Pietro, il vescovo Callisto pretendeva che alla chiesa romana provenisse una particolare grandezza e superiorità (16) .

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Grandezza politica della città

L'importanza di Roma, posta al centro dell'orbe allora noto, favorì la esaltazione della chiesa che viveva accanto agli imperatori; aveva i migliori mezzi di comunicazione ed era caratterizzata dalla cosmopoliticità dei suoi membri.

a) Contatti con la casa imperiale

La chiesa di Roma trovandosi nella stessa città dell'imperatore, aveva più possibilità di contatti con la parte direttiva dell'impero e quindi poteva conoscere meglio delle altre gli umori del governo civile. Perciò Ignazio raccomandava alla comunità di Roma di non intervenire in suo favore per sottrarlo al martirio (17) Al tempo di Commodo (161-192) per opera di Marcia, concubina dell'imperatore e proselita cristiana, la chiesa di Roma trovò modo di soccorrere i confessori inviati nelle miniere e di ottenerne la liberazione.

Nel III secolo, ai tempi di Cipriano di Cartagine e della persecuzione di Decio, le chiese d'Africa stavano in attesa delle navi che avrebbero portato gli avvertimenti della chiesa romana, la quale meglio delle altre poteva conoscere le disposizioni imperiali. Nel caso di Paolo di Samosata , deposto dal concilio di Antiochia, l'imperatore Aureliano (214-275), a cui l'eretico aveva fatto appello, affidò l'edificio a coloro che erano in comunione epistolare con i vescovi italiani della religione cristiana (18) Più tardi il sinodo di Sardica (343-344) sancì che ogni supplica al governo civile di Roma dovesse passare tramite il vescovo romano (19) .

b) Facilità di rapporti con altre chiese

Il fatto che la chiesa di Roma stesse al centro dell'impero romano favoriva gli scambi con le altre chiese: spesso queste per comunicare tra di loro, si servivano dell'intermediario di Roma, che in tal modo assumeva automaticamente maggior risalto ai loro occhi. Per tale sua posizione il vescovo romano Vittore (189-198) nella famosa questione pasquale, potè facilmente mettersi in contatto con le altre chiese dell'Orbe per conoscere la data della loro celebrazione (20) .

c) Cosmopoliticità dei suoi membri

Per svariatissime ragioni – politiche, commerciali, turistiche – moltissimi cristiani avevano motivo di recarsi a Roma; venivano così a trovarsi in contatto con la chiesa locale, la quale rivestiva in tal modo un evidente carattere cosmopolita, come cosmopolita era pure la città.

Tale fatto spiega la frase di Ireneo spesso addotta a sostegno del primato romano (21) che attribuisce alla chiesa romana una « maggiore pienezza di potenza» ( potentior principalitatis). Generalmente si pensa dai teologi romani che tale superiorità vada ricercata nel fatto che la chiesa di Roma detiene il privilegio di conservare meglio delle altre la tradizione apostolica per cui ogni chiesa deve necessariamente accordarsi con essa(22) .

Tuttavia il convenire ad designa un movimento locale da un luogo ad un altro anzichè « un accordo spirituale nella fede», e più che sulla chiesa l'accento è posto sui cristiani che vi pervengono da ogni dove. Il senso è quindi il seguente: « Tutte le chiese d'origine apostolica» – secondo Ireneo – servono a documentare « nel loro insieme» la vera fede cristiana. Ma siccome sarebbe lungo attuare tale indagine (che aveva prima tentato di compiere Egesippo), il vescovo di Lione presenta un mezzo più rapido: esaminare la fede della chiesa di Roma dove la presenza di molti fedeli provenienti da varie regioni dà la possibilità di conoscere in uno sguardo d'assieme la dottrina di tutto l'Orbe cristiano quivi rappresentato. Il fatto che gente d'ogni paese si mantenesse in comunione con la chiesa di Roma, prova che la loro fede era identica a quella della chiesa romana. Conoscere quindi la fede di questa chiesa, significa conoscere contemporaneamente l'insegnamento di tutte le chiese che vi sono rappresentate mediante i loro membri esistenti a Roma.

Il passo va quindi così tradotto: «A questa chiesa romana per la sua più potente principalità deve recarsi ogni chiesa, vale a dire i fedeli che vengono da ogni parte, perché in essa sempre, da coloro che vengono da ogni parte, fu conservata la tradizione apostolica » (23) .

Tale interpretazione, dopo un periodo di silenzio causato dalla condanna cattedratica che le diede lo Harnack, è oggi la più diffusa ed è, ad esempio, seguita da V. Subilia e da A. Omodeo , come risulta dalle due citazioni seguenti:

« Il vero significato di "convenire ad" indica un viaggio e quindi un cambiamento di luogo, i fedeli di tutti i luoghi si recavano a Roma per i loro affari e portavano necessariamente in loro, scritta nei loro cuori e nelle loro memorie, la predicazione apostolica della fede, che ciascuno aveva appresa nella sua Chiesa locale. Così a Roma (come in altri grandi centri ecclesiastici, ma più particolarmente a Roma a causa della sua posizione preminente) la tradizione della fede non era conservata soltanto dalla chiesa locale – cioè dal clero e dai laici del luogo con a capo il vescovo – ma vi era un influsso di cristiani provenienti da tutte le altre chiese del mondo e la tradizione della fede si trovava ad essere "una" dappertutto. La tradizione apostolica era così conservata con molta sicurezza nei grandi centri metropolitani, ma soprattutto nel centro principale, Roma, da quelli che venivano da tutte le parti »(24) .

Ecco il passo di Omodeo:

« La spiegazione migliore è sempre stata questa: che a Roma capitale dell'impero (cioè per la sua posizione privilegiata di capitale) è necessario che confluisca tutta la chiesa universale, cioè tutti i credenti, i quali, recandosi a Roma per loro motivi, devono partecipare ai riti di Roma e avere comunione con essa. Quindi la chiesa Romana è quasi un concilio universale di tutti i credenti e in essa si conserva perciò non solo la tradizione locale, ma quella di tutta la chiesa che conviene nella tradizione degli apostoli. Quella concordanza comune che Egesippo aveva riscontrato in tutte le chiese da Gerusalemme a Roma, in Roma era un fatto comune perché v'era continuo l'afflusso di credenti unificati nella tradizione degli apostoli. Il motivo per cui i cristiani pregiano i sinodi e i concili che hanno il loro inizio in quest'epoca – cioè la celebrazione solenne della comunità di fede – è il pregio della chiesa romana » (25) .

Questa interpretazione è implicita nella frase di B. Altaner : «Egli (Ireneo) non soltanto sottolinea l'efficace preminenza della Chiesa Romana, ma emerge evidente per lui dalla doppia apostolicità di Pietro e di Paolo, ma sottolinea ancora la cooperazione di persone appartenenti alle altre chiese all'opera di conservazione della purezza della tradizione apostolica » (26) .

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Le decisioni conciliari

Che l'importanza della città influisca sopra la chiesa locale è stato riconosciuto dal can. 9 del sinodo di Antiochia (a. 341) dove si afferma che la Chiesa metropolitana è superiore alle altre perché « nella città si recano coloro che hanno degli affari »(27) . Perciò il Concilio di Nicea (a. 325) riconobbe la supremazia di tre chiese metropolitane: Roma, Alessandria e Antiochia (28) Tale organizzazione – dice il Concilio – non proviene da uno speciale comando divino, bensì solo da consuetudine ecclesiastica.

« Si mantenga l'antica consuetudine esistente in Egitto, la Libia e la Pentapoli per cui il vescovo alessandrino ne abbia il potere, poiché anche per il vescovo di Roma v'è tale consuetudine »(29) .

Il canone 2 del Concilio di Costantinopoli (a. 381) proibì « ai vescovi di una diocesi di immischiarsi negli affari altrui per introdurvi confusione»; ogni circoscrizione deve badare a sè. Alessandria si interessi dell'Egitto, i vescovi orientali (Costantinopoli) dell'Oriente, salve le prerogative riconosciute ad Antiochia dal Concilio di Nicea (can. 6), il vescovo di Efeso vigili sull'Asia, quello del Ponto, della Tracia sui rispettivi territori. Nessun vescovo, a meno che ne sia invitato, esca dalla propria diocesi per conferire ordini (30) Non vi si legge alcun accenno all'autorità del vescovo di Roma.

Il can. 3 è ancora più significativo, in quanto conferisce il primato di onore, dopo quello di Roma, a Costantinopoli la « nuova Roma».

I l vescovo di Costantinopoli abbia la supremazia d'onore (tà presbeîa tês timês ) dopo il vescovo di Roma, perché la sua città è la nuova Roma (31) .

E' il primo passo verso la concentrazione delle chiese orientali e dell'impero attorno a Costantinopoli, che sarà ancora più sviluppato dal Concilio di Calcedonia. Che si tratti di un primato d'onore (tà presbeîa tês timês) appare dal fatto che non si modificarono affatto le costituzioni anteriori e non si permise ad un vescovo di intervenire al di fuori della sua giurisdizione. Tale primato onorifico era infatti legato solo a fatti contingenti, vale a dire all'importanza della città in cui si trovava l'imperatore. Si osservi pure che questo canone fu accolto da centocinquanta vescovi, tra cui uomini di valore, come Gregorio Nazianzeno, Gregorio Nisseno, Cirillo di Gerusalemme e Timoteo di Alessandria, i quali tutti supponevano che il prestigio della chiesa di Roma e la sua supremazia fosse legato al rango civile della città.

Quando nel 382 il sinodo Romano, che voleva fare il punto sulle decisioni constantinopolitane, invitò a parteciparvi i vescovi orientali, costoro con fine diplomazia declinarono l'invito.

Avremmo desiderato di poter lasciare le nostre chiese e rispondere ai vostri desideri e necessità. Chi ci darà le ali di colomba per volare e riposarci assieme a voi? Ma non possiamo lasciare le nostre chiese che a mala pena cominciano a rimettersi .

In tale lettera aggiungono poi che le questioni personali erano già state trattate conformemente alle regole tradizionali e ai canoni di Nicea, che a Costantinopoli Nettario, ad Antiochia Flaviano, a Gerusalemme « madre di tutte le chiese» Cirillo erano stati legittimamente eletti. Non v'era quindi necessità di nuove discussioni, dal momento che la fede orientale era del tutto pura (32) .

Il Concilio di Calcedonia (a. 451), di cui parleremo studiando l'eminente figura di Leone Magno, rifacendosi alle decisioni del Concilio costantinopolitano, ribadisce che il vescovo di Roma è patriarca dell'occidente, così come quello di Costantinopoli lo è per il mondo ellenico, quello di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme lo sono rispettivamente per la cristianità copta, sira e palestinese.

Verso il IV secolo v'era un sinodo permanente a Costantinopoli sotto la presidenza del vescovo, ch'era una specie d'arbitro imperiale. Per essere ammessi ad una udienza dell'imperatore occorreva il benestare del vescovo costantinopolitano, che gradatamente s'impose sempre più consolidando il suo dominio sulla Tracia, l'Asia, il Ponto e in seguito anche sull'Illiria entrando così in conflitto con Roma che pretendeva anch'essa il dominio di quel territorio. Anche Teodosio II con la legge del 14 luglio 421 sancì che, in caso di dubbio ecclesiastico, la decisione spettasse a un collegio di sacerdoti, non senza la conoscenza del vescovo di Costantinopoli, città la quale « gode le prerogative della vecchia Roma » (33) .

Il binomio Roma-Costantinopoli sfociò poi, come vedremo, nella rottura del 1054, in quanto l'Oriente non volle sottostare a Roma che si sforzava di sostituire il suo tipo di centralizzazione monarchica a quello orientale meno accentrativo e più democratico.

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La grandezza di alcuni vescovi romani

Tre fattori concomitanti contribuirono ad esaltare il papato: il genio organizzativo proprio di Roma, l'inettitudine dell'imperatore, stabilitosi in Oriente, a difendere le regioni occidentali dallo straripare dei barbari, la diminuita importanza dei vescovi orientali a motivo dell'invasione musulmana, che diede il colpo di grazia a molte chiese d'oriente.

a) Il genio organizzativo di Roma appare già con il vescovo Vittore che verso il 180, volendo uniformare la data della celebrazione pasquale – che era allora attuata in giorni di versi – mandò una lettera circolare alle varie chiese perché singolarmente o mediante sinodo gli facessero conoscere il loro parere (34) Quando s'avvide che la maggioranza s'accordava con la data romana, egli pretese imporre tale uso anche alle altre, scomunicando quelle che non vi si uniformassero. Di fatto però – come vedremo – tutto rimase allo statu quo perché i tempi non erano ancora maturi per un atto di forza. Troviamo già tuttavia un primo tentativo d'introdurre nella Chiesa l'uniformità organizzata propria del genio romano (35) .

b) Leone Magno, il difensore di Roma. Fu il vescovo romano che, sulla scia dei suoi predecessori, come Innocenzo I e Sisto III (36) diede un fortissimo impulso al primato papale, favorito anche dal fatto che, trasferita la capitale dell'impero a Costantinopoli nel 330, il vescovo di Roma potè gradatamente sostituirsi al potere statale, divenendo il più importante uomo di tutto l'Occidente (37) .

Leone il Grande (vescovo dal 440 al 461) si mostrò infatti un valido baluardo di fronte alla debolezza del rappresentante imperiale (38) Nel 452, con il prefetto Trigezio e il consolario Avieno, affrontò a Mantova le orde di Attila e con ricchi donativi indusse il feroce condottiero unno a ritirarsi dall'Italia e a firmare un trattato di pace (39) Tre anni dopo (455) il re vandalo Genserico sbarcò ad Ostia, assaltò Roma, saccheggiò spietatamente la città asportandone le ricchezze e gran numero di prigionieri. Leone, pur non potendo evitare il saccheggio, riuscì ad ottenere che l'invasore risparmiasse la vita a molti cittadini romani. In tal modo Leone andò acquistando un enorme prestigio in tutta l'Italia.

Leone Magno aveva poi un alto concetto della superiorità papale e pensava che in lui lo stesso Pietro continuasse a reggere la chiesa, per cui egli si chiamò « Vicario di Pietro », non osando ancora affermarsi « Vicario di Cristo », come avvenne alcuni secoli più tardi. E' vero che il potere di reggere la Chiesa passò a tutti gli apostoli, ma Pietro fu principalmente esaltato (40) per cui come a Pietro competeva la direzione della Chiesa (41) così ora al vescovo romano competeva la cura di tutte le chiese (42) .

Per mezzo del papa è infatti Pietro che continua a dirigere la sua chiesa:

Il beato Pietro persevera in quella solidità silicea e non abbandona il timone della Chiesa postogli fra le mani. Attualmente egli adempie la sua missione con maggiore pienezza e potenza: tutto ciò che è proprio dei suoi uffici e delle sue cure che gli incombono, lo eseguisce in Colui e con Colui dal quale è stato glorificato. Se qualcosa è fatta o decisa da noi rettamente, se qualche cosa è ottenuto dalla misericordia di Dio per mezzo delle nostre suppliche quotidiane, ciò si deve alle opere e ai meriti di colui del quale vive la potenza e trionfa l'autorità della sua sede (43) .

Per l'attuazione pratica di questa supremazia occorre distinguere l'occidente dall'oriente; mentre nelle regioni occidentali il papa agì come vero capo, in quanto tutto l'occidente era stato affidato a lui (44) in Oriente si mostrò assai più cauto.

In Occidente , facendosi forte dell'appoggio imperiale che con il famoso editto di Valentiniano del 445 gli aveva sottomesso tutto il clero delle Gallie prima indipendente, egli potè dominare indiscusso (45) Nel sermone tenuto nella solennità di Pietro e Paolo, Leone esaltò, al di sopra della pace romana sorretta dalle armi, la « pace di Cristo» ottenuta tramite la sede episcopale di Pietro.

« Questi (gli apostoli Pietro e Paolo) sono coloro che ti elevarono (o Roma) a tanta gloria, poiché facendoti una nazione santa, un popolo eletto, uno stato sacerdotale e regale e a capo del mondo per mezzo della santa sede del benedetto Pietro, ti ottennero per la glorificazione di Dio, una supremazia molto più vasta di quella conseguita tramite il governo terreno. Poiché anche quando fossi accresciuta per molte vittorie, e avessi a estendere la sovranità in terra e in mare, tutto ciò che potrai conseguire mediante la guerra è molto meno di ciò che tu conseguirai con la pace di Cristo » (46) .

In Oriente Leone I agì con maggiore delicatezza a cautela (47) egli pretendeva avere una certa superiorità sulla chiesa di Alessandria in quanto era stata fondata da Marco, discepolo di Pietro. Si comprende quindi come potesse rimuovere con una certa enfasi il suo vescovo Dioscuro, resosi eretico, ricordando però che ciò era già stato deciso dal Concilio di Calcedonia:

« Leone papa, capo della chiesa universale – per mezzo di noi suoi vicari, con il consenso del santo sinodo – investito della dignità dell'apostolo Pietro, il quale, fondamento della chiesa e pietra della fede, è chiamato custode del regno celeste, ha privato Dioscuro della dignità episcopale e allontanato da ogni attività sacerdotale »(48) .

Ma quando scrive agli orientali è meno pretenzioso e si guarda bene dall'esaltare il suo primato di capo universale. Ciò risulta evidente dal suo comportamento verso il Concilio di Calcedonia.

c) Leone Magno e il Concilio di Calcedonia (a. 451)

Per la prima volta i rappresentanti romani – tre vescovi e due presbiteri – tennero la presidenza di un concilio ecumenico assieme ai commissari imperiali. Nella seconda, terza e quarta sessioni si esaminò la lettera di Leone a Flaviano che condannava il monofisismo (eresia asserente in Cristo un'unica natura formata dall'unione dell'umana con quella divina) che fu approvata e fatta propria dal Concilio. Molti vescovi – secondo l'uso del tempo – si misero a gridare: «Viva Leone! Per bocca di Leone ha parlato Pietro! Viva Cirillo!» (49) Parole queste da accogliere con prudenza, poiché risentono della retorica orientale di quel tempo e non vanno accolte come professione di fede dommatica, riguardante l'infallibilità papale. E' cero che essi dissero: « Noi eravamo cinquecentoventi vescovi che tu guidavi come il capo guida le membra »(50) ma la realtà fu ben diversa. Il documento leoniano fu accolto perché su due piedi era difficile preparare una nuova professione di fede; fu accolto tuttavia non perché gli riconoscessero uno speciale valore infallibile, ma solo perché dopo un accurato confronto con gli insegnamenti di altri vescovi, lo trovarono conforme alla fede. Quei di Milano lo esaminarono alla luce degli scritti di Ambrogio (51) gli altri vescovi ne riconobbero la sua armonia con la fede cristiana (52) e la identità con l'insegnamento di Cirillo (53) Esso ebbe valore non per se stesso ma solo dopo essere stato « confermato dal sinodo». Del resto i vescovi di Illiria e della Palestina si opposero a tale scritto – ritenuto per nulla infallibile – gridando: «Gli oppositori (e Romani) sono dei Nestoriani, che se ne vadano a Roma »(54) .

Si ricordi poi che gli stessi vescovi i quali dissero parole tanto elogiative per Leone, sono i medesimi che accolsero il can. 28 dove si riconosceva a Roma solo un primato d'onore come risulta dal canone stesso::

« Seguendo in tutto i decreti dei SS. Padri e conoscendo il canone dei centocinquanta Padri, amici di Dio, che è stato letto poco fa (si tratta del can. 3 del Concilio di Costantinopoli del 381), noi decretiamo anche e votiamo la stessa cosa riguardo alle prerogative della SS. Chiesa di Costantinopoli, la Nuova Roma. A buon diritto i Padri (conciliari) hanno attribuito il primo posto alla sede della antica Roma, perché questa città era la sede dell'imperatore. Mossi dalla stessa considerazione i centocinquanta Padri, molto amati da Dio, hanno accordato privilegi equivalenti al santissimo trono della nuova Roma, giudicando rettamente che la città onorata dalla presenza dell'imperatore e del senato e che gode dei privilegi dell'antica Roma imperiale, deve anche aumentare la dignità negli affari ecclesiastici, tenendo il secondo posto dopo di essa »(55) .

I legati Romani – i quali sapevano in antecedenza che si sarebbe discusso il can. 28 – essendo sicuri di non aver la maggioranza, si assentarono quel giorno dalla sessione. Poi protestarono dicendo che i vescovi presenti avevano firmato dietro costrizione; una tale accusa fu respinta con indignazione. Poi insistettero nel dire che esso contraddiceva al can. VI del concilio niceno, nel quale ad arte interpolarono le parole: «La chiesa romana ha sempre goduto la supremazia », che mancano invece nell'originale greco e che naturalmente furono respinte dai vescovi orientali (56) Leone non si appellò alla sua dignità di vicario di Pietro, al fatto che la dignità di Roma non era di onore ma di vera giurisdizione, non affermò di aver supremazia anche sulle chiese orientali, ma si appellò solo al concilio di Nicea il cui ordine Roma-Alessandria-Antiochia era stato turbato con l'immissione al secondo posto di Costantinopoli, che non poteva godere di tale privilegio in quanto chiesa d'origine non apostolica (57) Infatti all'imperatore Marciano che sosteneva le pretese della Chiesa di Costantinopoli e del suo vescovo Anatolio, così scrive:

« Che costui (Anatolio) non disprezzi la città imperiale, quando non può far nulla per renderla apostolica »(58) .

Quando interviene nei disordini provocati dai monaci palestinesi, lo fa con grande delicatezza, rivolgendosi con fine diplomazia all'imperatrice Eudossia, che di fatto era un po' fautrice di tali disordini: la suppone innocente e la esorta a lavorare con tutte le sue forze per ricondurre i monaci alla fede ortodossa e per obbligarli a compiere penitenza delle bestemmie e crudeltà di cui costoro s'erano resi colpevoli (59) Egli si guarda bene dall'imporsi e dallo scomunicare gli eretici e dall'esaltare in Oriente i famosi «meriti di Pietro », come invece con più libertà compiva in Occidente. Ad ogni modo la figura di Leone Magno segnò indubbiamente il primo passo fondamentale per la elezione del papato a capo supremo di tutta la Chiesa in virtù dei meriti di Pietro del quale il vescovo romano è il vicario. Egli si può ben dire il primo vero papa romano.

d) Gelasio I (492-496) continuò a legittimare la grandezza della sede romana (non ancora direttamente del vescovo) mediante le parole di Cristo: «Tu sei Pietro ». Tale chiesa è la prima non solo per il rapporto con Pietro, ma anche per il fatto che vi morì Paolo, il vaso di elezione. Perciò egli stabilì una gerarchia delle chiese poggiante sui loro rapporti con l'apostolo Pietro:

« La Chiesa di Roma è la prima sede dell'apostolo Pietro, ed essa non ha nè macchia nè ruga nè alcunchè di simile (60) La seconda sede è Alessandria che a nome del beato Pietro fu consacrata dal suo discepolo ed evangelista Marco. La terza sede è Antiochia che è degna di onore a motivo dello stesso Pietro» (61) .

Come si vede Costantinopoli – che poteva dare del filo da torcere – è ignorata; Gelasio insiste invece sulla gerarchia patriarcale asserita dal Concilio di Nicea ed esaltò ancor più la chiesa romana dichiarandola « senza rughe nè macchia alcuna».

Naturalmente questo graduale affermarsi della chiesa di Roma non avvenne senza opposizioni e contrasti da parte di altre chiese, come appunto si vedrà nel capitolo seguente(62) .

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NOTE A MARGINE

1. Teodoreto di Ciro, Epist. 113, ediz. «Sources Chretiènnes», vol. III (Paris, 1965), pp. 56-58.torna al testo

2. A. Omodeo, Il prestigio della Chiesa romana, in «Saggi sul Cristianesimo antico», o. c., pp. 485-488. torna al testo

3. Solo da Origene ed Eusebio possiamo sapere che Clemente fu l'autore di tale scritto. torna al testo

4. Cfr R. van Cauwelaert , l'intervention de l'église de Rome a Corinthe vers l'an 96, in «Revue d'Histoire Ecclésiastique», 1935, p. 286. torna al testo

5. Codex Teod. XVI, 2, 30 decreto del 30 luglio 370. torna al testo

6. Ep. 52, 6 dell'a. 394. torna al testo

7. Tertulliano, De Paescriptione haereticorum XXX PL 2, 48-49. torna al testo

8. Cfr De Rossi, « Bollettino di archeologia cristiana» 1874, p. 63. torna al testo

9. Cfr H. Leclercq, Aberce, in «Dict. Arch. Chrétienne» I, pp. 66-87; W. Luedtke e Th. Nissen , Die Crabschrift des Aberkios, ihre überlieferung und ihr Text , Leipzig 1910; F.G. Doelger , Ichthys , Roma 1 (1910, pp. 8.87.134 e specialmente München 1922, pp. 454-507: A. Abel , Etude sur l'inscription d'Abercius , in «Bizantion» 3 (1926), pp. 321-411; H. Gregoire , ivi, 1933, pp. 89-91; A. Ferrua , Nuove osservazioni sull'epitaffio di Abercio , in «La Civiltà Cattolica» 1943, 4, pp. 39-45. torna al testo

10. E' ricordato il suo desiderio di morire martire assieme al vescovo Sisto. Cfr Ambrogio, De officiis ministrorum, 1, 41 n. 204 OL 16, 90-91. Leggendario è il suo lento martirio sulla graticola. Cfr H. Delehaye , Recherches sur le Légendier romain , in «Analecta Bollandiana» 51 (1933), pp. 34-98. torna al testo

11. Presso Eusebio, Hist. Eccl. IV, 23, 10; VII, 6. torna al testo

12. Il greco è procatheméne tês agàpes. torna al testo

13. 4, 3 PG 5, 689 B. Qui il vescovo usa il linguaggio giuridico dell'epoca; egli infatti quando scriveva non era un libero, ma un «condannato», trascinato a Roma per subirvi il martirio. Di più egli si immaginava che la chiesa romana potesse avere un certo peso sui giudici e conseguentemente ottenergli la libertà mentre lui voleva morire martire ed essere « triturato come frumento dai voraci denti delle belve ». torna al testo

14. Quasten, Initiation aux Pères de l'Eglise, Paris 1955, vol. I, p. 345. torna al testo

15. Ireneo, Adv. Haer. 3, 3, 2. torna al testo

16. Così Tertulliano che ne confuta l'idea nel De Pudicitia 21 (su tale passo si veda il capitolo seguente). torna al testo

17. Ad Romanos 7. torna al testo

18. Eusebio, Hist. Eccl. 7, 30, 19. torna al testo

19. Hefele-Leclercq, Histoire des Conciles, vol. I (Paris 1907), p. 787. torna al testo

20. Si veda nel capitolo seguente lo studio più particolareggiato del problema. torna al testo

21. Adv. Haer. III PG 7, 849 « Ad hanc enim ecclesiam (quella di Roma) propter potentiorem principalitatem necesse est omnem convenire ecclesiam, hoc est eos qui sunt undique fideles, in qua semper ab his qui sunt undique conservata est ea quae est ab apostolis traditio». Purtroppo la mancanza del testo originale ha creato grandi discussioni su tale passo che è « il testo più discusso del secolo». ( E. Mollard , Le développement de l'ideé de succession , in «Rev. Hist. Relig.» 34, 1954, p. 21) per il quale rimando al mio studio Il primato della Chiesa di Roma in S. Ireneo , in «Ricerche Bibliche e Religiose» 1 (1966), pp. 266-294. torna al testo

22. K. Billmeyer - E. Tuechle, Storia della Chiesa I: L'antichità cristiana , Brescia, Morcelliana 1957 (ed. 2°, p. 134. torna al testo

23. Questa ipotesi emessa primariamente dal cattolico D. Chamier (sec. XVII) fu accolta dal protestante J. E. Grabe (sec. XVIII), difesa dal cattolico P. X. Funk come «l'unica possibile » e di recente ripresentata da W. I. Knox (Irenaeum Adv. Haer. III, 3, 2, in «Journal of Theological Studies» 47, 1956, 180). Anche J. N. Kelly ( Early Christian Doctrines , Londra A.C. Black 1958, pp. 192-193, vi vede l'influsso della chiesa locale della città imperiale. torna al testo

24. V. Subilia, Attualità di Ireneo, in «Protestantesimo» 15 (1960), pp. 143-144. torna al testo

25. A. Omodeo, Saggi sul Cristianesimo antico, o.c., p. 480. torna al testo

26. B. Altaner, Patrologia , Torino (ediz. 6°, a. 1960), p. 95. torna al testo

27. Cfr Hefele-Leclercq , Histoire des Conciles , vol. I (Paris 1907), p. 717. torna al testo

28. Can. 3. Il can. 4 riconobbe diritti speciali alle chiese di Eraclea, Efeso e Cesarea di Cappadocia, che erano rispettivamente capitali della Tracia, dell'Asia Minore e del Ponto. torna al testo

29. Can. 6, Mansi I, 670 (epeidè kai en tê Ròmê episcòpô toûto tò êthès estin). Cfr Silva-Tarrouca , Ecclesia in impero Romano Byzantino , fasc, 1 (Roma, 1933), pp. 1-16.64. torna al testo

30. Can. 2 Mansi II, col. 559. torna al testo

31. Mansi II, 360. Il Concilio di Nicea (can. 7 Mansi I, 670) aveva già conferito uno speciale onore a Gerusalemme, ma dopo Alessandria e Antiochia; qui invece Costantinopoli è proposta a tutte le chiese ad eccezione di Roma, in quanto succede a Roma nell'essere città imperiale. Da ricordarsi pure il can. 9: «Se un vescovo o un chierico ha una lite con il metropolita della sua provincia, deve portarla dinanzi all'esarca della sua diocesi o dinanzi alla sede della città regia di Costantinopoli e presso di essa sia giudicato » (Schwartz , A. C. De 11,1,2 , p. 100. Cfr J. Gonzaga , Concilios , vol. I, Grand Rapids (Nichigan) 1965, pp. 136-149. torna al testo

32. Cfr Teodoreto, Hist. Eccl. V, IX, 1-18, PG 82, 1212-1217; Th. Camelot , Los Concilios ecumenicos de los siglos IV y V, in «El Concilio y lor Concilios), Ediz. Paulinas, Madrid 1962, pp. 81 ss. torna al testo

33. « Si quid dubietatis emerserit id oporteat non absque scientia viri reverendissimi sacrosantae legis antistitis urbis Constantinopolitanae, quae Romae veteris praerogativa laetatur, conventui sacerdotali sanctoque judicio reservar i» (Cod. Theod. XVI, 2, 45). Per le pretese di Celestino I (425) e di Sisto III (435) sull'Illirico, cfr PL 50, 427 e l'Ep. 3 del 425; per l'ep. 8 dell'8 luglio 435 (Sisto III), cfr Silva Tarouca n. XII, p. 37. Costoro crearono il vicariato di Tessalonica. torna al testo

34. Simili richieste di pareri non erano riservate a Roma: anche le altre chiese si consultavano a vicenda circa i vari problemi a mano a mano che sorgevano. torna al testo

35. Cfr Eusebio, Hist. Eccl. V, 23 e 24 (Edizioni Desclée, Roma 1964, pp..411-417). torna al testo

36. G.B. Dalla Costa, Concezione del primato papale nelle lettere dei Romani Pontefici della prima metà del V secolo, Roma, Pontificia Università Lateranense, 1967. torna al testo

37. The Rise of the Medieval Church, pp. 168-169; Edward Manning , The Temporal Power of the Vicar of Jesus Christ , p. 29. torna al testo

38. Il volume classico per Leone Magno è T. Jalland , The Life and the Times of St. Leo the Great , London 1941; P. Brezzi , San Leone Magno , Roma 1947; cfr pure Walter Ullmann , Leo I and the Theme of Papal Primacy , in «The Journal of Theological Studies» 11 (1960), pp. 25-51; A. Lauras , Etudes sur s. Léon le Grand , in «Recherches de Science Religieuse» 49 (1961), pp. 481-499; M. Jugle, Interventions de saint Léon dans les affaires intérieures des Eglises Orientales , in «Miscellanea Pio Paschini» Studi di Storia Ecclesiastica, I Lateranum N. Series 14 (1948), pp. 71-94; P. Santini , Il primato e l'infallibilità del romano Pontefice in san Leone e gli scrittori greco-russi , Grottaferrata 1936; R. Galli , S. Leone M. , in «Didaskaleion» 1930, pp. 51-235. torna al testo

39. Cfr Prospero di Aquitania , Cronicon PL 51, 603 C «Attilia ricevette con dignità la delegazione, e tanto si rallegrò per la presenza di questo papa, che decise di rinunziare alla guerra e di ritirarsi di là del Danubio, dopo aver promesso la pace. La leggenda si impadronì di questo fatto e lo trasformò completamente, mostrando l'incontro in forma di solenne processione, che colpì la fantasia del barbaro inducendolo a cedere dinanzi al rappresentante di Dio ». torna al testo

40. Transivit quidem etiam in alias apostolos jus potestatis istius, Sermo IV, 3 PL 54, 151. torna al testo

41. Omnes tamen proprie regat Petrus, quos principaliter regit Christus, Sermo IV, 2 ivi. torna al testo

42. « Ciò è richiesto a noi da parte del Signore, che per rimunerare la di lui fede affidò al beatissimo apostolo Pietro il primato della dignità apostolica (Apostolicae dignitatis primatum) e stabilì la chiesa universale nella solidità di quello stesso fondamento (in fundamenti ipsius soliditate constituens) », Ep. V, 2 PL 54, 615. torna al testo

43. Sermone III, 2 e 3; Cfr P. Stockmeyer, Leo I des grosses Beurteilung der Kaiserlichen Religionspolitik , München 1959. Chi ha meglio messo in risalto il fatto di questa compenetrazione personale mistica tra Pietro e il papa è lo studio interessante di G. Cort i, Il Papa Vicario di Pietro , Brescia, Morcelliana 1966. Per Leone I si leggano le pagine 69-155. Si cfr pure A. Granata , Ricerche sui rapporti tra il papa e s. Pietro nel pensiero e nella prassi di s. Leone Magno , Tesi di Laurea, corso accademico 1957-58 alla Università Cattolica di Milano. torno al testo

44 Nel 381 nel sinodo occidentale di Aquileia il papa era stato chiamato «principe» (princeps) dell'episcopato. torna al testo

45. Vedi su questo il capitolo seguente. torna al testo

46. Leone, Sermo 82, c. 1. torna al testo

47. Cfr A. Amelli, Leone Magno e l'Oriente, Montecassino 1890. torna al testo

48. Ep. 103. Si noti che la lettera altisonante è rivolta ai vescovi delle Gallie dinanzi ai quali risultava la sua imperiosità e che, la sua scomunica era una decisione non sua, ma la decisione del Concilio di Calcedonia, alla quale lui aveva aderito. torna al testo

49. Si noti come assieme a leone sia acclamato anche Cirillo, il vescovo di Alessandria già defunto. torna al testo

50. Il termine caput (gr. kefalé, popolarmente connesso con Kephas) fu dal IV secolo applicato spesso alla Chiesa di Roma. torna al testo

51. PL 54, 946. torna al testo

52. Recognoverunt fidei suae sensum PL 54, 967. torna al testo

53. Kùrillos oùtôs edídakse, Mansi IV, 932. torna al testo

54. Hefele-Leclercq, Histoire des Conciles, t. II, Paris 1968, pp. 638-689, (la frase si legge a p. 719). torna al testo

55. XV Sess. 31 ottobre 451, Can. 28, Mansi VII, 369; Hefele Leclercq, Histoire des Conciles,, vol. II (Paris 1968), p. 815. L'opposizione romana a questo canone non fu causata dal fatto che esso menomava Roma e la verità attribuendo il primato romano a decisioni conciliari, ma perché esso violava i canoni di Nicea che avevano stabilito un altro ordine di successione: Roma, Alessandria, Antiochia, e non Roma-Costantinopoli. Nonostante la protesta di Roma, di Alessandria e di Antiochia, la situazione non cambiò affatto e la storia fu diretta da Roma e Costantinopoli. Cfr A. Vuytz , Le 28° canon de Calcedonie et le fondament du Primat Romain , in «Orientalia Christian Periodoca» 17 (1951), pp. 265-282. V. Monachino , Genesi storica del can. 28 di Calcedonia e Protestantesimo nell'interpretazione dell'antico Cristianesimo , Università di Catania, Centro di studi d'arte e di letteratura cristiana antica 1951. torna al testo

56. Ecclesia romana semper habuit primatum. Di fatto il can. 6 di Nicea attribuiva la supremazia gerarchica della Chiesa di Roma sull'Occidente, così come la concedeva pure ai due patriarchi di Alessandria e di Antiochia per i rispettivi territori. torna al testo

57. Epist. 105 Ad Pucheriam Augustam PL 54, 1000. torna al testo

58. Epist. 104 (secondo altri 108) Ad Marcianum imp. 3 PL 54, 995. torna al testo

59. Per le lettere del papa ai monaci cfr. ediz. Jaffé-Watenbach, p. 500; a Giovenale (ivi 514), all'imperatrice Eudossia (ivi 499). torna al testo

60. Ma cfr Ef 5, 27; Gelasio applica a Roma ciò che sarà proprio di tutta la chiesa alla fine della sua forma terrestre. torna al testo

61. Denz. Baumwart, Enchir. Symb. n. 163. torna al testo

62. Su Gelasio e la concezione che rompere la comunione con la Chiesa Romana significa rompere la comunione con Pietro, si confrontino le seguenti lettere secondo la citazione di Thuel , Epistolae Romanorum Pontificum Genuinae , Brunsbergae 1868. Eufemio non espurgando il nome di Acaio dall'elenco dei vescovi, si separa dall'unione con s. Pietro (quam ad beati Petri purum redire illibatumque consortium, Epist. 3, p. 313); ad Eufemio scrive che la Chiesa Romana ha diritto di giudicare tutto (Epist. 10, p. 347, illa a pontificibus et praecipue a beati Petri vicario); il vescovo africano Succonio recandosi a Costantinopoli ha negata la comunione con Pietro (comunionem suam beatum Petrum noveras denegare Ep. 9, p. 340); occorre guardarsi dal vescovo di Costantinopoli che intrattiene relazioni con gli acaciani dissidenti e perciò non può avere rapporto con la chiesa del beato apostolo Pietro (Ep. 18, p. 184; cfr pure Ep. 26, p. 395); egli deve agire ogni qualvolta la fede è minacciata, come vicario della sede apostolica (si noti della sede, non di Pietro; Ep. 26, p. 350); il concetto di vicario della sede apostolica ricorre pure in Ep. 12, p. 350; Ep 8, p. 338. Su questo problema cfr Fr. Spagnolo , Il titolo papale vicarius Christi nel Codex Carolinus , Università Cattolica Milano, Tesi di Laurea, anno accademico 1960-61, pp. 70-77. torna al testo