LE  EPISTOLE  PASTORALI
1, 2 TIMOTEO e TITO
Spunti esegetici e di attualità
La vita etica della comunità

a cura di Lino De Benetti - articolo tratto da Ricerche Bibliche e Religiose, n. 2-3, II e III Trimestre 1972 pp. 163-188


INDICE

I. La situazione storica della comunità
II. Le caratteristiche essenziali della vita etica
    1. Le buone opere
    2. La pietà
    3. Le parenesi etiche
III. La comunità nelle Pastorali e le comunità di oggi


I. La situazione storica della comunità

Giustamente esegeti e teologi ricordano che le comunità delle pastorali rispecchiano una situazione di eresie dilaganti (1) Non si può procedere in analisi e valutazioni di nessun tipo se non a partire dal contenuto oggettivo delle eresie di cui la comunità è chiaramente avvolta e imbevuta. E' tuttavia significativo che, pur tenendo presente questa situazione, si battano oggi strade diverse nell'interpretazione delle lettere e quindi anche nella comprensione che oggi ne dobbiamo avere. Sostanzialmente le due strade principali sono quelle della paolinicità o no delle pastorali. I primi quindi attribuiscono alle pastorali una situazione di stabilità della chiesa che sarebbe stata al termine di un suo lungo progredire. I secondi parlano invece di imborghesimento , inizio di una fase discendente e istituzionale della comunità cristiana che sarebbe documentabile dall'immediato futuro. Di conseguenza per i primi il modello comunitario delle pastorali sarebbe quello definitivo, quello che legittimamente documenterebbe per esempio il cessare dei doni spirituali. Per i secondi invece si tratta di un modello provvisorio di prescrizioni temporanee, vere « trincee difensive in cui ci si rifugia nel momento del pericolo » (2) Al di fuori di questi due esiti sembra che la questione delle pastorali non possa essere risolta e che non si possa sfuggire al dilemma « di Paolo o non di Paolo». Quello che comunque qui ci importa è di sapere se ci troviamo di fronte a una etica normativa o no. Comprendere cioè quale sia il messaggio divino per quanto riguarda la vita etica che scaturisce dalle pastorali. In ultima analisi il credente deve porsi anche questa domanda altrimenti inutili sarebbero il suo studio e la sua ricerca.

Crediamo infatti che sia possibile «rilevare positivamente il pensiero ecclesiologico di questi scritti » (3) sia prescindendo dalla loro appartenenza o meno al corpus paolino e sia senza pensare a un necessario inquadramento nello sviluppo della chiesa secondo gli altri dati del Nuovo Testamento (4) Infatti l'unico messaggio dell'Evangelo può, nella diversità delle situazioni storiche, assumere diverse applicazioni che divengono ora più importanti ora meno, sempre normative per quanto non esaustive. In questo contesto assume allora un'importanza notevole anche la questione del come le lettere siano entrate a far parte del canone biblico: sono di Paolo? in parte? non di Paolo? La risposta potrà così aiutarci nella lettura a comprendere collegamenti, sviluppi e posizioni, solo dopo che si sarà fatto il prioritario sforzo di una valutazione storico-teologica del contenuto.

Occorre dunque passare a un'analisi delle lettere qui limitato naturalmente a quelle che sono le caratteristiche essenziali della vita etica che da esse risulta.

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II. Le caratteristiche essenziali della vita etica

E' sempre abbastanza rischioso e difficile poter dire quali siano le categorie di pensiero e quali gli insegnamenti-chiave di un certo libro o epistola del Nuovo Testamento. Sembra tuttavia, al momento attuale dell'indagine esegetica, che per le pastorali si possano indicare con sufficiente chiarezza queste due costanti: le buone opere e la pietà (5) e le varie esortazioni che ne scaturiscono.

1. Le buone opere

Le opere nelle pastorali non sono più in relazione alla Legge di Mosè perciò sono opere buone (érga kalà ), frutto naturale della vita del vero cristiano:

« Come i peccati di certuni sono noti ancora prima della condanna e quelli di altri si conosceranno in seguito, così le buone opere sono note e quelle che non lo sono ancora, non potranno rimanere nascoste » (1 Ti 5, 24s)(6) .

La polemica antitesi di Paolo tra opere della legge (érga tou nómou), opere morte ( érga nekrá) e giustificazione per fede, nelle pastorali non c'è semplicemente perché le opere buone sono collegate su un piano di ovvia necessità della vita etica del cristiano. Non debbono mancare e non possono essere nascoste! E' evidente che la comunità alla quale si indirizza il messaggio non pretende affermare la propria giustizia attraverso le opere. D'altra parte non si dimentica affatto, anche se con rapidi cenni, la priorità dell' economia della fede , come viene affermato già all'apertura della 1 Timoteo (1 Ti 1, 4) dove si esorta a « favorire il disegno di Dio, che compie mediante la fede » (7) I due passi che solitamente vengono più indicati (8) sono i seguenti:

« ...fidando sulla potenza di Dio che ci ha salvati e ci ha rivolto una santa chiamata, non in considerazione delle nostre opere, ma secondo il suo piano di grazia . Piano che fu predisposto per noi in Gesù Cristo da tutta l'eternità, ma che è stato manifestato ora con l'apparizione del nostro salvatore Gesù Cristo, il quale ha infranto il potere della morte e ha fatto rifulgere la vita e l'immortalità per mezzo della buona notizia... » (2 Ti 1, 8b-10)

« Ma quando si manifestò la benignità del salvatore nostro Dio e il suo amore per gli uomini, allora egli ci ha salvati, non per opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno di rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo che ha sparso su di noi in abbondanza per mezzo di Cristo Gesù nostro Salvatore affinché, giustificati per la sua grazia , diventassimo nella speranza eredi della vita eterna. Insegnamento degno di fede è questo; voglio che tu ne parli con tutta franchezza perché coloro che hanno fede in Dio si studino di eccellere nelle opere buone . Queste sono belle e utili per gli uomini » (Tt 3, 4-8).

Si osserva tuttavia che qui i termini grazia e giustificazione ( káris e dikaiosyne) non hanno la stessa accezione della lettera ai Romani per esempio. Bultmann (9) rileva che il termine delle pastorali è più spesso messo in relazione a un senso oggettivo di giustizia come condotta morale, somma di virtù, rettitudine e anche con il termine osios, collegato a un senso di devozione e pietà . Che questo sia più spesso il significato dei termini non esclude che nei passi sopra citati si parli esplicitamente e senza possibilità di equivoco della priorità della giustificazione frutto della libera grazia di Dio, vera e unica copertura morale della vita etica della comunità cristiana. Il contesto di questi passi non permette altra interpretazione. L'osservazione di G. Schrenk (10) che il termine dikaiosyne nelle pastorali « ha trovato speciale considerazione perché in esse viene sottolineato, rispetto alla gnosis, l'ethos reale», lo è appunto per la situazione storica particolare di questa comunità e non per «una elevazione al livello cristiano della verità implicita nella dottrina ellenistica delle virtù » come egli sembra voler asserire. Molto più importante è invece il commento del Käsemann che in una nota omiletica su Tt 3, 4-7 (che per lui è una parenesi battesimale), così scrive del v. 5 (11) :

« Come terza caratteristica storica del nostro testo constatiamo che qui prende la parola una comunità di provenienza paolinica. L'antitesi al v. 5, le nozioni di giustizia e di grazia, l'espressione «eredi di vita eterna in speranza », il parallelismo del v. 7 con Rm 3, 24 e del vers. 6a con Rm 5, 5 lo provano, benché le due ultime espressioni già in Paolo siano usate come formule e siano riprese dalla tradizione. In questa comunità viene dunque fedelmente conservato il sola gratia, in funzione del quale appunto l'Apostolo sottolinea fortemente l'atto battesimale. Eppure non si può disconoscere una notevole divergenza tra il testo e Paolo. Non paolinici sono i termini ripresi dal culto del Signore, la designazione del Cristo come nostro Dio Salvatore nei vv. 4 e 6, la formula di citazione tipica delle pastorali nel v. 8 (messa alla fine della citazione), l'espressione con cui si parla del dono del battesimo nel v. 5b. Naturalmente si può discutere se è utile questa specie di elenco statistico. E' in ogni caso discutibile, finché non si possono mostrare nello stesso tempo delle serie differenze teologiche. E qui non se ne può fare a meno. Salta già agli occhi che l'antitesi del v. 4 non parla di opere della legge. I cristiani di provenienza pagana dell'epoca subapostolica non sentono più le ragioni che hanno condotto Paolo ad opporsi così acutamente al giudaismo, e senza dubbio non hanno più completamente capito il senso dell'opposizione. E' per questo che nel v. 5 si parla della giustizia in un modo in cui sarebbe stato impossibile a Paolo: come di una qualità morale dell'uomo, probità. Il modo greco di intendere il concetto si è unito con il termine ereditato da Paolo, il quale di conseguenza viene interpretato con disinvoltura nel v. 2, 12: « vivere temperatamente, probamente e religiosamente ». Questa giustizia risultante da umana capacità è reclamata come possibile nel passato pagano della comunità, anche se d'altra parte non si è mai realizzata di fatto. Di qui però l'antitesi soffre una puntualizzazione, che originariamente in Paolo non ha avuto.
Paolo afferma appunto: proprio le opere della legge e le pie azioni ci fanno precipitare nel peccato, perché con esse dev'essere instaurata la giustizia propria che offende la divinità di Dio. Qui invece si afferma: neppure la nostra giustizia ci ha salvati. L'antitesi paolinica di opus proprium e opus alienum (opera dell'uomo e opera estranea a lui) è risolta sul piano morale, cosicché ora stanno di fronte possibili opere buone ed effettive cattive azioni. Bisogna sottolineare la nostra miseria e spiegare con forza il sola gratia come mostra il contesto; in ciò la continuità con Paolo è conservata, ma con un appiattimento che analogamente caratterizza il passaggio dalla Riforma al Pietismo. Non a caso la grazia viene definita per mezzo della predicazione — elaborata nella sinagoga della diaspora — della benignità e dell'amore (filantropia n.d.r.) verso gli uomini e della misericordia di Dio. Della dottrina della justificatio impii (giustificazione del senza-Dio) si conosce ancora e si rispetta lo schema; ma essa ha perduto la sua ultima paradossale forza ».

Va tuttavia aggiunto che «l'appiattimento » del sola gratia c'è, ma non perché abbia perduto la sua motivazione o perché « si risolva sul piano morale». Anzi, il contesto polemico è conservato in quanto le opere buone sono qui la risposta alla situazione di eresia dilagante, si cui si diceva all'inizio. La forza polemica della giustificazione per fede e non per opere della Legge non è qui perduta, è, più semplicemente, acquisita e inserita in un contesto storico diverso che porta a uno sbocco non meno significativo.

Se dunque è vero, per dirla con Lutero, «buone, pie opere non fanno un uomo buono e pio; ma un uomo buono, pio fa buone, pie opere » (12) si deve ammettere che le pastorali conferiscono al credente una parte notevole di responsabilità nella sua azione personale, cioè compiere opere buone . In fondo le opere rimangono atti personali del credente in cui si rivela la sua autentica disposizione a seguire Cristo i al contrario la non rispondenza oggettiva con quella giustificazione che gli è stata donata. Così deve essere per esempio intesa la retribuzione divina che è prevista per Alessandro il ramaio per aver compiuto del male: « Il Signore gli renderà secondo le sue opere » (2 Ti 4, 14)Su questo taglio sono anche altri due passi che meritano di essere rilevati:

« Tutto è puro per coloro che sono puri, ma nulla è puro per i corrotti e per gli increduli, la cui intelligenza e coscienza sono contaminate. Essi professano di conoscere Dio, e a fatti lo rinnegano , abominevoli quali sono, disubbidienti e incapaci di qualsiasi opera buona » (Tt 1, 15s)

« Per tutti gli uomini infatti si è manifestata la grazia salvifica di Dio, la quale ci ha insegnato a vivere in questo modo da persone temperanti, giuste e pie, rigettando l'empietà e i desideri terreni, mentre attendiamo il compimento della buona speranza e la manifestazione gloriosa del nostro grande Dio e salvatore Gesù cristo, che ha dato se stesso per noi allo scopo di riscattarci di ogni iniquità e prepararsi un suo proprio popolo, zelante per le opere buone » (Tt 2, 11-14).

L'insistenza ad esortare la comunità a rispondere della propria fede sul piano dei fatti non è mai presentata come copertura di una giustizia propria o come merito per capitalizzare un avvenire celeste. La fede non si professa solo a parole, ma con le opere buone, ed inoltre è la grazia di Dio che rende capace il credente di compierle. Al contrario è incapace — e dunque commette il male — chi non vive in stretta dipendenza dalla grazia salvifica di Dio (13) L'unico passo che potrebbe far pensare il contrario è il seguente:

« Ai ricchi di questo mondo ordina di non montare in superbia e di non riporre le loro speranze nella instabilità delle ricchezze, ma in quel Dio che tutto ci fornisce con abbondanza perché ne godiamo; di fare il bene, di arricchirsi d'opere buone e di essere generosi e liberali, tesoreggiando per se stessi un buon capitale per l'avvenire e così conseguire la vera vita» (1 Ti 6, 17-19).

Le opere buone sono qui presentate come un tesoro che può essere conservato e accumulato durante la vita terrena per conseguire poi quella « vera» dell'avvenire escatologico. Infatti apothesaurizontas (14) eautois(15) themélion(16) kalòn eis tò méllon significa letteralmente «accumulando per se stessi un buon fondamento per l'avvenire ». E' tuttavia importante osservare che qui l'accumulo (o se si vuole il capitale) non è visto come merito del cristiano (17) ma in contrapposizione polemica con l'accumulo della ricchezza materiale, come l'unica ricchezza che gli sia consentita fa sua in vista poi di una vita non più apparente ma reale ( tes óntos zoes) perché in comunione con Dio. Non si può accettare l'opinione di alcuni commentatori cattolici come il De Ambroggi(18) che qui, fa sua, sulla scia non dell'esegesi del passo ma delle premesse dogmatiche, l'opinione di Tommaso d'Aquino circa il merito che si acquista per la gloria futura con le opere buone compiute su questa terra. L'opera buona è semplicemente un fondamento sicuro di fronte all'assoluta incertezza delle ricchezze, con il quale ci si può presentare di fronte al Signore a fronte alta non per aver conseguito un merito ma per aver compreso (e quindi essersi comportati di conseguenza) che Uno solo è colui che dona le ricchezze a piene mani. Certamente seguendo il commento di N. Brox (19) è vero che «il modo di esprimersi è alquanto pesante», ma occorre ricordare, come continua lo stesso studioso e come ben mettono in rilievo anche A. Plummer (20) e E.K. Simpson(21) che l'ammonimento ad accumulare un fondamento per conquistare la vera vita va compreso non solo nel suo contesto essenziale ma anche nel confronto con le altre affermazioni delle pastorali circa il rapporto giustificazione/buone opere che si è sopra esaminato. E per ultimo va aggiunto una lucida precisazione di F. Hauck secondo cui « la differenza rispetto al tardo giudaismo consiste nella spiritualizzata esclusività di tale esigenza (cioè compiere buone azioni per accumulare un tesoro nel cielo) » (22) Nel caso dell'esortazione ai ricchi è implicita tutta una serie di motivazioni sul senso della vita terrena inteso come effimera, apparente ed infatti in contrasto con quella futura che viene chiamata per questo vera . L'unico modo dunque per viverla in armonia con lo stile di quella futura è quello di abbandonare la fiducia e l'accumulo sui beni terreni, ma, per chi li possiede, distribuirli e metterli in comunione con gli altri ( eumetadótous einai, koinonokoús ). Solo questo modo di essere ricco è l'unico che può tollerarsi nella comunità cristiana (23) Si può perciò concludere ricordando un verso immediatamente precedente secondo cui «l'amore per il denaro è radice di tutti i mali »

« Certo, la pietà è fonte di grande guadagno, ma per chi si accontenta della sua sorte. Nulla infatti abbiamo portato con noi venendo in questo mondo e perciò nulla potremo portare via; pertanto, se abbiamo di che vestirci e di che nutrirci, sappiamoci accontentare. Quelli invece che bramano arricchirsi cadono nella tentazione e nei lacci d'ogni genere di cupidigie insensate e nocive, che sprofondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Radice infatti di tutti i mali è l'amore per il denaro e certuni per la brama di possederne si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti affanni.
Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose, persegui invece la giustizia, la pietà, la fede, l'amore, la costanza, la mansuetudine » (1 Ti 6, 6-12).

In fondo dunque l'opera buona, che qui viene raccomandata al cristiano, è duplice: il rifiuto dell'accumulo delle ricchezze materiali e al contrario la sua dedicazione alla generosità e alla comunione dei beni verso gli altri. A. Soggin molto bene commenta qui che « il problema della ricchezza è espresso nella contrapposizione speranza - incertezza: la fede vive nella speranza, la ricchezza si nutre di incertezza » (24) Non i può fare a meno di collegare questa esortazione con l'insegnamento di Gesù nella sua antinomia di valori espressa nel concetto di « tesoro » (25) .

Con l'ammonimento a non confidare nella ricchezza, ma anzi a distribuirla agli altri, siamo in presenza di una delle opere buone che vengono suggerite nelle pastorali. In conclusione esse non sono altro che le conseguenze concrete, sul piano della vita etica, sgorganti dall'atteggiamento ideale che la comunità cristiana delle pastorali deve avere, la pietà. E' a questa che ora occorre rivolgerci per capire meglio anche la motivazione delle buone opere.

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2. La pietà

Il concetto di pietà è forse quello maggiormente discusso nelle pastorali e che ha determinato almeno il dissenso più acuto circa la loro interpretazione così come si premetteva all'inizio di questo studio. E' senz'altro significativo il fatto che nel N.T. il termine eusébia (26) oltre che in queste lettere, ricorre cinque volte nella 2 Pietro e una sola volta in Atti. Tuttavia, come ci siamo proposti all'inizio, il collegamento con gli altri dati del Nuovo Testamento (27) sarà fatto solo dopo il tentativo di comprensione interna.

Se è chiaro dunque che il concetto di pietà occupa nella comunità delle pastorali una posizione centrale, non è parimenti facile poter determinare la sua precisa collocazione teologica. C'è anzitutto tutta una ricerca, che esula però dal presente studio, per determinare fino a che punto il termine è mutuato, se non proprio dal mondo ellenistico, senz'altro da un gruppo lessicale greco (28) Non pochi studiosi tuttavia si rendono conto che nelle pastorali c'è almeno uno spostamento semantico del termine determinato proprio dalla situazione storica interna. Non è perciò facile catturare e circoscrivere con esattezza il contenuto di eusébia come invece alcuni fanno con troppa sicurezza (29) .

A noi interessa comunque l'aspetto che ha un esplicito riferimento alla vita etica, della quale la pietà sembra essere un po' l'entroterra teologico che ne motiva gli esiti. Tentiamo ora un abbozzo che non è esaustivo, ma solo orientato verso una certa dimensione, precisamente quella che si riferisce e sbocca nella vita etica. Si può perciò fare uno schema discendente di questo tipo:

a) la pietà è collegata al nucleo essenziale del kérigma ( grande è il mistero della pietà , 1 Ti 3, 16);

b) Essa è quindi propria del cristiano che s'attiene alla dottrina (1 Ti 6, 3) e si fonda sulla verità (Tt 1, 1);

c) così essa è anche, oggettivamente, l'ideale della vita cristiana ( esercitarsi alla pietà... che è utile a tutto , 1 Ti 4, 7s);

d) un simile atteggiamento si deve però realizzare in una particolare condotta di vita che si traduce concretamente:

— in una vita serena e tranquilla (1 Ti 2, 2)(30) non soltanto della comunità cristiana, ma anche del mondo (qui di quelli che sono in autorità),

— l'accettazione della propria situazione esistenziale (1 Ti 4, 6ss) che non anela la ricchezza né il proprio miglioramento sociale,

— una condotta sostanziale e formale, di totale devozione e dedicazione a Dio, sia all'interno che all'esterno della comunità (1 Ti 6, 4-11; 2 Ti 3, 5) (31) .

La condotta etica richiesta dall'atteggiamento della eusébéia sembra indirettamente far scaturire le varie esortazioni che racchiudono con crescente chiarezza il tipico atteggiamento della comunità delle pastorali.

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3. Le parenési etiche

Occorre subito mettere in evidenza rapidamente quelle che sembrano le esortazioni più significative per quanto riguarda la condotta etica sia all'interno della comunità che verso il mondo.

a) Sottomissione, preghiere e suppliche per i re e le persone che sono costituite in autorità (32) :

« Raccomandiamo dunque, innanzi tutto, che si facciano preghiere, suppliche, intercessioni e rendimenti di grazie per tutti gli uomini, in particolare per i re e per tutti coloro che sono costituiti in autorità, affinché noi possiamo condurre una vita quieta e tranquilla in tutta pietà e saggezza» (1 Ti 2, 1s)

« Ricorda loro di essere sottomessi alle autorità costituite, ad essere ubbidienti, pronti ad  ogni opera buona, di non sparlare di alcuno, di non essere litigiosi ma miti mostrando una grande dolcezza verso tutti gli uomini» (Tt 3, 1)

b) Mostrare una grande dolcezza con tutti senza offendere nessun uomo (Tt 3, 1) (33) .

c) Avere cura dei bisogni materiali dei propri fratelli e specialmente delle vedove e quelli della propria famiglia:

« E anche i nostri imparino a praticare le opere buone per far fronte alle necessità urgenti, onde non siano gente inutile » (Tt 3, 14)

« Se poi taluno non ha cura dei suoi e soprattutto di quelli della sua famiglia, egli ha rinnegato la fede ed è peggiore di chi non crede. La vedova sia iscritta nel registro qualora non abbia meno di sessant'anni, e sia stata fedele al proprio marito; goda buona reputazione per le sue opere buone, avendo allevato bene i figli, esercitato l'ospitalità, lavato i piedi ai santi, soccorso gli afflitti e atteso ad ogni opera buona » (1 Ti 5, 8-10)

d) Non ricercare la ricchezza ( 1 Ti 6, 17s) perché l'amore del denaro è radice di tutti i mali (1 Ti 6, 6-11).

e) Ai credenti in stato di schiavitù viene ordinato di tributare onore e di non disprezzare i loro padroni e, se sono credenti (1 Ti 6, 1s; Tt 2, 9-10), proprio per questo, servirli meglio(34) .

f) Sottomissione delle donne al marito, loro divieto di insegnare (1 Ti 2, 1-5); dedicazione ai lavori domestici all'educazione dei figli (Tt 2, 3-5).

E' quindi una vita etica che all'interno della comunità si propone l'ideale della rinunzia e dell'ubbidienza e, verso il mondo, una condotta che non desti la riprovazione di nessuno. Scaturisce così il valore antinomico e quindi profetico della comunità cristiana che non ha altro da attendersi che la realizzazione della speranza del tempo escatologico in cui l' epipháneia del Cristo rende compiuto il pellegrinaggio cristiano.

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III. La comunità delle Pastorali e la comunità di oggi

La comunità delle pastorali è il ritratto di chi si rinchiude in se stesso nello sforzo di ordinare la propria vitalità con funzioni precise. Appare perciò tesa a praticare la vita etica attraverso una condotta inattaccabile da quelli di fuori per presentarsi pura, piena di buone opere, esercitante la pietà. Assente sembra la forza dirompente dello spirito degli « entusiasti», acritica appare la sua condotta verso il mondo, e almeno conservatrice la condotta dei servi verso i padroni, delle donne verso i mariti, della comunità verso lo Stato. Torniamo così alle domande di partenza: siamo dunque davvero in presenza di un imborghesimento della chiesa? o piuttosto questo è il modello più legittimo perché appartenente alla fase definitiva dello sviluppo della chiesa del Nuovo Testamento? Occorre ora dare una qualche indicazione definitiva che scaturisca dal contesto storico-teologico del materiale offerto dalle due lettere.

Si debbono distinguere due posizioni che non sembrano del tutto corrette nella comprensione della vita etica delle pastorali. La prima, a prescindere dal paolinismo o meno delle lettere, parla di un proto-cattolicesimo (35) e di un imborghesimento (36) della chiesa, ma in fondo anche secondo il Conzelmann « sarebbe un giudizio non storico di valutare questo periodo semplicemente dal punto di vista di Paolo, attribuendo invece un posto tutto particolare ai Sinottici e a Giovanni (comprese le sue lettere) »(37) Mi pare perciò che occorrerebbe meglio spiegare l'affermazione ricorrente secondo cui le esortazioni etiche delle pastorali sono temporanee. A partire da quali fatti? E fine a quando? E' certo tuttavia, in una seconda posizione, che non si tratta nemmeno di esortazioni che legittimano, come alcuni vorrebbero, uno sviluppo definitivo dell'immagine della chiesa, per cui diverrebbero le più importanti o addirittura le sole ad essere normative anche per la chiesa di oggi (38) In ambedue queste posizioni c'è un mescolamento acritico dei dati del Nuovo Testamento che pretende l'unitarietà del suo messaggio accogliendo come legittima e normativa ora la fase iniziale ora quella finale di certo sviluppo storico del cristianesimo primitivo, il quale invece non è il filo conduttore dei libri neotestamentari. In altri termini occorre dire che le nostre lettere non rappresentano una fase finale (per gli uni reazionaria, per gli altri la più legittima), ma un documento che, se anche storicamente posteriore ad altri è compreso nei dati autentici della testimonianza biblica neotestamentaria, è cioè Parola di Dio . Il dato normativo va dunque ricercato per quanto riguarda la vita etica nella necessità che la comunità ha, di fronte alle tempeste che l'assalgono dall'interno e dall'esterno, di riflettere su se stessa per scegliere il tipo del proprio impegno e del proprio rapporto con il mondo. Infatti quest'ultimo non è mai univoco, irreformabile, ma muta secondo la situazione storica. E ciò significa, per quanto riguarda il contenuto positivo delle pastorali, che ci troviamo di fronte a esortazioni che abbiamo ancora bisogno di recuperare e non a norme da liquidare sic et sempliciter con un'etichetta di acritico anacronismo riferito ai tempi attuali. Se è vero che i documenti del Nuovo Testamento sono la testimonianza non tanto dello sviluppo di contrastanti ecclesiologie quanto di concetti storico-teologici diversi dovuti al diverso cammino della comunità, allora anche la vita etica delle comunità delle pastorali ha il suo messaggio normativo che occorre riascoltare oggi con estrema serietà. Così si possono sottolineare, in conclusione, alcuni punti significativi di estrema attualità per la comunità cristiana odierna.

a) L'insistente rilievo dato alle buone opere come azioni della responsabilità e della scelta individuale dei credenti. Queste non sono certamente segni metafisici, ma in qualche modo riflettono la condotta di chi dà la sua risposta coerente all'iniziativa divina già avvenuta. In altri termini le opere della comunità cristiana non sono buone di per sé, né diverse da quelle degli altri uomini, ma certamente riflettono e testimoniano la volontà di una imitazione e di una rispondenza all'immotivata agape del Cristo. Si tratta cioè di una vita etica delle opere giuste che, pur nella perduta contrapposizione con l'antitesi paolinica con le opere della Legge, trova il suo contesto polemico nell'eresia che imbeveva la comunità (ed oggi nell'etica borghese!)

b) Una condotta assolutamente diversa da quella del mondo come sforzo, mai coperto da merito, di realizzare all'interno e all'esterno della comunità una vita di concreta umiliazione e di ubbidienza che subisce e paga di persona. E' in fondo una polemica concreta e fattiva contro i valori dell'etica profana tutti protesi alla realizzazione di se stessi a prescindere dal fratello e dal prossimo. Come non ci si può accorgere della testimonianza altamente profetica che una simile condotta «conforme a pietà » potrebbe avere anche nel mondo contemporaneo?

Certo non si può fare a meno di ricordare come certe esortazioni piuttosto pesanti destino oggi più di una preoccupazione anche per chi crede nel messaggio divino del Nuovo Testamento. E' perciò a questi punto che occorre ricordare e ricercare l'aggancio con gli altri dati del Nuovo Testamento, ma non per esautorare le esortazioni delle pastorali, ma solo per constatarne la appartenenza a uno dei volti del cammino della comunità cristiana che di volta in volta, secondo la diversa circostanza storica e soprattutto secondo il soffio di Dio, imboccherà. Si tratta semplicemente di ricordarci del detto di Gesù: « Il Sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il Sabato » (39) In altri termini, e senza pretendere di indicare una risposta definitiva, occorre ripetere che il messaggio divino nel mutare delle situazioni storiche, può suggerire al credente ora di parlare ora di tacere, ora di compiere un certo tipo di scelta ora un'altra. E chi ne può essere responsabile di fronte al giudizio di Dio se non proprio la comunità cristiana? La vita etica della comunità delle pastorali è dunque Parola di Dio hic et nunc (qui ed ora), che compresa nella situazione del tempo, diviene anche oggi un appello evangelico e una esortazione cristiana. Ciò non vuol dire, fare del situazionismo morale (40) o lasciare pericolosamente nelle sole mani dell'uomo la decisione del cammino che la comunità cristiana è chiamata a percorrere (41) .

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NOTE A MARGINE

1. Il termine è di O. Cullmann, Introduzione al Nuovo Testamento, Il Mulino, Bologna 1966, p. 98, che peraltro lo riferisce particolarmente alla 1 Timoteo, in secondo luogo alla 2 Timoteo e in tono minore a Tito, che, a suo avviso, non riflette forse la stessa situazione storica. Riconosce però, il dato che qui ci importa, una situazione sempre imbevuta di eresia, forse lo gnosticismo dei giudeo-cristiani (Tt 1, 10-16; 3, 9-11). Cf. soprattutto lo studio di F. Salvoni qui pubblicato. torna al testo

2. E. Käsemann, Appello alla Libertà, Claudiana, Torino 1972, p. 123. torna al testo

3. Così procede, ci sembra giustamente anche R. Schnackenburg parlando dell' Immagine della chiesa nelle lettere pastorali , in «La Chiesa del Nuovo Testamento», Morcelliana, Brescia 1966. p. 105, per quanto ne ritenga necessaria una congiunzione con lo sviluppo teologico della Chiesa del Nuovo Testamento. torna al testo

4. Per esempio. E. Schwizer, La comunità e il suo ordinamento nel Nuovo Testamento, Gribaudi, Torino 1971, p. 63, ricollega la comunità delle pastorali alla concezione di Luca e Matteo e dice che qui essa « si considera come continuazione di quella giudaica ». torna al testo

5. E' l'atteggiamento della pietà che realizza le buone opere, ma qui vogliamo rovesciare l'analisi e partire dalle conseguenze. Ci sembra che così sarà più chiara anche la motivazione e cioè il supporto interiore della vita etica delle pastorali. torna al testo

6. La traduzione dei passi citati è quella di F. Salvoni .- I. Minestroni, Editrice Lanterna, Genova, 1972. Le parti in corsivo sono quelle che pongono in evidenza i temi trattati da questo studio. torna al testo

7. La traduzione è di J. Reuss in «Commenti spirituali del Nuovo Testamento», prima lettera di Timoteo, Città Nuova Editrice, Roma 1965, p. 25. La frase greca é oìkonomian Theou tèn én pístei sembra infatti meglio resa con «disegno di Dio » più che « dispensazione » (Diodati, Luzzi) in quanto certamente si riferisce a un'economia salvifica poggiante e derivante da Dio. Praticamente tutti i moderni insistono nell'attribuire alla frase greca un richiamo preciso a quella tipica caratteristica neotestamentaria secondo cui il messaggio della fede viene da Dio e su di Lui solo si poggia. E' il disegno di Dio (o la sua economia) che si effettua nella fede a dare salute all'uomo e non qualsivoglia altra dottrina od opera. Molto bene commenta P. Dornier (Les épitres pastorales, J. Gabalda, Paris 1969, pp. 36-37): « Ici l'expression s'applique surement au salut lui.même en sa nature profonde, c'est-à-dire à ce Mystère enveloppé de silence durant une éternité de siècles, maintenant manifesté en Jesus-Christ et révélé aux pajens ». Anche S. Cipriani, Le lettere di S. Paolo, Assisi 1966, p. 639, traducendo « l'economia di Dio nella fede» si richiama alla nota relativa, al « disegno salvifico di Dio » che ricorda Rf 1, 10; 3, 9. Un'altra traduzione molto significativa è quella di N. Brox, Le lettere pastorali, Morcelliana, Brescia 1970, pp. 149-153. Rende infatti la frase greca con « ordine salvifico di Dio » aggiungendo nel commento che « la predicazione della Chiesa è notizia che Dio dà di sé ». Meglio ancora D. Guthrie, Le epistole pastorali, Edizioni G.B.U., Roma 1971, p. 69, accetta l'opinione di E.F. Scott (The Pastorals Epistles, The Moffat New Testament Commentary, London 1936) secondo cui il « contrasto è qui tra due attività, non tra due opinioni del mondo ». Si può semmai notare che la Vulgata seguendo una variante testuale annotata dall'apparato critico del Merk e del Nestle Trascurata da Aland) traduce « aedificationem Dei, quae est in fide» accetta, pur con una sfumatura di significato, anche dalla traduzione inglese «Revised Standard Version» con « divine training that is in the faith». Gli studiosi che accettano o propongono anche la traduzione poggiante sulla variante oikodomén debbono però riconoscere che non è ben sorretta né dai manoscritti migliori né dal contesto. Così deve concludere per esempio C. Spain, The letters of Paul to Thimothy and Titus, R.B. Sweet Co., Inc., Austin, Texas 1970, pp. 28-29. torna al testo

8. Così G. Bertram, voce érgon. «Gramde Lessico del N.T.», vol. III, Paideia, Brescia 1967, coll. 873-875, afferma che « la concezione paolina dell'assoluta attività di Dio ricorre anche in 2 Ti 1, 9 e Tt 3, 5». Ricordando poi i passi più importanti di Romani e Galati conclude che « non sussistono opere proprie dell'uomo quando tutto è opera della grazia. Se, nonostante ciò, nel messaggio di tutto il N.T. si parla di buone opere (e non soltanto «umanamente parlando»), ciò avviene con una ripresa dell'uso legittimo che di questo concetto si può fare nella rivelazione, E' ben vero che le opere dell'umanità decaduta sono malvage, ma l'era della salvezza ripristina la condizione in cui essa fu creata: tutte le opere dell'uomo sono opere di Dio compiute attraverso l'uomo» ( ... ). « Per il cristiano che ha fede i kalà érga che si compiono nella sua vita non sono mai semplici opere umane, ma opere di Dio che si attuano mediante l'uomo. Perfettamente retto è quindi tutto ciò che un giudizio affinato al senso delle Sacre Scritture avverte come promuovente la vita, come Kalon érgon , come érgon theou ». torna al testo

9. R. Bultmann, Theology of the New Testament, vol. 2, SCM Press Ltd, London 1965, pp. 212-213. elenca i seguenti passi: 1 Ti 1, 9; 6, 11; 2 Ti 2, 22; 3, 16; Tt 2, 12. torna al testo

10. G. Schrenk, voce dikaiosyne nel rapporto con l'areté in Paolo «Grande Lessico del N.T.», Paideia, Brescia 1966, II voll., coll, 1288-1289. torna al testo

11. E. Käsemann, Exegetische Versuche und Besinnungen I, Göttingen, Vanoheck & Rprecht 1960, pp. 298ss (trad. it. delle note omiletiche a Matteo 15, 1-10 (Mc 7, 1-23); 1 Co 6, 19-20; Tt 3, 4-7 (diffusa in un ciclostilato a cura del Servizio Studi della Federazione, Via Firenze 38 Roma). torna al testo

12. M. Lutero, Libertà del cristiano, Claudiana, Torino 1970, p. 54. torna al testo

13. R. Bultmann, o.c., p. 211 ricorda oltre a questo anche altri passi pastorali dove il termine grazia ricorre con lo stesso significato che ha anche nel resto del Nuovo Testamento.  Così 1 Ti 1, 14 e 1 Ti 1, 2; 2 Ti 1, 2; Tt 1, 4 dove il termine è associato con éleos. Per il senso di quest'ultimo cf. anche R. Bultmann, o.c., pp. 282s e R. Bultmann, voce éleos, Th. W. N.T., III vol., coll 417, nota 100. torna al testo

14. E' la sola volta nel N.T. che appare questo verbo (participio di ápothesaurízo). Ricorre altre volte (Mt 6, 19; Lc 12, 21; Rm 2, 5; 1 Co 16, 2: 2 Co 12, 14; Gc 5, 3; 2 Pt 3, 7) nella forma thesaurízo e con lo stesso significato. torna al testo

15. La traduzione «a loro vantaggio » è in armonia con il contesto, è un chiaro rafforzativo del motivo dell'azione caritatevole del cristiano che non va confusa però con qualsiasi tipo di merito. torna al testo

16. In senso letterale è forse meglio tradotto fondamento, fondo o base più che capitale o tesoro, termini che rendono più giustizia al contesto. D. Guthrie (c.c., p. 137) ricorda una lettura diversa ( thema lian invece che themélion ) suggerita da Moffat per cui il testo suonerebbe « accumulando un tesoro davvero buono», ma, risponde Guthrie, «Tale emendamento non solo è privo di conferma nel manoscritto, ma implica anche una costruzione greca contorta e insolita ». torna al testo

17. Sarebbe d'altra parte in stridente contrasto con i passi analizzati precedentemente, sempre delle pastorali, dove si analizza esplicitamente il rapporto tra giustificazione ed opere buone. torna al testo

18. P. De Ambroggi, Le epistole pastorali di S. Paolo a Timoteo e a Tito, Marietti, Roma 1953, p. 174. Nel commento si riferisce all'opinione di Ugo da S. Caro e specialmente a S. Tommaso di cui riporta il seguente brano: « Il tesoro spirituale è la raccolta dei meriti che costituiscono il fondamento dell'edificio futuro, che ci sarà preparato in Cielo, perché tutta la preparazione della gloria futura si ha mediante i meriti ». torna al testo

19. N. Brox, o.c., p. 325. torna al testo

20. A. Plummer, The Pastoral Epistles, The Expositor's Bible, Hodder and Stoughton, London 1950. Egli ricollega l'esortazione ai ricchi, alla situazione della città di Efeso con il suo abbondante commercio e quindi al desiderio di essere ricchi, come una comune passione. Ricorda inoltre il grande tempio di Diana che era concepito sia come un santuario che come una banca. per questo (pp. 188-198) insiste sulla totale antinomia di valori che viene qui proposta cioè come egli scrive: « The gain of a love of godliness and the ungodliness of a love of gain » che si può tradurre per non perdere il gioco di parole dell'inglese: « Il guadagno di un amore di bontà e la malvagità di un amore di guadagno ». torna al testo

21. E.K. Simpson, The Pastoral Epistles, The Tyndale Press, London 1954, p. 91. L'ammonimento ai ricchi viene qui riconciliato, come in A. Plummer, alla presenza nella comunità « di membri ricchi in città importanti », avvertendoli della vanità della loro fiducia nelle ricchezze. L'unica cosa che conta è lottare semmai per il raggiungimento di un fondamento stabile che si realizza proprio in motivazioni e opere giuste contrarie a quelle che attualmente stanno perseguendo. « La vita che è vita davvero (life that is life indeed) » è la traduzione che egli propone di tès óntos zoés (1 Ti 6, 19) in connessione con un uso per lui specificatamente paolino, ma che si può confrontare anche a 2 Pt 3, 6s. torna al testo

22. F. Hauck, voce Thesauros, «Grande Lessico del N.T.», IV vol., Paideia, Brescia 1968, col. 512. L'autore tuttavia non si riferisce — né cita mai — 1 Ti 6, 19 nemmeno alla voce thesaurizo (coll. 513-516). Ci sembra una mancanza, ma in ogni caso la sua osservazione ci è sembrata pertinente anche al nostro passo. torna al testo

23. Di questo stesso parere è anche J. Freundorfer, Le lettere pastorali, Morcelliana, Brescia 1961, p. 346. torna al testo

24. A. Soggin, Commento al testo di 1 Timoteo, in «Il Nuovo Testamento annotato», vol. IV, Editrice Claudiana, Torino 1966, p. 25. torna al testo

25. Particolarmente Mt 6, 20; Lc 12, 21; Lc 18, 22. Per Gesù l'accumulo delle ricchezze è un atteggiamento egoistico ed esclusivamente terreno (F. Hauck, o.c.). Non si può qui allargare la discussione se cioè Gesù chieda la rinuncia (come sembrerebbe da Luca e da Giacomo) totale della ricchezza o semplicemente il suo buon uso (come sembrerebbe da Matteo e da Paolo), ma è importante notare nel nostro passo « l'assoluta esigenza di un distacco dal possesso quale presupposto per la generosità » (N. Brox, o.c.). torna al testo

26. Ecco l'elenco dei passi in cui il N.T. usa il termine eusébeia: At 3, 12; 1 Ti 2, 2; 3, 16; 4, 7.8; 6, 3.5.6; 2 Ti 3, 5; Tt 1, 1; 2 Pt 1, 3.6.7.; 2, 9; 3, 11. E' evidente l'uso preponderante delle pastorali e quello assolutamente isolato di Luca in Atti. torna al testo

27. Ci si riferisce particolarmente a tutto lo studio, certamente molto importante, sul rapporto teologico tra fede e pietà che ricorre nella discussione sulla paolinicità delle pastorali. Escludiamo pertanto l'esegesi di 1 Ti 3, 16 (il mistero della pietà) in quanto si tratta dell'unica sicura identificazione di pietà con fede o con verità. Così N. Brox, o.c., p. 238, che pure non ammette la paolinicità delle nostre lettere. Anche H. Conzelmann, Teologia del Nuovo Testamento, Paideia 1972, p. 93 cita questo passo come appartenente a una delle formule primitive della fede apostolica, per quanto lo consideri, a causa del suo stile e del suo dizionario, una frase estranea a quella dell'autore delle pastorali. torna al testo

28. Cf. N. Brox, o.c., Introduzione 2/e, pp. 70-75. torna al testo

29. Infatti non mi sembra che si possa accogliere né l'opinione dello Spicq (Les épitres pastorales, Gabalda, Paris 1969, pp. 13ss) secondo cui l'euseébeia è un momento specifico della fede cristiana, ma nemmeno quella di Conzelmann e altri secondo cui essa trova la sua collocazione più naturale nell'etica. Per questa discussione cf N. Brox, o.c., nota 7, la pietà, pp. 258-262, che accoglie, pur con qualche diversa sfumatura, l'opinione di Dibelius-Conzelmann. torna al testo

30. Il modo di vita tranquilla si coglie qui nell'auspicio della preghiera della comunità riferito a «quelli che sono in autorità», ma ne è chiaro lo specchio nell'ideale di vita che la comunità ha di se stessa. Quello che essa ritiene proprio ideale è ovvio infatti che debba essere proiettato anche per il mondo, forse anche per il desiderio di non essere a sua volta disturbata da subbugli, ribellioni di qualsiasi tipo. Qui la concezione di uno Stato che si presuppone elemento neutrale della vita etica, per cui v'è come una implicita equazione secondo cui la tranquillità dello Stato (statu quo) corrisponde, almeno esternamente, anche a quella della comunità. E' evidente che la comunità delle pastorali non ha ancora potuto conoscere l'implicazione politica del suo essere nel mondo, specialmente nei riguardi dello Stato, come invece emerge per esempio dal libro dell'Apocalisse (in particolare il cap. 13). Solo per non ripetere mi permetto di ricordare per questa discussione quanto già ebbi l'occasione di scrivere circa Stato e Chiesa nella 1 Pietro, in «Ricerche Bibliche e Religiose», 1-2, 1971, Genova, Lanterna, pp. 145-156. torna al testo

31. A proposito di 1 Ti 6, 4-11 si osserva da parte di diversi studiosi che le pastorali intendono l'etica cristiana come l'adempimento di una serie di virtù che riprenderebbe la classica nozione greca. Così per esempio W. Foerster, sebomai. Th. W. N.T., vol. 7, p. 182 che definisce la pietà un « rapporto nei riguardi di Dio diverso sia dal concetto giudaico che da quello greco ». Anche R. Bultmann lo attribuisce decisamente alla sinagoga ellenistica (o.c., pp. 218s) che avrebbe quindi influenzato a caratterizzato varie esortazioni del pensiero di Paolo, le quali si esprimono spesso in una lista di vizi e in una di virtù. Per quanto anche Bultmann riconosca che questi « vizi e virtù non derivano da un principio, da un ideale etico », tuttavia ha ragione H. Schlier quando osserva che « la esortazione cristiana non è dunque un'osservazione non soggetta al tempo, che può levare la sua voce in ogni tempo. Presuppone l'avvenimento della salvezza escatologica di Dio, che dà a questo tempo la rivelazione. Perciò non è nemmeno un appello alla realizzazione di un ideale umano universale, individuale o sociale, ma l'appello a prendere la propria risoluzione a favore della risoluzione presa da Dio. Né è un appello alla realizzazione umana di se stessi, ma è l'invito al credente a fare proprio e a testimoniare ciò che egli è già diventato in Gesù Cristo » (le caratteristiche dell'esortazione cristiana in S. Paolo, in «Riflessioni sul Nuovo Testamento», Paideia, Brescia 1969, p. 460). torna al testo

32. A quanto già si è detto precedentemente nella nota 30 occorre aggiungere, ancora con lo Schlier, che «l o stato appartiene alla sfera della legge, gli possono in verità ubbidire solo colore che, facendo questo, vogliono e possono ubbidire a Dio (...). Il Futuro di Dio non sta nella polis terrena, ma nel politeuma celeste. E' verso questo che i cristiani sono in cammino» (lo stato nel Nuovo Testamento, in o.c., p. 266). In fondo dunque c'è una visione abbastanza critica dello Stato che rimane non solo nell'ambito della legge (Schlier) ma è un elemento volto al bene e solo per questo i credenti sono esortati a ubbidire ai suoi mandatari. Come dire che, quando le autorità non osservassero questo compito da Dio loro affidato e facessero il male (ecco il senso e forse la motivazione della preghiera della comunità), allora anche i credenti non sono più tenuti all'obbedienza. E gli sviluppi storici seguenti registrati dal Nuovo Testamento dimostrano appunto questa constatazione. All'interno della comunità il cristiano deve condursi in maniera esemplare e « chi pecca deve essere ripreso pubblicamente » (1 Ti 5, 20), «espulso » (1 ti 1, 20), «schivato » (2 Ti 3, 16-26; Tt 3, 10s). E' un atteggiamento tipico e molto bene osserva E. Schweizer (o.c., p. 67) che « la disciplina ecclesiastica diviene un mezzo a disposizione della comunità per assicurare la propria purezza » (...). «Perciò, in questi casi, la comunità rimane aperta di fronte al mondo, non condannandolo semplicemente nei suoi sforzi etici, per quanto essa continui ad attribuire la massima importanza alla fede nella prima e seconda apparizione di Gesù e della retta dottrina; ma nello stesso tempo, prende nettamente le proprie distanze nei confronti di coloro che, in mezzo ad essa, annunciano una propria sapienza invece della retta dottrina ». torna al testo

33. F. Montagnini, le epistole pastorali, in «Introduzione alla Bibbia», V/2, Marietti, Roma 1964, p. 381 rileva che « alcuni commentatori richiamano l'attenzione sulle parole non offendano nessuno ( medéna blasphemein); — bestemmia — era, per i gentili, l'insulto degli ebrei contro gli idoli (cf At 19, 37), che offendeva insieme con le divinità, anche i loro adoratori ». Qui tuttavia si ha in mente un atteggiamento molto più generale secondo il quale i cristiani devono essere « cittadini esemplari » (Montagnini), persone cioè che nel mondo hanno un compito profetico che non si può perdere nell'offesa o nel litigio. torna al testo

34. In fondo questa esortazione è comune anche agli altri testi del Nuovo Testamento che parlano della schiavitù. La dialettica servo/padrone non prende origine nel Nuovo Testamento da un'etica socio-politica, ma dall'etica dell'agape che in Cristo rende fratello sia il doulos come il suo kúrios. Ha ragione K.H. Rengstorf quando dice che « se si presenta allo schiavo l'occasione di diventare libero, egli può esserne contento, ma è chiaro comunque che in definitiva non ha importanza se egli sia schiavo o libero ( 1 Co 7, 22s) » (voce doulos. «Grande Lessico del N.T.», vol. II, Paideia, Brescia 1967, col. 1444). Che poi il v. precedente (1 Co 7, 21) sia da intendere o no, come un'esortazione di avvalersi dello stato di schiavo come luogo privilegiato della condizione cristiana, non ha importanza, in quanto il punto chiave è il v. 22 e i due vv. seguenti (per una bibliografia delle due diverse lezioni del passo cf. H.K. Rengstorf, o.c.). In altre situazioni storiche, presenti anche nel N.T. (per es. Ga 3, 27) l'annunzio della fraternità in Cristo è stato lievitante anche per lo stato concreto di schiavitù nel senso che ha portato la comunità cristiana, almeno al suo interno, alla abolizione della schiavitù senza tuttavia ripudiarla appunto per le ragioni di cui sopra che rimangono l'asse portante dell'intera questione. torna al testo

35. Ricordo qui, a titolo di esempio, A. Omodeo, Saggi sul cristianesimo antico, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1958, che nelle pp. 182-194 parla delle pastorali come il ponte tra il proto-cattolicesimo e il cattolicesimo (p. 192). torna al testo

36. M. Dibelius - H. Conzelmann, Die Pastoralbrief, Tubingen, 1955, p. 480. Dibelius parla appunto della «morale borghese » che caratterizzerebbe tutta la vita cristiana della comunità delle pastorali. Sulla stessa linea sono anche diversi moderni che vedono nelle pastorali l'inizio di una chiesa istituzionale della « retta dottrina e delle buone opere» e che trova una diversa soluzione solo a partire dal non paolinismo delle pastorali. Ma, a prescindere da questo fatto, che non è discriminante, mi sembrano inaccettabili conclusioni come quella di Käsemann (cf. nota 11) che, a proposito della nota omiletica su Tt 3, 4-7, basa in fondo l'esegesi sul fatto che «anche i testimoni del Nuovo Testamento sono uomini, e non sono infallibili. L'evangelo non si deve misurare a loro, ma bisogna misurare loro all'evangelo. Non siamo obbligati a ripetere le loro parole, ma siamo impegnati in dialogo con loro in una ricerca intorno alla medesima sostanza ». Ma qual è allora il dato normativo che emerge dalla lettura delle pastorali? Si tratta solo di norme temporanee la cui utilizzazione non è oggi più proponibile? Ma più ancora l'indagine scientifica del Nuovo Testamento può determinare quale è evangelo autentico e quale non lo è? Certamente non si devono concepire i dati del N.T. come un guazzabuglio eterogeneo senza sviluppi o senza particolari sottolineature teologiche, ma in ogni caso va sempre spiegato e annunziato come e perché siamo di fronte alla Parola di Dio e non a parole di uomini. torna al testo

37. H. Conzelmann, o.c. p. 361. torna al testo

38. Cf. H. Rossier, Studio sulla prima epistola di Timoteo, «Il Messaggero Cristiano», Valenza 1965. Il fatto che le pastorali siano scritti tardivi rispetto ad altri del Nuovo Testamento e che siano pure di un Paolo più vecchio, non legittimano un momento privilegiato dello Spirito Santo, nel senso di presentare uno stadio definitivo del volto della comunità cristiana e quindi il più imitabile per le chiese oggi. Non si può perciò isolare le pastorali considerando per esempio la 2 Timoteo addirittura « il Testamento spirituale dell'apostolo » (G. Saldarini, Introduzione alle pastorali, in «Paolo, vita, apostolato, scritti», Marietti, a cura di T. Ballarini, Torino 1968, p. 747). Su una linea diversa, ma sempre acritica, è per esempio lo Spicq (o.c.) che parla di « psicologia da vecchio »; anche E.F. Harrison, riprendendo l'osservazione dello Spicq, afferma: « Di fronte all'autore Timoteo non è che un giovane. E' possibile che Paolo si sia ricordato dei giorni della sua giovinezza, come anche delle sue prime esperienze nell'attività missionaria e anche quale persecutore della Chiesa. Sono le persone anziane che amano riferirsi spesso alle proprie esperienze. In linea con questa psicologia, l'accento cade sulla necessità di serietà e moderazione. Vi è il desiderio di destare l'altrui comprensione nei propri riguardi, di essere aiutati; le difficoltà che una volta sarebbero state messe da parte come indegne di essere menzionate, si ingigantiscono nella propria mente. Tutto ciò si addice al vecchio Paolo ». Osservazioni di questo tipo, caso mai, rendono più annacquata l'azione dello Spirito in un Paolo che « rampogna » come tutti i vecchi! torna al testo

39. Mc 2, 27. torna al testo

40. Si dovrebbe distinguere una lettura biblica in situazione, quindi comprensibile a partire dal suo contesto storico (spesso polemico) dell'etica situazionista (o situazionismo morale) che in alcuni scritti dei suoi sostenitori (Fletcher, D.H. Lawrence, I. Lepp, J.A.T. Robinson) sembra talvolta legata a risolvere casistiche individuali. Con questo non deve essere stroncata, come ha fatto Pio XII nella famosa allocuzione del 18 aprile 1952 (cf. Acta Apostolicae Sedis, 1952, XLIV, pp. 413-419) e più tardi anche il Sant'Uffizio (2/1965, cf o.c., p. 16) in quanto, senza entrare nella complessa questione, si deve pure ammettere che l'agape di Dio è senz'altro il fondamento dell'etica cristiana. Questa tuttavia, come ha scritto D. Bonhoeffer « non si può disgiungere dalla realtà » (Etica, Bompiani, Milano 1969, p. 310) e ciò non vuol dire che l'amore dimentichi la legge. Lo stesso Bonhoeffer infatti dice: « La comunità riconosce e testimonia l'amore di Dio per il mondo in Gesù Cristo sotto l'aspetto della legge e dell'Evangelo; non è possibile né separare né identificare l'una con l'altro » (ivi, p. 304). Anche se in un altro contesto, queste parole possono aiutarci a capire e far nostro il messaggio etico delle pastorali. La libertà cristiana, frutto dell'amore (il termine eleutheria non appare una sola volta nelle pastorali), non esclude la pietà che, nelle lettere in questione, è forse più legata alla legge, almeno nel rilievo più oggettivante dato alla fede. torna al testo

41. Il rischio infatti esiste in quanto, come nel caso delle pastorali, si ha qualche volta l'impressione che sia più importante riconoscere i limiti storici anziché il dato normativo che emerge invece dalla loro testimonianza biblica positiva. A prescindere da una valutazione globale delle varie tesi espresse, mi pare comprenda molto lucidamente situazioni di questo tipo V. Subilia in un suo recente libro (I tempi di Dio, Claudiana, Torino 1970, pp. 324-325), di cui ricordiamo proprio le ultime righe: « Il riflesso politico-sociale del regime dello Spirito è l'impossibilità di abbarbicarsi a posizioni conservatrici intese al mantenimento di determinati privilegi e alla difesa di determinati interessi: è un atteggiamento di sottomissione al giudizio che lo Spirito pronuncia su tutte le soluzioni date dagli uomini ai loro problemi e da loro elevate a istituzioni che pretendono assumere un carattere perenne e nello stesso tempo un atteggiamento di prontezza e di apertura verso imposizioni innovatrici che accennano oltre verso la libertà e la giustizia del Regno. Questo duplice atteggiamento si traduce però non solo in un rifiuto di conformismo verso l'ordine stabilito, nella coscienza che non può essere altro che copertura di un disordine stabilito, ma anche verso i programmi di rinnovamento nella coscienza che si trasformano facilmente in miti illusivi incapaci di critica nei confronti dei loro criteri informatori e delle loro realizzazioni non appena abbiano assunto i poteri decisionali. Tuttavia questo rifiuto di conformismo non è mai evasione verso cieli apolitici inesistenti nella storia, non è e non può essere sotto nessuna forma una neutralità assenteistica. E' scelta di una linea non determinata dalle contrastanti ideologie in corso nel proprio tempo, è rischio e partecipazione in cui i credenti esercitano la propria corresponsabilità storica in nome di una istanza superiore alle istanze estranee a una coscienza di fede e quindi in uno stile di originalità politica. E' una libertà critica che comporta il riconoscimento di certe costanti che non possono essere sacralizzate, ma che neppure devono essere spazzate via da fanatismi rivoluzionari « finché Egli venga » cioè fino a che la città di Dio non abbia preso il posto della città dell'uomo. Nello stesso tempo non esclude, ma implica un impegno vigile e costruttivo verso tutti i fermenti capaci di stimolare a nuove obbedienze, a inedite sottomissioni all'esigenza del Signore della storia. In modo da imprimere a tutta la storia una tensione costante verso il giorno della manifestazione della sua verità e della sua giustizia ». torna al testo