LE  EPISTOLE  PASTORALI
1, 2 TIMOTEO e TITO
Spunti esegetici e di attualità
Esortazione agli schiavi

a cura di Alfredo Berlendis - articolo tratto da Ricerche Bibliche e Religiose, n. 2-3, II e III Trimestre 1972 pp. 189-215


INDICE

I. Analisi dei passi
II. Schiavitù e società antica
III. Predicazione liberatrice
IV. Responsabilità


I. Analisi dei passi

« Quanti sono sotto il giogo come schiavi ( doûloi ) stimino degni d'ogni onore i propri padroni affinché il nome di Dio e la dottrina non siano screditati. Quelli che hanno come padroni dei credenti, non li servano meno perché sono fratelli, ma li servano meglio perché sono fedeli e diletti (i padroni) che ricevono il loro benefico servizio » (1 Ti 6, 1-2).

L'ultima frase del versetto secondo: òti pistoì eisin kaì agapetoì oi tês euerghesìas antilambanòmenoi può tradursi anche in quest'altro modo: poiché i padroni che sono benefici, sono fedeli e diletti , così traduce N. Brox(1) e suggerisce quale possibilità il filologo Max Zerwick (2) Questa traduzione non consente di credere che Paolo autorizzi lo schiavo a giudicare il comportamento del padrone credente prestandogli un servizio proporzionale alla bontà o addirittura negandolo al padrone non autenticamente credente, ma semplicemente, se il padrone è credente, lo schiavo, trattato meglio per il vincolo di fratellanza, ha un motivo in più per rendere un buon servizio (3) Sia l'una che l'altra traduzione non modificano quindi il senso sostanziale dell'insegnamento: il servo non si ribelli al padrone al padrone non cristiano perché questi non abbia un cattivo concetto della dottrina cristiana; chi poi ha padroni credenti li serva con più dedizione essendo essi fratelli e cari a Dio.

Parrebbe da queste esortazioni che la chiesa primitiva non avesse altra preoccupazione che il successo del cristianesimo, scopo per il quale si danno in questa lettera ammonizioni agli schiavi il cui contegno doveva essere l'apologia della dottrina cristiana. Non si deduce nessuna parola in favore dell'uomo e della giustizia per la quale la convivenza possa divenire luogo di crescita e maturazione umana? La questione della giustizia non è presente in questo testo poiché da esso si deduce chiaramente che la schiavitù non è ritenuta ingiustizia e quindi non è da giudicarsi :

« Era inconcepibile che il cristianesimo potesse mettere in questione il possesso di schiavi in questo periodo, perché esso non era avvertito come ingiustizia, e in ciò i primi cristiani avevano una concezione del tutto antica, non moderna. In nessun luogo nel N.T. si trova una ribellione contro l'istituzione della schiavitù come tale, bensì il biasimo per cattivi padroni e cattivi schiavi » (4) .

Dalla prima traduzione proposta del versetto secondo, risulta che gli schiavi sono benefattori dei padroni perché offrono loro un «beneficio » (euerghesìa ). Non solo danno il loro servaggio (douleìa ) ma sanno di beneficare essi stessi il padrone, conoscono quindi la reciprocità del rapporto schiavo-signore e questa consapevolezza può mitigare l'asprezza dello stato di soggezione trasponendo il rapporto schiavo-padrone « dal piano del possesso al piano del servizio, sì che lo schiavo cristiano deve considerarsi in realtà come il benefattore materiale e spirituale del padrone » (5) Il capitolo della lettera segue con esortazioni alla temperanza (vv. 6-7-8) e ammonizioni a guardarsi dall'avarizia e dall'amore del denaro (philargurìa), secondo un proverbio dell'epoca, « radice di ogni male». Nella dossologia (vv. 15-16) lo scrittore polemizza con le divinizzazioni pagane dell'imperatore e proclama re dei re e signore dei signori, o dei dominanti ( basileùs tôn basileùontôn kaì kùrieuntôn )(6) colui che farà manifestare il kùrios -Gesù Cristo. Da questa affermazione della signoria di Dio, anche se non immediatamente applicata alla situazione, viene la possibilità di rivedere ogni altra dominazione. Nei vv. 17-19 lo scrittore insegna quale sia il buon uso delle ricchezze: esse sono affidate per essere donate e condivise. Se, come suggerisce G. Saldarini, l'autore indica che « la funzione della ricchezza è il dono »(7) ci chiediamo perché al padrone non è insegnato che la funzione della libertà è la liberazione . Forse perché si pensava imminente il ritorno di Cristo e la definitiva e totale giustificazione? Timoteo è esortato a lottare per la conquista della vita eterna e non gli sono date per gli schiavi parole di giustizia sociale, anzi l'esortazione ad accettare lo stato nel quale si trovano è conforme al più antico insegnamento agli schiavi di Corinto (cf 1 Co 7, 21-22)(8) Scrivendo a Tito si danno circa gli schiavi identiche prescrizioni adducendo in forma positiva la stessa motivazione apologetica: l'onore della dottrina cristiana:

« (esorta) gli schiavi ad essere sottomessi in tutto ai loro padroni, ad essere compiacenti, a non contraddire e a non derubarli mostrando completa e vera fedeltà per rendere onore in tutto alla dottrina di Dio, nostro salvatore » (Tt 2, 9-10)

Secondo il modo di punteggiare la frase, la prima parte del v. 9 doùlos idìois depòtais upotàssesthai en pâsin euaréstous einai, può tradursi come sopra ( essere sottomessi ), unendo en pâsin all'infinito medio upotàssesthai (9) , oppure, unendolo al seguente accusativo euaréstous, si può rendere: siano compiacenti in ogni cosa . La variazione non è rilevante. Dalla motivazione del buon agire dello schiavo: rendere onore alla dottrina (10) vediamo la rivalutazione dello schiavo, non più considerato « cosa » o « strumento », ma « persona »:

« Non è senza ragione che S. Paolo ha scelto per gli schiavi questa splendida formula ìna kosmôsin preferendola a ìna mê... blasphêmêtai (v. 5). Coloro che sono all'ultimo rango della gerarchia umana, depauperati dei diritti pubblici e privati, e che solitamente non obbediscono che alla paura dei castighi, non soltanto sono idonei per conformarsi all'ideale evangelico più puro, ma capaci inoltre di contribuire allo splendore della vita cristiana collettiva, d'accrescere la sua seduzione sui pagani. Nessun cristiano è così spregevole che non possa in questa maniera onorare Dio » (11) .

Come in Timoteo la schiavitù è qui accettata come dato di fatto, non se ne discute l'opportunità o moralità, la si accetta cercando di cristianizzarla:

« L'immagine dello schiavo, come se lo augura il suo signore, è trasformata in un ideale dello schiavo di tipo cristiano, in un modo per nulla affatto problematico, comunque venga trasferito sulle categorie o stati dei cristiani l'ideale dell'uomo, della donna o del titolare di un ufficio pubblico per se stesso, come l'ha delineato un'etica civile o l'ha messo alla prova la prassi della vita. Per la cristianizzazione di tale parenesi basta qui, come ad esempio anche nel v. 5, l'idea della testimonianza. Ognuno contribuisce all'attestazione della fede nel suo stato, in cui vive secondo i criteri riconosciuti, lo schiavo dunque in completa sottomissione, docilità, onestà e fedeltà » (12) .

Nelle Pastorali notiamo che manca, come in 1 Pt 2, 18 la corrispondente ammonizione ai padroni che è invece presente negli scritti più antichi: nella lettera ai Colossesi l'esortazione ai padroni (4, 1) bilancia il monito agli schiavi (3, 22); Ef 6, 5-9 contiene precetti per gli uni e per gli altri. Scopo dell'obbedienza degli schiavi è, nelle nostre lettere, la difesa della dottrina cristiana. Da ciò comprendiamo che per l'autore delle pastorali lo schiavo non è in contrasto con la dottrina del Signore, non è in opposizione al precetto dell'amore del prossimo sotto il cui giudizio non cade la collocazione sociale e i patimenti che da essa possono derivare (13) :

« S. Paolo indica lo scopo per cui gli schiavi dovevano rispettare e servire i loro padroni pagani: affinché il nome d'Iddio, dell'unico vero Dio, salvatore universale , e la dottrina evangelica , appresa e praticata dagli schiavi, non sia calunniata come fonte di disordini e di rivoluzioni sociali. Per il fatto che gli schiavi cristiani godono della perfetta libertà spirituale apportata da Cristo, non devono ritenersi emancipati dai loro doveri sociali, anzi, consapevoli che ogni autorità viene da Dio (cf Rm 13, 1-7), debbono usare di questa libertà « per meglio servire » — come nota il Crisostomo » (14) .

Lo scrittore delle istruzioni a Timoteo e Tito ci evidenzia come nelle prime comunità cristiane non ci si proponesse, con coscienza moderna, la revisione critica dei rapporti sociali. Se è anacronistico pretendere di trovare in scritti di molti secoli antichi la coscienza odierna, è antistorico credere che tutto ciò che si pensò e disse sugli schiavi del protocristianesimo sia condensato nei due codici domestici delle lettere in esame. Inoltre, se si dovettero dare simili insegnamenti non era forse perché qualche schiavo presumeva che dal cristianesimo venisse qualcosa di più di una uguaglianza spirituale ? Ci troveremmo allora dinanzi ad atteggiamenti ribelli cui l'autorità ispirata pone un limite, e poiché l'ispirazione sta dalla parte dell'obbedienza, sarebbe eterodosso andare oltre la Parola ipotizzando un germinale discorso sociale anche in queste lettere? Le qualità che i due passi riconoscono agli schiavi: autonomia di giudizio, possibilità di servizio cristiano, sono la spia di qualcosa che sta cambiando; lo schiavo non deve obbedire e basta, deve obbedire a ragion veduta, e si osservi, non deve obbedire sempre , deve obbedire per non rendere odiosa la dottrina di Dio, perché era scandaloso e pericoloso presentare la dottrina cristiana come sovversiva (ma in realtà non era poi veramente sovversiva la redenzione? La parola stessa redemptio = riscatto , negli ambienti di lingua latina doveva destare non poco sospetto). Ora quella motivazione varrebbe ancora? E' ancora scandaloso intendere il cristianesimo come liberante? e chi si scandalizzerebbe oggi assumendo l'una o l'altra tesi: o pochi padroni e le enormi masse di schiavi ?

La predicazione è tributaria dell'etica antica, ma vi inserisce un fattore di superamento: la paternità universale dalla quale discende la fratellanza universale che ha per metodo la comunione (koinonìa). I motivi per l'obbedienza sono veramente deboli e ispirati all'etica profana, dalla croce invece giunge il superamento della filosofia stoica:

« Nella predicazione agli schiavi , predicatori del cristianesimo antico mettevano in opera tutti i motivi per riconciliarli con la loro sorte. Paolo mostra loro il concetto cristiano di libertà: gli schiavi chiamati « nel Signore» sono liberti del Signore (1 Co 7, 22): così le distinzioni sociali esterne perdono la loro importanza... Mediante il battesimo divengono tutti, « giudei o greci, schiavi o liberti » , un solo corpo, il corpo del Signore (cf 1 Co 12, 13; Ga 3, 28; Cl 3, 11). Nelle tavole domestiche (Ef 6, 5-8; Cl 3, 22-25) gli schiavi vengono esortati alle virtù particolari del loro stato; all'ubbidienza, a fuggire la finzione, alla gioia interna del lavoro. Essi dovevano pensare la loro opera come un servizio a Cristo Signore, il quale un giorno concederà la sua ricompensa. Sono motivi relativamente deboli nei quali si scorge l'influsso dell'etica profana. Ma in 1 Pt 2, 18-25 la parenesi s'innalza di nuovo ad altezze cristiane in quanto gli schiavi, anche nel loro trattamento ingiusto, devono guardare al loro Signore che soffre ingiustamente; qui la religione della croce dimostra la sua superiorità sulla filosofia stoica » (15) .

Non penso che queste parole vogliano individuare nel cristianesimo una mistica del martirio, Cristo non è modello di martirio ma d'amore — Siate dunque imitatori di Dio come suoi figliuoli diletti e camminate nell'amore, come Cristo vi ha amati e ha dato se stesso per noi in offerta e in sacrificio — (Ef 5, 1). La sofferenza ingiusta del Signore non vuol essere modello di accettazione in attesa di liberazione, ma esempio di solidarietà. Di Ga 3, 28 si dirà più avanti. Teniamo inoltre presente che queste lettere sono accolte nel canone come paoline e dunque si esamineranno per sapere cosa si disse allora tramite Tito e Timoteo agli schiavi di Efeso e di creta, ma non per cercare in esse l'etica cristiana che, se pure esiste come possibilità di casistica perenne, si evidenzia dal N.T. intero. Quindi se le esortazioni agli schiavi delle Pastorali sono paoline, allora vanno lette nella teologia di Paolo, nel suo concetto d'agàpe per nulla ellenizzante e disincarnato: Tutta la legge è adempiuta in una sola parola: ama il tuo prossimo come te stesso — (Ga 5, 14) (16) .

torna all'indice pagina


II. Schiavitù e società antica

Dai filosofi greci la schiavitù non è condannata, è messo in discussione solo l'asservimento dei greci stessi mentre s'accoglie la schiavitù dei barbari(17) e lo schiavo è posto sullo stesso piano dell'animale domestico (18) Aristotele annovera lo schiavo fra gli strumenti (19) La schiavitù in Atene e in Asia Minore era meno crudele di quanto non fosse a Roma che con le vittorie e quindi con la ricchezza potè concedersi un maggior numero di schiavi, necessari anche a causa della scarsità di mano d'opera libera assorbita dalle continue guerre nelle quali i romani erano impegnati nel loro sforzo imperialistico. La filosofia stoica non ebbe verso la schiavitù un atteggiamento abolizionista; Seneca affermò l'umanità degli schiavi esigendone un trattamento benevolo (20) tuttavia si serviva di schiavi, seppur, per temperanza, in numero esiguo (21) Secondo Filone l'Ebreo, tra gli esseni non vi era schiavitù (22) I misteriosi abitatori della riva nord-occidentale del Mar Morto avrebbero condannato la schiavitù perché fonte di ingiustizia (23) L'insegnamento di Gesù giunse in un ambiente ebraico e fra gli ebrei le parole «schiavo » e «schiavitù » erano molto ricorrenti. La creazione del popolo ebraico giunse a una fondamentale tappa con il riscatto dalla schiavitù in Egitto (24) Gli ebrei, come tutte le popolazioni vicine, possedevano schiavi (25) Isaia profetizza la caduta di Babilonia e il dominio degli ebrei sui loro oppressori (Is 14, 2). Qualunque sia la situazione storica cui si riferisce la maledizione di Canaan, non va visto in essa la consacrazione della schiavitù (26) potrebbe essere semplicemente la motivazione religiosa (il peccato) della soggezione cananea agli israeliti (27) Gli ebrei non potevano rendere schiavi i propri connazionali (2 Cr 28, 10-11). Per l'ebreo divenuto schiavo si stabilisce in sei anni il tempo massimo di soggezione (Es 21, 2-9 e Dt 15, 12-18). La condizione dello schiavo in Israele non era migliore di quella sancita da altre legislazioni (28) «se un uomo bastona lo schiavo fino a ucciderlo, è punito» (Es 21, 20), ma se lo schiavo sopravvive un giorno o due, il padrone ne è esonerato, perché «era suo denaro » (Es 21, 21). Si riteneva senza dubbio che il padrone fosse abbastanza punito dalla perdita che subiva, ma questa clausola indica che, anche in Israele, lo schiavo era considerato « cosa » del padrone (29) Nel libro del Levitico si rinviene la più esplicita legge sociale sulla liberazione dello schiavo. Mentre in Esodo e Deuteronomio è ammessa la schiavitù di un ebreo, Lv 25 (30) la proibisce non mettendo però in discussione la schiavitù dello straniero. Dal v. 42 vediamo che il Signore d'Israele per la sua signoria sottrae l'ebreo alla schiavitù, rivendicando a sé il servizio, però l'insegnamento non procede verso la condanna della schiavitù e ci si dovrebbe chiedere se questa libertà non venisse intesa che nel senso nazionalistico: l'ebreo non serve; egli, il servo del potente Javé, non sarà schiavo d'un uomo mentre può soggiogare un non ebreo. Il progresso di Lv 25 riguarda la fratellanza fra ebrei, non è l'acquisizione d'una più viva sensibilità in ordine alla schiavitù, essa non è ritenuta ingiusta che per l'eletto, l'ebreo (31) Giuseppe Flavio, spiegando la storia ebraica agli elleni, ricorda che gli ebrei non facevano schiavi i connazionali perché Dio stesso dava al popolo ebraico gli schiavi di cui necessitava assoggettandogli altri popoli (32) Anche nei primi secoli dopo Cristo non venne superata dagli ebrei la limitazione nazionalistica(33) Non è tuttavia di poco valore il riconoscimento della dignità dell'altro, per ora solo il prossimo nel senso preciso di « più vicino», riconosciuto fratello e perciò coerede della libertà donata da Dio che rivendica il proprio dominio e denuncia, almeno nel suo popolo, l'immoralità dell'asservimento.

Il messaggio evangelico giunge nel momento storico in cui la schiavitù è struttura portante dell'economia ed è presente in ogni impero. Non si può affermare che il primo messaggio, i discorsi di Cristo, fosse utile alla conservazione, fosse «reazionario ». Dalla prima predicazione sono ammoniti schiavi e padroni, per ambedue si offrono parole di speranza, all'uno e all'altro si annuncia libertà piena perché ambedue sono indigenti, bisognosi di riscatto, ma, ciò che più conta e più è in diretto rapporto con la schiavitù, ad ambedue si insegna che la via al Padre non è la contemplazione estatica o la scelta separatista-conventuale, ma la fraternità , che è misura di giudizio (cf Mt 25, 31-46). Pur riconoscendo la benevolenza del governo romano verso il cristianesimo che vedeva privo di spirito nazionalistico e intenzioni rivoluzionarie (34) non si può concludere che la chiesa primitiva, a ragion veduta, abbia optato per la pax romana e tutto ciò che di ingiusto ed esplosivo conteneva. Anche il precetto d'obbedienza per gli schiavi non può condurci immediatamente a giudicare alienante il messaggio cristiano, colpevole di aver distorto la redenzione quale ansia di liberazione concreta — «concetto di classe » — riducendolo a salvezza che si compie oltre la storia nelle « favole dell'al di là», nate dalle fallite speranze dell'avvento del regno di giustizia e trasfigurate in messaggio spirituale (35) Timoteo e Tito, rispettivamente a Efeso e a Creta, dicevano agli schiavi di essere sottomessi, perché nella coscienza di quel tempo non s'era messo in luce la immoralità della schiavitù. D'altra parte, come ho già detto, non si deve ingenuamente supporre che queste due lettere contengano tutto il discorso cristiano sulla schiavitù. Da questi scritti occasionali deduciamo che sarebbe stato dannoso al cristianesimo presentarsi come dottrina sovversiva e perciò era più prudente percorrere non la via della condanna esplicita delle forme più antiche dei rapporti sociali, ma la via « consistente nel rifiutarle virtualmente e incoraggiare atteggiamenti di uguaglianza in seno all'organizzazione religiosa, lasciando nel frattempo indisturbate le forme stabilite di dominio sociale e di distanza sociale »(36) La soluzione assieme alla sottolineatura di valori ugualitari comporta il rischio di conservatorismo sociale (37) Si dovrà tenere presente la temporaneità del provvedimento, giacché nulla ci autorizza a crederne l'eternità o dogmaticità; e ci si potrà chiedere inoltre se le scelte dello scrittore delle pastorali siano felici o pecchino di prudenza, e la domanda è lecita perché non è affermato che ogni scelta della prima comunità fosse suggerita o garantita da Dio. Se la scelta favorì in quel momento la custodia delle subordinazioni esistenti, può darsi che ciò nascesse da prudenza, pigrizia o timidezza, o, meno problematicamente, da necessità contingente; l'immoralità della schiavitù non era ancora evidente(38) La fede cristiana infatti si diffondeva in società nelle quali la schiavitù era ovvia (39) e in questo primo incontro non conobbe le forme occidentali più crudeli di schiavitù. Qualche secolo dopo la stesura delle Pastorali (64 ca.) le cose non sono molto cambiate; Gerolamo, commentando la lettera a Tito, invita gli schiavi all'obbedienza e vede in essa il segno della loro capacità di servire Dio (40) uguale sottomissione deve la donna all'uomo, facendo parte anch'essa dei subordinati. Lo schiavo sia sottomesso, la donna taccia, schiavo e donna sono sottoposti , e ciò non è sentito nella chiesa cristiana come innaturale (41) La predicazione cristiana poneva però le premesse per l'emergenza e l'esplosione delle contraddizioni; paternità universale e quindi fratellanza, non potevano restare parole vuote.

torna all'indice pagina


III. Predicazione liberatrice

Nel quarto secolo Gregorio di Nissa mostra di saper applicare l'essenza liberante dell'evangelo alla realtà sociale denunciando la schiavitù contraria alla legge di Dio. Presento interamente il brano perché di notevole bellezza e vigore:

Fra tutte le cose che abbiamo enumerato, il possesso di case lussuose e di ricchi vigneti, la disponibilità di giardini e di belle fontane, di piscine ben costruite e di ampi giardini, quale conferisce maggiormente al fasto quanto il potersi vantare signore, pur essendo uomo, creature che appartengono alla nostra medesima specie?
« Ebbi in dominio schiavi e schiave, con molta famiglia », dice. Vedi l'ostentazione arrogante! Quelle parole sono una ribellione a Dio; noi sappiamo, infatti, dalla Scrittura che tutte le cose servono unicamente a quel potere che è al di sopra di tutto. Pertanto, colui che si arroga ciò che appartiene a Dio, e attribuisce a creature della propria specie il potere di credersi padroni di uomini e di donne, che cosa fa se non insolentire contro la natura, considerandosi creatura diversa da quelle che gli sono soggette? « Ebbi in dominio schiavi e e schiave». Così tu condanni alla schiavitù l'uomo che è dotato di natura libera e indipendente, e fai una legge contraria a Dio, perché sconvolgi la legge di natura che procede da lui. perché tu sottoponi al giogo della schiavitù chi è stato plasmato dal suo creatore per signoreggiare la terra e per esercitare il comando; in questo modo tu resisti e contraddici all'ordinamento divino. Tu dimentichi i limiti infissi in tuo potere, dimentiche che il tuo impero si restringe agli animali bruti. Poiché fu detto: « L'uomo eserciti il suo dominio sugli uccelli del cielo, sui pesci del mare e sulle bestie ». E perché, trascurando quello che unicamente ti è soggetto, osi insorgere contro la stessa natura libera, enumerando fra i quadrupedi e magari fra gli insetti creature della tua specie? «Tutte lo cose — canta il verbo per mezzo del profeta — tu hai sottoposto all'uomo», e nel numero di queste indica le pecore, i buoi e le fiere dei campi. Forse che le tue pecore hanno generato uomini a te che sei uomo? O forse i buoi ti hanno dato una generazione umana? Sola servitù dell'uomo sono gli animali privi di ragione. Perciò nei Salmi è scritto che « Il Signore fa crescere il fieno per le bestie e gli erbaggi, perché siano al servizio dell'uomo ». E tu, uomo, falsando il concetto vero di servitù, fai sì che la medesima natura umana sia insieme schiava e signora. « Ebbi in dominio schiavi e schiave!». Ma dimmi, ti prego, a quale prezzo li hai comprati? Dove hai potuto trovare nelle cose un valore corrispondente al prezzo dell'umana natura? Quanto hai speso per l'acquisto di una creatura che è immagine di Dio? Con quali bilance hai pesato una natura che fu creata da Dio? Poiché Dio disse: «facciamo l'uomo ad immagine e similitudine nostra». L'uomo che è fatto a somiglianza di Dio e che ha ricevuta da Dio il dominio su tutta la terra e su tutte le cose che sono sopra la terra, chi è che lo vende, e chi è che lo compra?. Soltanto Dio potrebbe fare questo, anzi, sarei per dire, non lo potrebbe neppure Dio, perché « Dio non si pente dei suoi doni». Dio dunque non ridurrebbe mai in schiavitù la natura umana, egli che, spontaneamente, quando eravamo già caduti in schiavitù, ci rivendicò alla libertà. E se Dio non riduce in schiavitù chi è libero, chi sarà mai che pretende un potere superiore a quello di Dio? [ ...].
Ti inganni, se credi che un libello e una convenzione scritta ti facciano padrone di una creatura che è immagine di Dio. O stoltezza! Se il contratto perirà, se lo scritto sarà corroso dai tarli o cancellato dall'umidità, donde trarrai le prove del tuo dominio? Da quanto è sotto la natura umana non vedo aggiungersi a te altro che il nome di padrone. Infatti, il tuo potere che cosa ha aggiunto alla tua persona? Non il potere sul tempo, né alcun altro privilegio. Tu e lo schiavo siete nati ugualmente da una natura umana, vivete allo stesso modo, siete dominati dalle stesse passioni dell'anima e del corpo, come la mestizia e l'allegrezza, la gioia e la tristezza, il piacere e il dolore, l'ira e lo sdegno, l'infermità e la morte. In tutte queste cose c'è forse qualche differenza fra schiavo e padrone? Non traggono essi il respiro alla stessa maniera? Non guardano il sole ad un modo? Non si conservano parimenti in vita alla condizione di nutrirsi? Non è simile in entrambi la struttura dei visceri? Dopo la morte, non diventano cenere entrambi? Non è ad essi comune il giudizio, il premio, la pena?
E poiché sei in tutto simile agli altri uomini, dove poggi, di grazia, la tua superiorità, ti che, essendo uomo, presumi di avere dominio sull'uomo? (42) .

Ambrogio, pur accettando la schiavitù come fatto giuridico (cf Ep 63, 112), ne svuota però il contenuto suggerendo ai credenti di realizzare il riscatto:

La misericordia ci invita soprattutto a compatire le sventure altrui, a sovvenire, quanto possiamo e, talvolta, più di quanto possiamo, alle altrui necessità [ ... ]. Così io fui una volta biasimato per aver venduto i vasi sacri onde redimere degli schiavi; il fatto potè dispiacere agli ariani, o non dispiacque tanto il fatto in se stesso, quanto piuttosto gioirono di aver trovato cosa che in me fosse da biasimare. Chi è così duro, così disumano e dal cuore di ferro, al quale dispiaccia di salvare un uomo dalla morte, o di salvare una donna dalla impurità dei barbari, che sono ingiuria più grave di quella della morte, o di salvare ragazze, o ragazzi, o fanciulli, dal contagio degli idoli dai quali, per paura della morte, veniamo contaminati?
Perciò, se pure avevo le mie buone ragioni per agire così, ho continuato presso il popolo ad affermare e a sostenere che è molto meglio salvare al Signore le anime che i vasi. Infatti, colui che ha mandato gli Apostoli senza oro fondò le chiese senza oro. La Chiesa non possiede oro da tenere in serbo, ma per erogarlo e per sovvenire con esso alle necessità. Che bisogno c'è di custodire ciò che non giova a nulla? [ ...]. Non è forse meglio che i sacerdoti ne ricavino almeno per i poveri?, quando non si trovino altri mezzi, piuttosto che se li porti via profanandoli un nemico sacrilego? Non ci dirà forse il Signore: « Perché hai permesso che tanti poveri morissero di fame? Certamente tu avevi dell'oro, dovevi quindi procurare gli alimenti. perché tanti schiavi furono messi in vendita e, non riscattati, furono uccisi dal nemico? Sarebbe stato meglio per te conservare corpi di creature viventi piuttosto che vasi di metallo»
A questi argomenti non si può dare risposta. Che cosa potresti infatti obiettare? [...]. Come è bello quando da parte della Chiesa si liberano moltitudini di schiavi e quando si può dire: Questi li ha redenti Cristo! Ecco l'oro che può essere oggetto di onore, ecco l'oro di Cristo che libera dalla morte, ecco l'oro che redime il pudore e conserva la castità!
Io dunque preferirei consegnarvi degli uomini liberi piuttosto che consegnarvi l'oro [...](43) .

Il più celebre oratore cristiano, Giovanni Crisostomo (354-407) assume una posizione del tutto rivoluzionaria negando la base economica della schiavitù e esortando i padroni a insegnare agli schiavi un mestiere, per renderli così economicamente autosufficiente e poi affrancarli:

Perché (i ricchi) hanno molti servi? Come bisogna guardare soltanto al bisogno per quanto si riferisce al vestire e al mangiare, così bisogna comportarsi anche per quanto concerne i servi. Quale bisogno ne abbiamo? Nessuno! Un solo padrone non dovrebbe avere più di un servo: o meglio, due o anche tre padroni, dovrebbero avere un solo servo. Se questo ti sembra pesante, guarda a coloro che non ne hanno alcuno, e tuttavia fruiscono di un servizio più facile e più spedito. Poiché Dio ci fece in modo che ciascuno bastasse a curare sé stesso, anzi, a prendersi cura anche del prossimo. Se ti non credi, ascolta le parole di Paolo: « Alle mie necessità e a quelle di coloro che sono con me hanno provveduto queste mie mani ». Egli, che fu maestro di tutte le genti e fu degno dei cieli, non arrossiva di provvedere a innumerevoli servizi; ma tu stimi indecoroso, se non ti muovi circondato da una turba di schiavi, e non pensi che proprio questo, massimamente, ti disonora. Dio ci ha dato mani e piedi affinché non avessimo bisogno di servi. E non è certo il bisogno che introdusse nel mondo gli schiavi, altrimenti insieme con Adamo sarebbe stato creato anche uno schiavo. La schiavitù è la pena del peccato e il presso della disobbedienza, ma la venuta di cristo ha sciolto anche questo. Infatti in Cristo «non c'è né schiavo né libero». Perciò non è necessario avere uno schiavo: e, se fosse necessario, ne basterebbe uno solo, al massimo due. Che cosa vogliono significare questi sciami di servi? Giacché i ricchi procedono alle terme e nel foro a guisa di mercanti di pecore o di commercianti di schiavi. Ma io non intendo imbastire una discussione minuta. Tienti, se vuoi, anche un secondo servo. Se però ne aduni un gran numero, non venirmi a dire che tu fai questo per motivi di filantropia: tu lo fai per servire ai tuoi piaceri. Se tu agisci davvero per prenderti cura di loro, non occuparli al tuo servizio, ma, dopo averli comprati ed avere insegnato loro un mestiere, affinché possano bastare a se stessi, affrancali. Quando tu li fai battere con la verga, quando li fai mettere in carcere, non è certo un'opera di pietà la tua.
So bene che io sono molesto ai miei uditori, ma che debbo fare? Questo è il compito che mi è stato affidato, e non cesserò di parlare, sia che le mie parole ottengano un qualche risultato, sia che non lo ottengano (44) .

Qualche tempo prima dell'inizio della predicazione di S. Crisostomo a Antiochia il Concilio di Gangra (362/370 ca.) scomunicava chi predicasse, in nome di Dio, la liberazione degli schiavi:

Se qualcuno sotto il pretesto della pietà, insegna ad uno schiavo a disprezzare il suo padrone e a rifiutare di servirlo, invece che a restare un servitore pieno di buona volontà e di rispetto, sia scomunicato (45) .

I fermenti innovatori che tendono all'abolizione della schiavitù sono considerati pericolosi da una certa gerarchia, ma sono nell'ortodossia i vescovi che congelano la situazione e scelgono l'ordine o i novatori che affrontano il biasimo e il castigo in nome della giustizia?. Da che parte sta l'ortodossia? E' già stato suggerito che la vera chiesa è da ricercarsi nelle minoranze ecclesiali di volta in volta represse e in questo senso la Storia della Chiesa sarebbe interamente di scrivere.

Crisostomo citava Ga 3, 28 e traeva dal passo la necessità del riscatto intendendolo quindi non in senso totalmente escatologico, come suggerisce invece sia da intendere lo studioso Oepke(46) Il fatto che Ga 3, 28 sia una affermazione escatologica non impedisce di farne l'applicazione immediata, anzi, proprio in nome della ventura realtà, che già sin d'ora può irrompere nella storia, l'affermazione va inserita dinamicamente nell'oggi che non è spazio intermedio tra due eventi senza rapporto, La resurrezione e il ritorno , ma kairòs , tempo opportuno, propizio. La realtà del regno con i suoi attributi non piomba su di noi dall'alto dei cieli, va prefigurata nell'ecclesìa, luogo in cui i valori del regno devono essere incarnati e esaltati.

Si afferma che è avvenuto un cambiamento di scopi tra il giudaismo e il cristianesimo: si sarebbe passati dalla religione giusnaturalistica profetica all'individualismo religioso cristiano che «elimina tutti gli aspetti sociali in funzione nazionale della religione mosaica permettendo all'universalismo religioso che solo attraverso la religione individuare, senza lo schermo di schemi nazionali o sociali, può essere attinto »(47) L'insegnamento di cristo supera infatti i limiti del nazionalismo e non si presenta come «nuovo codice »; la prima predicazione non ha intenti giuridici (48) ciononostante Paolo diede insegnamenti ai credenti di Efeso, la città in cui opera Timoteo, tali da minare seriamente l'istituto della schiavitù, giacché come sopravviverà una consuetudine se non sarà più praticata?

« Schiavi, obbedite ai vostri signori terreni con timore e tremore nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, non con atteggiamento adulatorio per piacere agli uomini, ma come schiavi di Cristo, che di cuore compiono la volontà di Dio, che servono con zelo come al Signore e non agli uomini, ben sapendo che chiunque compie il bene, riceve a sua volta bene dal Signore, sia egli schiavo o libero. E voi signori, fate lo stesso verso di essi, sapendo che il loro e il vostro Signore sta in cielo e presso di lui non v'è riguardo di persona » (Ef 6, 5-9) (49) .

Se non v'è riguardo di persona e il precetto della fraternità riguarda sudditi e signori, i credenti come il cristo, solidale con gli esclusi (50) devono essere la manifestazione della benevolenza di Dio, la più chiara conferma che «Dio è amore » (1 Gv 4, 8 e 16). oggi più che ieri sappiamo che la situazione concreta incide sulla libertà dell'individuo limitandone o ampliandone la possibilità di autodeterminazione e scelta moralmente consapevole (51) il concetto stoico di «libertà » è falsa premessa d'ogni discorso sull'uomo, la possibilità di sequela esplicita, è compromessa dalla schiavitù dell'ignoranza, dell'indigenza. E' vero che dinanzi a Dio non c'è « né schiavo né libero», ma ciò significa soltanto che Dio ama lo schiavo e il libero, non che la capacità di sequela esplicita dello schiavo sia uguale a quella del libero! Tendendo a quella liberazione che nel regno è perfetta, il credente, guidato dall'agàpe, amore del prossimo che non è furbesca scelta in vista del premio (paradiso!), andrà ben oltre la legge.

torna all'indice pagina


IV Responsabilità

La domanda che ci dobbiamo porre non è: Quale fu l'atteggiamento del cristianesimo nascente nei confronti della schiavitù, perché purtroppo non possediamo che testimonianza parziali le quali indicano scelte puntuali; se ci allontaniamo di solo qualche secolo dalla prima predicazione troviamo tesi contrastanti come le opinioni di Gregorio di Nissa, Abrogio, Giovanni Crisostomo e gli irrigidimenti gerarchici della chiesa costantiniana rintracciabili nella decisione di Gangra. le scelte storiche delle prime comunità non erano protette dall'infallibilità, come non vi è oggi nessuna soluzione « prefabbricata » per risolvere i problemi odierni. La Scrittura non è un deposito di soluzioni, ma di indicazioni e informazioni; l'elaborazione e l'applicazione spetta ai credenti. Quanto alle Pastorali non sono unanimemente riconosciute paoline, e circa il contenuto c'è differenza di giudizio. Una lettura che parte dalla premessa della non paolinicità e scopre nelle pastorali l'insistenza sulla disciplina, l'ortodossia, la soggezione, trova in esse l'inizio dell'imborghesimento della chiesa (gerarchizzazione, reazionarismo) che adotta misure d'emergenza le quali tradiscono le intenzione dell'apostolo Paolo (52) I passi in questione della prima lettera a Timoteo e di quella a Tito sarebbero in questa chiave il segno dell'infedeltà della chiesa che, anziché proporre la libertà cristiana, cerca di salvare se stessa e si incammina sulla via della gloria lasciandosi alle spalle la strada della croce. Che siano o no di Paolo le lettere che andiamo esaminando, non è compito di questo studio stabilire, a noi interessa conoscerne l'interpretazione e sapere che varia secondo il giudizio sull'autore.

E' invece prezioso e accettabile, senza alcuna discussione sulla « canonicità» e « ispirazione» delle due lettere, l'avvertimento di non ritenere normativo in aeternum le prescrizioni temporanee in esse raccolte (53) Se non è corretto partire dalle sole pastorali per sostenerne il reazionarismo nei confronti della schiavitù, quando non ci è dato conoscere le circostanze precise, la specifica situazione e le conseguenze effettive cui quei consigli avrebbero portato, nemmeno è lecito e onesto collocare i discorsi delle Pastorali nel contesto di tutti gli altri luoghi neotestamentari ove si parli agli schiavi al fine di trovare una forzata omogeneità di pensiero sulla questione. Questo svelerebbe l'ingenua supposizione che i vari documenti del N.T. siano sorti da scrittori aventi medesime convinzioni, da situazioni sempre identiche, quasi che tutto procedesse senza approfondimenti e tensioni.

Oggi il rapporto cristianesimo-asservimento è dibattutissimo. In varie chiese i credenti rifiutano il cristianesimo come discorso sulle ultime cose, religione dell'al di là; anche il superamento della morte che il cristianesimo propone non è da loro sentito come causa sufficiente di professione cristiana e si vuole cogliere la rilevanza attuale della fiducia in Cristo. Ieri forse si poteva obbedire in vista dell'imminente ritorno di cristo? Qualunque sia la risposta, oggi si indica nella fraternità il luogo dell'incontro con cristo, l'etica non è conservatrice ma rivoluzionaria (54) il vangelo non è un'affermazione metafisica, ma una proposta di giustizia (55) esigenza di un nuovo ordine di rapporti umani (56) La riconciliazione non è confinabile nella privacy, la mia pace con Dio, ma sprona alla pacificazione, all'anticipazione escatologica (57) .

Aspetti dimenticati vengono tratti alla luce, il senso comunitario o politico della conversione e del'agàpe sono riaffermati (58) Rileggere nei testi biblici la storia della prima chiesa, limitandosi a estrarne le decisioni per reinserirle senza analisi e senza rielaborazione nelle chiese di oggi è pigrizia colpevole, perché non si rischia soltanto di sottolineare tesi improbabili, ma di separare il lievito dalla pasta bloccandone la fermentazione. Non abbiamo nulla più della fiducia in Cristo e del suo esempio per continuare ora il pellegrinaggio con il popolo di Dio; le scelte delle prime comunità cristiane possono fornire utili indicazioni ma non ci deresponsabilizzano, è il nostro tratto di strada e nessuno lo percorrerà per noi.

torna all'indice pagina

NOTE A MARGINE

1. N. Brox, Le Lettere Pastorali, Morcelliana, Brescia 1970, p. 302. torna al testo

2. « Vel qui beneficio (fidei christianae) fruntur, vel qui beneficentiae studiosi sunt » M. Zerwick, Analisis Philologica N.T. Graeci, p. 476, c. 6, 2. torna al testo

3. « ...et depuis Chrisostome, Théodoret, Pélage, Estius, un certain nombre de modernes (Knabenbauer, von Soden, Dibelius, Meinertz) comprennent la finale comme un nouveau motif donné au zèle des esclaves:  leur maîtres croyants s'efforcent de leur fair du bien, les traitent mieux que le patrons païens... » C. Spicq, Les epîtres Pastorales, Gabalda, Paris 1969, I vol., p. 555. torna al testo

4. N. Borx, o.c., p. 303. torna al testo

5. G. Saldarini, Paolo - Vita, apostolato, scritti, Marietti, Torino 1968, p. 760. torna al testo

6. « Sebbene vi sono molti che si dicono dèi in cielo e in terra e ci sono infatti molti dèi e signori, per noi non vi è che un solo Dio il Padre, dal quale provengono tutte le cose e per il quale noi esistiamo... » 1 Co 8, 5-6). torna al testo

7. G. Saldarini, o.c., p. 726. torna al testo

8. Cf 1 Co 7, 21. Si traduce prevalentemente oggi il versetto prima così inteso: «Sei stato chiamato da schiavo? non preoccuparti, ma se vuoi divenire libero sfrutta l'occasione » nel senso opposto: «Sei stato chiamato quando eri schiavo? Non te ne preoccupare ma, pur potendo diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione ». (Cipriani, Bibbia Concordata, Mondadori, Verona 1968, pp. 1878-1879). La traduzione di S. Cipriani è da preferirsi perché in armonia con il contesto del capitolo da cui è tratta. torna al testo

9. Così traducono C. Spicq, De Ambroggi, N. Brox, G. Saldarini. torna al testo

10. ìna tên didascalìan... kosmôsin 'en pasin . Il verbo kosméô , da cui deriva l'italiano «cosmesi », indica l'azione dell'abbellire, rendere attraente;« ciò è evidente in 1 Ti 2, 9-10: ôusatôs gunaìkas... kosmeîn eautàs mê plègmasin kaì chrusìo ê margarìtais ê imatismô polutelei allà... di della sistemazione di gioielli in modo da mostrare in pieno la loro bellezza... e questo principio è qui sottolineato » (D. Guthrie, Le Epistole Pastorali. G.B.U., Roma 1971, p. 228). torna al testo

11. C. Spicq, o.c., p. 626. torna al testo

12. N. Brox, o.c., p. 438-439. torna al testo

13. Per una breve descrizione della situazione dello schiavo cf A.J. Festugiere - P. Fabre, Il mondo Greco - Romano al tempo di Gesù cristo, S.E.I., Torino 1955, pp. 27-32. torna al testo

14. P. De Ambroggi, Le epistole pastorali di S. Paolo a Timoteo e a Tito, Marietti, Torino 1953, p. 164, nota 1. torna al testo

15. R. Schnackenburg, Messaggio morale del Nuovo Testamento, Paolini, Alba 1971, pp. 237-238. torna al testo

16. Per il significato di 'agàpe' e la sua caratterizzazione in Paolo cf A. Nygren, Eros e agape, Mulino, Bologna 1971, p. 790, specie pp. 83-127. torna al testo

17. Platone, Rep. V, 469. torna al testo

18 Platone, Fedone, 62 b. d. torna al testo

19. Aristotele, Politica 1, 1153b - 1154 a 13. torna al testo

20. « Sono schiavi, dice la gente. No sono piuttosto degli uomini ... 'Schiavi'! No, sono nostri simili, se si pensi che il destino ha uguali diritti sugli schiavi e sugli uomini liberi » (Seneca, Epistole Morali, XLVII, 1, 11). torna al testo

21. Ibid. II, LXXXVII, due citazioni tratte da D. Brion Davis, il problema della schiavitù nella cultura occidentale, S.E.I., Torino 1971, p. 109. L'autore, senza presentare i brani che più avanti si producono per esteso e scegliendo testi non pertinenti, ad es. Crisostomo G., Comm. a Giovanni om 54 e riguardanti la schiavitù del peccato (forse che non esiste la schiavitù della colpa?), giudica negativa e frenante l'opera dei padri, quanto alla questione della schiavitù (cf p. 121). Cita anch'egli il Concilio di Gangra di sapore conservatore e il testo contemporaneo di Gregorio di Nissa, però nella valutazione globale mostra di non tenerne conto. torna al testo

22. Filone Ebreo, Quod omnis Probus sit Liber, 139-42, 156-157 sempre da D. Brion Davis. torna al testo

23. « Ils ne se marient pas et ne cherchent pas à acquerir des esclaves parce qu'ils regardent l'un comme amenant l'injustice, l'autre comme susacitant la discorde » Giuseppe Flavio, Antiquitès Judaiques, XVIII, 1,5,21, vol. OV, Leroux, Paris 1929. torna al testo

24. Cf libro dell'Esodo. torna al testo

25. Gdg 5, 30; 1 Sm 30, 2-4; Dt 21, 10-14; Es 21, 4. torna al testo

26. Canaan è condannato ad essere 'ebed abandim' schiavo degli schiavi dei suoi fratelli (Ge 9, 25-27). torna al testo

27. E. Testa, Genesi, Marietti, Torino 1969, pp. 401-403. torna al testo

28. « Se un uomo è in debiti e ha venduto sua moglie, suo figlio, sua figlia o egli stesso è obbligato al servizio, essi lavoreranno per tre anni in casa del loro compratore o pignoratore, ma nel quarto anno saranno liberi » C. di Hammurabi 117. d-a )A. Rolla, La Bibbia di fronte alle ultime scoperte, Paoline, Roma 1959, p. 106). torna al testo

29. De Vaux, le Istituzioni dell'Antico Testamento, Marietti, Torino 1964, p. 92. torna al testo

30. « Se tuo fratello che è presso di te, ridotto in miseria, si venderà a te, non imporgli un lavoro da servo. Sarà per te come un operaio giornaliero, come un ospite; lavorerà con te fino all'anno del giubileo: e allora andrà via da te, sia lui che i suoi figli, e ritornerà nella sua famiglia, è al patrimonio dei suoi padri che egli ritornerà. Poiché essi sono i miei servi, io li feci uscire dalla terra d'Egitto e non si devono vendere come si vende un servo » (Lv 25, 39-42). torna al testo

31. « La religion de Israel cambia el sentido de las istituciones. Asi, el año de barbecho de la tierra, imperado por razines de técnica agricola o de culto a los dioses Y espíritus, tiene ahora la función de sustentar a los pobres y buscar una rivelación económica entre la diversas capas de la sociedad. La institucion de la esclavitud, aun mantenoédose en lo material, es trasformada es su misma esencia, ya  que se cambia el concepto de esclavitud por el de un servicio. Cuando un israelita se vende come esclavo, en realidad no se vende su persona, cuya libertad es inalienabile; contrata solamente su trabaio. Lástima que esto valiera solo para el israelita, no para todo hombre: es la limitación de mensaje del Antiquo Testamento » (A. Ibañes Arana, las Leyes sociales de Lev. 25, in «Lumen» 5, 191, pp. 411-412). torna al testo

32. « Le roi Salomon soumit à sa pouvoir ceux des Chananéens qui ne lui étaient pas ancore assujettis, à savoir: ceux qui vivaient sur le mont Liban et jusqu'à la ville d'Amathè; il leur imposa tribut, et chaque annèe choississait parmi eux des hommes pour lui servir de mercenaires, de domestiques et de laboureurs. Chez les Hébreux, en effet, nul n'etait escalve — il n'eût pas juste, quand Dieu leur avait soumis tant de peuplades, ou ils pouvaient recruter leus mercenaires, da réduire le Hébreux eux-même a telle condition » (G. Flavio, o.c., II, vol. VIII, 160-161, p. 193). torna al testo

33. Cf. J. Bonsirven, Textes Rqbbiniques des deux premiers siècles chrétiens. P.I.B., Roma 1955. Riferimenti ai vari trattati nell'indice analitico alle voce: esclave chananéen, esclave hébreu, p. 726. torna al testo

34. Marta Sordi, Impero Romano e Cristianesimo, in «Problemi storici della Chiesa», la Chiesa antica sec. II.IV, Vita e Pensiero, Milano 1970, pp. 44-55; cf commento a Atti 8, p. 36. torna al testo

35. Dopo aver riscontrato la fluttuazione dei testi neotestamentari tra libertà sociale e ultraterrena, conclude: « Non bisogna chiedere ai testi cristiani quello che non potevano dare in un mondo caratterizzato da condizioni economiche e politiche che non erano quelle della lotta di classe attuale. E' inutile chiedersi quindi se il Vangelo sia di ispirazione 'socialista' o se rispecchi le esigenze della morale 'borghese'. La letteratura cristiana primitiva ci deve servire di strumento e di guida solo per conoscere l'ambiente nel quale si è inizialmentemossa la nuova propaganda religiosa ». A. Donnini, Lineamenti di storia delle religioni, Ed. Riuniti, Cassino 1959, p. 203. torna al testo

36. T.F. O' Dea, Sociologia della religione, Mulino, Bologna 1968, p. 81. torna al testo

37. « Il nuovo organismo afferma la propria superiorità sulle autorità costituite, ma in un modo che non ostacola in pratica il loro operare o la loro legittimità. Pur diventando una comunità essa stessa, la chiesa nello stesso tempo riconosceva l'autorità politica legittima e veniva a patti con essa. Gli Atti riferiscono la dichiarazione di Pietro: « bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini » ( At 5, 29). Ma Paolo, nell'epistola ai Romani, afferma che « le autorità che esistono, sono ordinate da Dio » (Rm 13, 1). Le affermazioni radicali della nuova organizzazione religiosa sono limitate esclusivamente al mondo ultraterreno e l'adattamento e il riconoscimento dell'autorità terrena sono giustificati e resi legittimi », p. 82. Questa conclusione semplicizza la problematica insita nella tensione che subito nacque tra autorità di Dio e autorità mondana. T.F. O' Dea, o.c. torna al testo

38. Tuttavia l'immoralità della oppressione era presente nella coscienza evangelica e quando la schiavitù ne fosse apparsa chiara espressione, il cristianesimo avrebbe manifestato il suo aspetto 'redentivo'. « ...la natura radicale della rivoluzione deriva dal suo incidere non direttamente sulle istituzioni vigenti. ma in base alle relazioni politiche umane su cui si fondono concrete istituzioni politiche. per esempio, il cristianesimo non cercò di abolire la schiavitù, ma la eliminò in radice cambiando la concezione dell'uomo sulla natura  e sulla ristrutturazione delle sue relazioni con gli altri uomini. Alcuni — per esempio, i marxisti — contesterebbero che l'ultima sia l'alternativa più radicale. Certo, si dirà, è meglio eliminare la schiavitù subito che più tardi; è più radicale insistere sull'eliminazione immediata dell'ingiustizia politica che cercare di creare armonicamente le condizioni che possono eliminarla dopo due millenni. Questo ragionamento difetta di prospettive storiche. E' possibile per noi oggi, quando l'immoralità della schiavitù è diventata già per sé evidente, giudicare che ciò segue direttamente dalla dottrina del più antico insegnamento cristiano. Ma noi che viviamo oggi possiamo emettere tale giudizio solo perché il nostro modo di intendere le relazioni politiche è stato riorientato dal vangelo. Non ha senso supporre che il cristianesimo avrebbe dovuto prima muovere gli uomini ad abolire la schiavitù, poi destare nello spirito dell'uomo gli atteggiamenti etici che lo portano ad abolire la schiavitù. L'insegnamento di Gesù fu realmente rivoluzionario perché liberò la coscienza dei padroni degli schiavi. Gesù non comandò loro di abolire la schiavitù, creò invece la possibilità di abolirla e di abolirla spontaneamente di mezzo ad essi ». (L. Dewart, Chiesa e conservatorismo politico, in «Concilium» 1968, n. 6, pp. 120-121). torna al testo

39. Cf. E. Ciccotti, Il tramonto della schiavitù nel mondo antico, Ediz. Accademiche, Udine 1940, pp. 59-60. torna al testo

40. « Sed quomodo pauper iusta mesuram suam salvari potest et mulier in sexus infirmitate a regno Dei non ecluditur, et omnis conditio secundum ordinem suum beatitudinem capere potest ita et servi complaceant sibi quod servi sint et non idcirco putent Deo se servire non posse, quia subiecti sint hominibus sed in eo magis placere voluntati Dei, si et dominis suis subditi fuerint in omnibus et complacuerint sibi in conditione sua... Sint itaque servi subditi dominis suis in omnibus, sint complacentes conditioni suae: ut non ferant aspere servitutem, non contradicant dominis, non furentur, et post haec in omnibus fidem bonam ostendant, ut doctrinam salvatoris Dei nostri ornent in omnibus. Si enim apud carnales dominos in minimo fideles fuerint incipient eis apud Deum maiora committi. Ornat autem doctrinam Domini, qui ea quae conditioni suae apta sunt facit. Et e diverso confundit eam, qui non est subiectus in omnibus, cui conditio sua displicet, qui contradictor atque fraudator in nulla fidem bonam ostendit. Qiomodo enim potest fidelis esse in substantia Dei, qui carnali domino fidem exibere non potuit? » (Gerolamo, Ad Titum Ep. Migne PL 26, pp. 620-621). torma al testo

41. Cf H. Van Der Meer, sacerdozio della donna?, Morcelliana, Brescia 1971, pp. 111-118. torna al testo

42. Gregorio di Nissa, In Eccl. homil. IV da G. Barbero, il pensiero politico cristiano, Tp. Torinese 1962, pp. 351-352. torna al testo

43. Ambrogio, De officiis ministrorum II, 8, pp. 136-142, in G. Barbero, o.c., pp. 425-27. torna al testo

44. G. Crisostomo, Epist. I ad Cor. 40, 5 da G. barbero, o.c., pp. 514-515. torna al testo

45. Concilio di Gangra, (362/370) ca,), canone 3° da G. Barbero, o.c., p. 545. torna al testo

46, Oepke, voce 'guné', Th. W. N.T., I, col. 781s. torna al testo

47. G. Fassò, Cristianesimo e società, Giuffrè, Milano 1956, pp. 17-18. torna al testo

48. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. I, Mulino, Bologna 1970, pp. 165-180. torna al testo

49. « Per quanto concerne la schiavitù, la considerazione della paraclesi apostolica dissolve l'istituzione dall'interno, sicché essa crolla anche esteriormente. I fondamentali rapporti terreni si dispongono in un ordine che va oltre il singolo individuo, il quale prestando ascolto all'invito di cristo presente nella paraclesi dellApostolo, ne attua l'esigenza in guisa di superare se stesso nell'obbedienza dell'amore. Ed è questo un modo nuovo per dimostrarsi creatura » (H. Schlier, Lettere agli Efesini, Paideia, Brescia 1965, p. 356). torna al testo

50. T. Lorenzmeier, La solidarietà di Gesù con gli uomini, in 'Dialogo' 4/1970, pp. 91-111. torna al testo

51. « L'uomo è capace di conoscere la verità, ed è capace di amare, ma se egli — e non soltanto il suo corpo — ma l'uomo nella sua totalità — è minacciato da una forza superiore, se lo si rende impotente e pauroso, la sua mente ne è toccata, le sue operazioni ne sono distorte e paralizzate. L'effetto paralizzante del potere non poggia soltanto sul timore che risveglia, ma anche su una promessa implicita: la promessa che chi è in possesso del potere potrà proteggere e aver cura dei « deboli » che a lui si sottomettono, che potrà liberare l'uomo dal fardello dell'incertezza e della responsabilità verso se stesso, garantendo l'ordine ed assegnando ad ogni individuo un posto all'interno di tale ordine, che lo farà sentire al sicuro » E. Fromm, Dalla parte dell'uomo. Astrolabio, Roma 1971, p. 183. torna al testo

52. E. Käsemann, Appello al libertà, Claudiana, Torino 1972. pp. 113-127 (l'autore cita l'opinione del Dibelius). torna al testo

53. « Nella chiesa avviene ciò che in genere accade in tutte le cose umane. Ciò che è stato stabilito acquista importanza di per se stesso; ciò che è sorto per necessità assume l'alone del legittimo. Trincee difensive in cui ci si rifugia nel momento del pericolo, diventano castelli in cui si abita in permanenza e dai quali non si è più capaci di uscire quando giunge il momento di passare dalla difesa all'attacco. Quella piccola schiera minacciata aveva visto la sua salvezza nella disciplina; ma la disciplina cominciò ben presto ad affermarsi in ogni campo. Quando una persona si è abituata a vivere in uno spazio ristretto diverrà, per conseguenza quasi inevitabile, ristretta anche la mentalità. Le epistole pastorali e i loro effetti storici ci forniscono un ottimo materiale per uno studio sull'argomento » (E. Käsemann, o.c., p. 123). torna al testo

54. S. Di Fede, L'etica della rivoluzione, in «Dialogo», n. 36 e 37 rispettivamente alle pp. 286-304 e 1-20. torna al testo

55. P. Guathier, Vangelo di giustizia, Vallecchi, Firenze 1968. torna al testo

56. « L'evangelo conosce una società differenziata, di superiori e di sudditi, persino di padroni e di schiavi, ma non la propone, propone al contrario una società di uguali, di amici, di fratelli. Le pagine evangeliche non sono tutte chiare, ma gli annunci sulla rinnovazione dei rapporti umani non ammettono equivoci. Gli uomini sono chiamati a vivere insieme e a realizzarsi insieme. Creare una grande famiglia non è rilasciato alla libertà dell'uomo ma è un imperativo inderogabile del creatore. Il cristiano è per vocazione chiamato a uscire dall'egocentrismo, dall'autonomismo, dall'individualismo. Senza voler esagerare questo è il tema centrale del Nuovo Testamento: la paternità di Dio, fonte di un nuovo ordine di rapporti umani » (Ortensio da Spinetoli, La giustizia della Bibbia, in «Bibbia e oriente», 13, 1971, p. 252). torna al testo

57. « Con la risurrezione di cristo, la signoria di Dio che si è già avvicinata, entra in un processo di realizzazione allorché giudei e pagani, greci e barbari, schiavi e liberi, vengono all'obbedienza della fede e per essa, alla libertà e all'umana dignità escatologiche. Se si prende sul serio questo sfondo escatologico offerto dai profeti, sul quale si fonda la proclamazione dell'evangelo fatta dalla cristianità, anche la mèta della missione cristiana diventa necessariamente chiara. Questa missione tende alla riconciliazione con Dio (2 Co 5, 18ss), al perdono dei peccati e alla soppressione dell'empietà. Ma la salvezza, soterìa, deve anche essere intesa nel senso veterotestamentario di Shalom. Il che non significa soltanto salvezza della propria anima, salvataggio individuale da un mondo malvagio, consolazione della coscienza turbata, ma significa anche realizzazione dell'escatologica speranza di giustizia, umanizzazione dell'uomo, socializzazione dell'umanità, pace del creato intero. Questo ' altro lato' della riconciliazione con Dio è sempre stato trascurato dalla storia della cristianità, perché si aveva più una comprensione escatologica di sé e si abbandonavano le anticipazioni escatologiche terrene all'entusiasmo fanatico delle sétte. Ma soltanto a partire da questo 'altro lato' della riconciliazione, la cristianità può superare le funzioni religiose di allegerimento che ci si aspetta di vederle adempiere nei confronti di una società abbandonata a se stessa, e può ricevere nuovi impulsi che la orientino a plasmare la vita pubblica, sociale e politica degli uomini. Se la missione cristiana, che reca a tutti gli uomini la giustizia che viene dalla fede, si innalza sullo sfondi delle promesse Jawistiche fatte ad Abramo (Ge 12, 3) e sullo sfondo della escatologia profetica del libro di Isaia (Is 2, 1-4; 25, 6-8; 45, 18-25; 60, 1-22) trasformando queste aspettazioni in attività attuale, bisogna che nel suo orizzonte compaia non soltanto lo stabilirsi dell'obbedienza della fede tra i pagani (Rm 15, 18), ma anche ciò in cui spera l'Antico Testamento parlando di benedizione, pace, giustizia e pienezza della vita (cf Rm 15, 8-13). Tutto ciò è anticipato nella potenza dell'amore che unisce in una nuova comunità forti e deboli, schiavi e liberi, giudei e pagani, greci e barbari » (J. Moltmann, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970, pp. 337-338). torna al testo

58. Cf E. Balducci, Proposte per una teologia politica, in «Testimonianze», nn. 134 e 136. torna al testo