LA  PRIMA  LETTERA  DI  PIETRO

SPUNTI  DI  ESEGESI
Cristo andò nello spirito a proclamare agli spiriti in carcere
(1 Pietro 3, 18-20 e 4, 60)

 di Fausto Salvoni


INDICE

Introduzione
I. Il testo di 1 Pietro 3, 18-20
A) Storia delle principali interpretazioni
1. Interpretazione orientale
2. Interpretazione occidentale
3. Proclamazione della vittoria di Cristo
B) La glorificazione del Cristo
1. Il libro di Enoc
2. Assimilazione di tali idee da parte dei giudeo-cristiani
II. Il passo di 1 Pietro 4, 5
a) Morti e vivi in senso spirituale
b) Predicazione di Cristo ai morti giacenti nell'oltretomba
c) Evangelizzazione antecedente alla morte
Conclusione


Introduzione

I passi biblici di 1 Pietro 3, 18-20 e 4, 60, forse i più difficili di tutto il Nuovo Testamento, hanno suscitato molteplici studi (1) che, a quanto pare, sembrano svelare finalmente il vero insegnamento di Pietro, coronando in tal modo lo sforzo continuo degli esegeti che con amore vi si sono dedicati. Siccome nei due passi sopra riferiti soggiacciono idee del tutto differenti, li esaminerò separatamente l'uno dall'altro.

I. Il testo di 1 Pietro 3, 18-20

Ecco la traduzione letterale di questi versetti assai duri per noi che ignoriamo l'ambiente nel quale sorsero:

« Anche Cristo morì per i nostri peccati una volta per sempre, lui giusto per gli ingiusti, al fine di condurvi a Dio; egli, messo a morte quando al suo essere mortale, fu vivificato quanto alla spirito, nel quale fece la (sua) proclamazione agli spiriti (trattenuti) in carcere, a coloro cioè, che erano stati un tempo increduli, quando la longanimità di Dio attendeva ai giorni di Noè, mentre si costruiva l'arca »

A. Storia delle principali interpretazioni

I diversi tentativi proposti dagli esegeti si ricollegano in modo più o meno chiaro e due linee esegetiche fondamentali, occidentale l'una e orientale l'altra.

1. Interpretazione orientale . — Gli orientali, in genere, ma specialmente gli Alessandrini, di solito sostennero che Gesù Cristo scese nel soggiorno dei morti per offrire una nuova possibilità di salvezza alle persone morte in modo sì tragico al tempo del diluvio(2) Tale interpretazione passò nella stessa versione siriaca che così suona: «Egli (Cristo) predicò alle anime (invece di «spiriti») che stavano racchiuse nello Sceòl (il soggiorno dei morti), a coloro che un tempo furono disubbidienti nei giorni di Noè». La liberazione di tutte le anime, sia buone che cattive, al momento della discesa di cristo all'Ades, divenne anzi uno dei temi prediletti della chiesa siriaca (3) .

Gran parte dei moderni esegeti protestanti adottarono tale idea, ma solo per respingerla come un puro mito di origine ellenistica od orientale, assolutamente privo di valore (4) Solo alcuni, aderendo alla concezione orientale, ammisero che alla generazione, così duramente provata dal diluvio, sia stata offerta eccezionalmente una nuova possibilità di salvezza (5) Il cattolico Galot vi trova invece insinuata l'idea che la salvezza, attuata dal cristo sul Calvario, si estese anche alle generazioni che lo precedettero inclusa quella malvagia del diluvio(6) .

Lasciando in disparte l'interpretazione puramente mitica, dal momento che l'autore ispirato voleva ben insegnarci qualcosa con tali sue parole, mi sembra che la asserita possibilità di una nuova salvezza agli uomini periti nel diluvio, sia in contrasto con tutti gli altri passi biblici secondo i quali con la morte cessa ogni possibilità di conversione(7) perché ammettere un'eccezione per le persone vissute al tempo del diluvio e negarla invece a quelle di Sodoma e Gomorra, perite pur esse in modo tragico? Come mai le anime separate dal corpo e presentate usualmente nell'Antico Testamento come quasi prive di vita, solo qui in tutta la Bibbia sono dette «spiriti », parola che al contrario significa « forza, potenza»? Siamo noi occidentali che per influsso della filosofia greca identifichiamo l'anima con lo spirito, mentre nella Bibbia tale interpretazione non si trova mai. I morti privi del corpo sono chiamati Refaìm , ombre e vivono una vita debole e quasi incosciente, per cui non possono essere chiamati «spiriti », termine che al contrario significa « potenze» (7bis) .

2. Interpretazione occidentale . — Quando nel cristianesimo primitivo s'impose la dottrina dell'assoluta impossibilità di salvezza nel periodo ultraterreno (8) Agostino, vescovo d'Ippona, suggerì l'ipotesi che Pietro parlasse dello Spirito eterno del Cristo il quale, tramite Noè, avrebbe predicato, sia pure inutilmente, la via della salvezza ai suoi contemporanei periti nel diluvio proprio per la loro disubbidienza a tale voce divina (9) Fu l'ipotesi che gli occidentali tosto accolsero con piacere in quanto aveva il merito di eliminare la difficoltà di una ipotetica conversione ultraterrena per la generazione diluviale (orientali). Ancora al tempo di Tommaso d'Aquino nel 12° secolo tale ipotesi dominava tra i teologi della scolastica (10) .

Che Noè possa essere ritenuto un «predicatore » di salvezza appare dal fatto che Pietro lo chiama « araldo di giustizia» (2 Pt 2, 5) e che l'autore della lettera agli Ebrei lo presenta come un uomo di fede, il quale con il suo comportamento condannò il mondo:

« Per fede Noè, divinamente avvertito da Dio, mosso da pio timore, preparò un'arca per la salvezza della propria famiglia e per questa (fede? arca?) condannò il mondo, divenendo erede della giustizia che si ottiene per fede » (Eb 11, 7).

Che in Noè, profeta di Dio, fosse lo Spirito di cristo a parlare, si potrebbe arguire dal passo petrino dove si legge che fu « lo spirito di Cristo» a preannunziare ai profeti la venuta del salvatore(11) .

Ma anche questa ipotesi suscita difficoltà non indifferenti: perché mai i contemporanei di Noè sono chiamati «spiriti ritenuti in carcere» (12) L'idea dell'anima racchiusa nel carcere del corpo (Beda) è del tutto aliena dal concetto biblico e proviene da riflessioni proprie della filosofia platinica. Di più nella Bibbia la preesistenza divina del Cristo non è mai detta «Spirito », bensì «Verbo, Parola » (lògos ); non si comprendi quindi come mai essa sia qui presentata in modo tanto diverso. Di più nel contesto l'andata di Cristo « in spirito» sembra riferirsi a un tempo posteriore alla sua morte: Queste difficoltà mi impediscono d'accogliere l'ipotesi agostiniana.

a) Sintesi delle due ipotesi precedenti. — Il Cardinale Bellarmino, cercando di riunire le due interpretazioni predette, ammise con gli occidentali la predicazione di Noè — che avrebbe suscitato il ravvedimento in qualche persona nell'ultimo istante della sua vita — e la discesa di Cristo nel soggiorno dei morti, non per predicare una nuova possibilità di salvezza, bensì per prendere con sé le anime di coloro che si erano ravveduti prima di morire nelle acque del diluvio. Con tale ragionamento egli pensava di trovare un nuovo appiglio a favore del purgatorio (13) Tale ipotesi arrise pure ai cattolici U. Holzmeister (14) S. Kowalski(15) De Ambroggi (16) J. Chaine(17) .

Tuttavia anche questa ipotesi va incontro a molte difficoltà alle quali accenno solo brevemente: perché mai queste anime disincarnate sono dette « spiriti», mentre non lo sono mai altrove? Donde viene l'idea di conversione di qualche persona al tempo del diluvio, quando la Bibbia presenta tale generazione del tutto malvagia e perversa? (18) Di più il testo sacro non dice che lo Spirito di Gesù andò ai convertiti bensì agli «spiriti ribelli e increduli» (apeithésasin) della generazione diluviale, ossia a persone che non si convertirono, che rimasero ribelli. Anche la scissione in due parti « spirito di Gesù che predica al tempo di Noè » e «anima di Gesù che va nel soggiorno dei morti» non ha alcun appiglio biblico, dal momento che vi si parla di un'azione unica e non duplice di Gesù: «nello spirito andò agli spiriti ribelli ritenuti in carcere». Mi sembra quindi necessario ricorrere a una soluzione diversa.

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3) proclamazione della vittoria di Cristo. — Le ipotesi precedenti sembravano eliminare ogni possibilità si soluzione del problema creato dal passo petrino, quando l'anglicano E.G. Selwin, decano della chiesa di Winchester, presentò all'esegesi biblica una nuova pista, che ben presto si mostrò assai feconda (19) Secondo questo autore Gesù, prima di risorgere, si sarebbe recato al soggiorno dei morti non per predicarvi la conversione, ma per proclamare la sua vittoria non alle anime disincarnate, « bensì agli spiriti ribelli», vale a dire agli angeli che vi stavano racchiusi in attesa della punizione finale. L'elemento buono di questa interpretazione sta nel fatto che il greco non usa qui il verbo «evangelizzare » (euangelìzein ), che è normale nel caso di una predicazione con lo scopo di convertire, bensì quello di «proclamare » (keryssein ), come se cristo fosse un araldo che annunzia a qualcuno un proclama regale. E' poi anche interessante notare che tale ipotesi giustamente intende il vocabolo «spirito » nel senso usuale di «potenza », in questo caso angelica, e non in quello insolito di « anima disincarnata». Ha però lo svantaggio d'introdurvi un controsenso, in quanto pur dicendo che lo spirito indica «angelo » e non «anima », di fatto nel caso di Cristo che « nello spirito» si recò nello Sceòl, o soggiorno dei morti, suppone poi che egli vi sia andato prima della resurrezione, con la propria anima, prendendo così il medesimo vocabolo « spirito » in due modi diversi nello stesso versetto: come « angeli » nel caso delle persone a cui Cristo si rivolge e come anima disincarnata in riguardo a Gesù che proclama tale messaggio, il che è perlomeno strano. Inoltre un'anima che scende nel soggiorno dei morti al pari di tutte le altre anime, come poteva apparire una proclamatrice di vittoria? Tale proclamazione non doveva consistere nel suo ingresso nel soggiorno dei morti, bensì nel suo uscirne fuori da trionfatore sulla morte. Quindi la sua proclamazione agli angeli si sarebbe dovuta attuare dopo la sua liberazione dalla Sceòl e non prima.

Occorreva dunque compiere un ulteriore passo avanti, che fu attuato da Karl Gschwind (20) e da W.J. Dalton(21) i quali sostennero che la «proclamazione» agli uomini ribelli non fu attuata dall'anima di Gesù quando si recava nella Sceòl o soggiorno dei morti, bensì dal Cristo vittorioso dopo la sua resurrezione gloriosa, quando egli poteva, appunto per la sua gloria potente, essere chiamato «spirito »
(22) E' l'interpretazione che preferisco, ma che occorre però inquadrare in un contesto assai più vasto.

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B. La glorificazione del Cristo

Chi è glorificato ed esaltato è posto al di sopra degli altri esseri che gli stanno sottoposti. Il Cristo, dopo la sua ubbidienza fu elevato sopra tutto il creato, che secondo la mentalità ebraica si suddivide in tre grandi parti: il cielo, la terra e il sottoterra (Sceòl o Ades). La lettera ai Filippesi nel famoso inno cristologico attesta che, dopo la sua ubbidienza fino alla croce, Gesù fu glorificato:

« Perciò Dio lo ha innalzato assai
e gli ha dato un nome
affinché nel nome di Gesù
che è sopra ogni altro nome
ogni ginocchio si pieghi
tra i celesti, i terrestri e gli inferi
ed ogni lingua confessi:
Gesù Cristo è il Signore
alla gloria di Dio Padre!»
(Fl 2, 9-11)

Anche secondo il linguaggio altamente figurato e immaginoso dell'Apocalisse, solo il Cristo fu capace di aprire il libro dei sette sigilli, mentre a ciò non riuscirono tutti gli altri esseri del cielo, della terra, degli inferi e del mare, i quali ne proclamano così la sublime grandezza:

«Degno è l'agnellino che è stato scannato
di ricevere potenza e ricchezza
sapienza e forza
onore e gloria e benedizione!

E ogni creatura in cielo, sulla terra, sotto la terra, sul mare e su tutto ciò che in essi sta, udii che diceva:

A colui che siede sul trono e all'agnellino
siano lode, onore, gloria e potenza
per i secoli dei secoli!

E i quattro viventi dicevano: Amen! Egli anziani caddero in adorazione» (Ap 5, 11-14) .

La glorificazione del Cristo a re dell'universo è un tema chiaramente insegnato in tutto il Nuovo Testamento. per meglio imprimerlo nella mente umana, gli scrittori sacri lo esprimono con diversi simboli, che evidentemente non si possono prendere alla lettera. Tra questi ne dominano due, uno usato da Paolo e l'altro da Pietro.

a) Il simbolo del trionfo di un re vittorioso. — Paolo, che ama le similitudini tratte dal servizio militare (cf Ef 6, 10-20), descriverà il trionfo del Cristo sotto forma di un re vittorioso che, secondo l'uso del tempo trascina dietro il suo carro trionfale i nemici da lui debellati, come ad esempio si trova scolpito sulla famosa colonna di Traiano a Roma. Nella lettera agli Efesini si legge che con la sua assunzione Gesù Cristo fu fatto sedere alla destra di Dio «al di sopra di ogni Principato, Potenza, Dominazione, e di ogni altro nome che possa essere nominato non solo nel mondo presente ma anche in quello futuro »(23) Dal passo precedente non risulta se le varie classi di «angeli» ivi ricordate, siano buone o cattive; si afferma solo l'esaltazione del Cristo sopra coloro che si pensava dimorassero nelle regioni sublunari. Ma in un altro testo con la citazione di un salmo biblico, Paolo presenta Gesù che, ascendendo al cielo, conduce seco prigionieri i nemici da lui vinti, mentre distribuisce donativi agli uomini:

« Ascendendo il alto catturò dei prigionieri
dette doni agli uomini» (24) .

In un altro passo Paolo indica chiaramente quali siano i nemici da lui debellati, vale a dire i « Principati e le Potestà », ossia gli angeli dominatori di questo mondo tenebroso, « le forze spirituali (= «spiriti») della malvagità, che si trovano nei luoghi celesti» (Ef 6, 12). Per salire al cielo — secondo la cosmologia del tempo — Gesù doveva attraversare tale luogo celeste e debellarvi gli angeli malvagi che si pensava vi fossero (Ef 3, 16) e che vengono simbolicamente legati al suo carro trionfale. Gesù con la sua morte

« ha cancellato il documento che ci era contro e che, a motivo di tutte le sue prescrizioni ci era avverso; egli lo tolse di mezzo inchiodandolo sulla croce. Così trionfando su di loro per mezzo suo, egli ha spogliato i Principati e le Dominazioni e ne ha fatto un pubblico spettacolo » (Cl 2, 14s).

Si noti il verbo trionfare che lo ricollega al trionfo del re vittorioso. Naturalmente non si tratta di una descrizione da intendersi alla lettera, quasi che il Cristo realmente abbia attraversato il cielo sidereo, dominio di angeli ribelli, trascinando dietro al suo cocchio trionfale questi suoi avversari: si tratta di un simbolo per insegnare che egli ha vinto la morte, ha debellato tutte le potenze demoniache a lui avverse che hanno dimora nell'atmosfera terrestre, vale a dire esseri inferiori a Dio che è in cielo, ma più potenti degli uomini, posti sotto di loro sulla terra. Come Cristo li ha debellati nel suo trionfo, anche il cristiano, a lui unito, li può vincere in virtù della potenza che da lui riceve (Ef 6, 10-21).

b) Il simbolismo della proclamazione. — Anche Pietro ricorda il trionfo di Gesù che dopo la sua resurrezione « salito al cielo», siede alla destra di Dio mentre «stanno a lui soggetti gli angeli, o principati e le potestà » (1 Pt 3, 22). E' possibile che l'apostolo, nel passo che stiamo esaminando, voglia ripresentare lo stesso insegnamento mediante il simbolismo della « proclamazione »? Sembra di sì, in quanto idee simili circolavano nell'ambiente giudeo-cristiano, come risulta dall'apocrifo Enoc.

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1. Il libro di Enoc . — Secondo questo apocrifo, del 2° secolo a.C., che si rifà a Ge 6, 1-4(25) alcuni angeli detti «i Vigilanti » o anche solo «spiriti », poco prima del diluvio si accoppiarono con donne terrene dando origine a dei giganti, che con le loro rapine e violenze corruppero l'umanità. Ne seguì una triplice punizione: gli uomini perirono nel diluvio ed eccezione di Noè; i giganti, avendo seco un principio eterno, furono uccisi, ma dai loro corpi uscirono spiriti cattivi che tormentano il genere umano(26) gli angeli colpevoli, che non possono morire, furono imprigionati, probabilmente nel secondo cielo. Là infatti li pone il Testamento di Levi, che, al pari del testo petrino, li chiama «spiriti »: «(Nel secondo cielo) vi sono tutti gli spiriti di quei che (vissero) senza legge; vi sono confinati per la loro punizione» (Test. Levi 3, 2). Là infatti li trova Enoc quando ascende al cielo:

« E gli uomini mi presero — dice Enoc — e mi portarono al secondo cielo, e mi mostrarono dei prigionieri custoditi in attesa del giudizio eterno. Io vidi gli angeli condannati che piangevano. E dissi agli uomini che stavano con me: Perché questi uomini sono torturati? Gli uomini mi risposero: Sono coloro che apostatarono dal Signore, che non ascoltarono la voce del Signore, ma che presero consiglio dalla propria volontà »(27) .

Anche Clemente d'Alessandria presenta gli angeli confinati, come se fossero in carcere, nell'aria vicina alla nostra terra:

« Le catene nelle quali gli angeli malvagi sono ora confinati sono l'aria vicina alla nostra terra, ed essi si possono ben dire incatenati, poiché sono impediti dal riavere la gloria e la felicità che perdettero »(28) .

Ora — secondo questi testi apocrifi — Enoc fu inviato al cielo per proclamare agli angeli Vigilanti la loro punizione eterna e il loro allontanamento definitivo dal cielo:

Dio infatti gli dice: «Enoc, scriba di giustizia, va' e parla ai vigilanti del cielo che hanno abbandonato l'alto cielo, il luogo sacro eterno e si sono contaminati con donne » (Enoc 12, 4) «Allora io — narra Enoc — andando parlai a tutti loro ». E rivolgendosi a questi spiriti (« voi eravate spiriti santi, viventi ed eterni » 15, 4-6), dice loro: «D'ora innanzi più non ascenderete in cielo per tutta l'eternità; è uscito il decreto per legarvi tutti i giorni del mondo nei vincoli della terra »(29) .

2. Assimilazione di tali idee da parte dei giudeo-cristiani. — Anche i giudeo - cristiani conoscevano tali leggende giudaiche, come risulta dalle considerazioni che seguono

Giuda aveva conoscenza di uno scritto di Enoc, dal quale trae una citazione nella sua epistola (30) egli conosce pure l'episodio del peccato tra gli angeli e le donne terrene (31) Tant'è vero che lo ricorda, sia pure sobriamente nella sua lettera, per sottolineare mediante tale paragone — come talora facciamo noi pure nei sermoni prendendo lo spunto da leggende o da fatti irreali solo per insegnare una lezione morale — che Dio punisce ogni peccato, senza risparmiare alcuno. Eccone una traduzione il più possibile letterale:

« (Ricordate) che Egli (Dio) ha riservato per il grande giudizio in tenebre legati da catene eterne gli angeli che non conservarono la loro propria dignità, ma abbandonarono la loro dimora. (Ricordate) come Sodoma e Gomorra e le città circonvicine per aver fornicato allo stesso modo e per aver corso dietro una carne diversa, ci stanno dinanzi come esempio e portano la pena di un fuoco eterno» (Gd 6s) .

Gli angeli qui ricordati sembrano riferirsi ai «figli di Dio » della Genesi, che, scesi dal cielo sulla terra (« abbandonarono la loro dimora ... e la loro dignità »), si unirono a donne terrene. Il loro peccato è detto uguale («allo stesso modo ») a quello dei Sodomiti che pretendevano unirsi con i tre angeli venuti in aiuto di Lot. Il termine «carne diversa » indica appunto il corpo angelico, che si riteneva formato da « carne » diversa da quella umana, ad essa superiore e più sottile (32) Probabilmente è a questi stessi angeli che allude la seconda Pietro, quando dice che «Dio non risparmiò gli angeli che hanno peccato, ma li inabissò, confinandoli in antri tenebrosi per esservi custoditi per il giudizio » (2 Pt 2, 4).

Non fa meraviglia che Pietro, conoscendo lui pure la narrazione del libro di Enoc e la punizione da lui annunziata agli angeli ribelli che erano stati la causa ultima del diluvio, presenti l'ascensione di Gesù secondo la simbologia di questo libro apocrifo, vale a dire come un proclama a questi angeli della peggiore specie che ormai essi, in seguito alla vittoria di Cristo sulla morte e della sua esaltazione in cielo, saranno definitivamente puniti. L'affinità tra i due racconti ha persino indotto qualche studioso a immaginare che nel testo petrino vi fosse all'origine il nome di Enoc, caduto per aplografia, restituendolo come segue: «nel quale spirito Enoc andò a proclamare agli angeli ribelli »(33) Non si capirebbe tuttavia in tale caso che ci stia a fare Enoc in un contesto tutto centrato sul Cristo. Al contrario Pietro, utilizzando la preesistente leggenda di Enoc, vuole esprimere ai suoi lettori, forse anche con intenti polemici, la reale esaltazione di Gesù al di sopra di tutti gli angeli, anche più potenti, come lo furono quelli che causarono il diluvio, i quali sono così da lui definitivamente condannati (cf 1 Pt 3, 22). Presentando Gesù che, salendo al cielo, proclama la propria vittoria e la conseguente sconfitta eterna dei peggiori démoni — come si pensava fossero quelli del diluvio — Pietro voleva, non solo porre in enfasi la vittoria di Cristo su tutte le potenze della malvagità, ma simultaneamente attestare ai giudei che non Enoc, bensì il Cristo, era il vero araldo di Dio e il vero trionfatore sul male da lui definitivamente debellato. Al Cristo, non ad Enoc, spetta il giudizio finale su tutti gli empi e i malvagi, siano essi uomini oppure angeli ribelli della peggiore specie.

c) Tradizioni popolari e ispirazione biblica. — Spesse volte i credenti hanno difficoltà a riallacciare il racconto biblico a leggende popolari in quanto pensano che in tal modo l'inerranza biblica sia in pericolo. Come può un testo sacro presentarci dei racconti leggendari? Secondo me, tuttavia, il problema è impostato male. Se la Bibbia intendesse insegnarci come vera e reale una leggenda sarei d'accordo nell'asserire che ciò non si accorda con l'ispirazione e la verità biblica. Ma se la Bibbia, tramite un racconto preesistente e leggendario, intende presentarmi una reale verità religiosa, non vedo come mai ciò non possa essere possibile, dal momento che noi stessi parecchie volte usiamo lo stesso metodo senza essere accusati di falsità. Perché non potrebbero gli scrittori sacri insegnarmi una dottrina spirituale vera tramite un racconto non reale da essi creato (parabola, similitudine) o tramite un racconto fantastico preesistente? Paolo agì così quando, utilizzando la leggenda rabbinica che faceva accompagnare gli Ebrei nel deserto dalla sorgente miracolosamente sgorgata dalla roccia (33bis) prende lo spunto da essa per indicare che ciò era simbolo di un fatto reale, in quanto «era » (vale a dire «simboleggiava ») il Cristo che accompagna l'uomo convertito con la sua acqua spirituale che dona vita eterna (1 Co 10, 4). Anche se il precedente non fosse vero, era pur sempre vero che Gesù realizzava nei cristiani ciò che i rabbini del suo tempo pensavano si fosse attuato per gli Ebrei nel deserto a riguardo della sorgente miracolosa.

Giuda per insegnare moderazione nel comportamento dei cristiani, presenta la « leggenda» dell'arcangelo Michele da loro conosciuta, dalla quale appariva la delicatezza di questi persino verso satana, che avrebbe voluto rapirgli il cadavere di Mosè (34) Anche Pietro, per mostrare l'elevazione di Gesù al di sopra di tutti gli angeli e la sua condanna dei peccatori, compresi i peggiori angeli ribelli, poteva utilizzare il simbolismo dell'apocrifo libro di Enoc. Con esso non intendeva insegnarci la leggenda, ma la conclusione tratta dalla leggenda.

Alcuni si scandalizzano per questo fatto e non pensano che spesso i predicatori fanno altrettanto nei loro sermoni. Ho conosciuto un vescovo di Cremona che deliziava gli studenti di teologia con gustosissime meditazioni, traendone lo spunto dal Pinocchio di Collodi, assai ricco di elementi psicologici profondi, senza per altro accordare valore storico al racconto. Io stesso per mostrare la potenza della grazia divina potrei raccontare la conversione dell'Innominato (e alcune volte l'ho fatto) riferito al Manzoni nei suoi Promessi Sposi . Nell'episodio di Lucia che si rivolge a Dio mentre è in balia dell'Innominato potrei documentare la potenza reale della preghiera e nel cardinale Federico, che determina la conversione di quell'assassino, la potenza dell'amore che conquista e risana l'animo. Ma con tale procedimento non intendo affatto dire che quanto racconta il Manzoni sia vero; tramite il suo racconto intendo solo presentare un insegnamento religioso reale e vero, anche se l'esempio scelto è solo frutto di fantasia. Anche Gesù, dopo aver narrato la similitudine del buon samaritano, conclude: «Va e fa anche tu così!», vale a dire come il samaritano, benché tale persona fosse stata creata dalla sua immaginazione (Lc 10, 25-37).

Perché un procedimento lecito all'uomo, permesso a Gesù, non potrebbe essere utilizzato anche dagli scrittori sacri? Non ne vedo l'impossibilità, purché ripeto, essi non insegnino la leggenda (il che non si avvera affatto) ma la realtà che intendo presentare con similitudini anche leggendarie.

Credevano Pietro e Giuda a tali leggende? E' possibile, anche se non sicuro. L'Ispirazione non garantisce quanto personalmente credevano gli scrittori sacri, ma solo quanto essi insegnavano attraverso i loro scritti .

Anche i profeti dell'Antico Testamento forse si attendevano un regno messianico, che avrebbe dominato gli altri popoli, ma ciò non era da loro insegnato. Tramite le loro descrizioni vivide e temporali essi in realtà non insegnavano altro che le benedizioni spirituali procurate dal Cristo e che solo l'interpretazione data da Gesù e dallo Spirito Santo avrebbe chiarito. Gli apostoli attendevano assai vicina la comparsa del Cristo, forse nella loro stessa generazione, poggiando erroneamente su un detto di Gesù (Mt 24, 34s); ma questo non l'hanno mai insegnato. Gli apostoli non erano onniscenti, la loro conoscenza era pur sempre limitata e certamente possedeva degli errori di vario genere, ma tali errori non li hanno insegnati e tanto meno scritti nei libri sacri, appunto perché ispirati. Forse anche Pietro credeva (anche se non è sicuro) agli esseri angelici incatenati in antri tenebrosi (2 Pt 2, 4); forse anche Giuda accettava (anche se non è sicuro) la leggenda del connubio tra angeli e donne terrene (Giuda 6), tuttavia non l'ha insegnata nel suo scritto sacro; essi ne usano sobriamente (contro l'esempio contrario degli apocrifi) solo come mezzo espressivo per difendere la reale superiorità di Cristo su tutti gli esseri angelici e demoniaci, anche della peggiore specie, e per indicare che Dio sa punire tutti i peccati senza avere riguardo agli esseri che li compiono. Questa è la verità chiaramente espressa, anche se la presentazione usa delle idee diffuse al tempo degli apostoli presso gli ebrei e i giudeo-cristiani.

Tale procedimento aveva anche l'effetto di correggere l'errore di attribuire a delle creature (come fecero in seguito alcuni giudeo-cristiani eterodossi a riguardo degli angeli) un valore che compete solo al Cristo.

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II. Il passo di 1 Pietro 4, 5

L'altro testo petrino che ha suscitato vari problemi così suona:

« Per questo (quindi), la lieta notizia del Cristo è stata annunziata a coloro che sono morti, affinché,
— benché condannati nella carne agli occhi umani
— possano vivere nello Spirito agli occhi di Dio»
(1 Pt 4, 6).

Circa questo passo vi sono due correnti interpretative, la prima delle quali vi vede un parallelismo con il passo precedentemente analizzato, mentre la seconda vi rinviene un concetto totalmente nuovo.

a) Morti e vivi in senso spirituale

Presento all'inizio una interpretazione che, per evitare qualsiasi « evangelizzazione» ai morti, dà a questo vocabolo il senso di «morti » in senso spirituale. E' un'ipotesi che risale a Clemente Alessandrino, secondo il quale la predicazione, qui presentata a da Pietro, riguarderebbe i peccatori che sono spiritualmente morti: « Ai morti fu predicato l'evangelo, vale a dire a noi che un tempo eravamo infedeli» (35) Tale interpretazione fu pure accolta da Cirillo d'Alessandria, da Teofilatto, da Agostino, dal venerabile Beda(36) e da alcuni pochi esegeti moderni (37) .

Contro la predetta ipotesi sta il fatto che la parola «morti», ricorre anche nel versetto precedente nell'espressione: «giudicare (= condannare) i vivi e i morti» (1 Pt 4, 5), dove, come vedremo in seguito, indica «i vivi e i morti» in senso fisico, non spirituale. Sarebbe strano che subito dopo, senza alcuna indicazione di passaggio, si parlasse di «morti » in senso spirituale, tanto più che il v. 6 richiama espressamente il v. 5 mediante la particella «infatti » (gàr ). Quindi dal contesto i «morti» tanto al v. 5 che al v. 6 vanno presi in senso univoco, come i fisicamente morti e non gli spiritualmente morti. Di più se qui l'evangelizzazione si riferisse solo ai morti spirituali, si potrebbe concludere che i « non morti spirituali» non furono evangelizzati; che vi erano delle persone «spiritualmente vive», per le quali la predicazione sarebbe stata inutile, è contro il chiaro insegnamento di tutto il Nuovo Testamento, per il quale tutti hanno bisogno di salvezza. Sembra quindi più logico intendere il vocabolo « morti » nel senso di cristiani che furono evangelizzati, ricevettero l'evangelo e che, quando venne scritta la lettera, erano già morti.

b) Predicazione di Cristo ai morti giacenti nell'oltretomba

Secondo questa ipotesi il Cristo, scendendo nell'Ades (oltretomba), vi avrebbe evangelizzato i morti, dando loro una nuova possibilità di salvezza o almeno avrebbe annunziato ai giusti, ivi raccolti, la loro giustificazione (38) .

Questa ipotesi crea tuttavia difficoltà enormi: l'offerta di una nuova possibilità di salvezza per i defunti introduce, come già vedemmo, un concetto nuovo nella Bibbia e quindi non può essere difesa se non nel caso in cui sia del tutto impossibile un'altra interpretazione del passo petrino. Non si può pensare, poi, all'annunzio salvifico « proclamato» da Cristo ai giusti già morti prima di Cristo, poiché in tal caso sarebbe più adatto il verbo «proclamare » (kerysso ) che non quello qui usato di «evangelizzare » (euangelizo ), il quale si riferisce sempre all'annunzio della « lieta notizia» ( euàngelos) di salvezza che alcuni accolgono e che altri respingono. Di più non vi è alcun indizio nel testo che permetta di restringere questa « proclamazione » solo ai giusti, in quanto nel testo biblico vi si legge la parola generica « morti », la quale include tutti i defunti siano essi buoni o cattivi. Va poi ricordato che i « giusti » dell'Antico Testamento al tempo apostolico si pensava vivessero « nel seno di Abramo » (Lc 16, 22) o in « paradiso » (Lc 23, 43) non nell'Ades, e si supponevano « nelle mani di Dio » dal quale già ricevevano la loro ricompensa (Sap. 3, 1; 5, 15). Va infine ricordato che la successione degli eventi nel discusso passo di Pietro sembra essere: Predicazione, condanna (morte) e vita nello spirito, mentre invece, secondo l'interpretazione presente, sarebbe: condanna (morte), evangelizzazione e infine vita nello spirito.

Occorre quindi ricercare un'altra soluzione.

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c) Evangelizzazione antecedente alla morte

Questa ipotesi, già suggerita da Spitta(39) nel secolo scorso, va diffondendosi sempre più tra gli esegeti moderni(40) e sarà accolta anche nello studio presente.

Anzitutto l'espressione «vivi e morti » nel Nuovo Testamento non indica i peccatori e i non peccatori bensì due gruppi di persone che saranno fisicamente morti o fisicamente vivi al tempo della parusia quando Gesù apparirà nella gloria per attuare la loro salvezza. E' un dato assai chiaro nel testo biblico che al momento della venuta di Gesù non tutti saranno morti, ma che vi si troveranno anche dei vivi. Paolo afferma che quando Cristo apparirà dapprima sorgeranno i morti(41) che con i vivi gli andranno incontro: « Noi che siamo vivi, che siamo lasciati sino alla venuta del Signore, non precederemo coloro che sono caduti addormentati » (1 Te 4, 13s.17). I vivi, secondo il mistero che Paolo attesta, non morranno in quell'attimo, ma saranno soltanto trasformati nel loro corpo divenuto glorioso (1 Co 15, 51-58). Tutti però staranno davanti al trono divino: «Sta scritto infatti: "Com'è vero che io vivo, ogni ginocchio si piegherà dinanzi a me e ogni lingua darà lode a Dio"» (Rm 4, 10s). Tanto i vivi che i morti, secondo varie testimonianze paoline disseminate nei suoi scritti, rimangono uniti al Signore, se cristiani, e compariranno dinanzi a Gesù giudice (2 Ti 4, 1, 1 Te 5, 9; Rm 14, 8s). Non v'è motivo per intendere diversamente l'affermazione petrina e dare al suo giudicare «i vivi e i morti » un senso differente; si tratta quindi, anche qui di vivi e morti in senso fisico. Anche il «Colui che giudicherà » sembra riferirsi a Gesù Cristo che in quasi tutto il Nuovo Testamento è presentato come il giudice ultimo. Tuttavia la loro evangelizzazione da Pietro non è presentata come un fatto successivo alla loro morte, bensì come ad essa anteriore. Infatti il verbo « evangelizzare» (qui in passato: « è stata annunciata») si usa sempre nel Nuovo Testamento per indicare la predicazione della lieta notizia salvifica a coloro che sono sulla terra e che vi rispondono o con la fede o con l'incredulità (42) Dunque, se nel v. 5 si parla di vivi e morti in senso fisico che compariranno dinanzi al giudizio divino, ne viene che anche nel versetto successivo lo stesso termine di «morti » deve mantenere il medesimo senso fisico. Vi è solo una sfumatura leggermente diversa tra il v. 5, dove il termine « morti» riguarda tutti gli uomini già morti, siano essi cristiani o no, mentre al v. 6, come risulta dal contesto, si restringe ai morti «cristiani » che accolsero l'evangelo, poiché di loro si dice che vivono «per lo spirito ».

Siccome il verbo « condannare» ( krìno) riguarda una punizione, va osservato che anche i credenti sono qui presentati come persone sottoposte alla condanna, ma evidentemente la loro è una « condanna» più apparente che reale; è tale solo «agli occhi degli uomini ». Di quale condanna si parla? Evidentemente non di quella spirituale che non è visibile agli altri, bensì alla condanna della morte. Di fronte agli uomini non v'è differenza tra i morti cristiani e i morti non cristiani, in quanto tutti muoiono nella identica maniera, ma agli occhi di Dio sussiste tra i due gruppi una differenza enorme; mentre per i non credenti la morte è un fatto temibile e irreparabile, per i credenti è qualcosa di gioioso che li conduce a una vita più intima con Dio, tant'è vero che Paolo può scrivere che per lui il « morire sarebbe un guadagno », in quanto gli permetterebbe d'essere con il Cristo (Fl 1, 21; 2 Co 5, 8).

Anche Giovanni riporta le parole di Gesù a Marta, nelle quali si afferma che il credente non muore mai, perché anche se sembra morire, di fatto vive (Gv 11, 25s), e osserva che in realtà egli non è sottoposto alla condanna («giudizio »), ma passa alla vita (Gv 5, 24). Quindi anche Pietro, non ignaro di questo insegnamento, parla di condanna più apparente che reale dei credenti che muoiono («agli occhi degli uomini») in quanto la loro morte terrena, pur essendo dalla Bibbia connessa, sia pure indirettamente con il peccato (43) di fatto per il credente è una non « morte» in quanto egli continua a vivere per lo «spirito » di Dio.

Nel libro deuterocanonico della Sapienza si legge un passo che è in perfetto parallelismo con quello petrino:

— Poiché, pur essendo essi (i buoni) puniti
— di fronte agli uomini
— la loro speranza è piena di immortalità
(Sap. 3, 4).

Il cristiano, che con la fede nella resurrezione di Cristo è passato attraverso il battesimo (si ricordi che il contesto generale di questi capitoli è battesimale; cf 3, 21s), si trova unito a Cristo; quindi la sua morte si attua soltanto perché egli possa vivere nello Spirito. La vita nello Spirito è una vita gloriosa, nel corpo glorificato (« spirituale»), frutto non di uno sviluppo naturale dell'organismo umano, ma del dono dello Spirito Santo, fonte di resurrezione (Rm 1, 3s) non solo per Cristo ma anche per ogni cristiano. « Per questo motivo Cristo morì e risorse di nuovo per essere il Signore tanto dei vivi che dei morti » (Rm 14, 8s)(44) Il defunto cristiano sembra punito con la morte quanto al suo essere mortale come l'incredulo, ma agli occhi di Dio vi è una differenza enorme; mentre questi non potrà vivere per lo Spirito Santo (che non possiede) assieme a Dio in quanto ribelle alla lieta notizia annunziata dal Cristo, il credente potrà vivere con Dio mediante lo Spirito che lo vivifica e che lo farà risorgere a vita eterna al tempo della resurrezione finale.

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Conclusione

I due passi di 1 Pietro 3, 18-20 e di 4, 6 non esprimono il medesimo insegnamento.

Il primo significa che Cristo, nella sua ascesa al cielo dopo la resurrezione (« nello spirito») passò, secondo il linguaggio figurato del tempo (libro di Enoc), attraverso le regioni occupate dagli angeli ribelli per proclamarvi la sua vittoria e la loro punizione eterna. Con tale simbolo, già giudeo-cristiano, Pietro voleva esaltare Gesù al di sopra di tutti gli angeli, la sua posizione di giudice su tutti i ribelli, compresi i demoni più possenti, come si pensava fossero quelli che provocarono la malvagità umana punita con il diluvio.

Il secondo significa che il Cristo è stato evangelizzato non solo ai cristiani viventi al tempo della lettera di Pietro, ma anche a quelli che erano già morti. L'evangelizzazione per costoro non era però stata inutile, come si potrebbe pensare al vederne la morte terrena pari a quella dei non credenti, poiché essa è il necessario transito a una vita più gloriosa con la futura resurrezione nello Spirito.

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NOTE A MARGINE

1. Oltre ai diversi scritti citati nel corso di questa rapida analisi, rimando per una bibliografia più completa a William Joseph Dalton, Christ's proclamation to the Spirits, Istituto Biblico, Roma 1965, dal cui ottimo lavoro ho tratto qualche spunto per la presente indagine. Vi si aggiunga: J. Landeira, Descensus Christi ad inferos in 1 Pt 3, 18-20, dissert. Pont. Univ. Lateranensis, Roma 1966; W.L. Banks, Who Are in Spirits in Prison, in «Eternity» 16 (1966, 2) pp. 23-26. torna al testo

2. Così Clemente d'Alessandria, Stromata 6,6,38-39 PG 9, 268 A; Origene, De Principiis 2, 5 PG 11, 206 C; Contra Celsum 2, 43 PG 11, 864 C; In Matth. 132 PG 13, 1780 D. Origene pensa qui in modo greco e dà al termine « spirito» il medesimo significato della parola greca anima (psuché, cf Cimm. in Joh. PG 14, 260  B). Questa interpretazione favoriva la sua dottrina della apocatastasi o finale conversione di tutti gli esseri; le punizioni del diluvio, di Sodoma e Gomorra d'indole medicinale, si rivolgevano al corpo perché l'anima fosse salva: La medesima interpretazione si trova in Cirillo Alessandrino, Comm. in Joh. 16, 16 in PG 74, 456 A; Comm. in Lucam 4, 18 PG 72, 537 D; Hom. Pasch. 8 PG 77, 552 A; Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa 4, 2a (De Descensu ad Inferos) PG 94, 101 A. torna al testo

3. Cf J.N.D. Kelly, Early Christian Creeds, London 1960, p. 380; Bo Reicke, The Disobedient Spirits and Christian Baptism, Copenhagen 1946, p. 34s. torna al testo

4. C, Bigg, Epistles of St Peter and St Luke, Edinburgh 1902; H. Windisch (rev. H. Preisker) Die Katholische Briefe, Tübingen 1951; W.W. Beare, The first epistle of Peter, Oxford 1948; J. Schneider, Die Briefe des Iakobus, Petrus, Judas and Johannes, Göttingen 1961; J. Kroll, Der Mythus vom Descensuskampfe, leipzig-Berlin 1932. Per i miti a cui costoro alludono si ricordi la Discesa di Ishtar nel regno sotterraneo e i vari racconti greci di Orfeo ed Euridice, di Eracle e Alceste, di Persefone ricollegati tutti con il culto solare e della vegetazione. torna al testo

5. Così tra gli altri, C.E.B. Cranfield, The first Epistle of Peter, London 1950: A.N. Hunter. The First Epistle of St. Peter in «The Interpreter's Bible», vol. 12, N.Y. - Nashville 1957; J.A. MacCullough, The Harrow - Christian Baptisme, Copenhagen 1946 (Cristo nel triduo della morte proclamò la sua vittoria alle anime e agli spiriti ribelli, offrendo loro una nuova possibilità di salvezza). Da questo passi i Mormoni deducono la possibilità di salvezza dopo la morte per tutti i defunti, perciò essi battezzano i vivi per i morti (cf Th. M. Burton, il perché della genealogia in «Stella» 2, 1969, pp. 342-344). torna al testo

6. P. Galot, La descente du Christ aux enfères, in «Nouv. Rev. Theol.» 83 (1961) pp. 471-491. torna al testo

7. Cf Mt 16, 27; 25, 31-46; Ap 20, 11-15; Rm 2, 6-10. torna al testo

7bis. Sui Refaim e sulla Sceol o soggiorno dei morti cf C.J. McNaspy, Sheol in the O.T., in «Cath. Bibl. Quart.»6 (1944) pp. 226-233: R. Criado La creencia popular del A.T. en el màs allà: El Sheol in «XV Sem. Bibl. Esp.» Madrid 1955, pp. 21-56; H. Wolstein, Zu den altisraealitischen Vorstellungen von Toten und Ahnengeistern in «Bibl. Zeitschr,» 5 (1961) 30-38; J. Alonso Diaz, En Lucha con el misterio, Sal Terrae, Santander 1967, pp. 15-19. torna al testo

8. Agostino pone tra le eresie la dottrina la quale sostiene che « quando Cristo scese agli inferi gli increduli credettero e tutti ne furono liberati» (De Haeresibus 70 PL 42, 45 B). torna al testo

9. Agostino, Lettera a Evodio PL 33, 708-716: W. Dalton, o.c., p. 27s. torna al testo

10. Tommaso, Summa theologica 3. 9-52, a.e, ad3. torna al testo

11. 1 Pt 1, 10s. Tutta via questa interpretazione del passo petrino mi sembra falsa, perché in esso non si parla della preesistenza eterna del Cristo, bensì dello «Spirito Santo » che, secondo l'insegnamento di tutta la Bibbia, ispirò i profeti. Questo Spirito è detto « di Cristo » perché parlava del Cristo (genitivo oggettivo). Il passo di 1 Pt 1, 11 si riferisce alle profezie messianiche , alla salvezza recata da Cristo, e non può quindi riferirsi alla predicazione di Noè, che invece riguardava il diluvio distruttore. torna al testo

12. D.C. Wohlenberg (Der erste und zweite Petrusbrief un der Judasbrief, leipzig 1923) cerca di ovviare a tale difficoltà dicendo che quelle persone sono chiamate per anticipazione «spiriti racchiusi in carcere», in quanto al tempo in cui la lettera era scritta tali anime giacevano di fatto nello Sceòl o soggiorno dei morti. Anche noi possiamo dire che cristo apparve all'apostolo Paolo, benché in quel momento Paolo non fosse ancora apostolo, in quanto divenne tale solo dopo la sua visione. Va tuttavia notato che la vita di Paolo è così nota da non suscitare alcuna difficoltà al riguardo; di più è difficile spiegare come mai le anime dei morti sono chiamate «spiriti», termine ami usato in tal senso nella Bibbia. torna al testo

13. Roberto Bellarmino, De Controversiis, Tom. I, Napoli 1856. Controv. 2 (De Christo). Lib. 4 De anima Christi; c. 13 Explicatur Locus obscurissimus ex epistola prima Sancti Petri c. 3 et 4, pp. 280-284. torna al testo

14. U. Holzmeister, Commentarius in Epistula SS. Petri et Judae, Paris 1937. torna al testo

15. S. Kowalski , Le problème de la descente du Christ aux enfers dans la 1 Epitre de S. Pierre, in «Collectanea Theologica Societatis theologorum Poloniae», 21 (1949) pp. 42-76. torna al testo

16. De Ambroggi, Le Epistole Cattoliche, Torino 1949 ad locum. torna al testo

17. J. Chaine, Descente du Christ aux Enfers, in «Dict. Bible Supplement» 2. pp. 395-431. torna al testo

18. Cf 2 Pt 2, 5; Mt 24, 38s; Lc 17, 27; Ge 7, 22s. Circa il dogma del purgatorio, cf F. Salvoni, Esiste il Purgatorio? Lanterna, Genova 1965. torna al testo

19. E.G. Selwin, The First Epistle of St. Peter, London 1947. La sua idea prende lo spunto da una corrente luterana che ammetteva la discesa di Gesù al soggiorno dei morti per proclamare la condanna decisiva delle anime di coloro che erano periti nel diluvio. Così H. Eckhardt, Tractatus de Descensu ad inferos 1623, riferito dal Reicke, o.c., p. 44, così pure Y. Frings, Zu 1 Pt 3, 19 und 4, 6, in «Bibl. Zeitschr.» 17 (1925) pp. 75-88. Non si riesce tuttavia a comprendere per quale motivo l'Autore sacro insista su un punto ovvio: la condanna delle anime malvagie da tutta la restante tradizione biblica è riferita alla seconda venuta di Cristo, non alla discesa di Gesù nel soggiorno dei morti. torna al testo

20. Karl Gschwind, Die Niederfahrt Christ in die Unterwelt, Münster 1911. torna al testo

21. W.J. Dalton, Christ's Proclamation to the Spirits, Roma 1965. torna al testo

22. Cf 2 Co 3, 17s: «Ora il Signore è spirito... »; i cristiani sono trasformati nell'immagine del « Signore che è spirito». Il Signore è il Cristo risorto, che appunto per essere tutto inondato dalla Spirito, potenza di Dio, e per aver ormai un corpo «spirituale» (1 Co 15, 44), può essere chiamato Spirito, potenza. torna al testo

23. Ef 1, 21. «Nominare » una cosa da parte di Dio, secondo l'ebreo, significa farla esistere, per cui il passo vuole affermare che non potrà mai venire al mondo un essere superiore di Cristo. torna al testo

24. Ef 4, 8 dal Sl 68, 19. In ebraico vi è «hai accettato doni dagli uomini»; qui Paolo segue la versione dei LXX che meglio conveniva al suo scopo. Forse si potrebbe anche pensare a qualcosa di più profondo; letteralmente il passi suona: «Catturò la prigionia», vale a dire: coloro che rendevano schiavi gli altri sono a loro volta catturati da Gesù, applicando il passo agli angeli ribelli. Nel salmo ebraico riguarda le vittorie del re. torna al testo

25. I «figli di Dio » indicano anche altrove nella Bibbia gli angeli ricollegati in modo particolare alla sfera divina (cf Gb 1), mentre le « figlie dell'uomo» ricollegate all'uomo o ad Adamo, indicano le donne terrene, tratte dal corpo del primo uomo (Ge 2). torna al testo

26. « Gli spiriti malvagi sono proceduti dai loro corpi (dei giganti), perché essi sono nati non dagli uomini, ma dai santi Vigilanti è il loro principio e la loro origine prima » (1 Enoc 15, 9). «Egli spiriti dei giganti affliggono, opprimono, distruggono, attaccano, danno battaglia, operano distruzione sulla terra e causano disordini » (1 Enoc 15, 11). La punizione dei giganti consiste nel fatto che nonostante la loro origine soprannaturale non poterono sussistere perennemente, ma perirono come tutti gli altri esseri mortali. torna al testo

27. 2 Enoc 7, 1-3 Charles, Pseudoepigrafa of O.T., vol. II Oxford 1964, p. 192. Il libro, contemporaneo alla lettera di Pietro, non è che la versione cristiana di un precedente libro giudaico, cf C. Bigaré, Les Apocriphes du Judaisme paléstinien, in «Introduction à la Bible», II (Robert-Feuillet), pp. 112s; J Danielou, Théologie du Judéo-Christianisme, Tournai 1958, pp. 25-28; A. Weiser, Introduction to the Old Testament, London 1961, pp. 431s. Quest'ultimo autore pensa che il libro sia stato scritto originariamente in Egitto da giudei parlanti greco, che poi sia stato rivisto da uno scrittore cristiano. torna al testo

28. Adumbrationes in Ep. Judae PG 9, 733 cf R. Wolff, A Commentary of the Epistle of Jude, Michigan 1960, pp. 66-73. torna al testo

29. Anche se vi manca il verbo «proclamare » (kerysso ), che si legge invece in Pietro, di fatto la sostanza è identica poiché Enoc deve annunziare, come un banditore divino, il « decreto», ossia il verdetto emesso da Dio contro di loro. Si cf pure quanto dice Ireneo: « Enoc, pur essendo uomo, agì come inviato (araldo) di Dio verso gli angeli, e fu trasferito» (Adv Haer. 4,16,2). torna al testo

30. Giuda 14s «Profetò appunto anche per costoro Enoc, il settimo patriarca dopo Adamo, dicendo: Ecco: venne il Signore tra le sue sante miriadi, per compiere il giudizio di tutti gli empi e di tutte le opere di empietà, che empiamente commisero, e di tutte le insolenze che proferirono contro di lui, da peccatori empi ». Nel frammento greco del libro apocrifo di Enoc trovato ad Akhmim (1, 9) si legge: «Ecco viene con le sue miriadi e i santi suoi per compiere il giudizio su tutti, e distruggerà tutti gli empi e convincerà ogni essere mortale (carne) di tutte le loro opere di empietà, che empiamente commisero e delle parole insolenti che proferirono, e di tutti quelli che sparlarono contro di lui da peccatori empi». Questa profezia che la tradizione giudaica attribuiva a Enoc è resa ispirata da Giuda che ne usa; il libro di Enoc gli attribuisce questo detto che, anche se non è autentico, contiene una dottrina vera. Il libro, che usa una pseudonimia, per essere citato da Giuda doveva ben essere citato con il nome di Enoc con cui esso era conosciuto. Su questo passo cf De Ambroggi, Le epistole cattoliche, Marietti, Torino 1949, p. 309. torna al testo

31. L'interpretazione del peccato genesiaco (6, 1-4) nel senso di connubio tra gli angeli e donne terrene era assai diffusa tra gli Ebrei e i primi cristiani. Essa poteva anche spiegare il fatto che « i figli di Dio » (= usualmente « angeli ») sono qui detti « nefilîm », vale a dire esseri caduti (dal cielo?). Si veda su questo argomento Strack-Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, vol. III, pp. 780-783; F. Martin, Le livre d'Enoc, CXII-CXXXV.
Che gli angeli decaduti (démoni) potessero accoppiarsi con donne (streghe) nei famosi sabba era opinione ancora comune nel tardo Medio Evo. Su questi démoni succubi e incubi cf L. De Marchi, Sesso e civiltà, Edizioni Laterza, bari 1960, pp. 82-85.
Se questa interpretazione si volesse far risalire allo stesso libro della Genesi (il che non è certo) dovremmo ricordare le osservazioni assai giudiziose di R. De Vaux (La Genése, ediz. 2°, Paris 1962, p. 56). Il racconto biblico, con il suo elemento fantastico ridotto al minimo, vuole solo dire che il peccato dell'umanità non fu causato solo da tendenze umane malvagie, ma da particolare influsso demoniaco, che si estese a tutta l'umanità. Tra gli angeli, non tutti fedeli a Dio, un gruppo ribelle si abbassò fino a terra, anziché elevarsi verso la divinità. Molti autori moderni intendono Ge 6, 2 nel senso di angeli decaduti; così F. Spitta (Christ Predigt an die Geister, Göttingen 1890); si confrontino pure gli studi di H. Gunkel (Der Erste brief des Petrus, Göttingen 1971), di Gschwind, M. Goguel (La foi à la Resurrection de Jésus dans le Christianisme primitif, Paris 1933, pp. 366ss), W. Bousset, Zur Hadesfahrt Christi, in «Zeitschr. Neut. Wiss.» 19 (1919-20), pp. 54s; H. Schlier, Der Christus und die kirche in Epheserbrief, Tubinga 1930, Brescia 1965, pp. 3-18; J. Danielou, Théologie du Judéo-christianisme, Tournai 1958, pp. 257-259. torna al testo

32. Di solito questo passo non è tradotto letteralmente e si spiega nel senso di omosessualità (che in Paolo è presentata invece con l'espressione «maschio con maschio » Rm 1, 27). Ma è strano che il « maschio» si detto carne « diversa» ( etéran) mentre si tratta di una identità ancora più marcata (di qui «omosessuale », soddisfazione sessuale con lo stesso sesso). Si comprende invece bene se si riferisce ad un angelo che era concepito come un essere dotato di corpo, «diverso » però da quello umano in quanto più sottile (cf Ge 19, 4-25). Anche se i sodomiti peccarono di omosessualità tra di loro, va notato che l'atto decisivo che indusse la punizione divina è presentato nel fatto che essi volevano accoppiarsi con gli « angeli» venuti per proteggere Lot. Anche se essi non ne conoscevano la loro origine celestiale, va ricordato che di fatto la conosceva lo scrittore sacro, per cui tale unione carnale sarebbe stata un'unione con una carne «diversa » da quella umana, in quanto era un « corpo» angelico, competente a loro o almeno assunto da loro per tale occasione. torna al testo

33. Questa correzione testuale, suggerita nel 1763 da W. Bowyer prima ancora che fosse scoperto il testo di Enoc, fu poi ripresa da Rendel Harris nel 1901 e difesa da molti studiosi inglesi del secolo XIX. Fu poi rinnovata da James Moffat (The General Epistles, Peter, James and Judas, London 1953, pp. 140-144) che al greco ENOKAInel quale ») aggiunge il vocabolo ENOK che sarebbe stato omesso da un copista per affinità con le lettere precedenti (aplografia). torna al testo

33bis. Cf Tosefta Sukka 3, 11 (ed. Zuckernandel Pasewalk, 1880, p. 196 I. 25 a p. 197, l. 1): «Così era la sorgente che fu con Israele nel deserto, simile a una roccia... che saliva con loro nelle montagne e scendeva con loro nelle valli; nel luogo dove si trovava Israele, si trovava ugualmente di fronte a loro ». torna al testo

34. Giuda 8ss. Clemente Alessandrino dice che il passo di Giuda « conferma l'Assunzione di Mosé» che parlava di tale episodio (Adumbrationes, ed. Staehlin III, 207 PG 9, 733): Origene, parlando del serpente che tentò Eva, scrive: « Di esso parla anche l'Ascensione di Mosè — libro ricordato dall'apostolo Giuda nella sua epistola — quando presenta Michele arcangelo che disputa con il diavolo per causa della prevaricazione di Adamo ed Eva » (De Principiis III, 2, 1 PG 11, 303; CB 5, 244). Didimo di Alessandria scrive che i Manichei ripudiarono l'epistola di Giuda e l'Assunzione di Mosé «per quel passo dove si cita la discussione intorno al corpo di Mosè fra l'arcangelo e il diavolo » (Enarr. ed. Zoepfe, p. 92). Non è detto che citando questo libro Giuda lo ritenesse sacro; anche Paolo in Tito (1, 2s) cita un verso di Epimenide aggiungendoci: «Questa testimonianza è verace», senza con questo ritenere sacro il libro del filosofo pagano. torna al testo

35. Clemente d'Alessandria PG 9, 732 A. torna al testo

36. Teofilatto, in 1 Pt 4, 6 PG 125, 1237-1240 che cita pure Cirillo D'Alessandria; Agostino, PL 33, 717s; Beda, PL 93, 62 A. torna al testo

37. Gschwind e Holzmeister nelle opere già citate; W. Bieder, Die Worstellung von der Höllenfahrt Jesu Christi, Zürich 1949, pp. 120-128. torna al testo

38. Così Bigg (Epistles of St. Peter and St Jude, Edinburgh 1902); Jeremias, Zwischen Karfreitag und Ostern, in «Zeitschr. Neut. Wiss.» 42 (1949) pp. 194-201; J. Monnier, Descente aux enfers, Paris 1905, p. 54 (a tutti). Tra i sostenitori della redenzione offerta solo ai giusti, ricordo A. von Speyr (Die Katholischen Briefe, Einsielden 1961, a.l.), Chaine, Schelke. torna al testo

39. F. Spitta, Christi Predigt an die Geister, Göttingen 1890, pp. 63-66. torna al testo

40. Così D.G. Wohlenberg, Der erste und Zweite Petrusbrief und der Judasbrief, Lipsia 1923; J. Moffat, The General Epistles, London 1928; E.G. Selwin, The First Epistle of St. Peter, London 1947, specialmente appendici pp. 337-339; J. Frings, Zu 1 Pet 3, 19 und 4, 6, in «Bibl. Zeitschr.» 17 (1925) pp. 75-88; R. Franco, Cartas de S. Pedro, in La Sagrada Escritura. N.T. III, Madrid 1962, pp. 219-334; ; W.Y. Dalton, Christ's Proclamation to the Spirits o.c., pp 263-277. torna al testo

41. Va notato che, secondo il pensiero concreto dei semiti, le anime, come anime, non possono essere sottoposte alla condanna, per cui anche degli empi si dirà che essi risorgeranno per essere condannati (cf Ap 20, 13). torna al testo

42. Cf G. Friedrich, Euangelizo in Kittel. «Theologisches Wörterbuch zum N.T.» vol. II, pp. 705-735 (traduzione Paideia, Grande Lessico, vol. III cc. 1023-1060). torna al testo

43. Ge 2, 17; 3, 19; Sap. 2, 23s; Rm 5, 12; 6, 23. Sul significato del verbo krino (che traduco con « condannare ») cf F. Büchsel in Kittel, «Theol. Wört. zum N.T.», vol. III, pp. 936-942 (traduzione italiana Lessico, vol. IV, pp. 1060-1076; D. Mollat, «Dict. Bible Suppl..» 4, 1344-1394. torna al testo

44. Si noti che anche in questo passo paolino i vivi e i morti sono limitati ai cristiani, per i quali egli è il « Signore ». torna al testo