Estratti
da: Eugenio Turri, La Megalopoli Padana, Marsilio, Venezia 2000
(cap. La forma della megalopoli, pp. 53-66)
DENTRO LA MEGALOPOLI
Scendiamo a terra
dallo spazio per vedere come è dal di dentro la megalopoli, per
capire come funziona. Anzitutto la disomogeneità è solo un
aspetto della diversità. La quale si ritrova anche nei suoi riflessi
visivi, cioè nel paesaggio, con varie manifestazioni. Una delle
più evidenti è quella che induce ad una discriminazione tra
il tessuto delle permanenze, assai variegato, ed il tessuto formato dagli
sviluppi più recenti, cioè della seconda metà del
Novecento.
La descrizione delle
preesistenze può essere sintetizzata da una bella pagina dedicata
alla terra lombarda di Carlo Emilio Gadda:
La pianura lavorata
persiste, nelle parvenze della natura e dell’opere, ad essere madre cara
e necessaria, la base di nostra vita. Dai secoli, ormai remoti al pensiero,
quando i Cistercensi di Chiaravalle sotto al Bagnòlo di Rovegnano
ebbero ad intraprendere le prime livellazioni del terreno, i primi escavi
dei canali adacquatori che captavano le polle di risorgiva della cosiddetta
“zona del fontanili” per distribuirne la portata nei prativi ad irriguo,
ad aumentarne il numero e la copia delle fienature: su su fino alle opere
maggiori del comune e della munificenza viscontea, e ai consorzi e comprensorii
irrigui delle età più vicine e addirittura della nostra;
quale assiduità paziente, che amorosa tenacia! La derivazione del
Naviglio Grande dal Ticino, il Naviglio di Pavia: poi la Martesana, il
Villoresi. Il tipo della nostra terra è schiettamente rappresentato
in queste vedute colte dall’aereo: della terra esse dicono la bontà
verso gli uomini, la forma silente. Le opere allineate per il pane.
Una caratteristica
fondamentale della megalopoli padana è quindi la sua immagine fortemente
legata ancora al suo passato rurale. Di fatto, quando si parla di megalopoli
si pensa subito a qualcosa di avveniristico, a paesaggi urbani di grattacieli,
autostrade a più corsie, palazzi di vetrocemento, col cielo rombante
di aerei ed elicotteri, cioè agli aspetti propri della modernità
più avanzata, a forme urbane nuove, spregiudicate. Il pensiero va
alle megalopoli americane. Niente di tutto questo nella megalopoli padana,
ancora segnata dagli elementi del passato rurale, che si direbbero incancellabili,
con i campanili e le torri medievali che dominano i centri urbani, le belle
cattedrali di mattoni, antichi e pregevoli monumenti, che hanno fatto la
storia dell’arte, case basse di periferia, con gli orti all’ombra di vecchi
alberi, magari il gelso secolare sopravvissuto, vicoli e stradine che si
inoltrano nei campi.
Le permanenze del
passato sono rappresentate in primo luogo dai centri urbani storici, i
nuclei di edifici che sorgono intorno alle piazze e alle antiche cattedrali,
con i nobili palazzi della borghesia che spesso ha fatto la storia delle
antiche città. Le quali, rispetto all’alluvione edilizia che ha
portato alla formazione della megalopoli, appaiono come isole, nuclei fondativi
di un arcipelago che ha disseminato intorno a se elementi minori ma importanti
e rintracciabili nelle campagne più vicine alle città, dove
sorgono, umiliate magari da nuove edificazioni, vecchie residenze della
borghesia cittadina, tracce di giardini, di parchi, con le corti ora abbandonate
del mondo contadino del passato: immagini spesso desolanti, monumenti alla
caducità del tempo e dei successi sociali, alla mutabilità
dei giochi economici.
Superata questa
cintura intorno alle città, isole del passato, l’alluvione ha sommerso
paesaggi agrari da cui affiorano vecchie case e corti contadine, qualche
residuo lembo di campagna, alberate che fiancheggiavano un tempo strade
e viali, le chiese e i campanili dei paesi, emergenze antropiche nei paesaggi
padani avvolti dalle nebbie invernali. Tutto questo in generale: richiami
ad un passato sommerso dai capannoni industriali, dalle nuove edificazioni,
nuove case, condomini, residences ecc., per cui anche se lo spazio non
è edificato dappertutto, esso ormai dappertutto ha perso le valenze,
le qualità che per le vecchie generazioni avevano gli spazi esterni
ai centri abitati, divisi e diversificati per storia, paesaggi, condizioni
ambientali, organizzazione produttiva ecc. Differenze che l’alluvionamento
economico ed insediativo ha eliminato, lasciando solo dei lacerti.
La profondità
storica degli elementi sopravvissuti all’alluvione è però
ancora richiamata, all’occhio dell’osservatore attento, da particolari
che un tempo segnalavano in maniera. omogenea la varietà delle situazioni
territoriali, per cui passando, ad esempio, dal Piemonte all’Emilia e al
Veneto si vedeva cambiare il volto della terra e rivelarsi luci, colori,
linguaggi diversi.
Ad esempio, semplicemente
passando dalla Lombardia all’Emilia, cioè scavalcando il Po, subito
si coglievano e ancora in parte si colgono, sotto l’ondata di piena dei
capannoni industriali e dei quartieri d’abitazione nuovi fatti di banali
architetture, differenze riconducibili a tradizioni diverse e a particolari
umori della terra, talora quasi inavvertibili eppure significative: ad
esempio, il diverso colore dei laterizi di cui sono fatte le case, le torri,
i castelli, i coppi dei tetti. Scuro, ferrigno il rosso dei laterizi della
Lombardia, chiaro, rosa pallido che sfuma nel giallo la tinta dei laterizi
dell’Emilia. Diversità che dipende dalle argille con cui sono fatti
i laterizi, a loro volta dipendenti dai diversi apporti alluvionali delle
Alpi e degli Appennini. Una differenza che rimanda a quei rapporti diretti
fra attività umane e ambiente naturale che gli sviluppi recenti
hanno obliterato, anche se non del tutto. Ma poi, superato il Po, ecco
ancora la diversità delle architetture, delle case coloniche, delle
campagne con gli usi diversi degli alberi, le diverse alberate, la maggior
tendenza a creare scenografie sul lato dell’Emilia piuttosto che su quello
lombardo, il fascino diverso delle strade cittadine porticate, delle piazze
e degli antichi monumenti, insomma di tutti quegli elementi che oggi ci
appaiono come relitti del passato, in qualche caso assunti e riconvertiti
dalla modernità megalopolitana, in qualche altro emarginati o eccezionalmente
mantenuti come sacre testimonianze, nei contesti urbani o rurali della
megalopoli.
Ma poi, oltre questi
elementi ricordati che rimandano al passato, emergenze non ancora sommerse
dall’alluvione edificatoria più recente, quella che ha conferito
una struttura megalopolitana allo spazio padano, che cosa si ritrova nel
paesaggio? Per rispondere, percorriamo qualcuna delle strade su cui si
impernia la struttura urbana della megalopoli: prendiamo ad esempio il
percorso da Treviso a Vicenza, da Vicenza a Verona, da Verona a Brescia
e a Milano, percorrendo non le autostrade, ma le storiche strade nazionali
che seguono le più antiche direttrici di collegamento tra una città
e l’altra, le quali sono state brutalmente utilizzate come direttrici di
espansione urbana, non come “corridoi urbani”, “vie di città” capaci
di attrarre vita urbana e dispensarla intorno a se, tenendo lontane le
infrastrutture più oppressive e funzionali (autostrade, industrie
ecc.). Il richiamo, in proposito, può andare alla ciudad lineal
di Soria y Mata, o alla “città continua” di C.A. Doxiadis, ma con
una funzione più di asse urbano che di via di traffico.
Oggi invece si presentano
come arterie malate del corpo megalopolitano. Esse anzitutto sono sempre
intasate di automezzi, invischiate dai traffici locali oltre che da quelli
di raggio maggiore: ciò, perché tutto si concentra intorno
a queste arterie, attività industriali, aree residenziali, servizi
ecc. Ed ecco a riprova di ciò quartieri di villini, sempre di architettura
banale, residences condominiali, capannoni industriali, negozi per l’automobilista
(gommisti, meccanici, carrozzieri, elettrauti), supermercati e ipermercati,
edifici in vetro cemento di una modernità dozzinale dove si esibiscono
i prodotti delle industrie locali, dai mobilifici ai piastrellifici e ai
calzaturifici, dai magazzini dove si esibiscono prodotti dell’industria
nazionale (dagli elettrodomestici alle motociclette ecc.) ai grandi negozi
di abbigliamento, dagli autosaloni alle industrie dolciarie, e così
via. Ma i modelli di urbanizzazione sono diversi, soprattutto passando
dal Veneto alla Lombardia dove si trova, a nord di Milano ad esempio, il
complesso residenziale concepito come blocco abitativo (copie di Milano
Due) ai margini dei nuclei storici ancora centrati sulla chiesa parrocchiale
e la vecchia piazza, il quartiere di villette tipo città-giardino,
oltre ai vecchi assembramenti di condomini che rimandano agli anni sessanta
e settanta. I rapporti delle aree residenziali con le piazze, i supermercati,
gli impianti sportivi, la stazione ferroviaria o la linea del trasporto
urbano sono vari.
Le tipologie urbanistiche
che formano il tessuto insediativo della città diffusa nell’alta
pianura lombarda sono state studiate nella ricerca sugli sviluppi urbani
recenti dell’area metropolitana milanese da S. Boeri, A. Lanzani e E. Marini,
che ne hanno riconosciute diverse e tutte in generale con una loro logica
che sintetizza persistenze tradizionali e nuove esigenze. A parte stanno
le realizzazioni che recuperano le aree industriali dismesse, come nel
territorio di Sesto San Giovanni, che sta diventando uno dei centri più
nuovi dell’area metropolitana milanese, con i suoi slarghi, le sue architetture
avveniristiche, il suo paesaggio che ha in larga parte cancellato le tracce
della grigia e rugginosa città-fabbrica del passato. Da Company
Town a New Town che guarda al futuro, anche se tutt’intorno alle nuove
realtà succedono uno dopo l’altro i capannoni delle più diverse
industrie.
Anche se si decide
di lasciare le intasate vie nazionali per imboccare, sulle stesse direttrici,
l’autostrada, si resterà affranti dall’impossibilità di vedere
il paesaggio, perché i capannoni industriali si moltiplicano lungo
le maggiori arterie autostradali, come accade in una misura che ha qualcosa
di ributtante e angoscioso, tra Brescia e Milano, dove i varchi in cui
lo sguardo può infilarsi per rimirare l’incredibile Bergamo alta
e i profili dei non lontani massicci prealpini (le Grigne, il Resegone,
la Presolana ecc.) che avevano affascinato Leonardo da Vinci, sono rari
e brevissimi, come ha mostrato uno studio della Regione Lombardia, peraltro
colpevole per non aver provveduto ad impedire un simile disastro paesistico.
Certo, in tutto questo c’è una logica, ma è di puro interesse
economico e se questa è l’immagine che la Lombardia ambisce dare
di se, industriale, vitalistica, laboriosa e cementificata, si può
anche lasciarle questo primato; ma i conti presto o tardi dovrà
farli con altre istanze che finiscono sempre per esplodere nel giro di
pochi decenni, tanta è la rapidità dei processi oggi.
D’altra parte l’automobilista
in viaggio su quelle stesse autostrade non avrebbe certo il modo di guardarsi
intorno, perché il traffico che le percorre non consente disattenzione
tra sfilate di autocarri Tir che riempiono le due corsie, il correre indisciplinato
degli automobilisti dalle macchine potenti o dalle macchine troppo lente,
come se andare sull’autostrada fosse una corsa alla morte, una gimkana
infernale, incredibile, eppure manifestazione stessa della vitalità
della megalopoli, corpo sanguigno che ha bisogno, oggi, di queste vene
portanti che, data la diversa funzione delle autostrade e delle ferrovie,
collegano una città all’altra, un assembramento di capannoni alla
città, una città alla cittadina, questa ai più piccoli
paesi e alle case sparse, la rete delle strade interconnessa alle grandi
direttrici del corpo megalopolitano.
Intanto su questo
fremente vivere della megalopoli, che non ha momenti di sosta, che non
ha respiro, che non allenta a nessun’ora il traffico di autocarri, di autovetture,
questo fiume ininterrotto di fragori, vi è poi lo sfondo, quando
è percepibile, della campagna e delle montagne lontane. L’eternità
da una parte, l’accadimento dall’altra, la vita con i suoi mille effimeri
episodi, avvenimenti. E allora si pensa che andando verso questi paesaggi
appartati si possa trovare la quiete perduta. Ma è un’illusione,
anche tra le campagne e nelle vallate si ritrovano i capannoni e il traffico
lungo le strade che congiungono le direttrici pedemontane ai paesi e ai
quartieri residenziali proliferati dappertutto. La tranquillità
e il silenzio (un certo silenzio) si possono trovare soltanto nei giardinetti
delle case isolate, le ville della ricca o media borghesia che hanno realizzato
il sogno di vivere in campagna, nei paesi lontani dagli inferni urbani
ma attrezzati come le città, con gli ipermercati, la piscina comunale,
la palestra, i campi sportivi, il giardino pubblico per i quattro passi
pomeridiani, i giochi dei bambini.
Ma questa è
la città diffusa che ha dilatato lo spazio urbano, ha riempito la
pianura di edificazioni, con sprechi enormi di spazio, di verde, di silenzi.
E che comporta il moltiplicarsi del traffico con la reticolarità
degli insediamenti, la loro diffusione particolare che distanzia l’abitare
dal lavorare, lo spazio pubblico dallo spazio privato. E crea veri e propri
labirinti data la complessità delle reti stradali, delle loro confluenze
molteplici prima di arrivare alla centralità che interessa. Spesso
vengono meno i riferimenti per muoversi nel labirinto: un tempo essi potevano
essere rappresentati dai campanili dei paesi, ora invisibili dentro le
quinte dei capannoni. I quali sorgono in aree industriali che si raggiungono
lungo viali asfaltati che, per la loro stessa dimensione, si pensa che
portino in un paese o in un centro urbano; si resta delusi poi quando si
vede che il viale costituisce l’accesso all’area industriale; oltre la
quale non c’è ancora il paese ma un’altra area industriale oppure
un’area residenziale sorta tra i campi, assurda geografia della campagna
urbanizzata, in realtà del territorio massacrato, dilacerato, che
suscita scoramenti, delusioni in chi un tempo trovava nella campagna una
sorpresa dopo l’altra, piccoli ma significativi episodi, come un’alberata,
un fossato, una chiesuola o un’edicola votiva, riferimenti che diventavano
elementi inscindibili di una geografia sentimentale. La domenica e nei
giorni festivi questo paesaggio dei capannoni intristisce nella solitudine,
nell’abbandono, nel silenzio metafisico, irreale, come fossse l’immagine
di un mondo vivo sino al giorno prima ed ora abbandonato dagli uomini fuggiti
via per paura o per non vivere nell’angoscia che quei luoghi di lavoro
suscitano appena si smette di lavorare.
Spesso a sostituire
il riferimento territoriale in passato costituito dal paese c’è
oggi il supermercato o la città mercato, coagulo di vita nuova,
non più all’ombra delle vecchie chiese, dei vecchi palazzi signorili,
del vecchiume che, si dice, non serve più alle nuove generazioni.
Ma gli urbanisti spesso guardano poco dentro l’animo della gente, ai suoi
vuoti, ai suoi smarrimenti, che sicuramente non si possono escludere in
una fase di trasformazione come quella a cui stiamo assistendo. n riferimento
storico,’ d’ altra parte, il sentimento del vivere in un humus lievitato
attraverso il tempo costituirà sempre un’esigenza profonda dell’uomo,
al di là di tutte le possibili libertà di scelta ubicative
e residenziali che la città diffusa consente e che, secondo alcuni
urbanisti, rappresenta la sua qualità migliore (P. Rigamonti).
Così intanto
appare la megalopoli dal di dentro, risultato spontaneo, non ordinato secondo
un disegno funzionale, un uso più efficiente dello spazio che la
natura ha fornito alla Padania tra le Alpi e gli Appennini. Eppure, nonostante
gli errori e gli orrori, la mancanza di stile, gli aspetti confusi di una
società industriale che non ha saputo funzionalizzare per il meglio
lo spazio in cui abita, la megalopoli funziona, vive, produce. Funziona
perché nonostante le inefficienze del sistema stradale, autostradale
e ferroviario la circolazione arteriosa non si ferma, ma soprattutto perché
gli abitanti della megalopoli si sono adattati alle disfunzioni, alle brutture,
alla mancanza di grazia e di ordine della megalopoli, alla morte sulle
autostrade, ai sacrifici, alle angosce e ai vuoti imposti dalla città
diffusa. Con pazienza o perché quello che ricevono dalla megalopoli
è più di quanto potrebbero ricevere tornando indietro ad
una vita diversa, al lavoro nei campi o nella fabbrica esigentissima, condizione
che le vecchie generazioni ricordano ancora, data la rapidità con
cui si è affermata la condizione megalopolitana. Le certezze di
oggi sembrano più solide di quelle di ieri e questo fa loro accettare
i disagi di una vita che non ha più niente di rurale anche se non
ha ancora realizzato l’urbanità a cui forse aspirerebbero.
L’ARTICOLAZIONE MEGALOPOLITANA
La megalopoli non
è nata per caso o semplicemente per un moto disordinato e illogico;
esso al contrario ha obbedito a precisi interessi, il cui difetto più
vistoso era quello di avere un significato puramente locale e immediato.
Ciò vuol dire che sono stati trascurati altri e non meno importanti
interessi, ritenuti secondari e rimandabili rispetto ai primi, più
urgenti.
La prima logica
che ha dato forma alla megalopoli è stata quella di soddisfare le
richieste di avere lavoro e residenza. Esigenza a cui è stata data
una risposta bruta, immediata, che va considerata come il primo fattore
che ha fatto quantitativamente crescere l’urbanesimo padano. In un secondo
tempo però vi è stata, da parte dei nuovi cittadini, la richiesta
di servizi urbani, di un livello di vita via via più elevato con
lo stabilizzarsi della situazione e il comporsi della condizione urbana.
Passaggi successivi segnati da storie diverse, da ribellioni o adattamenti
che in diverso modo ogni abitante padano delle generazioni oggi anziane
ha vissuto.
Vi sono state sofferenze,
situazioni penose, lunghi calvari da parte dei cittadini (specie nelle
città più cresciute, nelle loro periferie) sulla via che
doveva portare ad un tipo di vita urbana migliore, la quale aveva i suoi
modelli irraggiungibili nei cuori aristocratici delle belle città
padane, riservati a pochi o fruibili solo occasionalmente o illusoriamente,
dato che stare nella periferia di Bologna o di Milano non voleva dire stare
in belle e ricche città come erano, nell’immaginario provinciale,
Bologna e Milano. L’espansione progressiva e inarrestabile dell’urbanesimo
intorno ai cuori storici non ha potuto evitare che il cittadino di periferia
fosse costretto a diuturni spostamenti per lavorare e vivere nella città.
Ed ecco la condizione che la nuova vita urbana ha imposto e che gli sviluppi
megalopolitani non sono riusciti a risolvere sino ad ora, come dimostra
il gigantesco traffico che intasa le sue strade, il pendolarismo quotidiano
che scarica sulle tangenziali milanesi, come sulle circonvallazioni di
tutte più o meno le maggiori città, file ininterrotte di
autovetture, come migliaia di pendolari alle stazioni ferroviarie.
La dipendenza spaziale
non è stata risolta dall’organizzazione attuale della megalopoli,
anche se forse non potrà mai essere risolta sinchè non si
avrà la moltiplicazione delle centralità autonome secondarie,
allentando il peso gravitazionale sulle grandi centralità che per
prime hanno dato origine alla megalopoli. D’altra parte l’eccessiva frammentazione
delle centralità toglierebbe ad esse la forza propulsiva e generatrice
di nuova cultura e di nuova vita economica che può essere sola delle
grandi polarità urbane. E anche questa un’impasse che pesa sugli
sviluppi della megalopoli padana.
Queste osservazioni
pongono una domanda importante, se cioè la megalopoli, nella sua
essenza di grande e unitaria costruzione urbana, debba essere considerata
come manifestazione di un momento, di una fase transitoria dell’urbanesimo
o come una sua tendenza irrinunciabile e irreversibile. Si può rispondere
osservando che la megalopoli nei suoi attuali sviluppi è forse principalmente
una risposta al bisogno di moltiplicazione delle polarità urbane,
alla distribuzione dei servizi urbani più avanzati in più
centri che possano integrarsi tra loro funzionalmente grazie alla contiguità
spaziale, consentendo in tal modo risparmi di tempo e di spazio. In rapporto
a questi assetti tendenziali ecco non solo il moltiplicarsi delle funzioni
urbane in più città (anche in tal senso R. Guiducci parlava
di “pluricittà”) ma anche la popolazione distribuirsi intorno alle
centralità più attrattive, formando come degli aloni, destinati
a loro volta a produrre alloro interno nuove centralità che, pur
di grado inferiore, riducano il peso gravitazionale, centripeto, verso
poche centralità. I miracoli della comunicazione, così come
si prospetta per il prossimo futuro, consentiranno forse nuove ristrutturazioni
della megalopoli.
Sulla base dell’attuale
polinuclearità urbana intanto la megalopoli padana si struttura
su pochi centri che assolvono a funzioni diverse nei confronti di spazi
limitati, anche se gerarchicamente si riconosce un ruolo prioritario a
Milano e a poche altre città. Essa quindi non è un tutto
continuo ma risente delle preesistenti centralità urbane, la cui
evoluzione oggi tende non ad eguagliarle ma a mantenerle differenziate.
Da ciò il suo sezionamento, la sua articolazione geografica in base
alla quale si riconoscono settori megalopolitani diversi, ognuno facente
capo ad una delle città che si snodano linearmente lungo,le grandi
direttrici pedemontane.
Il sezionamento
megalopolitano comporta differenziazioni che trovano nella città
locale la loro espressione, nel senso che città come Modena o Verona
o Asti svolgono il ruolo richiesto dalle specificità dei rispettivi
territori. Così a Modena, a Verona o a Asti si trovano cose e servizi
diversi, che non hanno nulla in comune; ciò che richiedono allo
stesso modo però dovranno cercarlo in una città di rango
superiore, come Milano, dove di fatto si svolgono manifestazioni e attività
che non possono trovare sede ad Asti o a Modena. Inversamente certe altre
attività e manifestazioni possono benissimo svolgersi a Modena o
a Verona o a Asti, che da ciò trarranno una loro qualificazione.
Alle spalle di Asti,
di Modena e Verona del resto stanno territori complessi, estesi tra la
pianura e la montagna, che alle loro città si legano economicamente
e culturalmente, cosicché la megalopoli deriva la sua forma da questa
articolazione legata ad un urbanesimo che ha nelle città capoluoghi
di provincia una forza gravitativa capace di plasmare i territori particolari
che la compongono. La loro varietà è di pochi altri spazi
regionali in Europa e non solo in Europa. Un territorio come quello astigiano
non ha nulla che lo fa assomigliare al Varesotto o questo al Bellunese
o al Forlivese. Tessere diversissime tra loro sia per ciò che riguarda
il paesaggio, sia le caratteristiche dell’urbanizzazione passata e recente,
sia il rapporto tra pianura e rilievi, oltre naturalmente le condizioni
naturali, le tradizioni, il sentimento di se ecc.
La diversità
d’altra parte è la forza stessa della megalopoli padana, la sua
bellezza, il fattore primo del suo dinamismo. Ma è anche la causa
della sua complessità, la quale se è vero che genera flessibilità,
autonomia nei confronti dei sistemi esterni, pone non indifferenti problemi
di gestione al suo interno. Come deve essere governata perché al
suo interno siano armonicamente combinati gli interessi e le istanze dell’abitante
di Asti, con quelli dell’abitante del Forlivese o delle valli bergamasche?