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Estratti
da: Roberto Camagni, Maria Cristina Gibelli, Paolo Rigamonti, I costi
collettivi della città dispersa, Alinea, Firenze 2002 (Conclusioni,
pp. 149-158)
A partire dagli anni
’80 la “città dispersa” si è affermata anche in Europa, per
effetto dell’emergere di stili abitativi e di tendenze localizzative delle
attività economiche che hanno privilegiato gli spazi suburbani,
ma anche per effetto delle politiche di deregolamentazione che, in molti
paesi, hanno delegittimato la pianificazione di inquadramento di area vasta
consentendo l’affermarsi di politiche locali svincolate da un quadro di
coerenze complessive.
In Italia poi essa
si è affermata anche in contesti non metropolitani, con vistosi
processi di urbanizzazione della campagna che accompagnano il consolidarsi
di sistemi produttivi di piccola impresa, a carattere distrettuale (relativamente
polarizzato) o diffuso.
La “città
dispersa” appare a molti per sua natura insostenibile: è caratterizzata
da bassa densità insediativa, dalla dilatazione dell’urbanizzazione
fino ai margini più esterni delle aree metropolitane o lungo le
grandi direttrici di sviluppo territoriale, da discontinuità e frammentazione
del costruito accoppiata a una crescente specializzazione e segregazione
funzionale e sociale, da spreco di suolo e consumo vistoso di preziose,
e sempre più scarse, risorse ambientali.
Il riconoscimento
di questi preoccupanti fenomeni - determinati da tendenze localizzative
spontanee ma anche irrobustiti da molte strategie di “ritorno al mercato”
che hanno esercitato un fascino discreto sull’azione pubblica di pianificazione
per almeno un decennio - ha rilanciato in anni recenti un forte interesse
per le tematiche territoriali: espressioni come ad esempio quella di ville
éclatée, città diffusa, ubiquitous city, ville éparpillée,
ville émergente segnalano, pur con diversi approcci analitici ed
interpretativi, questo rinnovato interesse. I diversi punti di vista espressi
nel dibattito internazionale hanno peraltro molti punti di contatto con
un altro storico dibattito ben radicato nella tradizione del planning,
quello sull’urban containment.
Vogliamo distinguere
in termini lessicali la dispersione dalla diffusione insediativa. La diffusione
costituisce una tendenza di fondo di sistemi economico-territoriali di
successo, ad alto reddito, in presenza di tecnologie, vecchie e nuove,
che limitano l’impedenza dello spazio fisico e di ridotte necessità
di spazi per l’agricoltura. Essa discende dalla concentrazione dello sviluppo
in ampie regioni urbane o corridoi (la metropolisation dei francesi) e
dal conseguente traboccamento dell’urbanizzazione al di là delle
conurbazioni storiche; dal successo - economico, sociale, ambientale -
di città di dimensione media e piccola; dalla nuova domanda di spazio
e di “naturalità” da parte di famiglie a crescente livello di reddito;
dalla scelta di suburbanizzazione da parte di famiglie a reddito medio
e basso per effetto della crescita dei prezzi delle aree centrali.
La dispersione attiene
invece alla casualità delle nuove localizzazioni, alla frammentazione
della forma urbana, alla “tarmatura del territorio”, al “bricolage” della
pianificazione urbanistica avulso da ogni principio di economia (nel senso
etimologico di oculata e previdente gestione) delle risorse territoriali,
all’indebolimento, se non alla rinuncia, di quadri di coerenza territoriale
di area vasta e, in ultima analisi, alla scomparsa della città.
Dunque, il problema
del governo della dispersione insediativa si configura oggi come cruciale
non soltanto nelle riflessioni degli studiosi di problemi urbani, ma anche
nelle riforme delle leggi urbanistiche nazionali e regionali, e in molte
esperienze di frontiera di pianificazione strategica di area vasta promosse
in contesti metropolitani: in Francia, nel Regno Unito, in Olanda, in Germania,
in Italia, e perfino negli Stati Uniti.
Un tema di questa
portata difficilmente può essere confinato all’interno di un ambito
di dibattito puramente tecnico-scientifico, disciplinare o anche inter-disciplinare:
le valenze che esso implica - dal giudizio sulle tendenze spontanee di
sviluppo territoriale alla necessità di una pianificazione, dalla
razionalità delle scelte individuali ai rischi collettivi per gli
equilibri ambientali - fatalmente allargano il dibattito ad una sfera ideologica
e politica. Questa è una caratteristica della nostra tematica che
dobbiamo tenere in debito conto e accettare pienamente come inevitabile.
Semmai il punto di attacco per una indagine come la nostra è ed
è stato differente: la constatazione che troppa parte del dibattito,
anche quello svoltosi in ambito scientifico, si è auto-confinato
all’interno di evidenti posizioni pre-concette e di pre-giudizi di valore;
raramente le singole posizioni, specie nel nostro paese, sono state adeguatamente
supportate da misurazioni coerenti, e finanche di tali misurazioni hanno
indicato la necessità.
Da una parte, la
valutazione delle tendenze alla dispersione insediativa evoca ed esprime
vari punti di contatto con un principio e un obiettivo fondamentale della
nostra cultura, quello di “libertà”: la libertà che è
implicita nel concetto (e nell’azione) del libero mercato (in questo caso,
del mercato edilizio e del mercato dei suoli); la libertà che è
implicita in un diritto a lungo sostenuto, quello alla mobilità,
e nelle opzioni che si offrono al cittadino grazie alle potenzialità
del mezzo di trasporto privato; la libertà nella scelta localizzativa
delle famiglie, a seguito dell’evoluzione degli stili di vita e di consumo.
D’alta parte si
evoca un principio e un obiettivo altrettanto generale, anche se ancora
non perfettamente definibile, a carattere collettivo, quale quello della
sostenibilità dello sviluppo. Esso si basa sulla difesa di alcuni
beni collettivi, come l’aria o gli spazi verdi e gli spazi pubblici, l’equilibrio
ambientale complessivo dal livello della biosfera a quello locale; e laddove
i rischi principali per tali equilibri sembrano venire da ben noti casi
di “fallimento del mercato” nell’indirizzare i comportamenti individuali
verso una condizione di ottimo sociale, se ne deduce un rafforzamento delle
tradizionali giustificazioni per la necessità di un intervento pianificatorio.
La nostra indagine
ha tratto le sue ragioni e si è sviluppata in questo contesto problematico
che può facilmente evolvere verso considerazioni a carattere politico
e filosofico (anche di grande momento: si pensi solo al problema della
liceità di concetti collettivi in economia, decisamente negata dalla
scuola, maggioritaria, che si ispira all’individualismo metodologico).
Essa assume come un dato di partenza l’emergere di nuovi modelli insediativi
a carattere diffusivo, sia in ambito metropolitano che in ambito di campagna
urbanizzata; ritiene rischiosa e insufficiente la posizione di coloro che,
arrestandosi a questa constatazione empirica a carattere geografico, giungono,
esplicitamente o più spesso implicitamente, ad assumere la razionalità
di tali modelli emergenti e a giustificarne la permanenza ed anzi il rafforzamento;
giudica rilevante un programma di ricerca volto ad approfondire questa
problematica, e in particolare ad evidenziare i costi collettivi dei differenti
modelli possibili di sviluppo insediativo; ed infine propone alcuni iniziali
indicatori, taluni semplici altri più complessi, per ottenere una
misura di tali costi, spesso solo supposti, e per corroborare attraverso
un’analisi quantitativa alcune relazioni causali ipotizzate dalla letteratura
sulla base di un ragionamento astratto.
Ricerche con questi
caratteri, orientate alla misurazione degli effetti dei nuovi modelli insediativi,
sono praticamente inesistenti in Italia e abbastanza rare all’estero, anche
se è percepibile un chiaro aumento di interesse in anni recenti.
Gli ambiti verso cui le principali ricerche internazionali si rivolgono
sono principalmente quelli dei costi pubblici, per infrastrutture e servizi.
I risultati, presentati nella prima parte di questo volume, confermano
ampiamente il maggior costo di un modello di urbanizzazione dispersa. Ma
si potrebbe obiettare che tale maggior costo non implica necessariamente
un minore benessere collettivo, poiché esso costituisce la controparte
pubblica (pagata comunque in ultima istanza dal contribuente privato) di
un “consumo vistoso” o un bene “superiore”, richiesto da società
ad elevati livelli di reddito pro-capite: si assegna cioè al settore
pubblico un compito nuovo, quello di sostenere i maggiori costi - costi
correnti
per la gestione dei servizi pubblici e costi in conto capitale per le infrastrutture
- di un modello insediativo-residenziale a bassa densità.
Più rilevante
sembra invece il filone di studi che concerne l’uso di risorse scarse,
come l’energia. Anche qui, scendendo fino alla scala delle tipologie edilizie,
risulta sufficientemente assodato il maggiore consumo di energia per riscaldamento
di un modello disperso di abitazioni unifamigliari. Quanto all’uso di energia
per la mobilità, alcune ben note analisi internazionali sui consumi
pro-capite comparati nelle grandi città mondiali - contestate da
alcuni ricercatori, ma non confutabili nei risultati di fondo e soprattutto
confermate da numerosi casi locali - indicano senza ombra di dubbio la
minore virtuosità del modello insediativo americano-australiano
nei confronti del modello europeo. Del pari, alcune analisi internazionali
(fra cui la nostra) sulle dinamiche insediative interne alle singole aree
metropolitane confermano la stretta relazione inversa esistente fra densità
residenziale da una parte e uso (quota) del mezzo privato e conseguenti
consumi di energia pro-capite dall’altra.
Anche in questo
caso esiste una controargomentazione, giusta ma parziale, a difesa della
razionalità del modello emergente: l’energia, se davvero è
un bene scarso, vede riflessa la sua scarsità nel suo prezzo, e
questo a sua volta si incarica ampiamente, in un libero mercato, di limitare
modelli di vita, di consumo e di produzione ad elevato consumo di un fattore
scarso (come si è visto a seguito della prima crisi energetica del
1974-75). Inoltre nella maggior parte dei paesi avanzati (ma non negli
Stati Uniti), la mobilità privata è ampiamente tassata, e
ciò dovrebbe riequilibrare ampiamente il bilancio dei costi ambientali.
La risposta a queste
argomentazioni è duplice: da una parte si può affermare che
i costi ma soprattutto i rischi ambientali dei consumi energetici attuali
e prospettici sono tali che, se si volesse fare affidamento sui soli meccanismi
di mercato, si dovrebbe imporre un livello di tassazione inaccettabile
(sia da parte degli utenti che dei produttori collocati sulla filiera petrolio-automobile).
D’altra parte si deve riflettere sul fatto che le decisioni di nuove urbanizzazioni
ed edificazioni a carattere diffusivo non sono di norma direttamente dipendenti
dalle scelte individuali delle famiglie, bensì dalle scelte delle
pubbliche amministrazioni e degli operatori immobiliari ed edilizi che
trovano nelle corone metropolitane esterne nuove occasioni per aumentare
le entrate comunali e promettenti aree di business; allorché queste
decisioni sono giudicate sul mercato privato-individuale delle locazioni
e degli acquisti immobiliari, fruiscono di un forte vantaggio competitivo
perché non gravate dagli elevatissimi livelli di rendita fondiaria
che caratterizzano il mercato dei suoli nella grande città, in via
di progressiva terziarizzazione. Non è naturalmente in discussione
qui la razionalità della domanda nel cercare di limitare la rendita
pagata (anche a fronte di un maggior costo per la mobilità), ma
la razionalità dell’offerta urbanistico-edilizia dei comuni suburbani
nel proporre tipologie disperse, urbanizzazioni frammentate, reti di mobilità
solo su gomma.
In realtà,
il consumo di energia pro-capite, pur costituendo un indicatore diretto
di una esternalità negativa e dunque di un costo ambientale e collettivo
(le emissioni), costituisce anche un indicatore indiretto, quasi una metafora,
per un insieme di altre esternalità connesse all’uso dell’auto:
inquinamento
acustico, inquinamento estetico (particolarmente rilevante nella città
europea, che non è stata costruita per una società motorizzata),
valore del tempo perduto nel pendolarismo, stress, esclusione; e potremmo
aggiungere, in ambito metropolitano, occupazione degli spazi di sosta nelle
aree centrali da parte dei pendolari suburbani e spiazzamento della sosta
breve verso la “seconda fila”.
In prospettiva,
proiettando in un futuro prossimo possibili e rilevanti miglioramenti nell’efficienza
energetica e ambientale dell’automobile, sono forse questi i costi collettivi
più rilevanti, che già oggi allarmano le popolazioni urbane.
Essi emergono infatti dallo scontro con una insopprimibile scarsità:
quella dei suoli urbani, intesi come suoli urbanizzati in centri con caratteristiche
urbane. Da una parte la domanda di suolo per la mobilità e la sosta
di un parco crescente di veicoli circolanti continua ad aumentare; dall’altra,
l’offerta di superfici urbane è difficilmente e lentamente espandibile,
sia per problemi di costo (espansioni in sotterranea per infrastrutture,
parcheggi, attività), sia perché le città hanno raggiunto
dimensioni tali da implicare, se superate, rendimenti fortemente decrescenti.
La risposta della suburbanizzazione dispersa e dell’urbanizzazione della
campagna appare in questo senso una risposta difensiva ma insufficiente
e per molti versi peggiorativa: una soluzione forse razionale solo nel
breve periodo e solo a livello individuale. Servono città diverse,
ma comunque servono città, all’interno delle quali l’interazione
possa avvenire senza gli attuali costi, privati e sociali, di mobilità.
Ma quali sono gli
elementi che determinano l’impatto ambientale differenziale di modi differenti
di crescita fisica della città? Come identificare questi extra-costi
collettivi evitabili? Quali sono le variabili strumentali di una più
efficace pianificazione territoriale e urbanistica? Si tratta di agire
sulla forma urbis, sulle caratteristiche fini del tessuto insediativo,
o sulla dimensione assoluta della metropoli che inevitabilmente sembra
implicare lunghi percorsi, complessità delle origini e destinazioni
dei movimenti pendolari, basse velocità commerciali? Si tratta di
densità o di mixité funzionale? Di densità netta,
calcolata sul territorio urbanizzato, o di densità lorda, calcolata
sulla dimensione territoriale complessiva? Si tratta di architettura territoriale
delle reti o di nuovi stili di vita, e di mobilità, liberamente
scelti?
Domande come queste
sembrano accumularsi in modo via via più caotico e accelerato, a
causa, in parte, della complessità oggettiva della materia e in
parte, purtroppo, di una colpevole disattenzione per gli impatti delle
nuove tipologie di sviluppo insediativo e per gli effetti dei comportamenti
territoriali fini. Con la nostra ricerca ci siamo proposti di fare ordine
nella logica delle catene causali che sono all’opera, e di iniziare a differenziare,
e misurare, l’effetto di singole relazioni e di singole variabili. E quando
diciamo “misurare” non intendiamo tanto la misura ingegneristica di un
impatto o la identificazione ragionieristica di un costo, ma soprattutto
la valutazione quanto più possibile oggettiva della significatività,
da un punto di vista statistico-econometrico, di una relazione causale
ipotizzata.
In termini di policy
e di innovazioni nella pianificazione urbanistica e di area vasta, i nostri
risultati confermano la lungimiranza delle direttive strategiche, delle
azioni e dei progetti che in ambito internazionale si propongono di realizzare
un
modello “giudiziosamente compatto” e policentrico di sviluppo metropolitano.
Esse innanzitutto sono indirizzate ad una migliore integrazione fra nuove
urbanizzazioni e rete dei trasporti pubblici metropolitani; in secondo
luogo, intervengono sulla forma urbana rilanciando l’idea di confine urbano
e promuovendo intensificazione edilizia; in terzo luogo, mirano ad una
maggiore diversificazione funzionale alla scala locale per creare anche
nelle localizzazioni più lontane dal centro un vero e proprio “effetto
città”.
Si tratta di tre
obiettivi strategici e campi di azione che, per garantire risultati efficaci,
esigono un deciso rilancio della pianificazione strategica di area vasta
e, in primis, la definizione da parte dell’azione pubblica di pianificazione
di alcune regole formali condivise che, per la loro rilevanza di lungo
periodo, non possono essere oggetto di contrattazione e negoziazione. Fra
le nuove “regole” per il governo della dispersione insediativa ricordiamo,
all’interno dell’ampia casistica illustrata nella prima parte del volume,
le più recenti e significative:
-il divieto di nuove
urbanizzazioni di frangia in assenza di piani sovracomunali approvati,
contenuto nella nuova legge urbanistica francese,
-l’obbligo alla
perimetrazione di un preciso confine di crescita urbana negli strumenti
urbanistici comunali (i Red Contours imposti dal governo olandese, gli
Urban Growth Boundaries introdotti in alcuni stati e città statunitensi).
E questa la strada
oggi privilegiata in molti paesi, esemplificata in questo volume da alcune
buone pratiche in materia sia di riforme legislative, sia di direttive
nazionali rivolte ai governi locali, sia di piani strategici di area vasta
e di progetti locali: si tratta di buone pratiche eminentemente dedicate
ad un più saggio controllo del consumo di risorse territoriali e
al contenimento della mobilità su gomma. Ma la spiccata propensione
per modelli radicalmente deregolativi ed incrementalisti che caratterizza
la recente attività legislativa di alcune Regioni italiane e la
debolezza se non l’inesistenza delle istituzioni -la provincia e la Città
Metropolitana -che potrebbero mettere in atto indirizzi e politiche di
coerenza territoriale di area vasta, non autorizzano previsioni ottimistiche
sulla sostenibilità di lungo periodo delle tendenze insediative
in atto nel nostro paese.
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