Estratti
da: Rapporto sulla condizione abitativa in Italia, Conferenza mondiale
delle Nazioni Unite sugli insediamenti umani, Habitat II, Istanbul 3-14
giugno 1996 (cap. Milano, pp. 27-32)
L’area metropolitana
milanese
Le ipotesi di delimitazione
istituzionale dell’area metropolitana che ancora oggi si confrontano sono
sostanzialmente due: un’area “vasta”, che tiene conto dell’estensione reale
del fenomeno metropolitano, ma che, per oggettivi vincoli legislativi,
si riduce all’attuale territorio della provincia di Milano; ed un’area
“ristretta”, che sancirebbe le aspirazioni di autonomia dalla futura “città
metropolitana” di alcuni sistemi urbani del milanese (Monza e la Brianza,
Legnano e l’Olona) e che per certi aspetti corrisponderebbe piuttosto al
“nucleo metropolitano”.
Formazione ed
evoluzione dell’area
La formazione di
un’area urbana avente caratteristiche spiccatamente metropolitane è
fenomeno relativamente recente anche nel milanese.
Dall’unità
d’Italia fino agli anni trenta, infatti, la popolazione, i servizi e le
attività produttive si concentrano quasi esclusivamente nella città
di Milano, tanto che essa, insieme all’attiguo polo industriale di Sesto
S. Giovanni, conta più del 90% degli addetti all’industria sul totale
di quelli censiti nei 106 comuni dell’area del Piano intercomunale milanese.
Anche la popolazione,
evidentemente, risultava fortemente concentrata: al 1921 Milano supera
abbondantemente gli 800.000 abitanti, pari alla metà di quelli dell’intera
provincia.
A fronte di ingentissimi
fabbisogni abitativi, si sviluppa una notevole attività edilizia,
non solo nella città, ma anche nel territorio immediatamente circostante,
reso via via più accessibile dalle nuove infrastrutture di comunicazione.
L’espansione insediativa viene favorita, infatti, da un notevole miglioramento
del livello di servizio lungo tutte le linee ferroviarie e tranviarie convergenti
su Milano.
A partire dagli
anni dell’immediato dopoguerra, si registra un effettivo e reale inserimento
del sistema economico milanese nella economia internazionale. In soli dieci
anni, tra il 1951 e il 1961, l’occupazione nell’industria manifatturiera
di tutta l’area (105 comuni attorno a Milano) passa da 458.000 unità
a 640.000, in buona parte per merito dell’industria meccanica, chimica
e delle calzature, in forte espansione anche dal punto di vista localizzativo.
Anche nella città di Milano l’occupazione industriale registra una
fortissima crescita (da 323.000 a 427.000 unità), soprattutto nell’industria
leggera e fatto assai rilevante e significativo nelle attività direzionali
delle imprese.
Allo sviluppo industriale
vengono destinati ampi comparti nella periferia settentrionale e lungo
le direttrici del sud-est e del sud-ovest, sebbene rimangano molti grandi
impianti industriali entro la circonvallazione esterna della città
e addirittura nel cuore della stessa. Tutti i comuni della prima e seconda
corona a nord del capoluogo registrano, già fra il 1951 e il 1961,
incrementi percentuali dell’occupazione industriale superiori a quelli
del capoluogo stesso e ciò vale in modo particolare per quelli attestati
lungo tali direttrici. Anche nell’emisfero sud dell’area milanese si assiste,
sempre nel decennio 1951-1961, ad un aumento sensibile dell’occupazione
industriale, sia pure con valori assoluti molto inferiori a quelli del
nord-Milano. Il modello di sviluppo è innestato sulle direttrici
radiali che penetrano nel capoluogo, mentre il terziario e i servizi alle
imprese si concentrano nella città.
Nel complesso dell’area
metropolitana, tuttavia, lo sviluppo insediativo è ancora relativamente
contenuto: soltanto il 17% dell’intero territorio dei 106 comuni del Piano
intercomunale milanese è urbanizzato nel 1963. Sempre in questo
periodo si realizzano nuove importanti infrastrutture stradali, come l’Autostrada
del Sole (1958) e l’Autostrada dei Fiori (1960), mentre l’Autostrada dei
Laghi, la Milano-Torino e la Milano-Bergamo vengono raddoppiate (1962-1965)
e questo favorisce indubbiamente la dispersione dello sviluppo residenziale.
Anche il modello
di sviluppo della residenza è, infatti, fortemente radiocentrico,
anche se più accentuato verso nord. La popolazione di Milano cresce
del 24% mentre quella degli altri comuni dell’area del Piano intercomunale
milanese aumenta del 46% e quella dei comuni della prima fascia nord cresce
di oltre il 50%.
All’inizio degli
anni sessanta si è ormai formata una vera e propria cintura industriale
periferica, che risulta interrotta soltanto nel settore ovest, l’unico
non attraversato dal sistema ferroviario (storico fattore di localizzazione
dell’industria milanese). Milano è diventata città terziaria
e di servizi di livello europeo e registra al suo interno una accentuata
diversificazione funzionale, che agisce, di riflesso, sull’intero sistema
urbano del milanese.
Nel decennio 1961-1971
gli addetti all’industria manifatturiera crescono ulteriormente, anche
se in misura minore che nei dieci anni precedenti (41.000 addetti contro
181.000).
È in questa
fase che assume carattere di conurbazione il sistema policentrico di Legnano,
Busto Arsizio e Gallarate, mentre si consolida ulteriormente la rete urbana
dei poli urbani di “secondo livello”, quali Monza, Seregno, Rho, Magenta
e Vimercate.
L’esplosione della
motorizzazione privata, incentivata da scelte nazionali di politica economica,
accentua l’indifferenza localizzativa dell’industria e della residenza
e pone in secondo piano sia il ruolo delle ferrovie per il trasporto merci,
sia quello delle residue tranvie extraurbane, che vengono smantellate e
sostituite da linee automobilistiche.
Dopo il “boom” degli
anni sessanta si apre un ciclo di forte ristrutturazione e razionalizzazione
produttiva, accentuata dalla crisi petrolifera.
L’occupazione industriale
aumenta poco e soltanto nei comuni dell’hinterland: il capoluogo registra
addirittura un forte calo degli addetti all’industria, passando da 353.000
a 254.000 unità.
In questo periodo
si assiste all’abbandono di numerose aree industriali, in particolare nel
capoluogo e nei comuni posti immediatamente a nord del medesimo, cioè
nel tessuto urbano più congestionato.
Nella prima cintura
e in tutto il nord metropolitano si esaurisce la fase espansiva e si pone
mano alla riorganizzazione urbana, al completamento residenziale, al miglioramento
dei servizi, mentre in tutto il semicerchio sud si registra un lungo periodo
di sviluppo espansivo, che procede soprattutto per grandi interventi, che
trasformano profondamente il contesto preesistente, spesso ancora rurale.
Sulla spinta di una forte operazione di decentramento residenziale diversi
comuni raddoppiano o triplicano lo stock abitativo, soprattutto nel decennio
1971-1981. Il comune di Milano comincia a perdere popolazione, nonostante
la costruzione di circa 30.000 nuove abitazioni. Cominciano a manifestarsi
quei fenomeni di riduzione delle dimensioni dei nuclei familiari e di erosione
dello stock residenziale, a favore del terziario, che continueranno anche
per tutto il decennio successivo, quando il calo di popolazione raggiungerà
addirittura il 15%.
A partire dalla
seconda metà degli anni settanta anche la produzione complessiva
di nuove abitazioni nell’area metropolitana subisce una sensibile contrazione:
si passa rapidamente dalle 30.000 abitazioni all’anno che costituivano
la media dei decenni precedenti alle 13.000-15.000 abitazioni annue (di
cui 2.000-3.000 nel capoluogo).
Nel 1980 ben il
33% del territorio dell’area metropolitana risulta urbanizzato e il “peso”
relativo del capoluogo (in termini di suolo occupato ad uso urbano), che
era del 51,8% nel 1936, è pari al 28,7%, a testimonianza dell’intensità
dello sviluppo suburbano.
Nell’ultimo periodo,
infine, tra il 1980 e il 1989, pur in presenza di una complessiva stabilità
demografica e occupazionale, il consumo di suolo per usi urbani continua
su valori consistenti (+ 12%).
Al 1989 i140% dell’area
metropolitana è urbanizzato. I costi di insediamento nel capoluogo
e nell’area crescono sensibilmente e aumenta la concorrenza dell’uso del
suolo fra funzioni residenziali e terziarie.
Nella città
di Milano, il fenomeno della dismissione delle aree produttive assume dimensioni
imponenti (164 casi e 461 ettari di superficie fondiaria).
Ma negli anni ottanta
anche nel resto della provincia di Milano il fenomeno della dismissione
delle aree industriali è ormai diffuso e macroscopico: al 1988 esso
riguarda ben 214 impianti, situati in 84 comuni (su 184). In base ad una
stima prudente si può calcolare che la superficie fondiaria interessata
sia di circa 3,6 milioni di mq, pari al 3,3% dell’intero patrimonio di
aree industriali esistenti al 1989. Nonostante questo l’attività
edilizia industriale non si ferma; infatti tra il 1980 e il 1989, nei 184
comuni della provincia di Milano l’industria occupa 1.700 ettari di nuove
aree, con un incremento del 18% rispetto a quelle esistenti.
Comunque, nel frattempo,
l’occupazione industriale si riduce in assoluto e in termini relativi.
Gli addetti all’industria sono oggi il 25% del totale a Milano (erano il
35% nel 1981) e il 51% negli altri comuni della provincia (erano il 63%
nel 1981): solo i comuni ad ovest/sud-ovest e ad est del capoluogo registrano
una sostanziale stabilità dell’occupazione industriale.
La situazione
abitativa oggi
Negli anni ottanta
prosegue l’esodo demografico da Milano città (- 235.000 abitanti
nel decennio 1981-1991), ma perdono popolazione, per la prima volta, anche
le aree di più antica urbanizzazione e industrializzazione dell’hinterland:
la dinamica insediativa residenziale tende quindi ad investire territori
sempre più ai margini dell’area metropolitana.
Il sistema dei centri
di corona viene dunque assorbendo in maniera sempre più marcata
le funzioni residenziali, mentre la città centrale è sempre
più abitata e “usata” da popolazioni diverse dai residenti. Tuttavia,
lo spopolamento del capoluogo non può (se non in misura marginale)
essere interpretato come fuga dalla città alla ricerca di un ambiente
residenziale migliore, né tantomeno come effetto indotto dalla delocaliziazione
dell’industria.
Esso è nella
generalità l’esito di una scelta obbligata, largamente determinata,
nella sua articolazione territoriale, dalla disponibilità e accessibilità
dell’offerta, in realtà presente soltanto fuori Milano.
In ogni caso, il
sistema mostra un funzionamento unitario e la rete dei centri urbani risponde,
in maniera diversificata per qualità, ma complessivamente in misura
adeguata, alla domanda abitativa metropolitana (più del 50% degli
“emigrati” dal capoluogo, quasi 40.000 all’anno, si ferma in un comune
della provincia e oltre il 60% dei movimenti residenziali complessivi rimane
all’interno dell’area metropolitana).
Il ruolo residenziale
svolto dall’hinterland non è però assimilabile a quello di
una periferia-dormitorio indifferenziata, sorta per espansione della città
centrale. Esso è, anzi, costituito - per la maggior parte - da una
rete di piccoli e medi centri urbani che hanno in larga misura saputo recuperare
e riqualificare il tessuto abitativo costituitosi nel dopoguerra e che
offrono oggi in molti casi una qualità urbana e ambientale, e soprattutto
un livello di servizi locali, spesso più appetibile rispetto al
capoluogo, soprattutto alla luce di un rapporto costi-benefici complessivo.
Per converso il
capoluogo, pur non essendo ancora definitivamente terziarizzato, sta cambiando:
il recupero urbano si sviluppa con difficoltà e le risorse territoriali
per nuove edificazioni sono praticamente esaurite. Si accentuano quindi
i problemi di pendolarismo e congestione e la composizione sociale della
popolazione tende a polarizzarsi (anziani, nuclei monopersonali, professionisti
del terziario avanzato, immigrati dal Terzo mondo).
Al suo interno si
evidenziano marcate differenziazioni che riproducono con diverse proporzioni
quanto si è descritto a livello territoriale ampio. Le zone centrali
sono per eccellenza sede del terziario e della residenza di pregio mentre
la periferia, soprattutto a sud, si qualifica come luogo di concentrazione
dell’edilizia popolare e cooperativa.