I CATTOLICI NELLA RESISTENZA CONTRO L’ANTICRISTO NAZIFASCISTA
La Chiesa, inizialmente, non incoraggiò la partecipazione dei fedeli alla lotta
armata: le alte gerarchie non avevano compreso le ragioni della scelta di molti
L’antifascismo dei cattolici. Al
momento del crollo del fascismo l’assunzione da parte dei
cattolici di una chiara posizione democratica non poteva certo
essere data per scontata. Come ha sottolineato con decisione
in suo studio Adolfo Scalpelli: “Era difficile per un
cattolico staccarsi da quella linea di obbedienza alla sua
Chiesa, a quella Chiesa che era arrivata al Concordato e che
perciò [aveva accettato] compromessi di natura materiale col
fascismo”. Durante il Ventennio, il mondo cattolico
aveva assunto atteggiamenti variegati che erano spaziati
dall’aperto consenso dei clerico-fascisti, all’appoggio
strumentale di quanti avevano visto nel fascismo un mezzo per
giungere alla restaurazione dello Stato cattolico, a coloro
che, soprattutto all’interno dell’Azione Cattolica, pur
maturando progressivamente posizioni critiche nei confronti
del regime erano comunque rimasti lontani dall’intraprendere
un cammino che li potesse portare ad un approdo
democratico. Mentre cattolici del calibro di don Luigi
Sturzo e di Giuseppe Donati andarono ad ingrossare le fila dei
fuoriusciti, all’interno, se non era certamente mancato un
orgoglioso dissenso da parte di singole personalità rimaste
fedeli all’esperienza del Partito popolare,
un’opposizione cattolica cosciente ed organizzata capace di
agire in clandestinità e di indirizzare i giovani sulla strada
dell’antifascismo, non fu mai presente. All’interno di questo
quadro generale è possibile scorgere solo qualche rara
eccezione. La prima prese forma alla fine degli anni Venti
prolungandosi fino a quasi la metà del decennio successivo e
fu promossa da un gruppo di cattolici uniti sotto la
definizione di Movimento guelfo
d’azione.
Guidato da Malavasi e Malvestiti, il
movimento strinse rapporti con Giustizia e libertà
e, nella convinzione che il fascismo fosse la negazione del
cristianesimo, condusse una campagna in nome di Cristo
Re che ebbe il suo momento di massima risonanza nel 1931,
quando in occasione del 40° anniversario dell’enciclica
Rerum novarum furono diffuse migliaia di copie di un
manifesto che denunciava la situazione italiana sotto la
dittatura e richiamava i cattolici all’azione. Nel marzo del
1933 una retata compiuta fra Milano, Torino e Genova portò
all’arresto dei principali elementi del gruppo che furono
processati dal Tribunale speciale e condannati a pene
detentive comprese fra i due e i cinque anni. Un episodio,
quello guelfo, dalla partecipazione ristretta e che era
rimasto assai circoscritto. Un limite che risalta ancor più se
si tiene conto che l’esule don Luigi Sturzo, in uno studio
sulle cause che avevano portato alla nascita del regime,
intitolato “Italia e fascismo” e pubblicato pochi anni
prima in Francia, era giunto alla conclusione che l’unico
atteggiamento di fronte al nuovo ordine mussoliniano non
poteva essere che quello del “rovesciamento operato da tutti i
cittadini e da tutti i partiti, uniti sotto l’unico vessillo
dell’antifascismo”.
La
seconda eccezione degna di nota nell’ambito dell’opposizione
cattolica al regime, anche questa però molto minoritaria, fu
rappresentata dalla nascita, alla fine del 1937, della
Sinistra cristiana. Sorta a Roma si sviluppò anche a
Milano, Genova, Firenze e nel suo programma, noto come
Appunto Pecoraro, sottolineava come fosse ormai
necessario passare da una semplice protesta morale contro il
fascismo alla lotta politica vera e propria avviando, alla
stregua delle altre componenti antifasciste, una decisa
battaglia clandestina che doveva prevedere la costruzione di
nuove alleanze, l’abbandono del mito del partito
interclassista e il mantenimento del dato religioso come
caratteristica peculiare ma non come elemento preminente ed
esclusivo. Nonostante i numerosi mutamenti di nome
l’esperienza della Sinistra cristiana si prolungò fino
all’indomani della liberazione, quando i suoi membri
confluirono poi nel Partito comunista. La storia di
questo gruppo, che fu, nel corso della guerra di liberazione,
decisamente impegnato reputando la Resistenza come
un’occasione provvidenziale che doveva permettere ai cattolici
di essere nuovamente degni del cristianesimo, mostra
l’esistenza di frange pronte ad agire in modo autonomo e
capaci di elaborare una loro originale politica sganciata
dalle direttive della Santa Sede già prima del tracollo
dell’8 settembre. La nascita della Dc e le
opzioni della Santa Sede. Per una ripresa più ampia
del dibattito politico in area cattolica fu però necessario
attendere che si manifestassero in maniera inequivocabile gli
effetti negativi prodotti dalla guerra. Contatti fra ex
popolari, il Movimento neoguelfo d’azione nuovamente guidato
da Piero Malvestiti e i giovani laureati dell’Azione
cattolica, furono ripresi a partire dal 1941 e,
nell’estate successiva, portarono alla creazione di una
commissione incaricata di elaborare il programma della
rinascita politica dei cattolici. Una forte spinta al rilancio
organizzativo fu determinata dal successivo radiomessaggio di
Pio XII, diffuso in occasione del Natale del 1942, nel quale
fu pronunciata la nota frase “non lamento ma azione è il
precetto dell’ora”. Il lavoro avviato nei mesi precedenti andò
così intensificandosi in tutte le principali città italiane ed
ebbe il suo epilogo nella stampa e nella diffusione prima del
manifesto clandestino “Le idee ricostruttive della Dc”
ad opera del gruppo romano guidato da De Gasperi, poi, proprio
all’indomani della caduta del fascismo, del “Programma di
Milano” elaborato dal centro milanese e distribuito in un
milione di copie. Mentre nel primo era espressa l’idea di
una democrazia rappresentativa fondata sul suffragio
universale, nel secondo erano esposti progetti per una
ricostruzione della società basati sui tradizionali postulati
del cattolicesimo democratico e sociale con una chiara
impronta laica e aconfessionale. Le due componenti si
riunirono il 6 agosto a Milano in modo da dare vita ad un
coordinamento per la stesura di un programma uniforme la cui
elaborazione teorica continuò per tutto il periodo
successivo.
Un altro documento basilare, risalente
anch’esso al mese di luglio, è inoltre rappresentato dal
cosiddetto “Codice di Camaldoli” nel quale l’idea
corporativa era definitivamente superata e sostituita con un
programma imperniato sul principio di un’economia mista che
affidava allo Stato un ruolo imprenditoriale in quei settori
non coperti dall’iniziativa privata. Il laicato cattolico
impegnato politicamente giungeva così, nei giorni del crollo
del fascismo, con una sua organizzazione politica in fase
embrionale e un suo specifico programma dai contenuti
democratici anche se non ancora completamente definiti. Se
si osserva il comportamento delle gerarchie ecclesiastiche si
rileva invece un atteggiamento molto più prudente. Nei mesi
che avevano preceduto la caduta di Mussolini, mentre si
profilava l’inevitabile sconfitta dell’Asse, la
diplomazia americana aveva sondato gli orientamenti e i
desideri della Chiesa, l’unica istituzione che in un paese
segnato dallo sfacelo bellico mostrava di aver mantenuto la
sua compattezza e d’essere ancora in grado di fungere da
importante punto di riferimento per le masse. Nell’occasione
la Santa Sede si espresse in favore di un sistema
monarchico conservatore e spese la sua parola a sostegno di
quegli uomini politici appartenenti alla classe dirigente
prefascista o che avevano militato nella compagine fascista
moderata, mostrando invece la sua diffidenza, se non una vera
e propria ostilità, nei riguardi delle personalità schierate
nel campo dell’antifascismo. Come ha scritto Pietro
Scoppola:
“L’idea
largamente diffusa e probabilmente prevalente negli
ambienti vaticani era piuttosto quella di una sorta di
continuità di un regime autoritario senza più Mussolini che
avrebbe avuto nel mondo cattolico e nelle sue organizzazioni
il suo punto di forza”. Indicativa, a questo proposito, la
lettera inviata dopo la caduta di Mussolini e datata 11 agosto
1943 da Luigi Gedda, presidente centrale della Gioventù
cattolica, al nuovo capo del Governo Badoglio. Nella missiva
si consigliava al primo ministro di utilizzare le forze
inquadrate nell’Azione cattolica in modo da rafforzare
la compagine statale contro il pericolo di sovversione,
rappresentato sia dai fuoriusciti sia dall’antifascismo in
genere, avanzando contemporaneamente l’idea di una prossima
successione dei cattolici alla guida del paese. Di fronte
all’ipotesi ormai più che realistica della sconfitta
dell’Asse, la Chiesa si mostrava più che altro
preoccupata per l’avanzata del comunismo e cercava di porvi un
argine concedendo il proprio appoggio a quelle forze che
apparivano propense a ridisegnare gli assetti politici e
sociali senza mettere in discussione ciò che essa aveva
conquistato nel corso del ventennio
fascista. L’atteggiamento estremamente prudente della
Chiesa rimase tale anche dopo la fuga della monarchia e la
divisione dell’Italia. In un memorandum della
Segreteria di Stato vaticana del dicembre del 1943 nel quale
era esaminata la situazione della penisola, pur cogliendo il
sentimento antitedesco che si faceva largo nel popolo
italiano, il peso e il ruolo giocati dalla Resistenza erano
completamente ignorati. Al contrario, nel rapporto, era
sottolineata con forza la necessità della presenza americana
come elemento che doveva esercitare funzioni di garanzia in
modo da porre un freno a quelle che erano definite le
“espressioni immature e magmatiche” della società
italiana.
La presenza di una potenza esterna che
esercitasse un forte peso, sia sul piano politico sia su
quello economico, era ritenuta l’unica garanzia che avrebbe
permesso di guardare al futuro con maggiore fiducia. Un futuro
nel quale non erano escluse a priori le istanze di
rinnovamento che, comunque, doveva essere contrassegnato da
uno sviluppo politico lento e controllato. Queste prese di
posizione mostrano la diffidenza che la Chiesa nutriva nei
riguardi di quei movimenti armati che combattevano non
inquadrati in reparti regolari. La sfiducia non accennava a
diminuire neppure quando all’interno delle forze resistenti
poteva registrarsi la presenza dei cattolici giacché, a
prevalere, era pur sempre il timore che la lotta partigiana
potesse sfuggire ad ogni controllo per assumere connotati
rivoluzionari. Questo scetticismo si dissolse solo
nell’estate del 1944 dopo che, prima la svolta di Salerno
compiuta dal Partito comunista, poi la liberazione
della Capitale, infine la creazione di un unico comando
militare partigiano riconosciuto dagli Alleati, attenuarono di
molto i timori degli ambienti vaticani. Ciò nonostante sul
piano politico fu proprio la Santa Sede, attraverso i
radiomessaggi natalizi del 1942, del 1943 e del 1944, ad
incentivare la discussione e l’aggregazione dei cattolici. I
tre testi, che affrontarono rispettivamente i temi dell’ordine
interno degli Stati, della civiltà cristiana e del problema
della democrazia, costituirono la grande cornice entro la
quale il mondo cattolico poté muoversi alla ricerca di una
nuova identità.
I tre messaggi, che non indicavano
una linea politica ben definita, rompevano però
decisamente con il passato poiché definivano la democrazia non
più una fra le tante forme di governo possibili, ma bensì come
la scelta tendenzialmente ottimale affinché fossero garantiti
il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e la libertà,
oltre che individuale, della stessa Chiesa e della coscienza
religiosa. Aperture e chiusure convivono dunque a fianco una
dell’altra evidenziando come la Santa Sede si trovò ad
agire su più livelli differenti, secondo una linea di
comportamento molto spesso ambigua e oscillante che sfociava
in direttive le cui norme erano poco applicabili nei casi
concreti. La condanna della guerra, ad esempio, si mantenne
sempre su un piano generico che portò a bilanciare le condanne
rivolte contro l’occupante con altrettante prese di posizione
contro la guerriglia partigiana.
Sarebbe
vano, del resto, ricercare in tutti venti mesi della
Resistenza un atteggiamento univoco del mondo
cattolico. Posizioni caratterizzate dalla prudenza, dal
cosiddetto attesismo e da idee determinate da puro spirito di
conservazione, furono compensate e si giustapposero ad
atteggiamenti contrassegnati da dense adesioni, da un forte
attivismo e da slanci ideali volti ad un rinnovamento radicale
della società. Questa contraddittorietà va ricercata in una
molteplice serie di ragioni. In ambito politico un certo peso
ebbe sicuramente il fatto dell’assenza di una radicata
formazione antifascista e la necessità di elaborare progetti
ricostruttivi, dopo che per vent’anni i cattolici erano stati
esclusi dalla partecipazione politica, non potendo fare
riferimento su princìpi ben definiti e largamente
condivisi.
Sul piano della sfera ecclesiastica,
invece, la difficoltà maggiore si registra nel tentativo
della Chiesa di mantenere in ogni circostanza un ruolo al di
sopra delle parti in una contingenza storica ove la
contrapposizione era così netta da imporre una scelta precisa
a favore o contro una delle componenti in lotta; una posizione
che divenne ancora più difficile da sostenere dopo che, con la
nascita della Rsi, prese il via la guerra civile. Ne derivò
l’impressione da parte del mondo cattolico dell’inadeguatezza
della gerarchia ecclesiastica le cui posizioni generarono una
situazione di confusione e smarrimento. Questa debolezza aprì
un vuoto nel quale si poterono inserire orientamenti e
indirizzi non previsti che si affermarono progressivamente e
che furono fatti propri dalla Chiesa stessa la quale, in
questo modo, si trovò a far suo un dato di fatto imposto dagli
eventi storici più che determinato dalla propria volontà.
Trasformazioni del vissuto religioso e ruolo del
clero nella Resistenza. Un elemento di cui la
Chiesa dovette tenere in considerazione e che ne influenzò le
decisioni, fu la trasformazione del sentimento religioso
registratosi a livello popolare con il procedere del conflitto
e che andò sviluppandosi pienamente nel corso della
Resistenza. Il recupero di una forte religiosità da
parte delle masse costrinse la Santa Sede a fare i
conti con un movimento dal basso che di fatto contrastava con
i forti indirizzi gerarchici da essa assunti nel periodo
fascista. Sotto il profilo delle pratiche religiose si
delinearono atteggiamenti che andavano contro le direttive del
fascismo e il suo modo di sentire fin dallo scoppio delle
ostilità. Anche se ciò non era destinato a sfociare
necessariamente in un atteggiamento nettamente antifascista,
mostrano comunque il venire meno della fiducia degli italiani
verso il regime e il loro progressivo allontanamento da
quest’ultimo. Un numero crescente di persone, colpite dai
drammi della guerra, si avvicinò alla religione trovandovi una
sorta di rifugio che permetteva loro di sopportare meglio le
privazioni e le sofferenze imposte dal conflitto; era un
orientamento che, in forma implicita, conteneva il rifiuto di
quei modelli di cittadino-soldato e di nazione in armi tanto
cari alla retorica fascista. Un terreno privilegiato sul quale
concentrare l’attenzione per svolgere alcune riflessioni, mi
sembra poter essere quello della preghiera.
Mentre
durante il Ventennio il crescente processo di
militarizzazione della società aveva incentivato lo
sviluppo di una religione bellicistica che ebbe nella
Preghiera del Duce il momento di massimo degrado dello
spirito religioso, che di fatto si trovò ad essere subordinato
al potere politico, nel corso della guerra il quadro andò
gradualmente mutando. Le tematiche bellicistiche, infatti,
vennero meno fin dallo scoppio del conflitto e declinarono
sempre più con il profilarsi della sconfitta. Già nel 1940 il
ministro dell’Interno inviò ai prefetti una circolare affinché
fosse impedito l’inoltro ai militari della corrispondenza
contenente preghiere e atti di fede che alludessero alla
crudeltà e agli orrori della guerra. La Preghiera della
pace, composta da Benedetto XV in occasione del primo
conflitto mondiale e ristampata in migliaia di esemplari fra
il 1940 e il 1941, conobbe numerosi sequestri e spinse il
regime, timoroso che fossero intaccati negativamente il senso
patriottico e il morale dei soldati al fronte, ad intervenire
in più occasioni per impedirne la diffusione. Con il crollo
del fascismo si assistette al completo abbandono delle
preghiere dai toni bellicisti le quali lasciarono spazio a
componimenti invocanti la pace. Dopo la fase del ricorso alla
religione come rifugio, si aprì quella in cui la religione fu
concepita come mezzo per incidere sul reale attraverso la
richiesta, anche se non in forme ufficiali, della pace. Con
l’avvio della Resistenza si assiste ad un terzo stadio
di questo sviluppo. La religione diventò per molti cattolici
un elemento essenziale per la propria autodeterminazione:
nella fede furono infatti ricercati e rinvenuti i princìpi
etici che spinsero in direzione della scelta resistenziale e
che erano in grado di giustificarla.
Nel
corso dei venti mesi della lotta di Liberazione si assistette
così alla diffusione di numerose preghiere partigiane. In
Piemonte la più nota fu la Preghiera dei patrioti
piemontesi; le Fiamme Verdi adottarono come segno
di riconoscimento un santino raffigurante il dipinto della
pietà di Bartolomeo Montagna e riportante una preghiera
patriottica d’origine risorgimentale; celeberrima fu la
Preghiera del ribelle, il più alto documento spirituale
della Resistenza, composta per la Pasqua del 1944 da Teresio
Olivelli mentre in Valsesia fu lo stesso Cino Moscatelli,
comunista d’antica data e commissario delle formazioni
Verbano-Ossola-Cusio, a comporre la Preghiera del
garibaldino. Si assiste quindi a un’elaborazione del
sentire religioso che, contrariamente a quanto era avvenuto
nel Ventennio, non era più calato dall’alto ma nasceva
spontaneo dalla base della società a supporto di una scelta
che era maturata in maniera autonoma rispetto alle direttive
piuttosto imprecise formulate dalle massime autorità
religiose. Un’altra trasformazione importante riguardò
l’ambito parrocchiale, e quindi la mentalità di intere
comunità, nel quale si svilupparono nuovi modelli di
convivenza fondati su più marcati valori solidaristici,
sull’apertura nei confronti dell’altro, sui princìpi di una
convivenza basata sul pluralismo delle identità. Questi
mutamenti furono dovuti in gran parte al ruolo che il clero
esercitò durante il periodo resistenziale quando i suoi
compiti si vennero progressivamente dilatando permettendo ai
parroci di assumere un’importanza che non avevano mai
conosciuto prima d’allora. Sacerdoti e coadiutori si trovarono
ad operare in simbiosi con gli orientamenti delle comunità
locali condividendo in prima persona gli stessi pericoli, le
difficili scelte e i drammi comuni vissuti da queste
ultime.
Da figura rappresentativa di una sacralità e
di una funzione, il parroco mutò la sua fisionomia per
divenire l’uomo di tutti, la persona della condivisione, una
guida non solo pastorale, ma soprattutto etico-civile. Sul
ruolo giocato dal clero per l’affermarsi della Resistenza, fra
le tante citazioni possibili ecco quella tratta dalla
Storia dell’Italia partigiana di Giorgio Bocca: “Senza
l’aiuto del clero tre quarti della pianura padana - il
Piemonte, la Lombardia, il Veneto - rimarrebbero chiusi e
difficilmente accessibili alla ribellione. […] La maggioranza
è amica, quasi ogni parrocchia è un possibile rifugio, un
sicuro recapito”. Contrariamente alle gerarchie, costrette per
la loro posizione pubblica ad assumere un atteggiamento
prudente per lo meno sul piano formale, il basso clero poté
intervenire nella realtà con un’azione concreta senza la
necessità di rilasciare proclami od esortazioni ufficiali che
lo avrebbero eccessivamente esposto alle autorità occupanti ed
a quelle collaborazioniste di Salò. Un dato rilevante è
rappresentato dal numero di gran lunga superiore dei preti che
assunsero una posizione favorevole o in difesa dei resistenti,
rispetto a coloro che ebbero un comportamento di connivenza
con i fascisti. A Tullio Calcagno, fondatore della rivista
Crociata Italica e apertamente schierato con il Governo
di Mussolini, il vescovo di Cremona rispondeva in termini
perentori: “Il clero italiano non può essere contro la
maggioranza del popolo italiano che è contro il fascismo”. La
spinta fondamentale a muovere il clero in direzione della
Resistenza fu essenzialmente dettata dalla possibilità di
assolvere il proprio ministero all’insegna della
carità.
Questo tipo di scelta è ben sintetizzata
dalle parole di don Andrea Ghetti, promotore e principale
figura del gruppo clandestino Oscar: “La
Resistenza fu per noi un moto dello spirito: gesto di
solidarietà, ricerca di giustizia nella libertà. Quasi per
istinto i preti, le suore, il laicato cattolico si prodigarono
nei soccorsi: assistenza agli sbandati, accompagnamento in
Svizzera di ebrei e di militari alleati prigionieri evasi;
rifugio ai ricercati, rifornimento di viveri ai senza tessera,
fabbricazione di documenti falsi, diffusione capillare della
stampa clandestina antifascista di ispirazione
cattolica”. L’impegno del clero, però, andò ben oltre i
semplici e pur importantissimi comportamenti assistenziali
generalmente raggruppati sotto la categoria della resistenza
passiva. Le parrocchie e gli oratori non solo divennero un
rifugio sicuro per i perseguitati politici e per quelli
razziali, ma assunsero anche il ruolo di centri insostituibili
cui la Resistenza poté appoggiarsi affinché la lotta di
liberazione potesse dispiegare tutte le sue potenzialità. I
luoghi religiosi furono spesso le sedi dove si tenevano le
riunioni
clandestine
dei singoli Comitati di liberazione nazionale (Cnl)
funsero da depositi d’armi, vi furono organizzate formazioni
partigiane cattoliche adibite a funzioni di carattere
logistico e informativo. Non è raro, inoltre, imbattersi in
realtà locali in cui i sacerdoti organizzarono nelle sale
parrocchiali incontri e lezioni aventi al centro i temi
dell’organizzazione sociale e della democrazia preparando, in
tal modo, il terreno alla sua affermazione e ampliandone
contemporaneamente le basi di consenso.
Un compito
pedagogico in cui furono affiancati anche dai giovani
dell’Azione cattolica. Un esempio su tutti può essere
rintracciato nell’operato del milanese Carlo Bianchi,
presidente della Fuci (Federazione universitaria
cattolica italiana) milanese, che prima di essere arrestato e
poi trucidato nel campo di Fossoli si impegnò in una serie di
conferenze a sfondo sociale indirizzate ai giovani laureati
abbinando questo compito ad altre attività quali la diffusione
della stampa clandestina, l’appoggio all’Oscar, la
partecipazione alla vita politica in qualità di membro del
Cnl Alta Italia. Il clero fu determinante anche in
occasione della scelta compiuta dai singoli individui subito
dopo l’8 settembre e successivamente in concomitanza con la
promulgazione dei bandi di chiamata alle armi da parte della
Repubblica sociale italiana. Se per molti la decisione
di prendere la via della montagna maturò nella completa
solitudine, per chi era cresciuto nell’ambito delle
istituzioni cattoliche il proprio parroco fu una preziosa
fonte di consiglio. Ai dubbi che venivano sollevati dai
giovani, molto spesso il clero rispondeva che non si era
tenuti all’obbedienza e che si poteva optare per la lotta
armata. Per comprendere su quali princìpi si fondasse questo
consiglio è utile rifarsi al pensiero formulato tempo addietro
da don Primo Mazzolari che, nella sua famosa Risposta ad un
aviatore, si era soffermato sul tema della guerra e
dell’obbedienza dovuta alle autorità costituite. Nella sua
risposta Mazzolari sottolineava come non tutte le guerre
fossero da ritenere ingiuste argomentando che queste non
potevano né si dovevano combattere perché era inaccettabile
“portare sul piano cristiano quel che è immorale, ossia
l’iniquità”. Le guerre giuste, invece, “per quanto dure,
dolorose e deplorevoli” dovevano essere accettate e
“combattute virilmente, con misura, carità, espiazione”. Ma
come poteva essere riconosciuta una guerra giusta da una
ingiusta? E a chi spettava il compito di procedere a tale
distinzione?
Tale ruolo era affidato all’autorità
costituita. Se questa, però, invece di rispondere al suo
scopo, ossia il conseguimento del bene comune, si trovava ad
operare contro di esso, l’individuo acquisiva “il diritto alla
rivolta come verso chi usurpa un diritto”. E questa opzione
era esercitabile ogni qualvolta il potere costituito portava
all’oppressione dell’anima sollevando così il problema
dell’azione da esercitarsi per la sua tutela. La rivolta
assumeva perciò il significato di una legittima difesa che
poteva essere spinta fino alla negazione della stessa
autorità: “Ove comincia l’errore, o l’iniquità, cessa con la
santità del dovere la sua obbligatorietà e incomincia un altro
dovere: disobbedire all’uomo per rimanere fedeli a Dio”. Tali
considerazioni avevano ancora maggior valore se si considera
che la Repubblica di Salò, nonostante le sue
insistenze, non ricevette mai il riconoscimento ufficiale
della Santa Sede. Sul piano pratico tali pensieri
trovarono una rispondenza assai diffusa e hanno il loro caso
più emblematico nella riunione tenuta presso il seminario di
Udine, fra il 10 e il 17 novembre del 1943, da una cinquantina
di sacerdoti che giunsero alla conclusione della legittimità
della ribellione in quanto il tedesco era da ritenersi
“invasore ingiusto”. Il campo d’azione privilegiato per
l’operato del clero è rappresentato soprattutto dal contado.
Se per la prima volta nella storia d’Italia le classi
contadine parteciparono attivamente ad una guerra civile
schierandosi non dalla parte reazionaria, una spinta in tale
senso, anche se non fu certamente l’unica, fu fornita dai
sacerdoti e dalle loro capacità di stringere legami
strettissimi con le proprie comunità orientandone con
l’esempio i comportamenti. Tutti questi elementi sortirono
un duplice effetto. Innanzitutto ampliarono la base popolare
della Resistenza rendendo più consapevole la scelta di
chi decideva di aderirvi e, in secondo luogo, favorirono il
ricostituirsi dei rapporti all’interno dello stesso mondo
cattolico imponendo alla Chiesa l’assunzione di un più deciso
impegno politico. All’interno del clero, per concludere, non
mancarono neppure scelte decisamente radicali come quella di
don Vincenzo Foglia, commissario del Cln per la Val di Susa,
soprannominato padre dinamite per la sua abitudine a
spostarsi tra le valli con lo zaino carico d’esplosivo; o come
quella di sacerdoti che ebbero un ruolo determinante
nell’organizzazione di alcune formazioni partigiane o che si
posero alla guida di distaccamenti sappisti. La
partecipazione alla lotta armata.
Se
il ruolo del mondo cattolico fu di fondamentale importanza per
la creazione di un clima favorevole allo sviluppo della
Resistenza, non va comunque dimenticato l’apporto
offerto anche sul piano della partecipazione militare.
L’intervento dei cattolici nella lotta armata fu nella grande
maggioranza dei casi trasversale portandoli ad aderire a
formazioni di altro colore e di diverso orientamento politico
anche se, come si vedrà, furono costituiti pure raggruppamenti
specifici. I cattolici che presero subito la via della lotta
furono spinti solo in minima parte dal loro passato di
cospiratori. Un deciso impegno in tal senso fu immediatamente
fatto proprio dal gruppo della Sinistra cristiana
mentre un antifascista come il già citato Pietro Malvestiti,
si rifugiò inizialmente in Svizzera. Rientrato in Italia per
assumere le funzioni di ministro delle finanze nella
Repubblica partigiana della Val d’Ossola, alla sua
caduta fece nuovamente ritorno in terra elvetica per
rimpatriare definitivamente nell’aprile del 1945 in qualità di
membro del Clnai. Per molti una molla fondamentale fu
la volontà di compiere il proprio dovere manifestando pieno
appoggio al Governo Badoglio, che era pur sempre quello
legittimo, e la fedeltà alla patria invasa dalle truppe
tedesche.
Questi ideali si trovano chiaramente
espressi nella figura del giovane Giancarlo Passavalli
Puecher – fucilato nella notte fra il 21 e il 22 dicembre del
1943 e prima medaglia d’oro della Resistenza lombarda -
che dopo l’armistizio costituì un piccolo raggruppamento
partigiano con il compito di assistere i militari sbandati e
portare a termine atti di sabotaggio ai danni dei tedeschi.
Nella sua ultima lettera, oltre a perdonare coloro che lo
avrebbero giustiziato, lasciò in eredità parole che esprimono
le ragioni che mossero tanti giovani come lui: “L’amavo
troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani
d’Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra
lotta ardua nel ricostruire una nuova unità
nazionale”. All’ideale patriottico si sommò poi il
desiderio prendere posizione contro un sistema che, ormai in
modo inequivocabile, aveva assunto un volto decisamente
anticristiano. Benito Zaccagnini, allora appartenente
all’Azione cattolica romagnola, ha scritto che la
partecipazione alla Resistenza e l’appoggio offerto ai
Comitati di liberazione nazionale, fu la risposta più
logica all’interrogativo di come agire nel presente per
affermare la propria testimonianza cristiana. Il senso
dell’onore patriottico leso e il rifiuto di un ordine dai
princìpi disumani contro cui era necessario rivoltarsi, furono
espressi in un lungo e intenso articolo di Teresio Olivelli
apparso sul secondo numero del giornale clandestino
d’orientamento cattolico Il Ribelle. Vi si legge:
“Ribelli: così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo”. Il
foglio delle Fiamme Verdi poi proseguiva: “Non
recriminiamo ci ribelliamo. Contro l’oppressore che del nostro
paese martoriato fa strumento di una guerra non sua, dei
palazzi e dei casolari terra bruciata, che freddamente e
cortesemente ci spoglia di tutte le nostre ricchezze e ci
irrora del suo superiore disprezzo; l’oppressore che ci
scaccia per strade e campagne e in vagoni bestiame ammassa
uomini e donne, animali da lavoro per le fucine tedesche, la
guerra tedesca, l’affamamento tedesco”.
Ma la
rivolta era estesa anche contro coloro che spalleggiavano
lo straniero utilizzando metodi niente affatto diversi e su
cui gravava la responsabilità di quei tragici eventi : “Non
potevamo credere che dopo tanta putrefazione, dopo sì pauroso
fallimento i responsabili del disastro avessero
l’improntitudine di presentarsi sui carri armati dell’invasore
a profanare ed immiserire ancora una volta la nazione da cui
ebbero i natali”. Secondo Enrico Mattei, che prese parola
al I° congresso della Dc nell’aprile del 1946 per affrontare
l’argomento della partecipazione alla Resistenza, le
forze messe in campo dai cattolici furono nell’ordine di
65.000 uomini distribuiti in 180 brigate o unità
corrispondenti destinati a toccare la punta di 80.000 nella
fase preinsurrezionale. La valutazione di Mattei è certamente
superiore alla reale consistenza delle formazioni cattoliche
le quali rappresentarono solo il 15 per cento
dell’organizzazione militare partigiana. Per stimarne il loro
apporto numerico alla fine della lotta di liberazione si tenga
conto che il totale dei combattenti all’inizio del 1945 può
essere valutato nell’ordine di circa 130.000 uomini destinati
a toccare la cifra di 200.000 a metà dell’aprile
successivo. Di diretta creazione democristiana furono le
Brigate del Popolo la cui organizzazione fu avviata
però solo nell’estate del 1944 e che mantennero una diffusione
prevalentemente cittadina. Un peso più consistente ebbero in
genere quelle formazioni autonome, o apartitiche, che sorte in
modo del tutto spontaneo si collegarono alla Democrazia
cristiana solo in un secondo momento. Tra queste le
formazioni più importanti furono certamente le Fiamme
Verdi, nate dall’idea del tenente degli alpini di Riva del
Garda Gastone Fianchetti. Dal 25 ottobre del 1943 furono
comandate da Romolo Ragnoli il quale aveva già organizzato e
costituito nel Bresciano la Brigata Tito
Speri.
A
metà novembre del 1943 i delegati delle province di
Brescia,Trento, Milano, Padova, Lecco, Como e Sondrio
stesero il regolamenti e l’organizzazione divenne a tutti gli
effetti operativa. Le Fiamme Verdi si diffusero in
diverse altre zone dell’Italia settentrionale anche se i
centri più importanti furono la Lombardia e l’Emilia.
Nonostante il difficile rapporto che si instaurò fra loro e le
Brigate Garibaldi condussero una decisa azione militare
che permise a questo raggruppamento di tenere testa alla
temuta e violenta formazione repubblichina Tagliamento.
Diretta espressione del loro orientamento fu il foglio
clandestino Il Ribelle che, contando su squadre di
distributori ben organizzate e su un diffuso entusiasmo, fu in
grado di raggiungere tutti i maggiori centri del nord Italia,
penetrando largamente in Emilia, in Lombardia, nel Veneto, in
Piemonte, arrivando, per lo meno fino a quando fu possibile, a
Roma e anche in Svizzera dove era riprodotto dalla Squilla
Italica. Un altro raggruppamento assai noto è quello
rappresentato dalle formazioni Osoppo. Il loro nome
affonda le radici nel vivo del Risorgimento in quanto fu
assunto in memoria della ferma resistenza opposta agli
austriaci su quella fortezza nel corso della prima guerra
d’Indipendenza. Esse operarono nel Friuli udinese
raccogliendo molti aderenti anche nelle zone di Portogruaro e
in Valle Oderzo. Sorta dal confluire di gruppi azionisti e di
altri autonomi, la divisione Osoppo nell’estate del
1944 giunse a contare 5 brigate e 28 battaglioni per un totale
di circa 2.000 uomini. Assieme alla divisione Garibaldi
Natisone fu artefice della creazione delle zone libere
della Carnia e del Friuli che insieme costituirono
l’esperienza più longeva di repubbliche partigiane tra quelle
sorte durante l’estate del 1944.
Nel settembre dello
stesso anno, alla vigilia dei grandi rastrellamenti
autunnali, la sua forza numerica si era accresciuta a tal
punto da rendere necessaria la creazione di una seconda
divisione che assunse compiti logistici e di supporto ai
raggruppamenti di montagna. Le Osoppo furono impegnate
in una delle zone del territorio occupato più dure, sia perché
sottoposta al diretto controllo del Reich sia perché
attraversata da profonde lacerazioni etniche e dalle
rivendicazioni territoriali avanzate dai partigiani titini
appartenenti al IX corpus jugoslavo. Un altro settore a
forte presenza cattolica fu il Parmense dove su un
totale di 22 brigate operanti la metà erano democristiane o
formate in prevalenza da cattolici. Nel centro e nel nord
dell’Emilia erano invece influenzate dalla Dc la
Prima e la SecondaBrigataItalia,
la Brigata Orlandini e altre formazioni autonome. Tra
il Piemonte e la Lombardia operò il raggruppamento
Divisione Di Dio dal cui comando dipendeva la
Divisione Alto Milanese, organizzata secondo schemi
sappisti, (che ricalcavano quelli delle Squadre d’azione
partigiana), la quale svolse un ruolo prezioso per ciò che
concerne l’appoggio logistico e il mantenimento dei contatti
fra le zone industriali lombarde e le organizzazioni
partigiane di montagna. All’interno dello schieramento
partigiano i contrasti e gli attriti tra i raggruppamenti di
diverso colore non furono certo cosa rara. Tra le formazioni
d’ispirazione cattolica e le Garibaldi di tendenza
comunista le polemiche nascevano dal diverso modo di
interpretare la guerra in corso. Mentre le seconde rivolgevano
alle prime l’accusa di attesismo, queste criticavano il modo
spregiudicato con cui i comunisti intendevano e applicavano la
lotta contro il nemico. Tali controversie portarono a momenti
di alta tensione ed ebbero sviluppi strettamente connessi alle
singole realtà locali e alle rivalità esistenti fra i diversi
raggruppamenti. L’episodio più drammatico di questa
conflittualità, e autentica zona grigia della
Resistenza, è certamente individuabile nei fatti
avvenuti a Porzus nel febbraio del 1945 quando alcuni
componenti della formazione gappista 13 martiri di
Feletto passarono per le armi 21 partigiani delle
formazioni Osoppo fra i quali il comandante Francesco
de Gregori e il commissario politico Gastone
Valente. I giudizi sui cattolici delle forze in
campo. Il contributo fornito dai cattolici nella
lotta di liberazione è messo bene in evidenza dai giudizi
espressi dalle forze protagoniste di quei mesi. Durante
l’intero periodo di vita della Rsi, le speranze dei
fascisti repubblicani di poter attrarre nella propria orbita i
cattolici non venne mai meno. Quest’ambizione, malgrado il
comportamento oscillante delle gerarchie, era però destinata
all’insuccesso. Nonostante la Repubblica sottolineasse la sua
fedeltà alla religione e alla Chiesa di Roma, doveva
Tra le forze della
Resistenza una particolare attenzione ai
cattolici fu prestata dal Partito
comunista
amaramente
prendere atto che nelle migliori delle ipotesi nei suoi
confronti era tenuto un atteggiamento quantomeno distaccato.
Ne derivò, dopo la proficua collaborazione del ventennio, un
sincero stupore per l’ingratitudine cui fecero seguito denunce
rivolte al clero e alle gerarchie ecclesiastiche che
riempirono sia i giornali della repubblica di Salò, sia i
rapporti dei suoi apparati militari e polizieschi. Per rendere
bene il clima bastano alcuni brevi esempi. Sul settimanale
Orizzonte Rolando Ricci scriveva : “Oggi il Vaticano si
comporta verso di noi da nemico”; sulla Sveglia
l’atteggiamento dei cattolici era stigmatizzato e reputato
meritevole di una severa punizione:
“Bisogna colpire
duramente e decisamente”; sul Regimefascista il ras Farinacci si esprimeva nei
seguenti termini: “Il nostro clero dimentica troppo spesso che
ha una patria nazionale e che ha il dovere di servirla,
come il clero delle altre nazioni, che non hanno il Papa in
casa loro. Sono nazionali i nostri sacerdoti e non
cittadini putativi del Vaticano”. Contemporaneamente gli
apparati repressivi, oltre a constatare il ruolo giocato dal
clero nel determinare il progressivo isolamento del fascismo,
si spingevano fino ad individuare nei cattolici i loro
peggiori nemici. In un notiziario della Guardia Nazionale
Repubblicana datato 1° marzo 1944, nel quale si proponeva
il rimedio di inviare fra il popolo cappellani militari di
provata fede fascista onde fare breccia fra le masse, si
legge: “Il clero ordinario svolge sempre larvatamente
propaganda contraria”. In un’altra relazione i cattolici erano
individuati come “il nostro nemico più inflessibile, meglio
preparato da secoli di imperialismo, più capillarmente
organizzatosi in 1900 anni di storia basata sul più falso
libro esistente”. Tra le forze della Resistenza una
particolare attenzione ai cattolici fu prestata dal Partito
comunista. Sul breve periodo l’obbiettivo perseguito dal
Pci era quello di rinsaldare il rapporto fra i due
partiti in modo da rafforzare l’unità stessa della
Resistenza. Contemporaneamente, guardando alla
ricostruzione, i comunisti ritenevano che senza la
collaborazione dei cattolici fosse pressoché impossibile
portare a termine una reale trasformazione della società. Nel
luglio del 1944, attraverso le pagine di La nostra
lotta, Eugenio Curiel auspicava una collaborazione che
avrebbe dovuto spingersi ben oltre il conseguimento della
liberazione del paese sottolineando l’importanza avuta dai
cattolici nel determinare i risultati fino ad allora raggiunti
dal movimento partigiano. Grazie all’apporto cattolico,
scriveva il giovane intellettuale triestino, si era
“rafforzata la profonda solidarietà che lega ai partigiani i
contadini e i valligiani; il loro appoggio ha fatto clamoroso
il fiasco delle leve forzate della sedicente Repubblica
sociale; il loro appoggio ha dato compattezza maggiore ai
grandi scioperi”.
La collaborazione era fissata
attorno a princìpi condivisi quali l’affermazione della
democrazia, il miglioramento del livello di vita delle masse e
la tutela della famiglia. L’impostazione fu ribadita anche nel
mese successivo quando, sempre su La nostra lotta
pubblicata la Dichiarazione del Pci sui rapporti fra
comunisti e cattolici. Ma nell’estate del 1944 qual’era la
situazione interna della Dc? Solo pochi mesi prima
delle proposte di collaborazione a lungo termine avanzate dal
Pci, sul numero 20 dei Quaderni dell’Italia libera,
l’azionista Vittorio Foa scriveva: “L’attività del partito
democratico-cristiano è disuguale nelle varie regioni,
disuguale come quantità di lavoro e anche come orientamento
politico. Questa disuguaglianza dipende dal fatto che la
Democrazia cristiana, che sarà domani un partito di
massa, oggi, salvo in qualche regione, non lavora fra le
masse. Essa si preoccupa di non compromettere nulla e quindi
di non impegnarsi troppo nelle questioni essenziali: ne
risulta una tendenza all’attesa che i tedeschi se ne vadano e
che la situazione si chiarisca, un’avversione al moto delle
masse, un atteggiamento che è, in sostanza, al di là delle più
o meno radicali determinazioni programmatiche,
conservatore.” I cattolici fra rinnovamento e
scelte moderate. Nata dal confluire al suo
interno d’esperienze e sensibilità diverse, la Dc fu il
centro di aggregazione del complesso panorama cattolico
italiano comprendente ex Popolari, credenti a vario
titolo impegnati nella lotta di liberazione ed intellettuali
formatisi all’interno dell’Azione cattolica nel periodo
fascista. Le linee programmatiche, come si è accennato, erano
state tracciate fin dall’indomani del 25 luglio, ma la
discussione e le elaborazioni teoriche continuarono durante
tutto il periodo della Resistenza evidenziando
orientamenti estremamente diversificati che risentivano della
diversa cultura di riferimento dei suoi
Paolo Emilio Taviani, nel
suo Idee sulla Democrazia Cristiana,
enfatizzò l’indirizzo progressista
elementi,
delle forti influenze locali e, per concludere, della
differenza d’esperienza che maturò in quei mesi tra coloro che
conducevano la propria battaglia politica in clandestinità nel
Nord Italia e quanti dispiegavano il loro impegno nel
Regno del Sud. Mentre in quest’area del paese si
delinearono impostazioni conservatrici, nel Nord occupato il
Partito accentuò il suo carattere democratico e al suo interno
furono elaborati programmi dal deciso contenuto progressista
in cui emergevano richiami più intransigenti ai valori della
democrazia, della libertà e dell’antifascismo. Un indirizzo
così avanzato che raramente avrebbe potuto essere riconosciuto
e fatto proprio da un iscritto o da un simpatizzante che fosse
arrivato nell’Italia occupata dal centro-sud. Paolo Emilio
Taviani, ad esempio, nel suo Idee sulla Democrazia
cristiana enfatizzò l’indirizzo progressista che avrebbe
dovuto assumere il nuovo partito spingendosi a chiedere
l’esclusione da questo dei cattolici conservatori. Per lui la
Democrazia cristiana avrebbe dovuto essere un partito
dominato dall’ansia di rinnovamento e collocato a sinistra per
sua natura. Decisamente avanzati erano anche i programmi del
gruppo democristiano vicentino, alla cui testa vi era Mariano
Rumor, che nello scritto Essenza e programma della Dc,
prendeva una chiara posizione in favore di un sistema
repubblicano rivendicando nel contempo la formazione di un
apparato statale dotato di ampie autonomie
politiche.
A questi esempi potrebbero aggiungersene
diversi altri come il Pensando al domani del gruppo
democratico cristiano di Padova, l’opuscolo Democrazia
Cristiana edito in Emilia da Achille Pellizzari, o la
Lettera ai parroci di Giuseppe Dossetti. In tutti
questi manifesti della Resistenza cattolica traspare un
profondo anelito di rinnovamento sociale e una critica decisa
nei confronti delle distorsioni del sistema economico liberale
che avrebbe dovuto essere corretto, in nome della giustizia
sociale, grazie a larghi interventi dello Stato. Nel caso
dello scritto di Dossetti, la critica al liberalismo era
accompagnata dall’invito ad un’ampia partecipazione dei
cattolici alla politica e dal progetto di aprire con i
comunisti un serrato confronto critico non immune da possibili
collaborazioni dato che, a suo giudizio, il pericolo maggiore
per uno sviluppo rispettoso della persona umana era costituito
dal liberalismo. Nel suo complesso, però, come era stato
ben evidenziato da Foa, la Dc svolgeva un ruolo
essenzialmente conservatore per via sia della sua debolezza,
sia dei progetti per il futuro elaborati dal centro romano.
Sotto il primo punto di vista è bene rilevare come il partito
dei cattolici, privo di organizzazioni di rilievo nelle
fabbriche e saldato alle formazioni partigiane in modo
alquanto modesto, si trovava collegato alle masse, più che per
le proprie strutture organizzative, potendo confidare quasi
esclusivamente sulla secolare rete ecclesiastica presente in
modo capillare sull’intero territorio. Il timore del pericolo
comunista, inoltre, comportò l’assunzione di una linea
politica che doveva essere la più misurata possibile evitando
ogni radicalizzazione che avrebbe potuto sottrarre consensi,
sia a destra sia a sinistra, alle forze
moderate.
Sotto tale luce va vista ad esempio la
mancanza di una chiara posizione sulla questione
istituzionale che rischiava di produrre una frattura
insanabile all’interno dello stesso mondo cattolico e la
politica assunta in seno ai Cln respingendo l’ipotesi,
sostenuta dalle sinistre, di affidare a tali organismi un
compito centrale nella futura ricostruzione del paese. Questa
linea non poteva certamente soddisfare le componenti più
avanzate della Dc, le cui prospettive di rinnovamento
furono in gran parte frustrate con il progressivo venir meno
del cosiddetto vento del Nord. Sintomatico il fatto che
fin dal gennaio del 1945 si costituì all’interno del Partito
un’ala sinistra che contestava la “politica sostanzialmente
monarchica e conservatrice” portata avanti dalla direzione. Il
gruppo dirigente della Dc, guidato da un De Gasperi
attento a non ripetere gli errori compiuti dal Partito
popolare, riuscì ad imporre la sua linea evitando che il
mondo cattolico si esprimesse attraverso più formazioni
partitiche facenti riferimento al cristianesimo, accentuò
l’interclassismo del Partito e conquistò gradatamente
l’appoggio della Chiesa rassicurandola sugli esiti della
svolta democratica in atto. Nel corso della
Resistenza, De Gasperi riuscì a mediare fra le diverse
anime del Partito rafforzandone le strutture in modo tale da
renderlo pronto ad occupare il più possibile il vuoto politico
lasciato dalle forze liberali e dotandolo di organismi capaci
di catalizzare l’orientamento delle masse moderate. Se i
progetti di rinnovamento più radicali sul piano sociale furono
così condannati all’insuccesso, non riuscirono però neppure ad
affermarsi quelle correnti più conservatrici che facevano
dell’anticomunismo la loro unica bandiera e che rischiavano di
rendere la Dc un semplice partito reazionario. Il
risultato finale, ottenuto seguendo un percorso non lineare e
carico di un significativo travaglio interno, fu quello di una
scelta democratica da parte dei cattolici che, comunque,
poteva dirsi sotto tutti i punti di vista definitiva e
irreversibile.
Con la loro partecipazione alla
Resistenza in forma di opposizione civile ma anche
di lotta armata, i cattolici accelerarono questo processo e,
contrariamente a quanto era avvenuto nel corso del
Risorgimento, presero parte alla rinascita dello Stato
determinando, soprattutto nelle campagne e grazie al ruolo
giocato dal clero periferico che assunse il ruolo di esempio e
di guida per intere comunità, un importante allargamento della
Resistenza stessa affinché potesse diventare a tutti
gli effetti lotta di liberazione popolare.