PATRIARCATO DI VENEZIA

PASTORALE SPOSI E FAMIGLIA

 

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SCHEDE PER LA RIFLESSIONE

in preparazione della

XV ASSEMBLEA DEGLI SPOSI

BASILICA DELLA SALUTE - SEMINARIO

1 ottobre 2000

 Ministero sacerdotale degli sposi 

nella storia della salvezza.

 

 

SOMMARIO

 

la STORIA DELLA SALVEZZA

don Silvio Zardon

 

GESU' CRISTO SOMMO SACERDOTE E IL REGALE SACERDOZIO DEL SUO POPOLO

don Silvio Zardon

 

IL MISTERO SACERDOTAL DEGLI SPOSI

 

don Germano Pattaro

 

IL Momento liturgico del ministero sacerdotale degli sposi

 

La Liturgia dell'Offertorio

 

La Liturgia della Consacrazione

 

DUE TRACCE PER LA RIFLESSIONE PASTORALE NEI GRUPPI

 

Come siamo giunti alla XV Assemblea

 

Riflessioni sul tema: Storia degli sposi - Storia della salvezza

 

la STORIA DELLA SALVEZZA

 Il Dio della rivelazione giudeo-cristiana è il Dio della storia, il Dio vivente che agisce nella storia.

Per la Scrittura Dio è “spirito”.  Ma Dio appare non solo come intelligenza, bensì insieme come  volontà libera che agisce, già “in principio”, quando crea per mezzo della Parola e,  nel corso della storia del popolo di Dio, quando rivolge la sua stessa Parola all’uomo. E dall’uomo Dio aspetta una risposta di fede che sia consenso, obbedienza e partecipazione alla sua opera, risposta che, in definitiva, sia accoglienza del suo Amore.

Così, quando la Scrittura afferma che Dio è eterno, con questo termine non intende la negazione del tempo, quanto la sua signoria su di esso. E’ il pensiero ricorrente di Isaia: “Ascoltatemi, o Giacobbe, o Israele, da me chiamato. Sono io, io sono il primo e sono pur l’ultimo. Sì, la mia mano ha posto le fondamenta della terra, la mia destra ha disteso i cieli; io lo chiamo ed eccoli tutti in piedi” (48,13-13).

 Infine, nell’evento dell’Incarnazione Gesù Cristo, il Verbo che è “in principio”, manifesta subito di voler personalmente partecipare alla storia dell’umanità, per ricondurla a Dio dopo aver adempiuto il disegno del Padre: è la Storia della Salvezza!

  La storia della salvezza

La storia della salvezza, quindi, pur essendo in sé soprannaturale – il protagonista è Dio -, non solo non è estranea alle vicende umane,  ma si  manifesta così che esse sono destinate a farne parte nella loro integralità.

Così la storia umana rientra nel disegno salvifico di Dio e l’azione dell’uomo si inserisce in un disegno più universale e più profondo: il Regno di Dio.

 Da ciò viene la conseguenza che il mondo e quindi l’azione da noi rivolta alla trasformazione di esso, non possono più essere considerati puramente naturali. Nel mondo è presente l’azione salvifica di Dio, che lo apre al suo Regno.

  Nulla succede per caso

Dunque, nella storia del mondo nulla succede per caso, tutto è legato allo sviluppo di un progetto di Dio.

Il mondo della storia può diventare per noi oggetto dello sguardo della fede. Con essa  potremo scoprire, dietro le apparenze esterne, le manifestazioni del disegno salvifico di Dio, della storia della salvezza.

Il credente, il profeta in particolare, potrà essere in grado di percepire, mediante il dono della fede che gli viene donata da Dio, la realtà dello Spirito nascosta nel mondo. Di fronte ad un evento politico, sociale, scientifico, si chiederà: in quale misura e in quale modo tale realtà appartiene alla storia della salvezza, al Regno di Dio?

Purificare la fede.

Dunque, la storia del mondo possiede una “interiorità spirituale” che possiamo intravedere e alla quale partecipare.

Ma i segni della presenza di Dio nel mondo non sono sempre così leggibili da apparire a tutti come tali; spesso si presentano mescolati in modo inestricabile non solo con gli elementi naturali ma anche con le manifestazioni del peccato di noi uomini.

Occorre perciò purificare la nostra fede.

  La fede cristiana.

Per determinare il significato profondo della fede, seguiamo la Lettera agli Ebrei, per la quale  è proprio della fede guidare l’uomo al di là delle realtà visibili, fino al loro fondamento invisibile: ”La è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”   (Eb 11,1).

L‘itinerario di fede dalle realtà visibili a quelle spirituali  procede in vari modi.

Da una parte, il nostro atto di fede ci porta ad andare oltre, a trascendere ciò che è visibile, quando guardiamo la realtà creata: l’intelligenza non può  fermarsi alla realtà visibile e tangibile, ma passa oltre a discernere il fondamento invisibile: “Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla Parola di Dio, sì che  non da cose visibili ha preso origine quello che si vede” (Eb 11,3).

E, dall’altra, molto più originale risulta il nostro atto di fede circa la disposizione di Dio riguardo alla vita del singolo uomo. Così Abramo deduce che la propria vocazione è il compimento di una volontà di Dio che rimane segreta: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).

La vita di fede è fondata sulla “promessa” di Dio, ed è sempre una scommessa sul futuro dell’uomo. Di  tale promessa, il segno caratteristico nell’AT è la manifestazione della signoria di Dio sulla vita:  quando egli dà fecondità alla donna sterile (Eb 11,11-12).

Per sintetizzare l’atteggiamento di fede, possiamo ricorrere all’espressione dell’autore della lettera agli Ebrei che definisce così la fede di Mosè: “Per fede lasciò l’Egitto, senza temere l’ira del re, rimase infatti saldo, come se vedesse l’invisibile” (Eb 11,27).

 L’uomo di fede, allora, pur non potendo vedere la presenza di Dio e la sua azione, agisce come se la discernesse chiaramente al di là delle apparenze.

Fede e storia

Ma nella fede, il fondamento trascendentale non nega la realtà storica, bensì ne scopre la sostanza spirituale: Dio che manifesta il suo essere e la sua volontà nella creazione e nella storia.                         

Credere, quindi, non è tirar fuori dalla realtà visibile e storica un pensiero, una idea, ma è aderire ad una parola  che testimonia l’attività di Dio nel mondo, è percepire contemporaneamente la realtà storica in se stessa e quale manifestazione divina; è unirsi infine a Dio stesso, in quanto è fondamento attivo di tutto.

  Fede e Gesù Cristo 

Però, noi cristiani affermiamo che Dio non è conosciuto dall’uomo primariamente e principalmente attraverso una sua riflessione sul creato. La fede cristiana riguarda infatti la conoscenza di Dio rivelato in Gesù Cristo, pur senza escludere mai il creato e la sua storia: “Dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm 1,20; cf  Gv 14,9-10).

Fondamento di questo atto di credere in Dio è il Cristo, in quanto è un’unica Persona che possiede la condizione divina e la condizione umana (unione ipostatica). Contemplando il Verbo nella sua umanità, il cristiano, mediante la fede, aderisce alla realtà storica e alla realtà eterna: mediante la conoscenza della manifestazione corporale della persona umana di Cristo il cristiano giunge alla fede nella sua persona spirituale.

La Chiesa e i Sacramenti: una storia  che attende il banchetto nuziale.

In continuità con l’atto di fede nel Verbo incarnato, è l’atto di fede nei sacramenti, in particolare nell’Eucaristia. Anche qui il Verbo di Dio è presente nei segni del pane e del vino. Ma la sua presenza deriva dall’“azione sacerdotale” mediante la quale Cristo opera il cambiamento del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo sangue senza annullare le loro apparenze sensibili. 

L’atto di fede nell’Eucaristia porta il fedele a discernere, al di là dei segni sensibili (il pane e il vino), la realtà del Corpo e del Sangue di Cristo, e ad adorarlo e a dirgli grazie.                                                                   

Per concludere: questo “itinerario di fede” si snoda dal Dio ebreo/cristiano cui piacque rivelarsi sui sentieri della storia accanto all’uomo, dalla creazione fino alla pienezza dei tempi in cui la nostra fede trova fondamento e ragione storica ed esistenziale che, tramite la grazia sacramentale e la presenza dello Spirito Santo nella Chiesa, prosegue sino all’attesa della sua seconda venuta.

                                                        

   AL SOMMARIO

Ma ecco nuovi perché riflettere sulla storia della salvezza.

All’interno del mondo cristiano si è avviato il passaggio da un’esperienza sociologica della fede (del tempo della cristianità) ad un’esperienza messianica evangelica della fede.

Con il Concilio Vaticano II la Chiesa, sempre guidata dallo Spirito Santo, ha avviato questo profondo spostamento dell’asse della coscienza ecclesiale da una polarizzazione di tipo socio-culturale ad una polarizzazione di tipo evangelico.

Questo movimento è dovuto, da un lato, alle trasformazioni antropologiche che sopravvengono nell’area della civiltà tecnologica nella quale viviamo la nostra, dall’altro verso, alle ormai maturata necessità della coscienza cristiana di discernere, dentro a queste trasformazioni,  i “segni” di fecondità del Regno di Dio che vi sono presenti. Un compito di discernimento che è fondamentale, anzi è l’esercizio comunitario della sapienza cristiana, è l’esercizio del compito profetico dei cristiani nella Chiesa.

Infatti, oggi, noi cristiani stiamo riscoprendo, certamente sotto l’azione dello Spirito Santo, che il Vangelo, manifestatosi compiutamente in Gesù Cristo, investe la totalità della vita, abbraccia la totalità delle attese umane nella concretezza della quotidianità.

Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio (4 e 5) – cui fa eco la “Nota Pastorale” dopo Palermo (21) – afferma che “discernimento evangelico” significa conoscere la situazione socio-culturale da parte della Chiesa e, in particolare, da parte anche degli sposi  cristiani, significa saper cogliere le richieste e gli appelli dello Spirito Santo, che risuonano negli stessi avvenimenti della storia.

Nel caso degli sposi la capacità profetica è addirittura sorretta da un segno sacramentale, quello del Matrimonio.

 


   AL SOMMARIO

GESÙ CRISTO SOMMO SACERDOTE

E IL REGALE SACERDOZIO DEL SUO POPOLO

                                                                 

Gesù una volta per tutte ha offerto se stesso

È la Lettera agli Ebrei che definisce Gesù “sacerdote”, anzi, l’autentico Sommo Sacerdote.

Gesù “compie” il sacerdozio antico perché non offre più sacrifici esteriori (era il compito del sacerdozio “levitico”), ma se stesso: “Egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso” (Eb 7,27). Questa perfetta dedizione di se ha valore permanente: “una volta per tutte” .

  Quello di Gesù Cristo e’ il vero culto dell’umanità .

Questo è il commento del card. J. Ratzinger: “Ciò che, visto con occhi terreni, si presentava come un avvenimento meramente profano, è in realtà il vero culto dell’umanità, poiché colui che ne fu protagonista sbrecciò la staccionata chiusa della cerimonia liturgica, trasformando quest’ultima in una genuina realtà: donando e sacrificando se stesso. Egli strappò di mano agli uomini le offerte sacrificali, sostituendovi la sua personalità, il suo stesso “io” donato in olocausto.

Se, tuttavia, in Ebrei si afferma ancora che Gesù ha operato la redenzione con il  “suo sangue” (Eb 9,12), questo sangue non va inteso come un dono materiale, come un mezzo espiativo da misurarsi quantitativamente, bensì come la pura concretizzazione di quell’amore che ci viene additato come spinto sino all’estremo: “Prima della Festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).

Esso è l’espressione della totalità della sua donazione e del suo servizio, l’implicita asserzione del fatto che egli offre né più né meno che se stesso.

Il gesto dell’amore che tutto dona: questo e soltanto questo ha costituito – secondo la Lettera agli Ebrei – l’autentica redenzione del mondo; per cui, l’ora della Croce rappresenta il giorno della redenzione cosmica, la vera e definitiva festa della Riconciliazione. Non esiste altro culto né altro Sacerdote all’infuori di quello che lo ha compiuto: Gesù Cristo” (J.Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, p.232).

  Un popolo di sacerdoti: laici e ordinati.

Dunque, Gesù Cristo al sacrificio cultuale, offerto dagli uomini (dai sacerdoti “levitici”), ha sostituito il sacrificio perfetto del dono di sé; al culto sacerdotale consumato in un santuario ha sostituito il cammino fatto di sacrificio che egli stesso ha percorso sino alla fine per obbedienza, offrendo il suo corpo e il suo sangue perché anche “i suoi”, divenuti “suoi” dal suo sacrificio, potessero accedere con lui fino al Padre.

Non solo, ma l’“unzione”, che è lo Spirito dato a Gesù Cristo e da Lui donato ai credenti mediante il Battesimo e la Confermazione, Cristo l’ ha estesa a tutti i fedeli nella Chiesa (1 Gv 2,20) e raduna a sé tutti i battezzati in “popolo di Dio” , nel quale ognuno è membro del “popolo di sacerdoti” (Gv 4,21-24).

Non si tratta certo del sacerdote nel senso di presbitero e della sua funzione sacramentale.

Sacerdote del “regale sacerdozio” (ogni battezzato e cresimato) è colui che partecipa al sacerdozio di Cristo, che lo rende capace di offrire in sacrifico la totalità della propria vita e del proprio essere. Il battezzato è sacerdote della sua esistenza.

Dalla realtà del popolo sacerdotale, sempre solo per l’iniziativa di Dio, alcuni vengono tratti e stabiliti come vescovi e presbiteri. Si tratta della diversità dei ministeri all’interno del corpo sacerdotale; essa è solo funzionale. Sono, infatti chiamati a esercitare il “ministero pastorale” per prestare nella comunità il servizio di pastore-guida, a presiedere la vita e la crescita della comunità e del suo “sacrificio spirituale” ( cf PO 2).

Sacerdoti del regale sacerdozio, i credenti battezzati, sono coloro che partecipano al sacerdozio di Cristo,  non in ragione di ruoli sacri, ma del suo essere santificato.

Essi rappresentano un luogo ecclesiale, che è in pari tempo il mondo e la Chiesa. Non hanno potestà  di celebrare i sacramenti, però la loro sfera è la vita di grazia.

Si tratta di una “liturgia cosmica” nel mondo, operante per la sola presenza dei battezzati, appunto i “santificati”  mediante il Battesimo e la Confermazione. Ciò che bandisce ogni elemto profano del mondo è la missione realizzata dalla vita, dalla realtà sacerdotale, per sua stessa natura.

E’ nell’umano, sotto tutte le sue forme, nel sociale, che i laici recano la luce trinitaria, la grazia ricevuta e offerta al mondo. 

 

Liturgia eucaristica e vita quotidiana

Durante la celebrazione liturgica, il presbitero dice presentando l’offerta: “Ti offriamo ciò che è tuo”. Il fedele del sacerdozio regale continua un’azione “fuori le mura”, egli continua a celebrare la liturgia con la vita di tutti i giorni. La sua presenza nel mondo è come una perenne “invocazione dello Spirito” (epiklesis) sul giorno che comincia, sul lavoro e sui frutti della terra, sulla ricerca dello scienziato il cui sguardo è purificato dalla preghiera.

I cuori puri vedranno Dio e Dio si farà vedere per mezzo di loro.

Nell’eucaristia il sacrificio spirituale della chiesa

Il sacrificio “per lo Spirito Santo”  (Eb 9,14; cf Rm 1,4ss) di Cristo suscita l’offerta spirituale della Chiesa operante nell’Eucaristia. La Chiesa trova qui il principio e la ragione per fare di se stessa “sacrificio spirituale” a Dio: e in tal senso partecipa al sacerdozio di Cristo (cf nel Messale Romano la liturgia della presentazione dei doni e la Preghiera eucaristica).

Tutti i doni e le funzioni ecclesiali, in quanto sono ordinati all’edificazione della Chiesa,  sono per ciò stesso ordinati al culto spirituale; e quindi sono in vario modo doni “sacerdotali”.

E’ quanto afferma il Concilio nella Lumen Gentium (10): “Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini (cf Eb 5,1-5), fece del nuovo popolo “un regno e sacerdoti per il Dio e Padre suo” (Ap 1,6; cf 5,9-10). Infatti, per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di Colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce (cf i Pt 2,4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cf At 2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cf Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della loro speranza della vita eterna (cf 1 Pt 3,15)”.

   AL SOMMARIO

 

Il MINISTERO SACERDOTALE DEGLI SPOSI

don Germano Pattaro .

 

NELLA VITA CONIUGALE E FAMILIARE.

 Espressione del loro ministero sacerdotale, gli sposi  rioffrono a Dio il suo dono dell’amore elevato a “segno di grazia”.

L’amore coniugale, elevato a “segno” di grazia, deve radicalmente essere vissuto come dono di Dio. Esso è chiamato, perciò, in un movimento “liberante” che lo apre al Signore di questa grazia per “dargli lode”. Si vuol dire che la logica del donarsi di Dio chiede a chi lo riceve in dono di ridonarsi continuamente a Lui. Per dirGli, appunto, “grazie”.

Un’attitudine, quindi, richiesta vocativamente agli sposi, perché essi stiano nello stupore di Dio che è entrato nel loro cuore e nella adorazione della sua presenza attiva ed efficace.

Ministero di lode e di ringraziamento .

Ma al modo come Gesù, che vive il proprio ministero sacerdotale come perenne “rendimento di grazie” al Padre che, inviandolo presso gli uomini, lo ama e gli chiede di stare in questa obbedienza amandolo. Per questo il “ministero coniugale” sollecita chi è sposato nel Signore ad assumere questo atteggiamento profondo e farne il filtro portante dell’intera sua esistenza.

Gli sposi, di conseguenza – va qui ripreso un pensiero costante- quando dialogano tra di loro, il loro amore dialogante è insieme un dialogo amante con il Signore del loro patto. Il che, ed è lo stesso: quando essi dialogano con Dio dall’interno dell’amore orante, dialogano pure tra di loro.

Traducendo: tale dialogo, se così si può dire, è un continuo parlarsi a tre in una reciprocità garantita dall’Alleanza Sacramentale. Dialogare, infatti, è parlare e ascoltare, è comunione ed incontro. è un venire l’uno all’altro senza mai spezzare il movimento che lo genera. Una preghiera, quindi, quale apertura radicale del cuore,  in modo che l’esistenza ne venga avvolta in ogni sua tonalità.

  La preghiera sacerdotale degli sposi come “sacrificio spirituale”.

Questa preghiera, dunque, intesa in maniera “sacerdotale”. Nel senso che si dilata nell’estensione della quotidianità vissuta, penetrandola così che essa diventi “sacrificio spirituale”. Al modo come dice l’Apostolo Paolo: “Vi esorto, dunque fratelli, ad offrire voi stessi a Dio in sacrificio vivente a Lui dedicato e a Lui gradito. E’ questo il vero culto che gli dovete” (Rm 12,1).

  Dentro la realtà “usuale”.

Un’offerta, quindi, vissuta sotto il segno dell’amore, in aderenza alla linea dell’ ”usuale”; spesso banale, ripetitivo, apparentemente generico e senza punte emozionali. Trasformando il non eccezionale, per non subirne la monotonia che isterilisce, con un cuore sempre nuovo, che manifesta per grazia tutta la forza dell’Incarnazione nello spessore dell’esistenza, nel suo essere esistenza qualsiasi.

Dentro perciò le gioie, le speranze, i dolori e le tribolazioni della coniugalità. Dentro pure i suoi fallimenti. Nutrendo il tutto di quella speranza che fa capo a Dio e vive nella fiducia discreta e forte della Sua promessa.

   

NELLA COMUNITA’ ECCLESIALE.

 Espressione del ministero sacerdotale degli sposi è promuovere tra i cristiani della comunità la consapevolezza del “dono”  dal Signore che è l’amore coniugale e il sacramento del matrimonio.

Come?

  Vivendo la propria vita come “sacrificio spirituale” a Dio gradito nell’Eucaristia.

Sulla stessa linea della “sacerdotalità” del ministero coniugale, gli sposi hanno il compito di richiamare l’attenzione della Comunità ecclesiale ad avere la medesima consapevolezza del dono ricevuto. A sapere, cioè, della possibilità data ai “diversi” di stare insieme per la forza liberante della grazia, così da convivere in “comunione-comunità”.

Dono, grazia, vocazione.

La comunità sponsale esercita questo ministero quando mostra concretamente la propria vita vissuta quale “sacrificio gradito a Dio”.

Inoltre, portando a Dio, nel pane e nel vino, l’offerta del frutto della terra e del lavoro dell’uomo.

Richiama in questo modo la Comunità credente all’Eucaristia, perché essa diventi veramente il luogo a cui Dio la invita. Non in maniera rituale e ripetitiva. Con genialità, invece. Nel senso che essa si raccoglie attorno a quella mensa e, nel “pane” e nel “vino”, porta il  “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”.

  Sempre nell’Eucaristia, gli sposi esercitano il ministero sacerdotale a favore della loro comunità ecclesiale offrendo a Dio, nel segno del pane e del vino, tutto “noi stessi”.

Porta, dunque, sé stessa e la quotidianità esistenziale del proprio vissuto concreto. Sfuggendo così alla tentazione di considerarla solo una parentesi benedetta, che lascia fuori le banalità della vita.

Vi porta la sua identità storica, datata, immersa nei problemi degli uomini con cui convive, per condividere con loro le situazioni e le esigenze di giustizia, di pace e di libertà. Vi porta il proprio discernimento davanti al Signore, perché il suo Spirito le dia di capire e di essere dentro questa solidarietà.

  In tal modo l’intera Comunità ecclesiale (e umana) si muove vivendo nella dinamica sacerdotale del “sacrificio spirituale”.

Lo testimonia attorno alla mensa eucaristica e lo alimenta alla sua stessa sorgente di comunione unificante. Impara, di conseguenza, ad avere un “cuore convertito” che scandisce quel ritmo di amore riconciliante che deve alimentare, attraversandole, tutte le situazioni dell’esistenza.

Con una genialità che viene dalla grazia liberante di Dio e trasforma il lavoro in ogni sua forma in preghiera di lode a Dio e di servizio agli uomini. Un amore, in grado di cambiare l’attenzione e l’attitudine. Per uscire da una mentalità di “parte” e dall’egoismo sempre strisciante e autointeressato ed entrare, convertita, in una disponibilità generosa che fa della carità interpersonale e sociale l’ottica del progetto stesso comunitario.

Con uno spessore, perciò, diversamente illuminato dalla fede che ritraduce la diversità con i suoi problemi in occasione di condivisione e di compartecipazione. Per ritrovare il morivo stesso della sua identità: essere davanti a Dio e con Dio una “comunità sacerdotale” che è tale perché coinvolta ed aperta e al suo proprio interno al dialogo orante e all’esterno in una carità del dialogo senza pregiudizi con gli uomini che Dio le ha offerto.

  

NELLA COMUNITÀ DEGLI UOMINI.

  Il ministero sacerdotale degli sposi a “servizio” degli uomini.

Un matrimonio vissuto con questa tensione ministeriale non può che essere conscio della sua missionarietà “a servizio degli uomini”.

Ciò che si è detto mostra come la sacerdotalità del ministero coniugale corra sulle linee umanissime dell’ “esistenza quotidiana”.

Essa chiede, infatti, agli sposi di vivere il massimo di incarnazione possibile. Non per un’esigenza di generosità, così da essere solidali con gli altri. Quanto perché non le è data altra possibilità e questa deve essere vissuta come una benedizione.

L’amore sponsale come “fine”, non come mezzo.

Gli sposi devono essere il “segno” credibile offerto a tutti da dentro l’esperienza di tutti, che la fatica e la speranza sponsali non vanno in alcun modo perdute. Fatti alla mano, essi sono in grado di testimoniare che l’amore ha certamente un prezzo, ma che questo merita di essere vissuto. In altri termini, l’amore è un bene la cui custodia è valore e qualità. Fine e non mezzo.

Meta, dunque, e tensione che chiede un coinvolgimento donante e paziente. Il prezzo può diventare positivo, perché fatto entrare in un percorso crescente, in grado di pagare bene a distanza.

   

Con umiltà e discrezione nella quotidianità e “insieme” .

In questo modo, con umiltà e discrezione, gli sposi vivono il loro matrimonio in vicinanza relazionale con tutti. Mostrano, quindi, con l’esperienza da tutti riconoscibile, che l’amore rende possibile ogni sacrificio. Esso va, dunque, vissuto lì dove sta, senza cedere a fantasie illusorie e a fughe solo sognanti.

La sua misura è, appunto, la quotidianità. il “nuovo” di esso sta nel cuore di chi lo vive e mai nell’eccezionalità dei fatti. Per questo l’usualità lenta del quotidiano è il suo clima più naturale e congeniale. La qualità si fa strada nel modo con cui gli sposi vi entrano, per mostrare che l’amore è il bene-fine per attraversare “insieme”, con serietà e senza avvilimenti, le vicende del vissuto giorno per giorno.

 

È proprio del ministero sacerdotale degli sposi cristiani testimoniare che l’amore-fine è reale, è possibile, è l’amore sponsale vero.

Ciò chiede agli sposi cristianamente consapevoli di essere i portavoce di questa possibilità reale. Lavorando con quanti sono impegnati a costruire le condizioni morali, civili e sociali che educano a questa consapevolezza personale e personalizzante chi si sposa.

In modo che il Matrimonio ricuperi, a suo proprio fondamento, l’amore-fine che chiede l’essere adulto degli sposi e non sia degradato a puro costume sociale, che ne fa scattare meccanicamente le possibilità per ovvio diritto di età. Una determinazione questa che maschera i modi solo formali e retorici con cui il Matrimonio è oggi presentato.

Facendo capire che, fra l’altro, la scelta di molti per la “convivenza”, data la inattendibilità della “coppia” giuridicamente e religiosamente confermata. Con quanto una simile consapevolezza chiede di responsabilità e di esame di coscienza alla società e ai cristiani in essa.

     AL SOMMARIO

IL MOMENTO LITURGICO DEL MINISTERO SACERDOTALE DEGLI SPOSI  

LA LITURGIA DELL’OFFERTORIO E DELLA CONSACRAZIONE

  La Liturgia eucaristica consiste essenzialmente nel sacrificio conviviale, che, sotto i segni del pane e del vino, rappresenta e perpetua il “sacrificio pasquale” di Cristo Signore.

La celebrazione eucaristica è il tempo in cui l’uomo si volge con riconoscenza verso il Signore per dedicare a Lui la sua vita.

I momenti principali della Liturgia eucaristica sono due: la grande “Preghiera Eucaristica”, nell’ambito della quale si offre e si compie il sacrificio; e la “Comunione eucaristica”, con la quale si partecipa pienamente al Sacrificio stesso. 

Ci fermiamo ora solo a riflettere sulla grande “Preghiera Eucaristica”, nei suoi due momenti: l’Offertorio e la Consacrazione.

 

     AL SOMMARIO

LA LITURGIA DELL’OFFERTORIO    

Dal Messale:

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te, perché diventi per noi bevanda di salvezza.

  Nella Liturgia dell’Offertorio, cominciamo con l’offrire a Dio il pane e il vino, come tali, poi offriamo “noi” stessi sotto il segno del pane e del vino.

L’OFFERTA DEL “PANE E DEL VINO” - Possibili significati per questa offerta.

  In un mondo di abbondanza, il pane ha quasi perso il suo significato vitale, non è più che un accessorio del pasto e spesso lo si butta via senza imbarazzo.

Ma in un mondo in cui è il nutrimento ancora necessario, dove spesso è raro, il pane riveste un carattere sacro: deve diventare carne di colui che se ne nutre.

Per mezzo del pane l’uomo partecipa alla vita della natura, dalla quale non può distaccarsi. “Frutto della terra e del lavoro dell’uomo”, il pane realizza la comunicazione tra l’uomo e il cosmo.

  Prendere il pane in piena consapevolezza, mangiarlo, diviene allora un gesto di comunione con la creazione, umile riconoscimento della “dipendenza” dell’uomo dall’universo.

Il pane frutto del lavoro umano per far sì che il lavoro, in ogni sua forma, si trasformi in preghiera di lode e di ringraziamento a Dio, e di servizio agli uomini.

Nelle famiglie si usava benedire il pane, in quanto alimento per la vita, e il rito metteva l’uomo nella sua relazione con Dio, riconosciuto  “sorgente” della vita e quindi dell’amore. Dio, vita e amore scoperti attraverso il pane, la più umile, ma necessaria realtà quotidiana delle persone di casa.

Gli evangelisti rammentano spesso i pasti di Gesù e come, quando pronunciava la tradizionale benedizione rituale: “Benedetto sei  tu, Signore, che ci doni questo pane”, esprimeva tutta la profondità del legame con colui che lui chiamava Padre suo.

L’offerta del pane per portare sull’altare anche situazioni di sofferenza. E’ vero, infatti,  che molte nostre tavole sono non di rado senza i naturali commensali; spesso sono chiuse e lo sconosciuto ne è escluso. Attorno al pane da condividere può succedere che le persone di una stessa famiglia si scoprono tra loro avversarie e non più fratelli, pur sposo e sposa, pur figli di uno stesso Padre.

Ma fortunatamente oggi possiamo anche dire che stiamo imparando a riconoscere nel pane uno strumento della riscoperta della comunione o della comunità, proprio a causa del pane che siamo quasi costretti dagli eventi a spezzare insieme. Stiamo imparando a riconoscere nel pane il veicolo della pietà, della compassione, della condivisione, proprio a causa del pane che si distribuisce nelle ore di miseria. Il sapore del pane condiviso non ha eguale! Anche questo pane si pone sull’altare!

I pasti di Gesù erano annuncio e germe di un mondo finalmente umano. Rendevano presente l’amore, il Regno. Nella condivisione del pane, lui condensava la Buona Novella, consegnava il suo segreto più profondo. Manifestava di quale spirito viveva. Per questo nella Cena ha scelto l’umile pane: nel pane consegnare se stesso, e nel pane restare eternamente presente nella nostra storia.

   

L’OFFERTA A DIO DI  “NOI” STESSI, SOTTO IL SEGNO DEL PANE E DEL VINO

  Il pane in sé ha, sì, un certo valore e significato. Tuttavia, l’uomo mettendo sé stesso nel dono del pane, ne arricchisce valore e significato. Purtroppo, non sempre aumentano di molto, forse  diminuiscono,  noi uomini siamo poveri peccatori.

Facciamo l’offerta-sacrificio di noi stessi nel pane, allora, perché vogliamo riconoscere che la vita umana è un dono di Dio e cerchiamo, a nostra volta, di offrirla a lui.

Il Concilio chiede ai battezzati di offrire sé stessi al Padre per essere perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro per mezzo di Cristo mediatore (LG 11; PO 5 e 6);  quasi eco della disposizione di Mosè agli ebrei: “Nessuno osi presentarsi al mio santuario a mani vuote” (Es 23,15).

Ciò significava: nessun ospite, invitato a pranzo o a cena, può presentarsi con disinvoltura senza un regalo o a mani vuote, tanto più quando si è ospiti di Dio, perché invitati al suo banchetto.

Nella Lettera agli Ebrei si mette in valore il sacrificio-offerta di sé, fondato sul dono totale della volontà, in risposta all’amore di Dio.

Ricordiamo che a questa forma di sacrificio si richiamavano con tutta l’anima i profeti: niente è più gradito  a Dio da parte dell’uomo che fare la sua volontà, praticare la giustizia, camminare umilmente con il suo Dio (cf Mc 6,6-8).

Un simile sacrificio fu portato a compimento da Gesù: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo… per fare, o Dio la tua volontà” (Eb 10,5-7).

  La volontà di Dio : questa è da amare totalmente, fino alla morte, malgrado la morte.

Per mezzo di essa usciremo finalmente e definitivamente dal cerchio dell’odio e dell’egoismo.

Diverremo riflesso di Dio. Gesù è stato capace di questo sacrificio.

Lo stesso sacrificio di Abramo: egli offre il suo primogenito.  Non è il meglio che l’uomo può dare?

La conformità dell’uomo con Dio vale più di qualsiasi altra cosa.

Da qui soltanto, la gioia per essere uniti e per camminare con Dio.

È questo il significato del racconto del grande sacrificio di Isacco da parte di Abramo (Gn 22,1-18). Abramo ha obbedito all’ordine di Dio e la sua obbedienza è sufficiente a manifestare l’autenticità della sua fede in Dio. Il sacrificio del figlio non è più necessario, perché l’obbedienza perfetta gli è superiore: l’obbedienza vale più dei sacrifici!

Nell’offerta dell’unico figlio, del massimo che poteva dare, Abramo ha racchiuso tutti i doni possibili: che cosa avrebbe potuto dare più del figlio?

  Questa offerta è il paradigma di ogni “offerta liturgica” e di ogni dedizione dell’uomo a Dio, è l’oblazione totale di sé. Diventa capace dell’Amore gratuito di Dio.

Il fatto che Gesù dona tutto sé stesso nell’ultima Cena sotto la forma del pane e del vino, che i discepoli  mangiano e con cui prendono forza, è veramente fruttuoso, nel senso che dà frutti a chi ne mangia.

Abramo è benedetto nella discendenza, come il suo dono è radice di vita e di fecondità per tutti, così sarà di Gesù nell’ultima Cena. La distribuzione del cibo ai discepoli coincide con l’offerta della vita di Gesù preparata dall’offerta-dono di Abramo, la cui ricompensa da parte di Dio per la sua risposta divenne feconda per tutte le generazioni.

  Questo sacrificio ci svela  che è possibile una nuova relazione con Dio trascinandoci nel movimento del suo amore: per mezzo di questo sacrificio partecipiamo allo Spirito di Dio. Diviene possibile alla fine la vera comunione: quella dell’uomo con Dio, quella degli uomini tra di loro.

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LA LITURGIA DELLA CONSACRAZIONE.

Dal Messale.

Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi.

Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.

  Però, mentre recitiamo questa preghiera dell’offertorio, c’è nel nostro cuore un sommesso canto di gioia. Sappiamo che fra pochi minuti non ci sarà solo pane e vino e noi: ci sarà un Altro! e allora sì che il nostro sacrificio avrà valore.

Passano pochi minuti, ed eccoci ormai alla consacrazione.

Seguiamo ora il movimento della Messa per afferrarne il significato drammatico e poterci aprire alla sua azione redentrice – e nuziale – su di noi.

Vogliamo trovare il nostro posto in questo dramma umano-divino, vogliamo scoprire che cosa Dio aspetta da noi come cooperazione al suo atto di  redenzione compiuto per la nostra salvezza.

Vogliamo rispondere alla domanda: in fin dei conti, perché vado a Messa? Se voglio seguire Gesù che mi dice: “Fate questo in memoria di me”, sarà per unirmi totalmente a Lui, per fare con Lui ciò che egli stesso fa. Perché lui lo fa non solo per sé stesso, ma principalmente per me, e vuole che io lo faccia con lui.

La sua azione nella Messa è infatti soprattutto un’azione che vuol strapparmi a me stesso per far sì che m’immedesimi in lui, onde potermi portare con sé alla piena comunione del Padre.

Se io faccio qualche altra cosa, per buona che sia, non faccio ciò che Egli vuole da me in quel momento. E se non mi unisco nella fede e nell’amore alla sua azione redentrice per me, non ne divento partecipe. Una presenza soltanto fisica alla Messa giova poco.

L’importante, l’essenziale è di entrare con lui nel suo atto di salvezza per me. E quando mi trovo davanti alla consacrazione, e sono ben convinto che vengo alla Messa per farvi qualcosa, per prendere la mia parte nel dramma che essa attua, non posso non essere totalmente coinvolto in questo momento supremamente drammatico, e drammatico per me.

 

Sta per avvenire il “miracolo”

Non penso a quell’altro grande miracolo che mi darà il Corpo e il Sangue di Gesù.

Ma penso a ciò che Gesù farà in me nello stesso tempo. So che all’offertorio ho voluto offrire a Dio pane e vino, che per Dio non avevano grande valore e significato. Il significato l’ho aggiunto io, mettendo me stesso sotto il simbolo dei doni. Ed ora sarà Gesù a mettere il “valore” – quel valore che io non posso mettere nella mia offerta a Dio.

In questo momento pane e vino diventano Corpo e Sangue del Figlio di Dio che si dà in morte in un supremo atto di amore al Padre. Per il Padre, il Figlio è letteralmente il suo tutto. Per il Padre, questo Figlio, che si dà totalmente a lui sino alla morte in croce per puro amore, è dono assolutamente irresistibile.

 

Ecco allora cosa è successo: il mio povero dono di poco valore – pane e vino – è diventato il dono “semplicemente perfetto”  per il Padre.

Basterebbe già questo, ma la mia gioia incontenibile è un’altra.

In quel pane e vino io ho messo un significato – me stesso – e Gesù non solo ha dato il suo valore al pane e al vino: l’ha dato anche al “significato” del pane e del vino. Gesù ha preso “anche me” insieme col pane e col vino e ha cambiato “anche me“ in Sé stesso, anche a me ha dato valore di un dono irresistibile, il valore di Sé stesso mentre si offre al Padre sulla croce.

È questo che mi succede alla Consacrazione.

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DUE TRACCE PER LA RIFLESSIONE PASTORALE NEI  GRUPPI

a cura della commissione

 

 

COME SIAMO GIUNTI ALLA XV ASSEMBLEA

Gli sposi sono convenuti oggi in Seminario per continuare l’approfondimento iniziato insieme quattro anni fa nell’Assemblea di Quarto d’Altino sul tema del triplice “Ministero Coniugale profetico, sacerdotale e regale”, secondo le precise indicazioni del nostro Patriarca:  un compito fondamentale  della pastorale degli sposi e della famiglia è annunciare la ministerialità coniugale nella vita familiare, nella Chiesa e dentro la storia (cf GdS 60-52 e 70).

Il ministero coniugale è “ministero di rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini e dell’amore di Gesù sposo per la Chiesa sposa”, ed ha origine dal sacramento del matrimonio, che porta a compimento nella coppia il sacramento del battesimo .

Il matrimonio – è sempre il Patriarca a ricordarcelo - , oltre ad essere un dono di Dio per gli sposi e per la famiglia, è un dono per la comunità cristiana e per il mondo, perché gli sposi, in forza del loro ministero, non soltanto sono l’oggetto della sollecitudine pastorale della Chiesa, ma ne sono anche il soggetto attivo e responsabile, in una missione di salvezza che si compie con la loro parola, la loro azione, la loro vita. 

In forza del sacramento, Gesù Cristo associa al suo triplice ministero profetico, sacerdotale e regale gli sposi, “consacrati per essere ministri di santificazione e di edificazione” (cf ESM 44-47; LG 11; AA 11).

Ricordiamo che il tema della XIV Assemblea, nella ospitale parrocchia di S.Barbara, era il “ministero profetico”:  “Gli sposi? … fossero tutti profeti!”.

Ora, a questa Assemblea siamo convenuti, sotto la guida del nostro Patriarca, per pregare, per dialogare e  per individuare concrete iniziative pastorali, dopo d’aver riflettuto sul tema relativo il  Ministero sacerdotale:  STORIA DEGLI SPOSI, STORIA DI SALVEZZA.

“Il ministero coniugale è fondamentalmente sacerdotale-eucaristico perché l’Eucaristia – lo ha detto il Patriarca agli sposi – sta nel cuore della famiglia. E’ al centro, perché l’amore cristiano e l’amore sponsale scaturiscono dalla pasqua di Cristo. L’Eucaristia è la pasqua della Chiesa, celebrata dalla Chiesa, che diventa vita della Chiesa. L’Eucaristia è la sorgente del nostro vivere quotidiano: dall’Eucaristia , celebrata nel Giorno del Signore, scaturisce una cultura della convivenza umana vissuta dai cristiani all’insegna della solidarietà, della condivisione, dell’amore. E’ nel sacrificio eucaristico che i coniugi trovano la sorgente e l’alimento della loro alleanza sponsale e sono chiamati a scoprire il “mistero grande”, fonte della “comunione e della missione”, che in Cristo, unico sacerdote del Padre, diventa il  loro ministero (cf FC 57)”.

 

Iniziando la riflessione nei gruppi, gli sposi dovrebbero narrare le loro considerazioni e contributi sulla meditazione di don Lucio Cilia sul “ministero sacerdotale del popolo di Dio e degli sposi cristiani” e sulla conversazione di Ornella e Daniele Garota sul tema dell’Assemblea: “Storia degli sposi, storia di salvezza”. 

 

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RIFLESSIONE SUL TEMA: STORIA DEGLI SPOSI - STORIA DELLA SALVEZZA.

  Dopo questa prima fase del dialogo in gruppo, gli sposi potranno  “riflettere” insieme sulle articolazioni del tema: “Storia di sposi, storia della salvezza”, scegliendo tra le seguenti tracce.

  1)        La storia della salvezza.

Il cristiano è chiamato a vivere il suo battesimo, la sua fede nella persona di Gesù Cristo, “dentro la storia”.

Anche gli sposi cristiani sono chiamati a vivere il loro amore coniugale, elevato da Cristo a   sacramento del matrimonio, “dentro la storia”.

Ma cos’è la storia?

Anche il Dio dei cristiani opera dentro la storia degli uomini: è il Dio della storia. Il Creatore, ha stabilito un’alleanza con la creatura umana, la creatura che più assomiglia a Lui. È un Dio per l’uomo, lo ama fortemente. Egli stesso, nel Figlio suo, si è fatto uomo. E nel momento in cui si dona totalmente morendo in croce, secondo la volontà del Padre, Gesù Cristo, il nuovo vero Sommo Sacerdote, libera l’umanità dal peccato e dalla morte e realizza pienamente la comunione di Dio con l’uomo. È la storia della salvezza.

  2)        La vocazione degli sposi è fare a Dio il dono del “cuore”.

Anche gli sposi partecipano al sacerdozio di Cristo per il sacramento del matrimonio: sono chiamati al dono totale di sé, nello “spirito” e  nella “carne” (“questa volta è carne della mia carne!”) l’uno all’altro e, insieme, al Signore per rivelarne l’Amore agli uomini. È l’unico amore che “salva”.

La loro “vocazione”, infatti, è fare a Dio il dono del “cuore” (cf Il Signore, R.Guardini). E questo è il sacrificio-dono-oblazione che salva i coniugi, i loro figli, gli uomini.

È questa la volontà di Dio che riguarda in particolare gli sposi cristiani

  3) … nella celebrazione dell’Eucaristia.

Dunque, gli sposi esprimono la propria comunione a Gesù Cristo nell’Eucaristia, cioè al Cristo che dona se stesso per la salvezza degli uomini.

  Qui c’è l’esplicitazione di “chiesa domestica”: se il matrimonio non può prescindere dall’Eucaristia, allora l’Amore gratuito di Gesù è la scuola dell’amore gratuito degli sposi: se gli sposi seguono questa scuola, ognuno dei due farà dono di sé all’altro, come Cristo fa dono di sé alla Chiesa. La famiglia “chiesa domestica” diventa allora eco dell’Amore di Dio proprio a partire dal modo con cui gli sposi si amano nei semplici gesti di tutti i giorni.

  4)  … e nel concreto vissuto quotidiano.

Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote” (Canone Romano).

  Come fare perché della propria vita gli sposi cristiani realizzino un “sacrificio spirituale gradito e   accetto a Dio” ?

  4.1. La vocazione degli sposi cristiani .  

È proprio della “vocazione” degli sposi cristiani prima nella celebrazione della liturgia eucaristica nel Giorno del Signore, e quindi nel loro vissuto quotidiano, fare di sé una “liturgia vivente”: offrire a Dio tutto sé stessi in “oblazione pura … accetta “ a Lui, delle loro vite, delle loro persone, dei loro corpi; offrire a Dio le fatiche, la gioie, le speranze, le tribolazioni, i fallimenti  del loro “camminare insieme”, dell’amore coniugale dentro e fuori le mura di casa.

Offrire poi anche l’esercizio, non sempre facile e gratificante, e non privo di errori, delle responsabilità familiari, professionali e dell’impegno civile, immersi nei problemi degli uomini del loro tempo, per condividerne le situazioni e le esigenze di amore, giustizia, pace e libertà.

Questo è “il sacrificio spirituale gradito a Dio”.

Una vera liturgia, cui è finalizzata l’Eucaristia, è la vita quotidiana nella chiesa domestica- ricorda il Patriarca- una liturgia di amore. Ed è una delle fondamentali pagine della storia della salvezza.  

4.2.  Primo compito del ministero sacerdotale degli sposi cristiani è rivelare che l’amore umano è “dono” di Dio.

La Bibbia ci rivela che una carità ci precede, quella di Dio. Non siamo noi  che amiamo per primi. Da Lui siamo amati e allora possiamo amare.

E se l’amore umano è un dono meraviglioso, cosa dobbiamo dire allora dell’amore perfetto di Dio, che ama ognuno di noi incessantemente e incondizionatamente, che ha   scritto il nostro nome sul palmo della sua mano (cf Is 44)?

Non ci rimane che prostrarci faccia  a  terra e cantare le lodi, innalzare la nostra preghiera di ringraziamento: lodi e rendimento di grazie, che devono essere certamente altro dalle preghiere recitate per abitudine.

Ecco, allora, che il ministero sacerdotale degli sposi acquista il vero suo aspetto “eucaristico”.

4.3.  Quando si accoglie l’Amore di Dio, c’è stupore per il dono, gioia nel riceverlo e gioia   nell’adorarlo e nel renderne grazie a Dio.  

Paolo VI, nell’Esortazione “Gaudete in Domino”, mette in luce che la gioia cristiana è tale perché partecipazione alla gioia di Cristo. Essa scaturisce dalla certezza d’essere amato dal Padre e si esprime nello spirito delle Beatitudini.

La gioia, dunque, la festa nascono nell’incontro con il Signore, così rispondono le Scritture! dall’ascolto della Parola, dalla conoscenza del Signore: “Il tuo amore vale più della vita, le mie labbra dicono la tua lode. Io ti benedico finché vivo, nel tuo nome alzo le mani. Mi sazio come a un banchetto, con voci di gioia ti loda la mia bocca” (Sal 63, 4-6).

Ma, venuto il Signore in mezzo a noi, avendo egli preso il volto dell’uono, anche l’incontro con l’uomo, con il fratello è fonte di gioia. Hai visto il fratello, hai visto Dio! perché nel volto dell’altro sta la gioia dell’incontro con Dio. L’altro è sacramento di Dio!

Cristo ha fatto della nostra vita una festa continua. Allora, la gioia è dono dall’Alto. “Rallegratevi nel Signore, sempre, ve lo ripeto ancora, rallegratevi” (Fil 4,4).

Sì, il cristiano deve esercitarsi nella gioia, deve gioire già oggi! Perché la gioia è, sì, un dono; un dono da custodire e da difendere, certo.  Ma è anche un precetto. Deve essere esercitata. La vera gioia la si vive quando si celebra la vita, ma anche quando si soffre a causa di Cristo (cf At 5,41).

Così il ministero sacerdotale degli sposi diventa ministero della “gioia” .

4.4.  Come Gesù Cristo, anche gli sposi devono passare attraverso la “Croce”  

La Croce, la sofferenza, a volte sono motivo di scandalo, di rifiuto, anche per i cristiani. 

Vogliamo distinguere tra due tipi di croci: differenziamo la croce legata alla sofferenza di vivere, alle difficoltà della vita, da quella legata alla sofferenza fisica, al dolore, anche se nella realtà la divisione non è così netta.

Il primo tipo di croce molte volte è dovuto al nostro voler essere autosufficienti nei confronti degli altri ma, soprattutto, nei confronti di Dio: a volte dimentichiamo di affidarci a Dio, di sentirlo compagno di strada, coinvolto realmente nelle nostre sofferenze, senza per questo voler diventare fatalisti. Siamo certi che la fiducia in questo Amore aiuta ad affrontare i problemi con meno ansia e maggiore serenità.

Per quanto riguarda invece la sofferenza fisica, proponiamo alcune parole di mons.Tonino Bello: “Anche il letto del nostro dolore dovrebbe essere fontana di carità e sorgente di amore. La strada che porta da Gerusalemme al Calvario è lunga, però finiremo di percorrerla: Non durerà per sempre. Il nostro dolore alimenta l’economia sommersa della grazia.  Sì, ci sarà da qualche parte un immenso deposito della grazia. Il nostro dolore è come un rigagnolo che va ad ingrossare il fiume del sangue di Cristo”.

Riconosciamo che l’Amore di Dio cambia il cuore dell’uomo, il cuore del mondo.

  E anche questo è un compito del ministero sacerdotale degli sposi.

 

4.5.  Gli sposi cristiani e la loro famiglia, “chiesa domestica”, sono chiamati, partendo dalla celebrazione dell’Eucaristia, ad aprirsi, a consacrarsi al bene di tutti gli uomini.

  Nel momento in cui capiamo chi è Dio e quanto Lui ci ama, il nostro vivere diventa conseguentemente caritativo. Abbiamo ricevuto, dobbiamo dare, dobbiamo restituire.

Al “povero” noi non doniamo niente, gli diamo solo ciò che gli spetta, di cui ha diritto. Ognuno deve vigilare perché nessuno sia escluso dal suo posto nella casa del Padre.

Il ministero sacerdotale eucaristico degli sposi acquista il significato “caritativo”.

Ma va precisato subito che parlare del ministero caritativo degli sposi, non significa semplicemente  parlare del loro amore reciproco, del loro porsi, in qualche misura, al servizio dei fratelli più bisognosi, meno fortunati.

Gli uomini anelano non solo all’amore dell’uomo per loro, ma prima di tutto all’amore di Dio Padre che si china su ogni uomo.

L’amore di Dio per l’uomo, attraverso l’uomo del quale egli usa le braccia, le gambe, le mani, il cuore, è Carità, è Agape! Noi siamo servi inutili, possiamo solo essere strumenti nelle mani del Signore.

È questo il senso dell’iniziativa lanciata dal Patriarca  nel 1996: LA FAMIGLIA PER LE FAMIGLIE.

Non è una organizzazione caritativa, ma uno slancio del cuore, un atteggiamento da assumere nella quotidianità della vita e che ci proietta oltre la nostra famiglia, fuori le mura della nostra casa. Noi mettiamo la nostra vita nelle mani di Dio.

Nella Festa della Famiglia del 1995 il Patriarca in S. Marco agli sposi così si era rivolto con fiducia: “Sposi, siate testimoni dell’amore di Dio dentro la storia e darete speranza al mondo”.

Con questo invito il Patriarca chiedeva allo coppie di sposi di annunciare la loro disponibilità a partecipare all’iniziativa “La Famiglia per le famiglie”, raccomandando loro di inviare a lui l’adesione personale.

Per la verità, le risposte sono state molto poche. Ma gli sposi questa volta risponderanno numerosi.

Durante questa riflessioni di gruppo, parleremo insieme di Casa Famiglia S.Pio X della Giudecca e dell’impegno, sempre della Commissione di questa pastorale, verso le coppie  e le famiglie che hanno in casa persone con malattia psichica: sono due aspetti dell’iniziativa “La famiglia per le famiglie”.

 

Scriveva un giorno la nostra amica Gina Martinengo:

“Dio invia gli sposi nel mondo allo stesso modo in cui ha inviato il Figlio suo, non tanto perché si affermi l’amore umano, ma perché attraverso di esso, si affermi l’Amore della Trinità.

Voi, sposi, sapete bene che è bello amare: l’amore è bello!

Una persona diventa bella perché qualcuno la ama: la creatura umana è bella perché Dio la ama”.

 

Madre Teresa di Calcutta all’evaso di prigione, che le chiese: “Perché fai questo per me?”, rispose: “Cerco di fare qualcosa di bello per Dio, al Padre piace che i suoi figli si amino”.

 

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