ATTI DELLA
XVII ASSEMBLEA DEGLI SPOSI
Santa Maria Concetta
di Eraclea
20 ottobre 2002
CON CRISTO DENTRO LA STORIA
|
di
Dilvia e Virgilio Rossi
di
Alessandra e Paolo Sambo
della Comunità di S. Maria Concetta
di
Stefania Manzini
del Sindaco di Eraclea
di
Alberto Argentoni
di
mons. Silvio Zardon
di
suor Michela, “Apostola della Vita Interiore”
6.
ASSEMBLEA IN DIALOGO
di Daniele Garota
8.
ASSEMBLEA IN DIALOGO
mons.
Angelo Scola
di mons. Silvio
Zardon
prima
di cominciare
di
Dilvia e Virgilio Rossi
La
XVII Assemblea degli sposi - la terza chwe si tiene ad Eraclea, e ciò
giustifica la grafica di copertina - segna un momento di svolta
nella "Pastorale degli sposi e della famiglia" per una seie di
circostanze che l'hanno caraterizzata.
È
opportuno soffermarsi su queste peculiarità per poi tenerne conto nel
riandare ai momenti significativi vissuti ad Eraclea: per coloro che vi
hanno partecipato, leggere questi Atti può costituire un
“flash back” indispensabile per cogliere i messaggi emersi il
6 ottobre 2002 in tutta la loro interezza e portata. Inevitabilmente non
tutto può essere stato colto e capito. Come diceva il Patriarca Scola
nelle fasi conclusive del suo intervento:
«se
qualcuno non ha capito tutte le parole che vi ho detto oggi, o se un
intervento vi sembrava difficile o sconclusionato non preoccupatevi, le
capirete domani, un po’ come succede in famiglia quando non si capisce
perché il figlio si comporta in un certo modo, ma due anni dopo si
arriva a dire: “Ah, adesso afferro perché...».
Ecco,
scopo di questi Atti è aiutare a formulare questo “Ah, adesso afferro
perché...”
Anche
quanti della Commissione hanno messo mano alla redazione di queste
pagine, hanno potuto riscoprire l’importanza di certi interventi e del
verificarsi di certe circostanze, interpretando il tutto come un segno
della presenza dello Spirito e traendo da ciò consolazione, conforto e
speranza..
La
presenza del Patriarca Angelo ad Eraclea costituisce uno dei punti
discriminanti, essendo stata questa la sua prima assemblea. È
significativa la sua presa di coscienza che “nella
nostra comunità e nella nostra Chiesa è presente una comunione di
famiglie che si presenta come un soggetto vitale e questo è un
grandissimo dono, una grandissima risorsa per la Chiesa e per la società”.
L’analisi
profonda e puntuale che Il Patriarca ha tracciato, mettendo in evidenza
l’importanza
di questo “soggetto” nel contesto di una società che sta vivendo
una fase di transizione caratterizzata da una grande confusione,
costituisce un punto di partenza per gli sposi nello sviluppare una
pastorale coniugale che non sia ripiegata su se stessa ma che deve
confrontarsi giorno dopo giorno con la realtà circostante, spesso
contraddittoria e in posizioni antagoniste.
Per
questo “soggetto” è quindi essenziale – come Il Patriarca ha
sottolineato concludendo il suo intervento - allargare la trama della
amicizie, in parrocchia, nel quartiere, aprire le case, poiché la
testimonianza e la missione è in questo dilatare la trama dei rapporti,
però con discrezione e libertà in modo che
tutte le cose belle riguardanti il cammino fatto in questi anni,
esplodano nella nostra Chiesa.
Gli
sposi si sono in incontrati con il Vescovo anche in occasione della
“Festa della Famiglia” a San Marco e abbiamo ritenuto opportuno
pubblicare, in Appendice a questa pubblicazione, la trascrizione
dell’Omelia pronunciata dal Patriarca Angelo il 19 gennaio scorso.
Ma
questa Assemblea è stata caratterizzata anche da un segno di continuità
con il Patriarca Marco: il tema “Con Cristo dentro la Storia” è
stato sviluppato nell’ottica della “contemplazione”, tenendo
presente, come ha ricordato mons. Silvio Zardon nel suo preambolo
introduttivo «l’Assemblea
di Quarto d’Altino del 1997 dove il Patriarca Cè improntò la sua
meditazione sul tema della “contemplazione di Gesù Cristo”,
fondamento della vita cristiana e perciò anche di qualsiasi
testimonianza e impegno pastorale nella Chiesa. È Lui che ci chiama, ci
invita e ci invia a proclamare il Vangelo nel mondo d’oggi.
Ho
ricordato il Patriarca Cè: lui porta nel cuore questa esperienza sulla
quale ha operato molto. Noi dobbiamo
moltissimo a lui, e al Signore che ce lo ha inviato, e non possiamo
dimenticare questa sua presenza.
Le
parole di don Silvio, ci riportano al tema che dà il titolo
all’Assemblea. “Sposi in Cristo, dentro la Storia”. È infatti a
partire dalla contemplazione di Gesù che gli sposi traggono
ispirazione, speranza, modello, per vivere il loro amore dentro la
storia. Una storia fatta sia della quotidianità che dei “Grandi
Eventi” dai quali spesso, un po’ semplicisticamente ci sentiamo
tirati fuori. Daniele Garota ci ha mostrato le vie che gli sposi devono
percorrere per essere “in Cristo, dentro la Storia”.
Trascrivendo
il suo intervento, rileggendo e ricomponendo la sua esperienza di sposo
e di padre abbiamo colto una chiara linea conduttrice: per vivere
appieno la ministerialità coniugale (profetica, sacerdotale e regale)
la via è assomigliare a Cristo, renderlo vivo all’interno
della coppia e della famiglia, prendere a modello il suo stile per cui “C’è
più gioia nel dare che nel ricevere”. Solo
rifacendoci a Lui possiamo rivitalizzare un rapporto d’amore che
rischia quotidianamente di scivolare nella noia. Daniele si interroga:
«Il
nostro modo di essere religiosi, di contemplare Cristo, sprizza gioia o
sprizza noia, ripetizione, abitudine? Questo dobbiamo chiederci».
Ripercorrendo
“Eracleatre” non dobbiamo dimenticare che questa Assemblea è stata
caratterizzata anche dalla presenza inedita delle “Sorelle Apostole
della Vita Interiore”.
Così
mons. Zardon:
«È
un avvenimento anche avere qui con noi queste nostre sorelle, le
“Apostole della Vita Interiore”. Sottolineo soltanto un motivo della
loro presenza, altri potremo coglierli durante la mattinata. Esse sono
consacrate al Signore, la loro verginità è consacrata al Signore per
un servizio pastorale.
Il
loro contributo è sì dentro la meditazione che ci offriranno, ma,
dobbiamo tenere presente tutti che la missione, il carisma, il ministero
degli sposi ha senso nel pieno significato ecclesiale, nella misura in
cui si sa contestualizzare anche con gli altri carismi, in questo caso
in modo particolare con il carisma della consacrazione verginale».
La
meditazione di Michela e gli interventi di Simona e Maria Grazia non si
possono commentare o riassumere, e nemmeno presentare. Sono da vivere.
Buona
lettura.
ARTICOLAZIONE DELL’ASSEMBLEA
Sabato
5 e Domenica 6 ottobre 2002
Presidenza:
Patriarca Mons. Angelo Scola
Moderatori
al tavolo:
Alessandra e Paolo Sambo
Moderatori
in sala:
Daniela e Sandro Giantin
Meditazione
sul tema:
Suor Michela “Apostola della Vita Interiore”
Stimolazioni
sul tema:
Daniele GAROTA
Svolgimento:
SABATO
5 OTTOBRE c/o
chiesa di S. Maria Concetta -
Eraclea
ore
21.00
veglia di preghiera
DOMENICA
6 OTTOBRE c/o
Parrocchia S. Maria Concetta di Eraclea
ore
9,00
arrivi alla sede dell’assemblea ed accoglienza
ore
9,30
saluti e presentazione dell’assemblea
ore
9,45
preghiera delle Lodi e meditazione
di Suor Michela (Apostole
Vita Interiore)
ore
10,30
pausa ristoro
ore
10,45
dialogo in assemblea
ore
12.30
pausa pranzo
ore
14.30
“Con Cristo, dentro la Storia” (D. Garota)
ore
15,30
dialogo in assemblea con il Patriarca mons. Angelo Scola
ore
17,30
S. Messa con la comunità parrocchiale
LA PRESENTAZIONE DELL’ASSEMBLEA
di
Alessandra e Paolo Sambo
Benvenuti
alla XVII Assemblea diocesana degli sposi iniziata già ieri sera con
una Veglia di preghiera in cui è stato ringraziato il Signore per le
cose belle e grandi che ogni giorno si compiono nella storia e in cui
gli abbiamo chiesto di assisterci in
questa giornata .
A
nome della Commissione diocesana per la pastorale degli sposi e della
famiglia salutiamo tutti gli sposi e i partecipanti giunti da ogni parte
della chiesa veneziana .
Ringraziamo
la parrocchia di S. Maria Concetta di Eraclea e in particolare il suo
parroco don Mario Liviero per averci nuovamente ospitato.
Ricordiamo
ancora con piacere la generosità e l’entusiastica partecipazione che
ci avete già dimostrato nelle precedenti occasioni e che siamo certi
rinnoverete.
Questo
è un anno particolare per noi, perché, come tutti ben sapete, c’è
stato un profondo rinnovamento nella Chiesa veneziana.
Avremo
nel pomeriggio la presenza del nostro nuovo Patriarca Angelo Scola che
ci ascolterà, parteciperà alle nostre riflessioni e dibattiti e ci
darà il suo messaggio.
Lo
aspettiamo con impazienza e un po’ di titubanza perché, se da un lato
saprà sicuramente arricchirci con la Sua parola, è però
indispensabile per noi tutti stabilire un atteggiamento di apertura e di
affetto verso chi ci guiderà nei prossimi anni. Cerchiamo pertanto di
aprirci ad un rapporto diretto che sarà sicuramente arricchente per
tutti.
Il
tema di quest’anno è “CON CRISTO DENTRO LA STORIA”: dalla
contemplazione di Gesù Cristo all’amore per sempre e senza confini
degli sposi cristiani dentro la storia.
È
un titolo che dice già tutto: ripartire da Cristo verso l’uomo.
Saremo
però aiutati a capire soprattutto cosa significa contemplazione e
dentro la storia
Questo
aiuto ci verrà dato nel mattino da Suor Michela “Apostola della Vita
Interiore” che, con le consorelle Maria Grazia e Simona si soffermerà
su cosa significa mettersi in contemplazione e come è possibile farlo
come sposi.
Nel
pomeriggio, Daniele Garota cercherà, con le sue riflessione, di
spiegarci cosa significa essere cristiani e sposi “dentro la storia”
Momento
fondamentale della giornata sarà però lo scambio delle nostre
esperienze reciproche e il raccontarci se e il come la nostra
partecipazione alle Assemblee di questi ultimi tre anni – dedicate
alla riflessione su Gesù sacerdote, re e profeta - ci ha aiutato a
cambiare qualcosa in noi, nei nostri rapporti famigliari, nella nostra
vita.
Prima
di passare la parola a Stefania Manzini, rappresentante della Comunità
che ci ospita e al sindaco di Eraclea Alberto Argentoni che salutiamo e
ricordiamo con affetto per il loro passato di membri della Commissione,
vi presentiamo quanti sono con noi:
Mons.
Silvio Zardon responsabile diocesano della pastorale famigliare ( il
nostro capo );
Michela,
Maria Grazia e Simona, “Apostole della Vita Interiore”;
Don
Mario Liviero, parroco di S. Maria Concetta di Eraclea;
Daniele
Garota che, per chi ancora non lo conoscesse, è ormai un nostro amico.
Egli vive con la moglie Ornella e i quattro figli a Isola del Piano, nei
pressi di Urbino, in un casolare, dove pratica agriturismo e cultura
biologica.
Ha
scritto vari libri, tutti molto belli; vi consigliamo l’ultimo:
“L’onnipotenza povera di Dio”.
Daniele
partecipa alle nostre Assemblee dal 1999, donandoci un insegnamento ed
una testimonianza di vita ineguagliabili.
I
SALUTI ALL’ASSEMBLEA
§
di
Stefania Manzini per la Comunità di S. Maria Concetta di Eraclea
Buongiorno
e benvenuti!
La
comunità parrocchiale del capoluogo ed il vicariato di Eraclea sono
lieti di accoglierVi alla 17^ Assemblea diocesana degli sposi e delle
famiglie.
In
9 anni questa è la terza volta che abbiamo il piacere di ospitarla e
per noi tutti è sempre un momento di gioia e di rinnovato entusiasmo.
Grazie
per la vostra numerosa presenza ed un ringraziamento particolare ai
membri della Commissione diocesana degli sposi che con energia e grande
passione lavorano affinché sempre più sposi cristiani crescano nella
consapevolezza di essere chiamati, attraverso il sacramento del
matrimonio, in unione col Cristo risorto, alla costruzione della città
degli uomini.
Forse
mai come in questo particolare momento storico, nel quale gran parte
dell’umanità ha raggiunto livelli altissimi di conoscenza, capacità
e di sviluppo, vi è stata l’impellente necessità che il messaggio
evangelico venisse mediato e “spezzato” a favore di coloro i quali
vivono, accanto a noi sposi cristiani, da ultimi. Noi siamo chiamati,
sostenuti dallo Spirito che nel matrimonio abbiamo ricevuto, a lavorare
per testimoniare che la Parola, incarnata nel Cristo, è dono di
salvezza per tutti gli uomini. Con lo sguardo rivolto al Signore
risorto, ma con i piedi ben piantati dentro la nostra storia, il nostro
cuore, la nostra mente e le nostre mani diventano così strumento
attraverso il quale l’amore infinito di Dio per le sue creature si
concretizza attraverso i gesti della quotidianità che viviamo.
L’opera di Dio Padre si completa così attraverso l’operosità degli
uomini. E siccome il compito al quale siamo chiamati passa attraverso la
nostra fatica quotidiana, con Cristo accanto camminiamo e
lavoriamo.
L’augurio
che ci facciamo è che questa giornata possa essere un momento di seria
meditazione, di confronto, di comunione fraterna fra noi e di crescita
personale e comunitaria per entrare sempre di più nel mistero grande
dell’amore di Dio per la creatura umana.
Benvenuti!
§
di
Alberto Argentoni, Sindaco della Città di Eraclea
Buon
giorno a tutti, ben arrivati e ben tornati!
Per
noi è sempre stato un piacere ospitare questa Assemblea, che sentiamo
nostra.
Ieri
sera don Silvio diceva che sono un membro della Commissione ma in
aspettativa. Al di là del rapporto personale con don Silvio e con gli
amici della Commissione, sono molto contento di essere qui oggi e di
rappresentare in questo momento quell’autorità civile, che vede
sempre più con attenzione il ruolo della famiglia.
Sicuramente
non è da molto e non ancora in maniera sufficiente che le politiche
sociali riconoscono alla famiglia il ruolo che le compete, un ruolo
importante che meriterebbe le necessarie correzioni al sistema
distributivo del reddito. Ma al là del ruolo fondamentale delle
famiglie all’interno della rete dei servizi dati soprattutto alla
persona e del ruolo di sussidiarietà che indubbiamente la famiglia
svolge fra i vari settori della nostra società, oggi vengono ribadite
la potenzialità del grande patrimonio di valori che può essere
trasmesso soltanto dalla famiglia. Sicuramente oggi questo verrà
suscitato da ciascuno di voi e dai relatori.
È
quindi fondamentale anche per l’autorità, civile e politica, nonché
per tutte le persone che vogliono effettivamente costruire una società
migliore, mettersi in ascolto e cercare
di valorizzare il grosso patrimonio che riusciamo ad esprimere
come famiglie.
Famiglie
che vivono, lavorano e si riferiscono a Qualcuno più grande di noi che
ci aiuta e ci impegna in questo compito gravoso di trasmettere e
soprattutto testimoniare quei valori fondanti che stanno alla base.
Grazie
ancora e buona giornata.
IL
PREAMBOLO
di
Mons. Silvio Zardon
Prima
di iniziare le Lodi voglio ricordare che tutta l’Assemblea è
improntata sull’incontro con il Signore.
Quindi,
anche durante il dialogo che occuperà buona parte della giornata,
saremo di fronte al nostro Maestro. Dobbiamo aiutarci a sentirne la
presenza già nella preghiera che stiamo per iniziare, che è un
tutt’uno con l’Eucaristia che celebreremo non solo perché è
domenica, ma perché siamo sempre orientati all’incontro con Gesù
Eucaristia.
Questo
aspetto va sottolineato, in quanto fondamentale per centrare il
carattere del nostro incontro. Infatti oggi dobbiamo tenere presente
l’Assemblea di Quarto d’Altino del 1997 dove il Patriarca Cè
improntò la sua meditazione sul tema della “contemplazione di Gesù
Cristo”, fondamento della vita cristiana e perciò anche di qualsiasi
testimonianza e impegno pastorale nella Chiesa. È Lui che ci chiama, ci
invita e ci invia a proclamare il Vangelo nel mondo d’oggi.
Ho
ricordato il Patriarca Cè: lui porta nel cuore questa esperienza sulla
quale ha operato molto. Noi dobbiamo
moltissimo a lui, e al Signore che ce lo ha inviato, e non possiamo
dimenticare questa sua presenza.
È
un avvenimento anche avere qui con noi queste nostre sorelle, le
“Apostole della Vita Interiore”. Sottolineo soltanto un motivo della
loro presenza, altri potremo coglierli durante la mattinata. Esse sono
consacrate al Signore, la loro verginità è consacrata al Signore per
un servizio pastorale.
Il
loro contributo è sì dentro la meditazione che ci offriranno, ma,
dobbiamo tenere presente tutti che la missione, il carisma, il ministero
degli sposi ha senso nel pieno significato ecclesiale, nella misura in
cui si sa contestualizzare anche con gli altri carismi, in questo caso
in modo particolare con il carisma della consacrazione verginale.
Ringraziamo
il Signore per questa opportunità che ci offre e che dobbiamo cogliere
per riuscire veramente a capire il senso di questo coagulare insieme di
vari ministeri, doni dello Spirito per la edificazione della Chiesa.
MEDITAZIONE
ALLE
LODI
“CON
CRISTO DENTRO LA STORIA”: dalla contemplazione di Gesù Cristo....
di
suor Michela “Apostola della Vita Interiore”
LETTURA
dal
Vangelo di Marco 9,2-13
Dopo
sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò
sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò
davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun
lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E
apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù.
Prendendo
allora la parola, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi
stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per
Elia!».
Non
sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento.
Poi
si formò una nube che li avvolse nell'ombra e uscì una voce dalla
nube: «Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!». E subito
guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con
loro.
Mentre
scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che
avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risuscitato dai
morti.
Ed
essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire
risuscitare dai morti. E lo interrogarono: «Perché gli scribi dicono
che prima deve venire Elia?».
Egli
rispose loro: «Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come
sta scritto del Figlio dell'uomo? Che deve soffrire molto ed essere
disprezzato.
Orbene,
io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fatto di lui quello che
hanno voluto, come sta scritto di lui».
UN
MOMENTO IMPORTANTE
Siamo
molto contente di essere qui stamattina con voi. È davvero
un’esperienza bella e siamo convinte che sarà sicuramente arricchente
per entrambi, anche perché ci sono tante persone che, in questo
momento, sono in comunione con noi e stanno pregando per
quest’incontro. Nei giorni scorsi, infatti, abbiamo invitato tutte le
persone che incontravamo a pregare per questa circostanza. Ci auguriamo
davvero che questo sia per tutti un tempo importante per incontrare il
Signore.
SONO
STORIE D’AMORE
Prima
di iniziare, vorrei soffermarmi sul titolo di questa meditazione: “Contemplare
Gesù per vivere la nostra storia”. Ho pensato che quando di
solito si pensa alla storia, si considera soprattutto la storia del
mondo, di tutti gli uomini, di tutti gli eventi che si susseguono nel
corso degli anni. In questa storia universale è inserita anche la
nostra storia di tutti i giorni, che costruiamo momento per momento.
Questa storia può essere vista anche da un’altra prospettiva: quando
due fidanzati si conoscono e iniziano il loro cammino si dice che è
nata una bella storia. Quindi la vostra storia è anche una storia
d’amore, quella che è iniziata vari anni fa nel momento in cui avete
intrapreso insieme il vostro cammino e che state portando avanti. Ed è
in questa storia che si manifesta una cosa grande: la presenza di Dio.
Ma
la vostra storia di sposi ha qualcosa in comune anche con la nostra
vicenda di consacrate, perché tutte e due sono storie d’amore, ed è
per questo che stamattina possiamo parlare con voi, proprio perché
abbiamo in comune una storia d’amore che è stata fondata da Dio. Noi
siamo sicure che alla base di questo nostro essere sposi (perché è
questo che ci accomuna, l’essere sposi e spose) c’è Dio che ci ha
chiamato: ha chiamato voi ed ha chiamato anche noi.
Proprio
per poter cogliere la presenza dell’amore di Dio nella nostra vita di
tutti i giorni, abbiamo bisogno di contemplare, di capire meglio chi è
questo Dio che ci chiama a questa storia d’amore. Certo che
contemplare Dio è un po’ difficile: chi mai ha visto Dio? Allora
questa mattina ci mettiamo in contemplazione di Gesù, poiché Dio si è
fatto vedere proprio nel suo figlio, che è il volto di Dio, e sarebbe
bello se potessimo uscire da questa assemblea potendo ripetere le parole
dette da Pietro davanti alla trasfigurazione di Gesù: «Signore, è
bello per noi stare qui», non perché abbiamo ascoltato chissà che
parole importanti, ma perché abbiamo incontrato Gesù, abbiamo
conosciuto qualcosa di più di lui e quindi anche di noi, della nostra
vita.
CONTEMPLARE:
METTERSI LÀ DOVE STA DIO
Sulla
traccia per la conversazione ho scritto una frase: “contemplare
significa guardare con stupore una bellezza che ci sovrasta”.
Rileggendola, ho pensato che non è proprio così, non mi sono espressa
bene. Guardare con stupore è vero, perché lo stupore è quello dei
bambini che si meravigliano davanti alle cose nuove e contemplare è
avere questo sguardo puro, stupito davanti alla realtà della nostra
vita, però se parliamo di “una bellezza che ci sovrasta” possiamo
pensare ad una cosa che è al di sopra di noi.
Voi
sapete che cosa succede quando si cammina e si guarda in alto.
Stamattina presto, per esempio, siamo riuscite a fare un giro per
Venezia perché c’eravamo state, ma tanti anni fa, e il rischio era
quello di guardare tutte le cose intorno e di non guardare dove
mettevamo i piedi. C’è sempre il pericolo di trovare la buccia di
banana che può farti scivolare.
Contemplare
non significa perciò vivere distaccati, disincarnati, con lo sguardo
fisso verso l’alto, verso Dio, senza renderci conto di quello che
stiamo effettivamente vivendo e dimenticarsi di quello che succede,
quasi come una fuga dalla realtà. Contemplare significa invece mettersi
là dove sta Dio, andare dove sta lui, in alto e guardare la realtà, la
storia che viviamo, così come la guarda lui, dall’alto. Le cose
cambiano di parecchio, cambia molto la prospettiva; stando all’interno
di un labirinto non ci districhiamo nei vari corridoi e cunicoli ma, se
ci mettiamo in alto, troviamo la via d’uscita.
Così
avviene nella nostra vita, a quante cose non sappiamo dare una risposta,
quante cose non intendiamo, quante domande rivolgiamo al Signore!:
“Dove sei in questo momento, perché sto passando questo tormento?”.
Se noi ci mettessimo col Signore, in alto, lì dove è lui, allora
vedremmo le cose così come le vede lui e queste assumerebbero un
significato diverso. Soprattutto riusciremmo a capire la presenza sua e
di questo amore grande che segna ed intesse tutte le fibre della nostra
storia.
NELLA
PREGHIERA LA REALTÀ SI TRASFIGURA
Fatta
questa premessa, entriamo nel brano che abbiamo ascoltato per cercare di
capire cosa significa contemplare Gesù. Avrete notato che qui si parla
di tre apostoli, che vengono invitati proprio a contemplare il Signore;
mettiamoci davvero al posto di Pietro, Giacomo e Giovanni, e saliamo
anche noi sul monte. Gesù li porta su un monte che, secondo la
tradizione ebraica dell’Antico Testamento era il luogo della terra
più alto e quindi in qualche modo più vicino al Signore; e dal monte
si può vedere la realtà sottostante in una maniera diversa rispetto a
quando si è in pianura. È il concetto che dicevamo prima: salire con
il Signore per vedere poi davvero la nostra realtà.
Pietro,
Giacomo e Giovanni sono invitati ad andare con Gesù: non sapevano cosa
sarebbe successo, non sapevano che Gesù si sarebbe trasfigurato, come
noi, del resto, non sappiamo cosa ci aspetta questa mattina: sicuramente
sappiamo molte cose, però c’è sempre una novità che si vuole
rivelare a noi. Gesù si vuole trasfigurare anche davanti a noi, vuole
farci vedere la realtà della nostra vita, della nostra storia d’amore
di sposi, in una maniera trasfigurata, diversa, ancora più bella di
quanto la viviamo e con la sua presenza davvero in mezzo a noi.
Osserviamo
ora in quale situazione avviene la trasfigurazione di Gesù: il brano
del vangelo mette in evidenza che Gesù si trasfigura mentre prega.
Allora qui sta il segreto: è la preghiera quella realtà che ci
permette di vedere le cose così come le vede Dio, di vederle belle
così come le vede Dio, anche quando magari a noi non sembrano così
positive o ci sembrano scontate mentre sono dei doni del Signore.
Dobbiamo imparare a scoprire la bellezza della preghiera.
Ho
seguito spiritualmente una ragazza per un po’ di tempo - una ragazza
normalissima, come ce ne sono tante -, e un giorno, parlando della sua
esperienza di preghiera, mi ha detto una cosa che mi ha colpito tanto:
“Sai, quando prego, immagino di mettermi sulle ginocchia di Gesù, di
lasciarmi abbracciare da lui e di respirare amore”. A me è piaciuta
tantissimo questa definizione di preghiera e penso che sia
un’esperienza che voi sposi conoscete bene. Quando ci si abbraccia fra
due sposi, l’esperienza più bella penso sia quella di sentirsi
protetti, di sentirsi abbandonati l’uno nelle braccia dell’altro
sicuri del suo amore. Questo amore diventa una sicurezza e diventa quasi
una cosa che si respira, qualcosa di concreto, non sono solo parole.
La
preghiera è proprio questo: è un lasciarsi abbracciare dal Signore ed
un abbracciarlo. Se vediamo la preghiera in questo modo e non soltanto
come delle cose da chiedere al Signore o come un nostro sforzo, tante
volte anche faticoso, allora possiamo capire le parole di Pietro che
dice: «Signore è bello per noi stare qui». Capiamo cioè che
è tutta un’altra cosa, tutto un altro mondo, tutta un’altra storia.
Allora ci viene forse anche il desiderio di pregare di più perché è
proprio questa preghiera, che ci permette di vedere in maniera diversa
tutto quello che viviamo, perché il Signore vuole comunicarci la sua
gioia, la sua felicità, la sua ricchezza.
SIAMO
UNICI AGLI OCCHI DI DIO
Gesù
si trasfigura. Sarebbe un po’ difficile pretendere di vedere Gesù
trasfigurarsi, come duemila anni fa, però siamo convinti che il Signore
stamattina vuole trasfigurarsi davanti a noi, cioè vuole dire qualcosa
di nuovo, qualcosa di bello proprio a noi e alla storia che stiamo
vivendo. E possiamo vedere questa trasfigurazione dalla frase che viene
pronunciata da Dio Padre: «Questi è il figlio mio l’eletto,
ascoltatelo». Siamo abituati a questa frase perché abbiamo
ascoltato questo brano tantissime volte, ma se facciamo attenzione al
senso di queste parole, ne scopriamo la profonda bellezza. Queste sono
le parole di un padre che si rivolge a suo figlio e si compiace di lui,
e desidera che tutti lo ascoltino. Esse hanno accompagnato tutta la vita
di Gesù e lo hanno reso capace di fare tutto quello che ha fatto fino
alla morte sulla croce.
Per
noi, oggi, la trasfigurazione è sentirci rivolgere queste parole di Dio
Padre. Quelle stesse parole che egli ha pronunciato e continua a
pronunciare per suo figlio, Dio le pronuncia per ciascuno di noi; ad
ognuno dice, oggi e per sempre, tu sei il figlio mio, tu sei l’eletto
e sono contento di te. Essere amati è l’esperienza più grande che
possiamo fare ed è questo il fatto che ci permette di amare a nostra
volta. Prima di vedere la nostra vita come un impegno ad amare
l’altro, dobbiamo sentire di essere amati a nostra volta, e
quest’amore ci viene proprio da queste parole di Dio.
Soffermiamoci
sul mistero di elezione che si legge in queste espressioni del Signore.
È strano che Dio Padre abbia detto a Gesù: «Tu sei mio figlio,
l’eletto»; viene da chiedersi: l’eletto tra chi, se Dio Padre
ha soltanto un figlio? Perché l’eletto, lo scelto, se non c’erano
altri che contendessero questa possibilità di essere figli di Dio. In
realtà “l’eletto” significa non scelto tra tanti, preferito
perché il migliore, ma scelto perché “unico” ai suoi occhi.
È
in questo modo che Dio sceglie ciascuno di noi: siamo unici ai suoi
occhi. Voi sposi potete capire molto bene questa realtà perché ognuno
di voi è stato scelto, tra tanti, da vostro marito, da vostra moglie. E
ognuno di voi uomini ha pensato della propria donna: tu sei la più
bella, la più buona, la più brava… Ai suoi occhi, voi donne siete la
persona migliore. E così vale per i mariti.
L’esperienza
di sentirsi unici per l’altro, di cogliere che la nostra vita vale per
l’altro tanto da avere scelto soltanto noi, non altri, ci fa capire un
po’ che cosa significa per Dio amarci come esseri unici, con la
differenza che il suo amore è molto più grande del nostro. Dobbiamo
rivendicare nella nostra vita la bellezza di questo amore che è per
noi; dobbiamo dircelo: noi siamo amati così da Dio.
Il
Signore lo ripete continuamente, perché non ci basta sapere di essere
amati, abbiamo bisogno che qualcuno ce lo dica. Anche nei rapporti fra
marito e moglie non è sufficiente che uno colmi di attenzioni
l’altro, ci vogliono anche i momenti in cui ci si ferma per dirsi:
“Ti voglio bene, tu sei importante per me, davvero son contento di
te”. C’è bisogno di sentirselo dire ogni tanto, no? Anche Dio ci
ripete che siamo amati e questo mistero di benedizione passa attraverso
l’amore reciproco che vi scambiate ed è quel mistero che vi permette
di affrontare la vita in maniera diversa, di ricominciare quando ci sono
stati degli errori, dei problemi. Il fatto di sapere che l’altro ti
ama, ti dona fiducia e, in forza di questa fiducia, senti che puoi
cambiare. Se non c’è questa fiducia di fondo, allora uno si scoraggia
e pensa che non avrà mai la forza di ricominciare.
UN
MISTERO DI ELEZIONE
Il
vostro amore è una benedizione reciproca: è come quell’olio che sana
le ferite e questo vale anche per noi che siamo consacrate. Anche per me
c’è questo mistero di elezione e se gli sposi, chiamati alla vita
coniugale, esprimono e raccontano al mondo che Dio ci ama come esseri
unici, noi che siamo consacrati lo raccontiamo allo stesso modo.
L’amore di Dio è talmente grande, che possiamo anche
rinunciare ad un amore così bello come l’amore di uno sposo e di una
sposa; è talmente vero che può riempire anche il cuore di un essere
umano che ha bisogno di essere amato davvero tanto.
Insieme
possiamo raccontare al mondo che Dio è veramente amore, però dobbiamo
crederci, dobbiamo sentire questa benedizione attraverso la preghiera -
contemplando Gesù - e dobbiamo ripetercelo altrimenti ce ne
dimentichiamo presi come siamo dalla vita di tutti i giorni. Lo dobbiamo
fare imparando anche a ringraziare, a stupirci delle piccole cose che ci
accadono un po’ per caso (ma non è mai per caso) e che sono invece
sempre delle coincidenze belle, provvidenziali.
UN
MODO E UN SENSO PER VIVERE IL DOLORE
Fin
qui sembra tutto bello: Dio ci ama come esseri unici, ci benedice.
Spesso, però, facciamo i conti con tante realtà difficili, sia nella
nostra situazione famigliare che in quella degli altri. Ma anche questa
dimensione è presente nel vangelo che ci fa da guida, perché in mezzo
alla gloria della trasfigurazione c’è anche un momento di tristezza
che forse non è stato colto perché ci viene presentato in una maniera
un po’ velata. Quando Mosè ed Elia appaiono vicino a Gesù, nel
momento massimo della sua glorificazione, si dice che discorrevano della
sua morte. Sembra di cattivo gusto, ma è così, perché accanto ad un
mistero di felicità c’è anche un mistero di dolore.
Ognuno
di noi si porta dietro delle sofferenze, un suo modo di essere spezzato.
Gesù era il figlio di Dio, il beato per eccellenza, però ha voluto
condividere con noi questa realtà di essere feriti ed è stato proprio
nel momento più difficile, nel momento della morte in croce che si è
lasciato aprire il cuore perché ne potesse uscire tutto l’amore che
aveva per noi, perché fosse chiaro che da quel momento in poi tutto
quello che era suo sarebbe stato anche nostro.
Nel
momento del massimo dolore possiamo trovare la massima consolazione
soltanto se sappiamo guardare al crocifisso, se sappiamo contemplare
Gesù. Il Signore non viene a toglierci il dolore, ma ci consegna un
modo e un senso per viverlo. Egli non ci dice di allontanare il dolore
dalla nostra vita, di fingere che non esista, ma di porlo sotto la sua
benedizione. Nel dolore e nella sofferenza Dio è lì con te, ti vuole
dare forza, ti vuole amare.
Quando
ci coglie una malattia, non facciamo finta di niente ma andiamo dal
medico, ci mettiamo nelle mani di una persona competente che ci aiuti.
Così, davanti ad una sofferenza, la prima cosa da fare è affrontarla
ed andare da colui che ci può guarire. Certo, possiamo guarire da soli
molti mali, ma il vero medico è sicuramente Gesù e abbiamo bisogno di
affidarci a lui.
«IL
SIGNORE TI BENEDICA»
Per
concludere la riflessione vi racconto un’esperienza che ha toccato la
mia vita e che mi permette di parlarvi, con convinzione, in questo modo.
Tre anni fa ho perso mio papà per un tumore alle ossa. Fin da quando
ero piccolina, mio papà aveva l’abitudine di darmi la benedizione.
Lui era un tipo un po’ all’antica e ogni qualvolta mi salutava mi
dava anche un bacio - che per lui rappresentava la benedizione di Dio -
e accompagnava quel gesto con la frase: “Il Signore ti benedica”.
Finché
ero piccola ho vissuto la cosa abbastanza tranquillamente; anche se gli
altri papà non lo facevano non mi meravigliavo più di tanto. Il
problema è sorto nell’età adolescenziale: quando mio papà mi
salutava davanti agli altri e mi sentivo dire “il Signore ti
benedica” non è che fossi proprio contenta, mi vergognavo un po’.
Crescendo ho superato questo disagio, poi sono diventata suora e capivo
anche il senso di questa benedizione, ma il momento in cui l’ho
compreso veramente fino in fondo, è stato proprio quando mio padre è
morto. Ho avuto la fortuna di assisterlo - dico la fortuna perché stare
vicino a lui mi ha insegnato tanto - e proprio prima di perdere
conoscenza e poi morire, si è voltato verso di me, ha sorriso e le
ultime parole che mi ha detto e che non dimenticherò mai, sono state
queste: “Michela, il Signore ti benedica”.
In
quel momento, per la prima volta ho capito veramente che cosa
significasse quella benedizione che per tanti anni mi aveva
accompagnato. Era come se mio padre mi dicesse: “Io non sono più con
te, tra poco me andrò ma non ti preoccupare, il Signore continuerà a
seguire il tuo cammino e io insieme a lui; il Signore continuerà a
benedirti così come ha fatto in tutti questi anni”. Lì ho capito
cosa significa dire che il Signore ci benedice. Ho avuto la
convinzione che nelle parole di mio papà c’era la verità che Dio è
davvero Padre, che davvero vuol farci vedere la nostra vita sotto tutto
un altro punto di vista, in un modo molto più bello: dobbiamo avere
solo il coraggio e la costanza di tornare a lui quotidianamente.
Chiediamo
allora oggi al Signore di farci il dono di questa convinzione della sua
vicinanza, di questo sguardo puro come il suo per vedere la sua presenza
di gioia nella nostra vita.
ASSEMBLEA
IN DIALOGO: gli interventi del mattino
Sandra
Sambo
Vorrei
sottolineare due cose dette da don Silvio prima della meditazione di
Michela.
L’assemblea
di oggi è radicata sulla contemplazione di Gesù e siamo stati guidati
a ciò già dal 1997 da una tenerissima meditazione del patriarca Marco
a Quarto d’Altino. Conoscere Gesù, contemplarlo, imitarlo, tentare di
amare come lui ama è all’origine di ogni vocazione, di ogni dono.
Partendo da qui ci siamo interrogati sul ministero che Gesù ha affidato
agli sposi.
Negli
anni successivi le assemblee hanno affrontato il ministero profetico -
educativo, poi quello sacerdotale - caritativo ed infine, lo scorso
anno, quello regale - politico.
Questo
linguaggio, nella sua essenza, può sembrare difficile ma si realizza
praticamente con il servire nell’amore per costruire, dentro e fuori
la nostra famiglia, la civiltà dell’amore. Avevamo detto che è come
essere noi stessi le mani di Gesù nella storia. Ci racconteremo,
quindi, che Dio-amore è Padre e Madre.
Ci
siamo posti anche qualche interrogativo al quale risponderemo tutti
insieme: come e quanto ha inciso nel nostro vivere la partecipazione
alle ultime assemblee degli sposi? Cosa ci è rimasto nel cuore? La
nostra vita è stata segnata dalla contemplazione di Gesù? Siamo un
po’ cambiati?
Paolo
- S. Giovanni Evangelista -
Mestre
Vorrei
proporre la nostra esperienza di coppia che segue da ormai dieci anni i
genitori dei battezzandi per ribadire la necessità che gli sposi siano
una componente viva nella Chiesa.
Nello
svolgere questo servizio incontriamo persone che hanno atteggiamenti
diversi nei confronti della Parola di Dio; spesso ci troviamo di fronte
a situazioni matrimoniali irregolari e a famiglie lontane dalla fede che
chiedono lo stesso il battesimo per i propri figli.
In
un contesto di disagio nei confronti della fede e con tante coppie che
vivono il matrimonio con difficoltà, ci è sembrato opportuno far
nascere un “Gruppo sposi” nel quale ci potesse essere un efficace
scambio di esperienze.
Uno
scambio che riscontriamo importante anche a livello diocesano, proprio
in occasioni come questa di oggi. Mi sento di lanciare la proposta della
creazione, a livello vicariale, di un centro di coordinamento delle
varie esperienze da divulgare poi in Diocesi.
Forse
posso dare l’impressione di essere andato fuori tema con il mio
intervento, ma vorrei precisare che alla radice della decisione di
dedicarci alla formazione dei genitori dei battezzandi, sta la morte di
un nostro figlio. Quando si è toccati da questi eventi ci si interroga,
ci si trova di fronte alla croce che è Gesù Cristo. Accogliendo
l’invito di Gesù «se avete bisogno, chiedete, e il Padre vostro ve
lo darà», abbiamo chiesto aiuto a Dio; abbiamo pregato per due mesi,
dicendo l’Ufficio anche alle due di notte. Lo abbiamo fatto come
l’“amico importuno” e abbiamo ricevuto sicuramente la grazia che
ci ha aperto alla speranza. Tommaso era il nostro terzo figlio, ne
abbiamo avuti altri due.
Poi
il Signore ci ha detto: “Pax Christi urge nos”, l’Amore di Cristo
ci spinge verso il servizio ed è per questa ragione che ci siamo
dedicati agli altri.
Pietro
– S. Paolo - Mestre
Il
dubbio che può sorgere, dopo la meditazione di Michela, è che le cose
che ci ha detto, siano appannaggio di persone che si dedicano a tempo
pieno alla contemplazione. In realtà gli sposi si trovano nella
condizione ideale per vivere o per lo meno di tentare di vivere una
dimensione di scambio d’amore.
Per
cercare di vivere questa contemplazione occorre prima di tutto
riconoscere i grandissimi doni che Dio ha fatto all’altro o
all’altra; l’accettazione dell’altro per quello che è e non per
quello che si vorrebbe, è già un accogliere il dono dell’altro che
Dio ci fa.
Un’altra
considerazione che mi sembra importante è che la tensione di tutti gli
sposi ad impostare un rapporto quanto più possibile positivo,
gratificante, improntato sulla bellezza, sulla generosità, sulla gioia,
non contrasta con l’ascesi, con il mettersi davanti al Signore e
vedere che il Signore desidera proprio questo. Fondamentalmente
“contemplazione” significa anche lasciarsi amare da Dio e dal
coniuge senza opporre resistenza.
Fiorella
- S. Giovanni Evangelista - Mestre
Non
credo sia così scontato poter contemplare Cristo nella nostra vita: è
un dono e di questo ringrazio il Signore. Personalmente credo di aver
ricevuto questo dono ad un certo punto della mia vita, ed ho constatato,
grazie ad una forte esperienza di fede all’interno della mia
comunità, quanto sia importante essere in tre nella vita di coppia,
sentire cioè la presenza di Cristo nel matrimonio. Ho iniziato così a
contemplare Cristo dentro la mia storia, nel mio matrimonio e nella
vocazione di mio figlio.
Riallacciandomi
al discorso di Michela, sono d’accordo nel dire che l’amore di
Cristo si evidenzia nella contemplazione della croce, perché lì si
concretizza l’amore del Padre nel donarci il Figlio.
Allora,
alzare gli occhi a quella croce, nei momenti di sofferenza, aiuta
veramente a non cadere nella disperazione; quella disperazione che mi
avrebbe sovrastata nel momento in cui il mio primogenito – allora in
seminario, ora sacerdote - si è ammalato di diabete rischiando di
morire.
Il
Signore ci ha aiutato a sostenere il nostro ragazzo – allora aveva 17
anni – nell’affrontare la malattia che in realtà è servita a
rinsaldare la sua vocazione al sacerdozio. La sofferenza gli ha fatto
comprendere che tutto, la sua vita e la sua vocazione, era nelle mani di
Dio.
Nadia
- S. Pietro - Oriago
Michela
mi sta facendo fare un passetto avanti per capire dov’è il
“monte” per me, dove poter vedere le cose un po’ dall’alto, più
tranquillamente.
Troppe
cose interferiscono nella relazione con le persone, con i figli, con il
marito ed anche i momenti di preghiera ne risultano un po’
compromessi.
Riflettendo,
mi sono accorta però che il Signore ci ha offerto l’opportunità di
fare un percorso assieme mediante la vicinanza alla sofferenza e la
morte di persone a noi care.
E
così guardi il marito, il figlio - chi ti è vicino insomma - con
l’occhio dell’unico: tu, che sei “unico” per il Signore, sei
unico anche per me e perciò diventi una “cosa” nuova che rende
positiva la giornata, anche quella in cui tutto gira storto o
sovraccarica di impegni.
Michele
- SS Apostoli - Venezia
L’incontro
con Gesù ha dato sicuramente una svolta alla mia vita poiché,
scoprendo il suo amore per me malgrado i miei pochi pregi e i tanti
difetti, ho imparato ad amare mia moglie in un modo nuovo, senza
egoismo.
E
anche se in questo periodo mi riesce faticoso amare gli altri e pregare,
sento che Gesù non mi ha mai abbandonato, che continua ad amarmi con i
miei peccati, così come sono.
Piergiorgio
– S. Salvador – Venezia
Nella
meditazione di Michela ho colto l’invito a lasciarci accompagnare da
Gesù a vedere un po’ dall’alto la nostra realtà.
Ma
crediamo davvero tutti che Cristo – cioè colui che ci fa vedere il
Padre - è il senso ultimo, il senso vero, colui che ci fa leggere in
modo pieno la nostra storia?
Questo
è l’interrogativo che ci ponevamo, Cecilia ed io, e pensando alla
difficoltà di trovare lo spazio per pregare, scoprivamo che c’è un
senso anche in questo sforzo nel cercare un momento per stare insieme a
Gesù, l’unico che davvero può dirci chi siamo, dove andiamo.
Ripensando
alle parole del patriarca Marco a Quarto d’Altino, quando diceva:
“Voi siete i narratori della paternità e maternità di Dio”, ci
chiedevamo come potremmo esserlo davvero se il nostro sforzo, come
coppia, non fosse quello di rimanere attaccati a lui. Rischieremmo di
narrare noi stessi!
Infine
una domanda sulla contemplazione: chi contempliamo? Gesù che si è
incarnato prima di tutto nella storia, un Gesù della gioia, un Gesù
che dà il senso vero della vita. È vero che lo leggiamo nelle
sofferenze della vita, ma è vero che lo scopriamo anche nei volti
sorridenti dei nostri figli, nella gioia quotidiana del volerci bene,
nelle piccole cose di tutti i giorni.
Alberto
– S. Giovanni Evangelista – Mestre
Dalla
meditazione di Michela ho colto questo aspetto: stamattina non è
importante tanto capire cose nuove, quanto poter sentire la presenza, la
vicinanza di Gesù Cristo.
Ho
sentita vera la sua riflessione sulla nostra vita intesa come un
labirinto, dove non si comprende dove sia la via d’uscita, né dove
stiamo andando, se andiamo avanti o indietro, se stiamo perdendoci o se
andiamo verso la strada giusta. Ma il Signore ci permette di vederla
dall’alto e questa è un po’ anche l’esperienza
che ho fatto con mia moglie in famiglia.
Pur
avendo avuto un’educazione cristiana, mi ero allontanato dalla Chiesa
e vi sono ritornato con il corso per fidanzati fatto in occasione del
matrimonio; è quindi anche per gratitudine al Signore che da circa
vent’anni ci dedichiamo alla preparazione dei fidanzati al
sacramento del matrimonio.
Grazie
ad un cammino che stiamo facendo e alla vicinanza con la Parola, il
Signore ci ha dato di alzare gli occhi e vedere che c’è un senso
anche nelle difficoltà incontrate nella vita e nel matrimonio: infatti,
anche tramite queste, il Signore ha fatto nascere un amore nuovo tra di
noi.
È
vero, come diceva Michela, che se noi andiamo avanti guardando sempre in
alto, rischiamo di cadere su una buccia di banana, ma è anche vero
però che avanzare guardando sempre in basso, ci possono sfuggire tante
cose. Proprio le difficoltà e le sofferenze mi hanno fatto spesso
alzare gli occhi al Signore accorgendomi così della sua presenza
preziosa per la mia vita, più delle cose materiali che pure hanno la
loro importanza.
Manuela
– S. Maria Concetta - Eraclea
Mi
sono soffermata sul discorso della tenda: prepariamo una tenda per il
Signore nel nostro cuore, dove possiamo rimanere sempre con lui. Se
riusciamo a vivere in questa tenda - quindi con gli occhi rivolti a lui
- guarderemo gli altri, il nostro sposo, la nostra vita, quelli che ci
circondano, con i suoi occhi che sicuramente sono privi di egoismo,
privi di “io”, al contrario dei nostri.
Questo
ci permetterà di vivere più serenamente e secondo un disegno preciso:
vivere la gioia, la felicità, il dolore, cose oggettive che possono
colpire ognuno di noi, guardando alla vita in un modo diverso,
perché anche nel dolore e nella disperazione si possono avere
serenità e felicità.
Graziano
- Borbiago - Mira
Mi
si pone una domanda: quanto riusciamo ad essere testimoni
quotidianamente per poter portare più acqua al cammino che stiamo
facendo? Solo attraverso una testimonianza viva, partecipata, si può
ingrossare il fiume dell’amore. Purtroppo moltissime famiglie
tendenzialmente si chiudono in se stesse. Interroghiamoci allora quanto
siamo disposti ad aprirci come famiglia per darci agli altri. Mi sembra
che, di questi tempi, sia presente più una chiusura che un’apertura.
Rossella
– SS Martino e Benedetto – Campalto
L’intervento
di Michela mi fa tornare alla mente la parola: “speranza”. In questo
periodo aleggia uno spirito di pessimismo, di distruzione e di guerra,
per cui siamo proprio chiamati ad essere persone di speranza, perché,
pur con le sofferenze e i problemi di tutti i giorni, con Cristo si può
avere una vita diversa, più felice, più gioiosa.
È
da venticinque anni che il Signore ci ha fatto incontrare e pochi giorni
fa abbiamo festeggiato 19 anni di matrimonio. Ciò ha fatto stupire un
mio collega che con convinzione esprimeva la sua incredulità: “Ma
come è possibile, non vi siete ancora stancati?!”.
Aldino
– S. Giovanni Evangelista – Mestre
C‘è
una cosa detta da Michela che mi ha colpito: la nostra unicità. Sentire
che io sono unico, mi ha aperto veramente gli occhi.
Il
discorso della contemplazione, credo invece, sia molto difficile da
capire.
È
vero che per noi sposi, pieni di problemi e di affanni, è problematico
trovare il tempo per pregare, ma se ci rendiamo conto che Gesù deve
essere messo al centro della nostra vita, allora comprendiamo che non
importa se non viene stirata una camicia o non viene fatta una
lavatrice. Quando ho realizzato che seguire Cristo è la cosa più
importante della mia vita, mi sono messo in ascolto della sua Parola,
l’unica vera ancora di salvezza dalle problematiche e dagli affanni.
È
importante trasmettere questa esperienza ai nostri figli, far
comprendere loro che siamo sostenuti da Cristo dentro la nostra storia,
perché solo così potremo sostenere loro quando sono nelle difficoltà.
Maurizio
– S. Pietro - Favaro
Michela
ci ha trasmesso immagini bellissime di pace e serenità interiore.
È
stato illuminante per me quell’andare sul monte, riferito al vangelo
della Trasfigurazione. In effetti, come sposi, abbiamo il compito di
guardare bene la realtà che ci circonda, ma è importante anche essere
in alto, per guardare oltre le piccole cose. Penso che questo sia, per
noi, un obbligo morale nella consapevolezza che il Signore ci è sempre
vicino.
Termino
con un’esperienza personale. Io non sono mai stato lontano dalla
Chiesa, ma credo di avere colto la realtà del Signore che cammina
insieme a me e mi fa maturare, solo dopo il matrimonio, anche attraverso
il Gruppo Sposi in parrocchia, dove ci si ritrova con le stesse
problematiche e le stesse difficoltà.
Giovanna
– S. Maria Elisabetta – Lido di Venezia
Voglio
portare l’attenzione sullo Spirito Santo che abbiamo invocato
all’inizio dell’Assemblea.
Nella
nostra vita di coppia e in famiglia, abbiamo visto come lo Spirito,
invocato, pregato, ci abbia portato a testimoniare che Gesù è vivo, è
realmente presente in mezzo
a noi. Contemplando questa realtà, lo Spirito Santo ci guida
nell’aprire il cuore verso gli altri, in particolare verso quelle
famiglie che vivono in grandissima difficoltà.
Ed
è lo Spirito che ci conduce alla contemplazione di Gesù Eucaristia. Mi
sono spesso chiesta perché anche noi sposi non possiamo fare come le
suore di clausura, che contemplano Gesù Eucaristia dal quale ricevono
continuamente amore. È un po’ la mia sfida: sono sposata, ho due
figli e tante cose da fare, ma sono dodici anni che ogni giorno trovo il
tempo per andare ad adorare Gesù perché è lui che mi dà l’amore
che mi serve per tutto il resto.
Monica
– S. Giovanni Battista – Jesolo
Noi
abbiamo quattro figli ed è attraverso la loro sofferenza che abbiano
conosciuto l’amore di Gesù. Due di essi sono in una comunità per il
recupero dei tossicodipendenti e come contributo alla riuscita del loro
cammino, questa comunità ci ha proposto la nostra conversione. Questa
conversione, all’inizio un po’ costretta, è poi diventata il nostro
punto di forza.
Dopo
aver provato il disagio della droga, che li aveva fatti sprofondare nel
buio più totale, i nostri figli – che in comunità lavorano e pregano
- hanno conosciuto la luce di Gesù e questa è entrata anche in casa
nostra.
Abbiamo
dovuto affrontare tutte le difficoltà di coppia, perché i disagi dei
figli erano anche i nostri problemi. Gesù ci ha accolto, malgrado le
nostre povertà, e abbiamo detto sì al cammino che lui ci ha proposto.
A
Jesolo facciamo parte del Gruppo Sposi, e anche per noi c’è la grossa
difficoltà nel portare la Parola di Dio agli altri perché, in genere,
c’è la convinzione che la preghiera sia tempo perso e non serva. Ci
è dunque di consolazione aver sentito da Michela che proprio per
conoscere Dio bisogna veramente vivere la preghiera, farla nostra e
costruirla giorno per giorno
Daniele
Garota
Cosa posso dire davanti ad un babbo a cui è morto un figlio, a una mamma che ha due figli in una comunità di recupero, al dolore che essi possono avere provato e che provano magari ancora e nel quale solo a loro spetta entrare dentro? E cosa posso dire io dopo aver sentito le vostre considerazioni?
È necessario essere attenti anche alle sfumature e c’è ne una, nell’intervento che ha fatto Michela, che mi è rimasta impressa. Quando suo padre la benediva e lei era bambina, era tutto normale; quando suo padre la benediva e lei stava crescendo diventando adolescente e adulta, si vergognava. Mi chiedo perché un nostro figlio si vergogna quando cresce se ci vede avvicinarsi a lui con i gesti specifici della preghiera e della fede.
Non è che ora io voglia spiegare perché Michela si vergognava; so che i nostri figli, ad un determinato punto, si vergognano di certi gesti e ciò accade soprattutto se questi sono ostentati, come se si facesse apposta per farsi vedere. Con l’esperienza ho capito che sono necessarie due cose fondamentali: la fedeltà a questi gesti, ma anche la discrezione. Bisogna andarci piano, perché se si commettono errori col pregare poco, ci sono errori anche col pregare troppo.
Vi porto un esempio. Davide, il mio figlio più grande di 23 anni, è arrivato dalla Francia con la sua nuova ragazza; ci ha presentato una cara ed intelligente ragazza di 21 anni. È venuta a cena a casa nostra dove, tutte le volte che mangiamo insieme, si fa il segno di croce e si dice una preghiera, ma ho capito che se c’è un ospite non credente, o di altra religione, dobbiamo fare questi gesti mettendoci in ascolto discreto della diversità dell’altro. Anche questa è testimonianza e queste testimonianze servono oggi più che mai; noi, “dentro la storia”, vuol dire “noi” dentro una comunità di gente dove ci sono credenti di altre religioni, non credenti, eccetera.
Questo può capitare anche nella nostra famiglia, per cui, prima di cominciare il pranzo, ho chiesto a Davide: “Davide, possiamo dire la preghiera?”. E Davide mi ha detto: “Sì, perché l’abbiamo sempre fatto”.
Abbiamo pregato e la ragazza di Davide non si è scomposta. Ha assistito al nostro segno di croce, al nostro Padre nostro, ma non ha mosso le mani né la bocca. Il giorno successivo lei torna e si fa la stessa cosa.
Non ho mai chiesto a Davide perché Marion non si è fatta il segno di croce e non ha pregato con noi. In seguito, spontaneamente, mi ha detto che per Marion era una novità che in una famiglia si
pregasse, essendo cresciuta in una famiglia completamente atea, dove non ha mai sentito parlare di Gesù, dove nessuno ha mai parlato di vangelo.
Ora, perché Davide ha detto: “Sì, diciamo la preghiera, perché l’abbiamo sempre fatto”?
Ho capito da ciò quale forza c’è in certi gesti se diventano gesti abituali. Se li compiono fin da bambini, i nostri figli facilmente continueranno a farli anche da grandi. Magari smetteranno per un po’, però poi li riprendono. Ho riscontrato ciò in tutti e quattro i miei figli, ma soprattutto quelli grandi hanno bisogno di questi piccoli gesti. Hanno anche bisogno, però, che li rispettiamo, che non li forziamo: se Paolo, che ha quindici anni, viene con amici a mangiare a casa nostra, lui si vergogna del nostro fare il segno di croce, perché i genitori degli amici non lo fanno e gli amici potrebbero metterlo in imbarazzo.
Dobbiamo rispettare questi disagi e tuttavia essere fedeli a quei gesti perché sono della massima importanza.
Se un prete o una suora si fanno il segno della croce o dicono una preghiera, non fanno problema, ma se lo fa un padre davanti alla figlia, a questa può fare problema, e questo Michela l’ha sentito, anche se era cresciuta in un certo modo, in una famiglia non atea, avendo essa stessa una predisposizione allo spirito, tanto che poi si è fatta suora. Tuttavia lei ha sentito quel disagio.
Il genitore deve rendersi conto dell’importanza dei gesti ma anche della discrezione necessaria a che il gesto sia autentico e abbia la sua dignità e la sua forza.
La testimonianza di Cristo non si dà coi segni di croce o con le parole devote: si dà con i gesti. Se io faccio una carezza ad Ornella, può essere una testimonianza di Cristo davanti agli amici.
Si diceva di salire sulla montagna. Noi abbiamo l’esempio di un Dio che era su una montagna talmente alta e inaccessibile che ad un certo punto ha deciso di venire più in basso, nella pianura, di farsi carne - come siamo carne noi -, di vivere in una famiglia. Si faceva pulire il culetto dalla mamma, ha avuto bisogno di aggrapparsi alle tette della mamma per prendere il latte: questo è stato il nostro Dio. E questo è contemplare il Cristo, una contemplazione fatta di momenti concreti.
Come si può contemplare Cristo? La signora ci ricordava Gesù Eucaristia, ma è possibile contemplare Cristo soltanto mettendosi in ginocchio davanti al tabernacolo, o ci sono anche altre modalità?
La tradizione ci dà per lo meno altre due vie: il volto del fratello, del coniuge, del figlio e la Parola.
Tutti noi possiamo aprire la Parola perché sappiamo leggere.
L’altra mattina io e Ornella ci siamo ritrovati a leggere la Parola. Lo facciamo qualche volta dedicandoci un quarto d’ora, venti minuti, scegliendo dalla liturgia del giorno. C’era la lettera agli Efesini ed il brano l’ha letto Ornella (c’è diversità a seconda di chi legge: se legge lei io vedo altre cose nella Parola). Alla fine, cercando di dire qualcosa sul passo, le ho fatto notare che mentre leggeva sentivo la forza di quel versetto che dice “comprendere in maniera tutta particolare e cioè possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere, eccetera….”. Non dice “possa egli illuminare la vostra mente”, ma “possa egli illuminare gli occhi della vostra mente”.
La contemplazione significa scorgere qualcosa con occhi illuminati e capaci di vedere. Aiutati da questa luce – che è senz’altro la luce dello Spirito -, possiamo vedere l’invisibile sia attraverso gli occhi della nostra mente, sia attraverso il volto della sposa o dello sposo, o il volto del figlio o quello del fratello.
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Marco – S. Marco Evangelista - Mestre
Partendo dal titolo del tema di oggi, mi sono soffermato sull’inciso “dalla contemplazione di Gesù Cristo all’amore” e sul significato di quelle preposizioni “da” “a”. C’è come un automatismo, per cui iniziando dalla contemplazione non si può che arrivare all’amore, per sempre e duraturo.
Nella bellissima meditazione di Quarto d’Altino il patriarca Marco Cè ricordava che noi, sposi cristiani, siamo chiamati a manifestare l’amore di Dio per la sua Chiesa, con un amore che non può che essere senza fine e che comporta una responsabilità grandissima.
Ma c’è un punto critico in questo bel ragionamento: la nostra fatica a contemplare Gesù, a guardarlo, a conoscerlo; per amare una cosa bisogna conoscerla, e solo se noi conosciamo le potenzialità del nostro amore siamo disposti anche a difenderlo.
Guardando
alla nostra vita di coppia, mi sono reso conto, che una fatica sentita
anche da molti altri sposi è effettivamente la preghiera, la
conoscenza. Personalmente, riconosco che ci si è scaldato il cuore
quelle volte che con la mia sposa siamo riusciti a fare questo; ci siamo
sentiti come coloro che salgono sulla montagna. Andare in montagna costa
fatica, ma più in alto si va, più bella è la prospettiva, maggiore il
panorama e più ci si scalda il cuore quando si volge lo sguardo verso
il basso.
Quando si sale in montagna, non sempre entrambi abbiamo lo stesso passo; il bello è sapere che se uno ha il passo meno svelto, l’altro lo prende per mano e lo aiuta a salire, in modo che tutti e due si possa godere della stessa visuale. Quando abbiamo potuto realizzare ciò, c’era la percezione di essere veramente portatori d’amore e la convinzione ci veniva dalle testimonianze degli altri nei nostri confronti.
La fatica, quindi, è rappresentata dalla costanza nella preghiera e nell’ascolto della Parola; superate queste difficoltà, non può non esserci una coppia che manifesta un amore duraturo e senza fine.
Milena - S. Pietro Orseolo – Mestre
Uno dei compiti più difficili per noi sposi e genitori cristiani riguarda l’educazione dei figli e in particolare il modo di aiutarli a comprendere l’aspetto vocazionale della loro vita.
Perciò
mi è di grande conforto il fatto che la nostra stessa vocazione ad
educare è benedetta da
Dio.
Ho
voluto sottolineare questo aspetto perché credo sia un punto di
partenza importante per affrontare tutte le difficoltà e trasformarle
in preghiera e meditazione in modo che tutto non parta da noi ma da Dio
e in perfetta comunione con lui.
Libero e Anna – S. Trovaso – Venezia
Abbiamo riflettuto su questo “essere sposi in Cristo” alla luce delle proposte programmatiche diocesane di quest’anno: “Lieti nella speranza” dove ci viene detto che là dove ci sono un uomo e una donna c’è la speranza. Nel documento è messo anche in risalto il compito – e la gioia - degli sposi, in quanto genitori, di trasmettere ai figli la speranza, soprattutto la speranza in Cristo.
La realtà del mondo però ci interroga su come chiedere agli sposi di trasmettere questa speranza a dei bimbi che hanno handicap tali da non poter cogliere, né dare nulla, almeno all’apparenza.
Nasce allora spontanea un’altra domanda, che sta a monte. Cosa possiamo rispondere alle coppie, che vivendo questi disagi, si fanno e ci fanno la grossa domanda: “Perché proprio a me; perché ai miei figli?”.
Cristo non dà una risposta diretta; dobbiamo fare un cammino molto lungo e difficile, che porta poi non ad avere una risposta, ma a sentirsi chiedere l’adesione ad una chiamata, ad una vocazione che rende
partecipi marito, moglie, papà e mamma, ad un disegno di salvezza. Solo così, camminando insieme a Cristo, sapendo di essere con lui, riusciamo a comprendere e a vivere tante cose, compreso il disagio di una situazione piena di dolore.
Un'altra
dimensione è il tempo. Gesù ci viene in aiuto, perché da situazioni
che crediamo infruttuose, nascono ricchezze inimmaginabili: questo lo
abbiamo provato nella nostra vita. Ci vuole, però, il coraggio, proprio
come sposi, di trasmettere il messaggio di sentirci mandati, di sentirci
chiamati a partecipare a quella che è la strada e il disegno di
salvezza di Cristo.
Loredana – S. Maria Elisabetta – Lido di Venezia
Innanzitutto
un ringraziamento a tutti gli organizzatori di questo incontro ed in
modo particolare a Michela per la sua riflessione. Prendo lo spunto
dalla frase «Questo è mio
figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo».
È
questo il concetto che porto avanti nella mia professione, nella quale
sempre più spesso abbandono le metodiche acquisite a favore di un
atteggiamento che tiene conto proprio di questo nostro essere figli
prediletti del Padre. Gesù passava per i villaggi, non aveva fretta di
arrivare a Gerusalemme, si fermava, ed accoglieva ogni persona che
incontrava, cieca, storpia, perché ognuna era figlio prediletto del
Padre.
Per cui dico alle mamme, facendole pregare: “Non avere paura, questo figlio è voluto da Dio Padre, è un figlio prediletto. Nonostante le sue pulsioni autodistruttive, ancorché estreme, devianti, tendenti al suicidio, questo è un figlio prediletto da Dio Padre; abbi fiducia, perché prima di tutto è figlio suo e figlio vostro”.
Devo ringraziare il Signore per avermi messo a fianco Bruno, perché non pretende accanto a sé una compagna rigorosa come casalinga e moglie. E quando, nella mia professione, incontro “l’altro”, anche lui è accanto a me, anche se di fatto pare che sia io a svolgere il servizio.
Stefania – S. Maria Concetta – Eraclea
Prendo spunto dall’osservazione di Daniele sul fatto che lui riesce a cogliere particolari aspetti della Parola quando questa viene letta da Ornella, e desidero manifestare la convinzione – da femminista convinta - che le donne, all’interno della famiglia, hanno un ruolo particolare.
L’uomo è portato a guardare alle cose più concrete, la donna è più sensibile, più attenta. Per esperienza personale, mi rendo conto che spesso chi fa da traino, è la donna - mamma, moglie - che ha una sensibilità maggiore per gli aspetti più delicati, per quelle sfumature che di solito l’uomo, con il suo pragmatismo, non riesce a cogliere.
Non a caso, credo, si parli di paternità e maternità di Dio e non solo di paternità. Ritengo perciò che tante volte le donne siano chiamate - proprio per il loro essere donne - a fare questo sforzo di continuare con tenacia a lavorare all’interno della “chiesa domestica”, ma anche nella Chiesa universale, proprio perché non si lasci niente di intentato.
Piergiorgio – S. Salvador - Venezia
Mi
sembra giusto approfittare della presenza di Michela, Maria Grazia e
Simona per cercare di capire dove sta di casa Gesù Cristo per poterlo
contemplare. Stiamo veramente facendo questo?
In cartellina c’è un fascicoletto rosa in cui si parla, ad un certo punto, del magistero di Giovanni Paolo II e viene sottolineato il suo modo di parlare dell’amore sponsale di Gesù intendendo sia l’amore sponsale, sia l’amore consacrato, verginale. Sarebbe opportuno che noi sposi ci chiedessimo come ci rapportiamo con questa scelta diversa, che però ci parla pur sempre della paternità e maternità di Dio.
Dovrebbe essere anche questo un modo per cogliere la presenza di Gesù Cristo in un altro modo, in un’altra vocazione.
Stefano – S. Maria Concetta – Eraclea
La Parola di Dio meditata da Michela, secondo me individua la preghiera come lo strumento che noi sposi abbiamo per essere missionari nel mondo. Quando preghiamo saliamo sulla montagna per
prendere dal Signore quell’acqua che ci disseta ogni giorno della nostra vita. La contemplazione, quindi, è pregare Dio.
Con
Cristo dentro la storia significa che la vicenda della nostra vita viene
scritta da noi con lui. Egli ci aiuta a scrivere la nostra realtà di
coppia, la nostra avventura come popolo di Dio.
Antonio – S. Giovanni Evangelista – Mestre
Anche io mi vergognavo come Michela quando vedevo mia madre con un rosario in mano. Solo recentemente invece ho scoperto la forza di quest’arma che non a caso anche il papa suggerisce di usare. La preghiera è importantissima: un conto è iniziare la giornata in modo agnostico e altro è cominciarla dopo aver pregato insieme come coppia.
In
secondo luogo quando parliamo della donna dobbiamo fare riferimento a
Maria: è lei che ci porta a Gesù.
Gianpaolo – Madonna dell’Orto - Venezia
Forse
è il momento storico più giusto per affrontare il tema della
contemplazione di Cristo. Molti documenti del magistero della Chiesa,
infatti, mettono al centro Gesù e suggeriscono di guardare a lui anche
se trattano di altri argomenti.
Ma entrando nel tema vorrei dire che la “contemplazione” mi richiama alla mente il silenzio di un monastero, la preghiera dei monaci, il canto gregoriano e allora penso che questi religiosi sono fortunati a poter contemplare Gesù immersi in queste atmosfere.
Ma
se andiamo da loro o, come nel caso di questa Assemblea alcune religiose
vengono a parlarci, ci dicono che Gesù ci ama come uno sposo, che la
relazione che lui vuole stabilire con noi è come quella di una sposa
con uno sposo. Ma allora ho fatto tutta questa strada per poi sentirmi
dire che il terreno in cui lo posso incontrare e contemplare è proprio
quello da cui sono partito: la mia vita di sposo e di padre? Perché
allora non mi accorgo che forse stavo già contemplando Gesù?
Forse
la risposta sta nel fatto che tutto scorre così veloce, tutto è così
pieno di impegni e di urgenze che non valorizziamo mai abbastanza la
nostra vita, i nostri affetti, le nostre relazioni, per cui le cose
importanti ci sfuggono via. A volte mi basta stare lontano per lavoro
una settimana (anche meno) per ripensare alla bellezza della relazione
di coppia, alla famiglia, per sentire ringiovanire il desiderio, per
rivedere tutto più bello al mio ritorno a casa. È come se avessimo a
disposizione una grande ricchezza e che per apprezzarla ci deve essere
tolta, anche soltanto per poco.
E se Gesù, come diceva il Patriarca Marco qualche anno fa a Quarto d’Altino, fa degli sposi dei narratori del suo amore, della sua grandezza, della sua bellezza, allora significa che dentro questa nostra vita di sposi c’è qualcosa di grande, di stupendo, che però facciamo fatica a vedere. È come se passassimo gran parte della nostra vita immersi nell’umidità di una giornata afosa, quando i profili delle cose sono sfumati e tutto sembra pallido e senza colore. Poi arriva una giornata come oggi, in cui il vento spazza via la foschia e tutto acquista colore, spessore, dimensione, profondità, bellezza.
Credo che contemplare il Signore – come ci diceva stamattina Michela – ci aiuti a vedere la nostra vita di sposi trasfigurata; sapere che lui la vede così, può aiutare anche noi a vederla così davvero.
Marco - SS Redentore – Venezia
Anch’io, nella mia esperienza di sposo e di padre, ho riscoperto – come diceva Michela – il gusto della preghiera, che equivale ad incontrare una persona. Questo è ciò che in definitiva ci accomuna tutti: il Signore ci chiama ad incontrarlo come uno sposo. Per tutti, laici, preti, religiosi, sposati e no, la chiamata è questa, perché abbiamo un’anima che va in cerca di un’altra anima, di uno sposo. Cristo è la nostra storia e ciò che mi sostiene è pensare che prima di tutto siamo un popolo di salvati; ricordarci questo è importante perché la speranza nasce dalla convinzione che Cristo entra nella nostra vita e nelle nostre vicende chissà quante volte.
Questo
è il cammino della vita: vedere Cristo che continuamente viene e ci
salva, al di là di quello che siamo, delle nostre debolezze, dei nostri
peccati, delle nostre intemperanze.
Un’ultima osservazione: per vivere pienamente questa dimensione della fede non è sufficiente il matrimonio, è importante avere un gruppo in parrocchia, una comunità dove agire in questo senso. Questa apertura della coppia è la sfida per il domani!
don Silvano Brusamento – Vicario episcopale per l’evangelizzazione
Quando
si arriva alla fine di una meditazione è bene fare anche dei propositi,
altrimenti si finisce col fare la promessa di essere più buoni, che non
vuol dire niente.
Personalmente,
ho imparato una cosa: per salire sul monte non occorre andare molto
lontano, bisogna partire dalla propria casa, da se stessi, dal
quotidiano.
La meditazione e le riflessioni che abbiamo fatto stamattina sono davvero molto belle e credo vadano sempre più concretizzate; ci siamo un po’ scaldati il cuore insieme, a partire dalla Parola del Signore, però dovremo anche tenere presente le difficoltà.
Sono
prete da 35 anni e ho raccolto tante confidenze circa gli ostacoli che
si frappongono alla preghiera in coppia: bisogna combinare gli orari con
il coniuge, con i figli e tuttavia bisogna trovare comunque il momento
in cui si sostare in preghiera.
Vorrei suggerirvi un’esperienza personale: creare l’angolo della preghiera in casa, con dei segni molto semplici, una lampada, le sacre Scritture aperte. Magari promettiamoci di farlo per un breve periodo, chissà che un po’ alla volta non si maturi la convinzione di quanto sia utile.
Roberto e Paola – Carmini – Venezia
Vorremmo esprimere la nostra convinzione che la contemplazione di Gesù non è soltanto una cosa personale e può essere fatta in pienezza soltanto all’interno della Chiesa.
Noi siamo soggetti pastorali, in quanto coppie, e lo siamo ancora di più se all’interno della nostra comunità riusciamo a dare quell’esempio vero di contemplazione di Gesù. Non dimentichiamo di farci aiutare dai nostri pastori che sono i “santi” che vediamo, giorno dopo giorno, lavorare nelle nostre comunità. Tra questi ne vogliamo citare tre: innanzitutto il nostro parroco, don Serafino, un sacerdote anziano che ci sa dare una forza enorme all’interno della Comunità, poi don Beniamino, che è diventato da poco Vicario generale, e infine, ma non per questo ultimo, don Silvio.
Simona – Apostola della Vita Interiore
Nel pregare il Signore, prima di venire ad Eraclea, ho fatto la considerazione che forse noi avevamo qualcosa da dare a voi sposi, ma che sicuramente avremmo potuto essere arricchite a nostra volta da questo incontro. Questa preghiera è stata ascoltata dal Signore e - parlo anche a nome di Maria Grazia e Michela – usciremo di qui veramente arricchite dalle vostre testimonianze, fatte di parole molto forti e belle.
Vedere degli sposi che si vogliono così bene, che vogliono unirsi di più a Dio dà più forza anche a noi per vivere bene la nostra consacrazione. Veramente diciamo grazie a voi e a don Silvio, che ci ha invitato ed alla Commissione che ci ha permesso di stare qui, alle persone che si sono fatte un po’ strumento di provvidenza perché noi potessimo alloggiare a Venezia.
Le cose che avete detto sono molto belle e ho pensato un po’ di riassumerle con un’immagine: la calamita. È un po’ un mio pallino usare questa immagine, per cui mi sono guadagnata il soprannome di “suor calamita” quando vado in giro per le missioni.
Voi sapete com’è fatta una calamita: due pezzi di un metallo speciale che sono attratti grazie ad un campo magnetico. L’esempio ha i suoi limiti (anche tanti), però può aiutarci a capire qualcosa.
Immaginiamo che questa calamita sia Dio Trinità. Oggi abbiamo parlato di Padre, di Figlio e di Spirito Santo. Poniamo che un pezzo di questa calamita sia il Padre e l’altro sia il Figlio. Gesù ha detto: «Io e il Padre siamo una cosa sola», grazie proprio allo Spirito Santo che è il campo magnetico, la forza, l’amore che li tiene uniti.
In questa storia d’amore della Trinità entriamo anche noi, perché siamo un po’ come questo pezzettino di ferro. Noi siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio; il nostro cuore è fatto apposta – come diceva Sant’Agostino – per essere unito a Dio.
Qualcuno ha detto poco fa che la nostra anima cerca uno sposo, che è Dio. Quindi, non siamo stati creati come plastica, carta, legno o stoffa, ma di un materiale fatto apposta per essere unito a Dio. Allora succede che se noi stiamo lontani da Dio non ne sentiamo l’attrazione, non perché lui non ci sia, ma perché noi siamo lontani. Se ci avviciniamo, magari salendo su questo monte, attraverso l’ascolto della Parola, l’Eucaristia, la Messa, la preghiera insieme, i piccoli gesti d’amore che possiamo vivere, ecco che piano, piano, ci uniremo a lui, e veramente diventeremo una cosa sola con lui.
A questo punto, lo Spirito Santo ci verrà riversato nel cuore e con lui tutti i suoi doni: la gioia, la forza, l’amore, la capacità di vivere anche la sofferenza e potremo trasmettere questa gioia, quest’amore, anche alle persone che incontriamo; prima di tutto alla persona che ci sta accanto, nel vostro caso lo sposo o la sposa.
Lo Spirito Santo che riceviamo attraverso la preghiera, diventa quel campo magnetico che tiene unito il marito alla moglie e ci permette poi di testimoniare l’amore anche alle persone che ci sono accanto. Questa immagine mi dà tanta consolazione, perché mi fa vedere proprio il desiderio che ha Dio di riempirci di sé.
Quindi, prima che nostro, è suo il desiderio di sedurci, di attirarci per riempirci della sua presenza.
Vi lascio con questa immagine: gli sposi non sono solo come due mani intrecciate insieme che si guardano l’una con l’altra, ma sono come due mani giunte che sono protese verso il cielo e quindi in questo modo una coppia può essere veramente felice.
Voi oggi, con la testimonianza e la preghiera, avete mostrato questo desiderio che avete, e ne siamo edificate. Vi accompagneremo nella preghiera e poiché siamo una comunità molto piccola, che sta crescendo adesso, vi chiediamo di fare altrettanto con noi per sostenerci affinché possiamo essere testimoni di quest’amore di Cristo.
CON CRISTO DENTRO
LA STORIA
di
Daniele Garota
I
TRE MINISTERI
Mi
è stato chiesto di fare una sorta di riassunto delle tre ultime
Assemblee alle quali ho partecipato.
-
La prima, a S. Barbara,
riguardava il ministero profetico degli sposi, per cui
essi possono, in famiglia, essere in qualche misura profeti.
Si
era detto che lo Spirito non parla solo attraverso i profeti, ma anche
attraverso un padre e una madre, uno sposo e una sposa.
Quando questa mattina Michela parlava di quel versetto della “Trasfigurazione” in cui la voce del Padre dice: «Ascoltatelo» (cf Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35), in fondo non è che una ripresa dello “shemà”, cioè «ascolta Israele» (cf Dt 5,1). Del resto, lo stesso Deuteronomio, dopo aver descritto tutti i suoi precetti, raccomanda: «Lo
racconterai ai tuoi figli» (cf Dt 6,7).
Il patriarca Cè, quando dice «siate narratori di Dio dentro la vostra famiglia», non fa che ripetere quell’invito del Deuteronomio: «lo racconterai ai tuoi figli», al mattino, la sera, quando sei seduto a tavola, quando cammini per via…eccetera.
Abbiamo parlato quindi di un ministero profetico degli sposi che annunciano, con l’esempio e con la parola chi è Dio e come Dio si è manifestato e ha parlato.
-
Il secondo incontro
era un po’ più complicato perché ci chiedeva di parlare del ministero
sacerdotale degli sposi. Ma come si fa? I sacerdoti sono sacerdoti, la gente sposata è gente sposata e di questo si doveva parlare proprio dentro il seminario a Venezia.
Eppure, anche gli sposi, in maniera tutta loro, possono essere i mediatori tra Dio e i propri figli, anch’essi possono celebrare una specifica liturgia, precisi momenti di preghiera e di lode attorno alla propria tavola, dentro le proprie mura domestiche. Anch’essi possono esprimere quella particolare forma di sacerdozio che fu di Giovanni Battista quando disse rivolgendosi a Gesù: «Egli deve crescere e io invece
diminuire» (Gv 3,30). Immagine di Dio, portatori di Dio sono gli sposi che si amano.
-
Nella terza ed ultima Assemblea, dell’anno scorso, si è parlato del ministero
regale degli sposi. Riflettendo, si è visto che il modo di essere re di Gesù è diverso da quello degli uomini e del mondo. Mentre i re nel nostro mondo sono quelli che si fanno servire, Gesù dice: chi vuol essere il più grande diventi il servo di tutti. Quindi la regalità è una forma di servizio all’interno dell’essere sposi, è fare spazio all’altro, a suoi bisogni, alle sue esigenze.
Occorre farsi agnelli per servire l’altro, mediante una testimonianza che fa spazio all’altro attraverso una rinuncia a se stessi.
Soprattutto non può essere un servizio chiuso all’interno della propria famiglia, o all’interno della propria chiesuola: ci sono queste chiusure dei cattolici di cui qualcuno si lamentava stamattina.
Gli sposi non devono occuparsi soltanto della punta dei propri piedi, il Vangelo non chiama ad essere belle famiglie con anime candide, il Vangelo chiama ad aprire le proprie porte e il proprio cuore ai bisogni dei fratelli. I cristiani camminano nella storia e cercano di fare il bene a tutti ovunque si trovano e secondo le loro possibilità. La famiglia cristiana deve portare in casa il dialogo sui problemi della storia, sui drammi dell’umanità. In questo senso i media possono esserci d’aiuto, ma il compito di gestirli è pesante. Il rischio è quello di usarli male, di lasciare i nostri figli in loro balia. Occorre essere presenti dentro le proprie pareti domestiche aiutando i piccoli a crescere responsabilmente, sì da essere capaci di affrontare con mente aperta e responsabilità le difficoltà che sicuramente incontreranno lungo l’arco della loro vita. Guai se si lasciassero intrappolare dagli altri, ma anche guai se si chiudessero con egoismo davanti alle necessità degli altri. La famiglia regale è dunque la famiglia aperta al servizio vicendevole tra i propri membri e il servizio al prossimo che potrebbe essere lì davanti alla propria porta.
ASSOMIGLIARE
A CRISTO
Quindi, assomigliare a Cristo come profeta, assomigliare a Cristo come sacerdote, assomigliare a Cristo come re: questi sono i tre ministeri sui quali abbiamo riflettuto nell’arco di questi tre anni.
Di
discorsi belli ne abbiamo fatti tanti, ma cosa è rimasto nella nostra
esperienza di quelle belle riflessioni? Abbiamo cercato in qualche modo
di viverle oppure sono rimaste un bel discorso abbandonato?
In
definitiva, questi tre ministeri non sono altro che un unico ministero
che è quello di cercare di assomigliare il più possibile a questa
figura straordinaria che è Gesù di Nazareth, che si è manifestato
come il Messia atteso, il Cristo, colui che portava qualcosa di
veramente nuovo in Israele e nel mondo.
Egli
ha camminato per tre anni pubblicamente, mentre la maggior parte della
sua vita era rimasta nascosta, non ha mai scritto un libro. Ci sono
rimaste delle testimonianze di questa figura, e ci è rimasto il suo
Spirito che ha lavorato in questi duemila anni.
Come è possibile assomigliare a questa figura, a questa persona, mettersi alla sua sequela. Questo mi pare sia il tema di oggi: contemplare la figura di Gesù di Nazareth. Che non è un prendere l’anima e volare chissà dove, bensì un cercare di vedere chi era quest’uomo per assomigliare a lui in qualche modo, un chiedersi ogni volta: cosa avrebbe fatto Gesù in questa situazione in cui mi trovo. Questo è un esercizio che qualche volta faccio e che aiuta. Ci troviamo in una difficoltà, ci troviamo in mezzo alla gente e dobbiamo prendere una decisione: Gesù come avrebbe agito, cosa avrebbe detto? È questo che dovrebbe darci una mano nella contemplazione di Gesù.
Noi abbiamo fatto diventare troppo spesso Gesù l’uomo buono dai capelli biondi e dagli occhi azzurri che incontriamo nelle pitture preraffaelite e nei santini … il Gesù vero non era questo. Gesù di Nazareth era un uomo tenerissimo, dolcissimo cui i bambini si attaccavano addosso; ma sapeva essere anche duro, sapeva prendere la frusta, prendere a calci i tavoli, cacciare via la gente, urlare. Un Gesù che ha trasmesso la gioia, ma anche un Gesù che ha trasmesso il dolore, un uomo che ha patito molto. Su questa figura sono stati scritti fiumi d’inchiostro, ognuno ha detto la sua, ognuno l’ha rigirato come più gli faceva comodo: c’è il Gesù dei rivoluzionari e quello dei mistici, il Gesù della vecchina analfabeta e il Gesù della grande arte, il Gesù della religione civile e quello della New Age. Difficile sapere chi era Gesù. E non finiamo mai di stupirci quando entriamo nelle pagine del Vangelo: ogni volta ci sorprende. Chi dice di aver capito Gesù, non ha capito niente, perché Gesù è molto difficile da capire. Se poi ci mettiamo a seguirlo, non ne parliamo. Pochissimi sono riusciti ad assomigliare a Lui: Francesco d’Assisi, tanto per fare un esempio, c’è andato vicino, ma cosa non ha dovuto soffrire per seguirlo, cosa non ha dovuto fare…
GESÙ
DENTRO LA NOSTRA FAMIGLIA
Poi
qualche volta cerchiamo di vederlo, di immaginarlo anche dentro la
nostra famiglia. A volte me lo immagino che si siede sul mio divano e si
rivolge a me e mi dice: «Daniele, Daniele tu ti preoccupi e ti affanni
per molte cose. Ricordati che una cosa sola è necessaria. Ti ricordi di
Maria? Ecco, lei aveva scelto la parte migliore. Si era seduta accanto a
me ed ascoltava» (cf Lc 10,41).
Quante
volte ascoltiamo Gesù di Nazareth?
«Come facciamo ad ascoltarlo, non è a casa mia, non c’è, come mi parla?».
Io
direi che qualche volta può parlarci, anche attraverso le cose
quotidiane, attraverso la sposa o lo sposo. Magari non ci farà dei
trattati teologici, però può parlare, se noi gli lasciamo dello
spazio, se facciamo silenzio, se siamo in grado di cogliere le cose
straordinarie dentro le cose più semplici. Può parlarci attraverso un
figlio, un genitore anche ammalato.
Stamattina ho sentito soprattutto delle testimonianze di persone che hanno capito qualcosa attraverso l’esperienza del dolore. Purtroppo è così: l’uomo, nella prosperità, non comprende. Nelle nostre società spesso non ci rendiamo conto delle cose che abbiamo perché ne vogliamo sempre di più e perché ne abbiamo troppe.
Ma per noi, per la nostra società moderna, per la nostra Europa, ha ancora senso parlare di Gesù, il Cristo? Ha ancora senso testimoniarlo là, dov’è la storia, là, dove lavoriamo? In mezzo al
fervore delle attività, dove si parla di economia, di scioperi, di fabbriche che chiudono. Ha ancora senso portare lì qualcosa di questo Gesù, oppure lo dobbiamo tenere chiuso nelle nostre assemblee diocesane, nelle nostre parrocchie…
Bisogna portarlo fuori, dove è difficile lavorare, difficile testimoniare, dove viene quasi da vergognarsi, e dove però bisogna essere anche discreti, rispettare l’altro.
“ORA È TEMPO DI PENSARE A DIO”
Vorrei citarvi un’affermazione di Andrei Sinjavskij, uno scrittore russo: “Non si deve credere per una vecchia abitudine, non per la paura della morte, … non per salvare l’anima o essere originali. Si deve credere per il semplice motivo che Dio c’è”. E ancora: “Degli uomini si è parlato abbastanza. Ora è tempo di pensare a Dio”.
Questo mi ha fatto riflettere, perché è vero che ultimamente abbiamo parlato troppo dell’umano, e ci siamo poco occupati di Dio. Abbiamo preso Dio affinché servisse all’umano, ma non abbiamo parlato dell’uomo che si deve mettere in ascolto di Dio e soprattutto dei bisogni di Dio.
Dio
ha bisogno di essere ascoltato, di essere cercato, di essere compreso.
Contemplare
Cristo non è altro che contemplare una figura che ci rivela Dio Padre.
Ma noi, in casa, lo raccontiamo, lo narriamo? Come è possibile farlo? Questa è la domanda che ognuno si fa. È possibile farlo ancora oggi, in mezzo al frastuono della televisione, dei telefonini, di internet… questa è la scommessa. E non raccontiamoci la favoletta della famiglia perfetta; ognuno di noi ha i problemi suoi a casa sua, e forse l’imperfezione maggiore è proprio di chi dice “ah, la mia famiglia è bella, siamo tutti buoni, ci vogliamo tanto bene”.
Mi capita a volte di sentire questa gente che comincia a decantare tutte le lodi dei figli, bravissimi, va tutto a gonfie vele… No! È tutto falso. E anche se tutto andasse bene, guai chiudersi, perché basta aprire la porta, aprire il televisore, per rendersi conto del grande bisogno che c’è là fuori, di quanti lazzari giacciono affamati e feriti davanti ai nostri usci.
Ora prevale quanto mai la durezza di cuore. A questo proposito c’è quella frase che Gesù pronuncia quando gli chiedono: «Ma perché Mosé ha permesso di ripudiare la propria moglie, ha permesso il divorzio?» Gesù rispose: «È per la durezza dei vostri cuori, ma al principio non era così» (cf Mt 19,8; Mc 10,5). Al principio c’era un amore di Dio perfetto, al principio Dio aveva guardato cosa aveva fatto e tutto era molto bello e molto buono. Poi qualcosa si è rotto, è caduto, i cuori si sono induriti. Noi viviamo in questa durezza di cuori, in questa caduta, noi facciamo esperienza di questa rottura.
Anni fa, il capo della polizia di Monaco di Baviera, diceva questo: “È strano che i delitti più efferati avvengano dentro le realtà domestiche”. Laddove dovrebbe annidarsi il vero amore, quell’amore creativo di Dio che c’era all’inizio, l’aspettativa più alta di Dio, si naviga nell’odio, nella distruzione e nella morte. Lo vediamo, lo sentiamo nei nostri telegiornali, proprio in questi ultimi tempi e questo fa venire la pelle d’oca. Ma com’è possibile che questo male si sprigioni proprio lì, dentro il cuore delle realtà domestiche? Se ne avessi il tempo andrei a vedere nella Bibbia e sono sicuro che lì troverei tutto questo.
Il primo peccato, “il” peccato per antonomasia, avviene all’interno di una coppia di sposi, all’interno cioè dell’immagine di Dio. Maschio e femmina, appena creati da Dio, sono loro che cadono nel primo peccato. Immagine di Dio, una carne sola: il primo peccato è lì. Poi mettono al mondo figli e avviene il primo omicidio tra fratelli, Caino ammazza Abele.
Sarebbe molto interessante vedere come nella Bibbia, quella scritta in ebraico, vi sia una parola che viene scritta solo tre volte. Una è quando parla dell’uomo e donna appena caduti e, Dio dice: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gn 3,16) Ecco, questa parola istinto, che in ebraico è “teshuqà”, che significa bramosia, esplosione di sentimenti, quasi un tracimare di acque. Non è tanto istinto, come lo intendiamo correntemente, ma un qualcosa di potente che sorge da dentro e tende a dilagare verso una pienezza travolgendo ogni cosa.
La
stessa parola la troviamo quando Dio dice a Caino «...se non agisci
bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto,
ma tu dominalo». (Gn 4,7)
Questa
forza che tracima può essere anche il male che si avventa contro di noi
ed è detto a Caino che sta per commettere qualcosa contro suo fratello.
La terza volta la incontriamo nel Cantico dei Cantici. Questa volta è la sposa a pronunciarla, che dice: «L’amore è forte come la morte, / tenace come l’inferno è la passione, / le sue vampe sono vampe di fuoco, / una fiamma del Signore» (Ct 8,6). C’è nel cuore dell’uomo una forza potentissima proveniente da Dio che può essere usata bene, per amare, ma anche male, quando si scatena la furia di quelle passioni devastanti dettate dall’odio e dalla gelosia.
Ecco perché i delitti più efferati avvengono dentro le realtà domestiche. Dove c’è molto amore possono scoppiare quei fuochi della gelosia che bruciano e travolgono più che altrove.
IL
MODELLO DI GESÙ
Il modello che ci propone Cristo è questo: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Ma il modello che ci propone il mondo è un altro: c’è molta gioia nel ricevere, nell’avere sempre di più, nell’avere più degli altri ecc.
Il quotidiano Avvenire ha pubblicato nell’agosto scorso un articolo del vostro Patriarca Scola, che aveva per titolo: “La noia minaccia il rapporto tra uomo e donna”.
Questo articolo mi ha fatto prendere spunto per ragionare sulla noia che devasta anche le nostre famiglie. La noia significa fine della gioia, fine della creatività; quando c’è noia non si costruisce più niente. Assomiglia molto, questa noia, ad un vizio capitale che la cultura medievale e i monaci avevano definito con un’altra parola, che non usiamo più perché “antica”, si chiama accidia, «quella
cosa per cui – come diceva Pascal – avendo abusato del piacere, ci si trova nell’impossibilità di desiderare».
È come se ogni volta dicessimo: non vorrei essere qui e dove vorrei essere non sono mai. E così siamo sempre con il cuore annoiato, oppure, al contrario, stressati da iperattivismo. Non ci basta niente, corriamo qui, corriamo là, arrivando a sera con un pugno di mosche in mano. Stress e noia sono i due poli in cui vanno a sbattere continuamente le persone in questa nostra civiltà del consumismo sfrenato. Se ci si ferma ci si annoia, se cominciamo a correre, alla fine della giornata siamo stressati, però appena ci sediamo ci annoiamo e ricominciamo a correre. E spesso, ci capita, proprio per noia, di non gustare più le cose vere della vita, la gioia del vivere. E la vera gioia, lo sappiamo, è data, dalle cose più semplici, quelle non vediamo più, perché inseguiamo idoli e modelli falsi quanto irraggiungibili, quelli che tra l’altro la televisione ci offre da mattino a sera.
E questo vale un po’ anche per la pace, per quella pace del mondo che non è la pace che viene da Dio. «Vi do la mia pace, non come ve la dà il mondo io la do a voi» (Cf Gv 14,27), così potremmo dire della gioia: «io vi do la mia gioia, non come ve la dà il mondo io la do a voi».
Sono d’accordo con Roberto Benigni quando in un’intervista ha detto che il peccato di oggi è che la gente non desidera più di essere felice. Aggiungerei, da credente, che la gente non ha più bisogno della felicità che viene da Dio, mettendosi troppo a cercare una felicità che viene dagli idoli di questo mondo. Cose che durano un istante, come gli specchietti per le allodole, come i fuochi di paglia, che alla fine fanno sempre restare a bocca asciutta, con la vita inghiottita dal nulla. Questa è la felicità che dà il mondo.
Dio non lo sentiamo più presente con la sua forza, col suo desiderio di vederci felici. “Vi abbiamo suonato il flauto – ci dice Gesù – e non avete ballato” (Lc 7,32), sono venuto per stare allegro con voi, per mangiare, bere e portare gioia nelle vostre case, ma voi preferite altro, non vi interessa per niente il mio essere felice di stare con voi, vi ho dato tutto, ma è come se non vi avessi dato niente, vi invito a cose sublimi che aprono il cuore alla vera gioia e alla vera pace, ma voi preferite chiudervi nei vostri egoismi e nei vostri stupidi affari.
È molto bello quello che hanno detto certi maestri chassidici: con tutto quello che succede avremmo buone ragioni per essere tristi, ma ancora di più ne ha Dio, perciò Dio è così triste che noi dobbiamo consolarlo con la nostra gioia. È una gioia dunque che deve nascere più come dono fatto all’altro che come dono ricevuto dagli altri. Anche davanti a Dio deve esserci “più gioia nel dare che nel ricevere”. Dio ha tanto bisogno di vederci felici, lo stesso bisogno che abbiamo noi di vedere felici i nostri figli.
Ma torniamo all’articolo del Patriarca, nel quale veniva citata una frase del Romeo e Giulietta di Shakespeare: «La mia generosità è come il
mare e non ha confini, e il mio amore è altrettanto profondo: ambedue
sono infiniti e così più do a te, più ho per me».
Non
è una cosa semplice da capire, però sentiamo bene il messaggio che sta
dentro questo linguaggio: questa gioia è tale che più io do a te, più
sono felice. È il contrario di quello che solitamente avviene e cioè
che più io do a te e meno sono felice io.
Capita che anche l’amore tra gli sposi sia così: io voglio per me, non voglio per te. Il vero amore è invece sempre attento al bisogno dell’altro. Non solo, il vero amore è felice quando dà, quando c’è dono, offerta. È quello che ha detto Gesù, non è scritto nei vangeli, ma negli Atti degli Apostoli: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). È una logica completamente ribaltata rispetto a quella del mondo che dice più io ho e ricevo, più gioia ho.
Noi abbiamo forse avuto la fortuna di aver fatto almeno una volta nella nostra vita questa esperienza, ognuno di noi sa quando, dove e come e con chi ha vissuto come un intimo segreto, cose come queste, e magari con la forza dei corpi invasi dai sentimenti semplici e freschi della giovinezza, della carne che sa diventare una, con la gioia specifica data solo agli sposi. E dovremmo leggere certe parti del Qohèlet per capire tutto questo. Ma sappiamo pure che queste sono esperienze di un attimo, sono l’esperienza, il residuo forse, di quell’amore che sta all’inizio di ognuno di noi, che sta all’inizio della creazione tutta, di quell’amore che è una cosa sola con Dio e che si può sperimentare soprattutto nel volto del Cristo il quale davvero ha dato, dato e dato, e non sempre provando gioia, ma anche soffrendo pene indicibili, sudando sangue, tremando di paura. Ed era Dio, anche così era Dio e forse mai come in questo modo è stato capace di dirci quanto ci amava.
QUALI
TESTIMONI DI FELICITÀ
Cosa
fare dentro alle nostre famiglie alla luce di queste cose?
Tutti
facciamo esperienza della nostra povertà e anche con la moglie vogliamo
sempre avere ragione noi, e se comincia ad essere imbronciata,
la mandiamo a quel paese.
Nelle nostre famiglie, i nostri figli sentono un’atmosfera di gioia frizzante e creativa oppure un’atmosfera di stanchezza da: “basta, non ne possiamo più…”?. Il nostro modo di essere religiosi, di contemplare Cristo, sprizza gioia o sprizza noia, ripetizione, abitudine? Questo dobbiamo chiederci. Ci lamentiamo se i nostri figli si allontanano dalla fede, ma noi testimoniamo davvero questo essere persone che sono felici nel dare oppure diamo aspettandoci di avere sempre qualcosa ritorno? Il vero problema è che dovremmo essere felici già nell’atto del dare.
Lo diciamo, è vero, però, farlo, se ci pensiamo, è un’altra cosa, nessuno di noi riesce a farlo, perché siamo tutti poveracci col cuore duro: ognuno pensa per sé alla fine.
Il mio babbo è malato, ha l’ossigeno attaccato 24 ore su 24, e a volte mi arriva a casa la sera con l’ape. Magari sono preso dalle mie urgenze, e invece mi tocca stare due ore ad ascoltare lui con le sue solite cose straripetute. È lì che dovrebbe esserci più gioia nel dare che nel ricevere. Ma non è così. Sì, per carità, gli dono queste mie due ore, ma non è che sprizzi di gioia, perché si vede che c’è qualcosa dentro di me che non funziona.
E
così uno dice: «adesso ho da fare, non ho voglia», quando si torna a
casa e magari la moglie ha bisogno di qualcuno che stia con lei ad
ascoltarla raccontare una cosa; e questo succede magari anche quando
capita di andare a letto insieme: «non ho voglia, ho da fare... ».
C’è più gioia nel dare che nel ricevere.
È
lì la prova, non andiamo a cercare chissà quali trattati o teorie, La
prova è in ogni giorno, in ogni gesto, in ogni situazione concreta. Il
vangelo è fatto tutto di gesti, di situazioni semplicissime e concrete.
Gesù era fatto di semplici concretezze; ogni giorno si mangiava, si
beveva, come noi ci si alza il mattino, ci si fa la barba, ci si lavano
i denti, si fa colazione insieme: è lì che si sprigionano poi le
ruggini e per ogni stupidaggine si litiga.
Il
vero nodo è lì, e con i
figli è la stessa cosa.
Io credo si possa fare almeno una cosa importante. È vero che siamo dei poveracci, ma ognuno di noi può possedere dentro di sé delle forze creative; dobbiamo essere tutti un po’ degli inventori di qualcosa per animare i nostri rapporti.
L’amore è fatto continuamente di gesti creativi, di spontaneità; è dinamico l’amore, non ci si deve mai fossilizzare. L’amore deve essere qualcosa che si muove di continuo, che si apre; l’amore è generoso, è fresco, è mobile, non si indurisce, è malleabile, tenero, dolce.
È
difficile spiegarlo, ma bisognerebbe saper esprimere la vera gioia che
si prova quando si regala qualcosa. Quando dai qualcosa a qualcuno che
ha bisogno di te, senti di essere felice per questo.
Così come quando si è vissuto un momento d’intensità profonda; e quando si fa l’esperienza intima dell’unione dei corpi tra sposo e sposa, c’è veramente questa gioia sublime di sentirsi una cosa sola, veramente senti quel grido di Adamo che risuona, «oh, finalmente questa sì che è carne della mia carne, ossa delle mie ossa». Lì veramente si ha la sensazione di cosa significhi più sei felice tu, più sono
felice io. Però sono solo degli attimi perché poi si ritorna alla routine grigia del quotidiano.
Ma la prova del nove nelle nostre quotidianità credo sia data dai bambini. La reazione dei bambini non sbaglia mai. Ce ne sono molti che sono lì fuori che stanno giocando. Nelle nostre famiglie c’è chi ha i figli piccoli, ma vedo fra di voi gente che ha la barba bianca e avrà già i nipoti.
Come
noi ci poniamo davanti ai bambini? Pietro li sgridava, non disturbate
il maestro, invece Gesù diceva fate venire a me i bambini, e
li metteva ad esempio, siate come loro. Io credo che ognuno di
noi debba cominciare ad andare a scuola dai bambini per imparare a
contemplare Gesù.
assemblea in dialogo: gli interventi del pomeriggio
Giambattista – S. Pietro di Oriago
Ho sempre avuto la sensazione di dovermi allontanare da una bella cosa per poterla ammirare meglio perché da vicino non riesco a vedere i particolari. Invece stamattina ho sentito che avrei dovuto avvicinarmi e “scalare” questa cosa importante. Penso che, d’ora in avanti, questo sarà il mio impegno in famiglia (come marito e genitore) e nella parrocchia con l’aiuto di Nadia.
Maria Giovanna e Luca – S. Maria Elisabetta – Lido
All’Assemblea dell’anno scorso ci aveva colpito in particolare il discorso sulla vocazione degli sposi al servizio “per amore”, ad imitazione di Gesù. Questo aspetto del ministero nuziale è stato oggi richiamato da Daniele quando ha affermato che gli sposi mettono in pratica con una certa difficoltà la capacità di donarsi a partire dalla vita quotidiana.
Anche noi viviamo questa fatica e ci sentiamo di dire che è proprio a partire dagli scontri sulle piccole cose che si può incrinare la gioia che due sposi dovrebbero avere. Donarsi, rinunciare alla propria felicità, alle proprie aspirazioni anche al proprio tempo, non è così facile, non viene così spontaneo. In realtà, con i bambini e lo stress che ne deriva, sembra che tutto possa crollare. Devo confessare che la contemplazione di Gesù Cristo, stimolata dall’Assemblea dello scorso anno, ci ha aiutato a vedere proprio la questione che non va.
Abbiamo riscontrato che il punto di partenza non sta tanto nel nostro cercare di volersi bene, nello sforzo di mettere l’altro prima di noi stessi, perché l’iniziativa non viene da noi, ma che si cambia dentro al cuore solo contemplando Gesù che si dona sulla croce per amore, restando vicini a lui con la preghiera. Solo nella prospettiva del dono acquista un senso anche la partecipazione alla vita sociale, e le cose che sembrano motivo di contrasto e di difficoltà anche all’interno della coppia, improvvisamente diventano motivo di gioia.
Quando ci si dona all’altro senza voler rivendicare la propria ragione, o voler sempre puntualizzare, e avere l’ultima parola, si sente davvero la gioia del rinunciare proprio perché questo ci viene per sua iniziativa: allora si vede tutto con occhio diverso.
Per concludere, non è necessario scontrarsi in cose straordinarie per valorizzare un impegno di sacrificio e di rinuncia nella prospettiva del donarsi all’altro, ma ciò avviene quotidianamente in una coppia normale chiamata a confrontarsi sulle cose normali.
Luciano – S. Giorgio di Chirignago
Il titolo di questa Assemblea dice: “Con Cristo dentro la storia”. Forse, dal mio punto di vista, sarebbe stato più giusto scrivere “Cristo dentro la mia storia” e mi chiedo quanto spazio riesco a dargli. Voglio proprio che sia nella mia storia?
Sentendo un pianto di bimbo, mi è venuto spontaneo osservare: “Ecco, l’immagine di Cristo nella storia”. Come il bambino cambia la vita della coppia, così Cristo deve cambiare la mia vita. Ma sono disposto veramente a cambiare la mia vita?
Nei
vari interventi che sono seguiti è emersa spesso la constatazione che
si incontra Cristo dopo esperienze di dolore: sarebbe bello che,
altrettanto facilmente, lo incontrassimo nella gioia, specialmente nel
dare la vita a un figlio, nel ringraziarlo di avere la moglie accanto...
Infine vorrei fare una domanda a Daniele Garota. Visto che stiamo andando verso un mondo dove etnie e religioni diverse entrano in contatto e ne siamo sempre più interessati, cosa intende con quell’essere discreti, senza che ciò vada ad intaccare il mio diritto di essere cristiano? Come posso concretamente coniugare i segni della fede cristiana e la discrezione e il rispetto verso di loro.
Risponde
Garota
Il Concilio ha detto una cosa precisa: non si può imporre la verità che uno pensa di avere, se non in forza della stessa verità. Diventa pericoloso imporre i segni della mia fede e della verità con altra forza che non sia quella del segno in sé, perché imporre un simbolo come quello della croce, a un musulmano, può diventare un motivo di scontro. Perciò devo mostrare il mio segno della croce, la mia identità, il mio credere profondamente in quella verità, al punto di dare la vita, ma devo stare attento. La verità devo testimoniarla con il mio essere, con la mia vita, non imponendola all’altro con leggi che gli faranno venire alla mente che quel segno di croce, nella storia, è diventato spesso una spada che ha ucciso.
Questo
non deve accadere. Ognuno deve credere profondamente nella propria
verità ma non la deve imporre oppure professare con ostentazione. Nella
preghiera e nella fede devi essere umile, discreto.
Certo
non è una cosa facile, però questa è la via da percorrere.
Franca – SS Gervasio e Protasio – Carpenedo
Vogliamo proporvi alcune nostre considerazioni sul valore della riflessione personale che si pone in un momento successivo a quello dell’ascolto e della preghiera, sempre nella prospettiva del tema della speranza.
Dalla
nostra esperienza famigliare, che trova riscontro anche in quella
analoga di altri genitori, abbiamo notato che si tende molto a
stigmatizzare quanto di negativo succedo nel mondo, e anche
nel rapporto con i nostri figli non andiamo oltre al rimprovero
per un loro comportamento che ci appare, assolutamente in buona fede,
fuori degli schemi.
Non
pensiamo minimente, o per lo meno non abbastanza, di motivare loro la
nostra fede in modo positivo, speranzoso, gioioso, bello.
Due
esempi banali di vita quotidiana. Nostra figlia si rammaricava di non
avere i pantaloni a zampa di elefante e non voleva andare a scuola. Va
bene mettere in risalto che la sua personalità è molto più importante
del vestito griffato e alla moda, ma non avremmo dovuto fermarci lì, ma
sviluppare insieme a lei un discorso sul valore della bellezza.
Sempre a proposito di come i bambini siano i più esposti al condizionamento della pubblicità e dall’esempio dei loro amici, il nostro maschietto ha fatto delle considerazioni sulle potenzialità economiche di un suo coetaneo basandosi sul fatto che a quest’ultimo non mancava nulla. Qui c’era la necessità di riflettere insieme sul valore dei soldi e sul significato di certe scelte per cui la sua ricchezza era costituita dall’avere una sorella con cui dividere affetti e giochi...
Di fronte a tematiche più impegnative ci sembra che in questa Assemblea sia stato trascurato il tema della storia: Cristo nella storia, la speranza nella storia.
A fronte del tema della sofferenza, che è emerso qui oggi a livello personale e famigliare, e che pure ci fa crescere, c’è una sofferenza più diffusa che si identifica anche nel non capire cosa stia succedendo nel mondo, come, per esempio nel volere la pace e trovarsi tirati per i capelli dentro la guerra
Allora, la cosa importante da sottolineare con forza è che bisogna cercare di ragionare dentro le cose, far sì che questa sofferenza diventi un pensare, sempre alla luce di Gesù e con il sostegno della preghiera, dell’ascolto, in comunione con Lui e tra di noi.
Paolo
– S. Giovanni Evangelista - Carpenedo
Ci sono due livelli di aspettativa in questa Assemblea. Da una parte è un’occasione di crescita personale e di coppia; dall’altra è un momento in cui emerge l’urgenza di dilatare il significato della dimensione nuziale a tutti gli sposi della Diocesi, specialmente a quelli che più vivono una esperienza fatta di problemi.
I matrimoni si disfano, figli ce ne sono pochi: c’è l’urgenza di evangelizzare, come sposi, altri sposi, con la testimonianza, portando agli altri la Parola di Dio.
Emanuela – S. Maria Concetta – Eraclea
Secondo me la preghiera e Cristo sono il respiro della quotidianità di una coppia. La coppia si deve incontrare lì, respirare la vita di Cristo, per farci nascere dentro il cuore la necessità di andare verso l’altro, di donarsi all’altro e poi di conseguenza a tutti. È la preghiera che ci avvicina a lui.
Lina – S. Giovanni Battista - Jesolo
Siamo
qui da questa mattina e Maria è stata nominata solo una volta. Ho
provato un forte dolore perché, in realtà ho avvertito la sua presenza
tra di noi.
“Con Cristo dentro la storia”: ma nel momento in cui Gesù sta per morire, ai piedi della croce stava Maria alla quale è affidato Giovanni e con lui ognuno di noi.
Ho sentito forte la mancanza di sottolineatura che è Maria colei che ti aiuta ad entrare in preghiera, in ascolto, in silenzio davanti al Signore, che ti insegna a diventare umile e paziente. Sento fortemente nel cuore che questo viaggio lo intraprendiamo solo se stiamo alla sequela di Maria. È il tempio dello Spirito Santo e, quindi, è colei che ci può veramente aiutare ad andare incontro a Gesù, che fa cambiare il nostro atteggiamento verso lo sposo o la sposa, i figli, l’amico, il parente, la comunità.
Stando alla sequela di Maria, veramente divento un’altra piccola Maria e credo, senza nulla togliere all’uomo, che veramente la donna sia il grembo che per prima accoglie il mondo intero.
Maria Grazia – Apostola
Non voglio ripetere le cose che hanno detto Michela e Simona, se non che sono sulla stessa linea riguardo al senso di grande gratitudine per quanto stiamo vivendo insieme a voi.
Parlando con loro delle impressioni che stavamo vivendo ascoltando le vostre testimonianze, pensavo a quanti segni belli, si colgono dai cuori delle persone. Sono segni di speranza, segni di volontà di rinnovamento, di crescita; segni dai quali si coglie la volontà di avere famiglie sane, di avere una città, una diocesi che sia veramente cristiana, che segua veramente il vangelo.
Mi è sembrato di cogliere anche tutti i tentativi - anche creativi - di trovare i mezzi, gli strumenti, per vivere tutto questo, per superare le difficoltà, i problemi, per imparare davvero a contemplare Gesù. Avete parlato della necessità di fare spazio all’ascolto dell’altro, dell’attenzione alle piccole cose, al modo di testimoniare la fede, avete parlato della preghiera, ed io vorrei sottolineare qualcuna di queste cose che avete espresso, con delle mie osservazioni.
La prima è che non vorrei si corresse il di rischio porre l’incontro con Cristo come uno strumento accanto ad altri per potere essere davvero una coppia, una famiglia che sa amare. Ho detto rischio non perché abbia colto questo dai vostri interventi, ma partendo dalla considerazione che si fa presto a passare dalla strada giusta a quella che è già una leggera deviazione.
Quando ci capita di andare nelle parrocchie per il nostro apostolato, faccio spesso questo esempio quando devo parlare della grazia. Immaginate una bilancia a due piatti; su uno mettete tutti i peccati possibili ed immaginabili di tutti gli uomini di tutti i secoli e sull’altro un microgrammo di grazia di Dio: la bilancia sprofonderà da questa parte.
La Grazia è la vera chiave di volta che ci rende sposi che narrano chi è Dio. Anche la preghiera, non intendiamola come frutto di un nostro sforzo, come qualcosa che noi costruiamo. Il vivere veramente da coppia, l’essere veramente cristiani che vivono il vangelo nella loro famiglia, è prima di tutto grazia, cioè dono che noi riceviamo.
Quando dico grazia dico qualcosa che non riusciamo ad immaginare e calcolare; non dimenticate che all’origine di quanto voi ricevete in forza del sacramento del matrimonio, al di là dei vostri sforzi (che ci devono essere e sono meritori), c’è una grazia del Signore che vi fa avanzare, è il motore che dà la spinta a tutto quello che voi fate. È importantissimo recuperare la coscienza di questo dono che è al principio di tutto.
Una coppia che sto seguendo mi ripete sempre questa realtà. Quando si sono sposati, non avevano molto chiara l’idea di cosa volesse dire sposarsi in Chiesa; hanno recuperato questa dimensione dopo diversi anni, ma ora ne sono coscienti e, parlando della grazia, usano, come ha fatto Daniele, l’immagine del corso d’acqua che tracima, del torrente che davvero è capace di rompere gli argini e dare una carica di vitalità, di freschezza, di novità alla vita, che non saremmo mai capaci di inventare, neanche con i più grandi sforzi creativi.
L’immagine del torrente mi riporta a quanto diceva Daniele parlando della forza dell’amore che può portare verso il bene e può anche purtroppo, farci deviare quando non è utilizzata bene.
La seconda sottolineatura riguarda l’importanza del dare. Daniele ha fatto esempi molto reali sulla difficoltà a vivere concretamente il brano che troviamo nella lettera ai Corinzi: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”, perché è poi nei fatti che ci perdiamo.
Anche riuscire a vivere questa semplice verità, è un atto di fede. La fede nel fatto che la povertà è la più grande ricchezza, perché dare vuol dire diventare poveri. Ma soltanto nel momento in cui accetto di diventare povero, io arricchisco.
San Paolo dice ancora: “Dio, da ricco che era, si è fatto povero, perché noi diventassimo ricchi per la sua povertà”. Per fare questo atto di fede, ognuno deve crescere. Nel momento in cui io do all’altro tempo, spazio, attenzione, il primo posto, le cose migliori, il meglio di me, quando cerco di essere il miglior dono possibile per l’altro, allora, nel momento in cui io mi perdo, divento ricco. Come Gesù, che ci ha arricchito maggiormente proprio nel momento in cui ha dato tutto, arrivando alla povertà più estrema, non solo nell’incarnazione, ma anche nella passione; nel momento in cui davvero si è espresso al massimo il mistero di Dio. Davvero è questione di chiedere a Dio questo dono: la fiducia che la povertà è la nostra ricchezza.
Infine volevo riprendere il legame che c’è tra la consacrazione e il matrimonio. Per me è stato bello perché la mia esperienza di vita consacrata, oggi si è arricchita di quello che voi avete detto. In questi giorni, parlando e condividendo insieme con Michela e Simona le idee che avevamo, si faceva la considerazione che per certi aspetti la consacrazione è una povertà, nel senso che ti “manca” qualcosa che un altro ha. Però è anche una ricchezza perché ti apre il cuore, te lo libera, cioè ti mette in condizione di poter vivere al meglio quel dono di amore che deve essere per tutti. Scegliere la consacrazione, scegliere la verginità significa scegliere di amare non con delle categorie tue, ma con delle “categorie” volute dal Signore, scegliendo quelle persone che Lui ti mette davanti, non quelle che vorresti tu. In questo vieni aiutato; così, come noi possiamo aiutare chi è sposato, anche noi veniamo aiutate da loro.
Un giorno mi è capitato di trovarmi a parlare con una coppia che mi descriveva il loro modo di vivere il matrimonio, di cosa volesse dire essere sposi cristiani, e come il loro amore cresca con il passare degli anni, proprio a partire dalla grazia ricevuta nel sacramento.
Ascoltando queste persone, guardando il loro modo di amarsi, se fosse stato possibile, mi sarei inginocchiata davanti a loro come se fossi stata davanti all’Eucaristia; ne sentivo grande il desiderio
perché vedevo dentro di loro la stessa capacità di donazione, la stessa offerta di vita che contempliamo quando siamo davanti all’Eucaristia.
Davvero questa è la ricchezza che ci possiamo comunicare reciprocamente: educarci a dare la vita. Ognuno diventa ricco quando impoverisce ed io mi sono accorta di essere diventata ricca nel momento in cui ho regalato a Gesù la mia vita, da allora non mi è più mancato niente. Prima mi mancava sempre qualcosa: la felicità, la terra sotto i piedi, le sicurezze, le garanzie. Quando ho fatto il salto non mi è più mancato nulla.
Così è anche all’interno della coppia: quando do, quando lascio, quando perdo, allora veramente divento forte, divento ricco del fatto che l’altro è pieno anche di me; quindi, ritrovando l’altro, ritrovo anche me stesso.
Concludo con un’immagine del libro di Tobia che mi piace tanto perché esprime bene come l’uno è nell’altro non per una imposizione (essere una cosa sola, come una specie di suggestione che devo mettermi dentro) ma per un dono di grazia vero e proprio. Quando Tobia arriva nel paese di Sara ascolta dall’angelo Raffaele la storia di questa ragazza, le difficoltà che ha avuto nei suoi precedenti matrimoni; a conclusione del racconto c’è un brevissimo versetto in cui si legge che l’anima di Tobia si sentì così legata all’anima di Sara che per lui non fu più possibile togliersela dal cuore pur non avendola mai veduta.
Questo è il mistero che noi viviamo come coppie e anche come consacrati: sapere di essere scritti uno nel cuore dell’altra, come io sono scritta nel cuore di Dio e Dio nel mio prima ancora di ogni mio sforzo, di ogni mio lavoro, di ogni mia fatica.
Da questa realtà di grazia prendono vita tutti i nostri sforzi, i nostri impegni, anche la nostra speranza. Non siamo noi l’origine della nostra speranza, ma Cristo e nella misura in cui lui resta al primo posto e continuiamo a contemplarlo, per una forza misteriosa che non riusciremmo mai a misurare, avremo dentro di noi la grazia di saper amare, di saper perdonare, di saper accogliere, di saper mettere passione, entusiasmo e gioia in quello che facciamo.
L’augurio che faccio a voi è di sperimentare che l’iniziativa, da accogliere a mani aperte, è sempre di Cristo.
Lidia – Frari –Venezia
Sento la necessità di dare una piccola testimonianza sull’importanza dei gesti e delle opportunità che ci vengono offerte attraverso le persone che incontriamo. All’Assemblea dell’anno scorso abbiamo sentito diversi interventi sulle possibilità di “servizio” e ci è venuta la voglia di buttarci nell’avventura di Casa Famiglia S. Pio X.
Spesso
i nostri amici ci chiedono cosa facciamo a Casa Famiglia e non sappiamo
rispondere perché semplicemente camminiamo insieme alle mamme presenti.
Non viviamo grandi cose, grandi prospettive: ci sono le quotidianità da
affrontare, i piccoli successi da accogliere volta per volta e questo
camminare insieme a loro con semplicità è diventato un insegnamento
anche per la nostra famiglia.
Adriana – SS Apostoli – Venezia
Personalmente ho sperimentato la vita (“lo stare nella mia storia”) sia senza che con Cristo e devo dire che con lui tutto è cambiato. È proprio come vedere tutto dal monte ed il vissuto diventa tutto bello, anche le sofferenze hanno un senso e ti fanno crescere.
La
nostra esperienza di genitori ci fa scoprire come sia importante educare
i figli ad accogliere Cristo anche nella loro storia quotidiana.
Constatiamo
che nostra figlia sposata ha già i problemi tipici di tutti i
matrimoni, è alle prese con scelte che si devono affrontare guardando a
Cristo.
Sia
per lei che per gli altri figli più giovani è importante avere questa
tensione a saper cogliere che è Gesù che conduce la storia, la nostra
storia, e che quindi è necessario guardare a lui.
Piergiorgio – S. Salvador - Venezia
Questa
mattina abbiamo ragionato a proposito della necessità di contemplare
Gesù in quanto è lui che ci fa comprendere la verità della storia, e
in particolare della nostra storia.
Oggi pomeriggio Daniele ha introdotto il suo intervento riassumendo il percorso fatto dalla Pastorale diocesana degli sposi in questi ultimi anni. Ci siamo fermati a cercare, come sposi, di interpretare
la consegna che Gesù Cristo di adempiere al ministero di cui ci ha fatto dono. Egli ci ha detto di fare come lui e noi stiamo studiano il “come”.
Successivamente
Maria Grazia ci ha invitato ad accogliere il sacramento del matrimonio
veramente come dono di grazia. Come battezzati siamo già dei
consacrati, e Dio ci riconferma in un modo del tutto nuovo in questa
consacrazione con il matrimonio e questo è il dono di grazia
fondamentale.
Tutto
questo conferisce una certa unitarietà a quanto ci siamo detti oggi.
Riceviamo questo grande dono di partecipare in modo particolare alla vita di Gesù Cristo, alla sua missione e allora questo modo di guardare a lui diventa vitale, diventa il nostro stesso modo di vivere. Il modo di adempiere il nostro servizio, non è qualcosa che nasce da noi; il servizio che eventualmente facciamo, il nostro modo di operare, il modo nostro di essere concretamente in famiglia, l’attenzione agli altri nasce proprio dal fatto di continuare a contemplare Gesù Cristo. È Lui all’origine del nostro dono di grazia di essere sposi e se noi perdiamo di vista lui, difficilmente riusciremo ad essere presenti nel nostro ambito di servizio in modo serio, ma soprattutto in sintonia alla volontà del Padre.
Anche
nella vita sociale Gesù spesso ci chiama come sposi e ci interpella: ma
nella scuola, nella vita sociale e politica, cosa andremmo a
testimoniare se non lo facessimo proprio a partire dallo sguardo rivolto
a Gesù? La novità vera è lui e noi dovremmo riuscire a far passare il
suo modo di essere nuovi.
Saverio – Sacro Cuore - Mestre
Condivido le perplessità che ho sentito dalla signora Franca. La storia di cui abbiamo parlato non l’abbiamo forse rinserrata nelle nostre mura domestiche?
Daniele
Garota
Di belle parole, di buoni propositi è pieno il mondo. I fatti sono un’altra cosa. Siamo tutti d’accordo che dobbiamo volerci bene, che dobbiamo guardare a Gesù, che dobbiamo assomigliare a lui, così
tutto è bello, tutto è gioioso. Benissimo, però restano chiacchiere, mentre i fatti sono fatti.
E i fatti dicono che noi viviamo in una società malata. Lo psichiatra Vittorino Andreoli sta facendo da parecchi mesi, ogni settimana, un’indagine sulle follie della società. Finora si è occupato delle follie degli individui, adesso comincia ad occuparsi delle follie della società e sta vagliando settimana per settimana tutte le categorie, dagli insegnanti agli avvocati, ai giornalisti.
Viviamo
in una società piena di follie e le malattie della società sono le
nostre malattie.
Nell’Assemblea dell’anno scorso una signora si è lamentata del fatto che non riusciva a trovare una famiglia che accogliesse una bambina orfana, venuta da lontano.
In un suo libro, il Patriarca porta un’esperienza vissuta in Brasile dove assiste al funerale di una mamma di ben dieci bambini. Una delle donne presenti, una signora che aveva avuto una decina di figli da uomini diversi, uscendo dalla chiesa, si tirò intorno i dieci bambini e cominciò a chiedere al gruppo di donne presenti: «Chi prende questo, chi prende quest’altro?». In pochi minuti tutti e dieci i bimbi trovarono la loro nuova casa. Dove c’è povertà c’è posto per tutti, dove c’è ricchezza non c’è posto per nessuno.
Le nostre case sono chiuse e quando si aprono, si aprono con molte difficoltà. Perché quello è sporco, quest’altro poi mi darà problemi, troviamo un sacco di scuse.
Ci facciamo grandi con i bei discorsi, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere», ma la realtà è diversa. Non nascono più bambini perché sono di impiccio, quando la moglie invecchia si preferisce cercare una donna più giovane, le famiglie si spaccano.
Viviamo
in una società malata.
Essere
cristiani e seguire Gesù significa una cosa soltanto: prendere di petto
questi gravi problemi ed esercitarsi con grossi sforzi di resistenza. È
come una fiumana che va per una direzione e noi dobbiamo resistere e
andare contro corrente. Questo oggi significa, credo, essere cristiani,
e, insieme a Cristo innestarsi nella storia
l’intervento
del
patriarca
mons.Angelo
Scola
UN
SOGGETTO IMPORTANTE
Volevo anzitutto ringraziarvi per il fatto stesso di essere qui -
indipendentemente dal lavoro che avete fatto oggi e che è espressione, a sua volta, di un cammino –. Il vostro venire comporta per ogni famiglia e per ognuno di voi delle implicazioni materiali ed organizzative non di poco conto. Ma la cosa principale è che nella nostra comunità e nella nostra Chiesa è presente una comunione di famiglie che si presenta come un soggetto vitale e questo è un grandissimo dono, una grandissima risorsa per la Chiesa e per la società.
Come giustamente è stato rilevato, non c’è qualche cosa che vale per l’interno della Chiesa e che poi si deve vedere come varrà per l’esterno; ciò che non vale subito “ad extra” non vale neanche “ad intra”. Cioè non c’è una cosa che vale per me che poi può diventare valida anche per gli altri: o è subito praticabile e vivibile da tutti o sta fuori della realtà, e se sta fuori della realtà, alla lunga non edifica neanche me; magari mi illude, mi consola per un momento ma non mi può dare stabilità e definitività.
Avete detto: “Con Cristo, dentro la storia” e la storia è di tutti, belli e brutti, che piacciano o meno, protagonisti o comparse. Possono essere amici tuoi o nemici; possono avere un progetto positivo o negativo su di te. Possono essere i tuoi amici più intimi e magari da questi ti vengono le peggiori pugnalate, come recita il salmo dell’ora media del mercoledì. La storia è questa! Quindi: “Con Cristo, dentro la storia” vuol dire con Cristo nella realtà tutta intera.
Perché
per me, come Patriarca, è importante e consolatorio percepire qui la
presenza di un soggetto inteso come comunione di famiglie?
UNA
REALTÀ CONFUSA
La
situazione di transizione, di cambiamento anche violento che stanno
attraversando le nostre società, soprattutto del nord del pianeta, è
caratterizzata da una grande confusione. Non
è un giudizio pessimistico, radicale, ma la rilevazione di un dato di
fatto: la realtà è confusa.
Faccio
un esempio e premetto che non desidero mancare di rispetto a
qualsivoglia persona. Poco fa dicevo che nella realtà ci deve stare
tutto ciò che esiste; non sono io che la invento. Fino a dieci anni fa
non sarebbe stato normale per il nostro popolo cristiano, accendere un
televisore e vedere delle persone, riunite in un talk show, che si
definiscono transessuali, omosessuali, che affermano di voler cambiare
il proprio sesso e che tutto ciò sia chiamato tranquillamente amore,
come se nulla fosse, come se questo fosse un dato assolutamente
pacifico.
Affermo sempre
che a volte si pretende di superare ciò che è insuperabile: in questo caso si vuole superare la differenza sessuale che invece è il punto di partenza, il dato insuperabile del mistero dell’amore, del mistero nuziale. Noi viviamo in una società che cerca di dirci che una persona può scegliere il sesso che vuole, che può passare da un sesso all’altro, con un delirio di onnipotenza. Ecco perché classifico questa società come quella della cultura androgina.
Questo
è un segno di confusione radicale in mezzo al quale i nostri figli
devono vivere e crescere, ed è fondamentale il discorso che faceva
Franca di Carpenedo sulla necessità di rendere ragione del nostro modo
di vivere.
LA
DIFFERENZA SESSUALE È INSUPERABILE
È irragionevole concepire la differenza sessuale come superabile; e dicendo questo non voglio mancare di rispetto a qualcuno (la dignità individuale di tutti va rispettata). Ma la pretesa di superare la differenza sessuale è diventata quasi un’ovvietà che assorbiamo con assoluta serenità e passività come fosse la cosa più logica di questo mondo; questo per me è un carattere distintivo di una fase confusa di civiltà.
L’ESPERIENZA DEL “PER SEMPRE”
Il secondo esempio riguarda l’iper esaltazione di uomini e donne che passano attraverso una pluralità indefinita di esperienze sessuali. Non sto parlando del tradimento, della fragilità o del peccato che c’è sempre stato (come il Vecchio Testamento ci documenta), ma dell’avvalorare una concezione dell’amore inteso come un concatenarsi di tante esperienze, di relazioni tra uomo e donna o addirittura tra persone dello stesso sesso, con la possibilità di passare dall’eterosessualità all’omosessualità: e più sono le esperienze e più si considera una persona “riuscita”.
A me sembra che qui manchi un elemento radicale dell’amore che è il “per sempre”. L’esperienza dell’amore ha un senso se è quel luogo in cui, attraverso l’altro, assecondando la legge del sacrificio (il perdersi per ritrovarsi), io effettivamente mi compio.
Puntualizzando, non esiste amore senza il “per sempre”, tant’è vero che le esperienze naturali più ovvie ce lo dicono. Il modo con cui un padre ed una madre amano si connette ancora oggi, istintivamente, al “per sempre” per la maggior parte, per non dire la totalità degli uomini. Se c’è un motivo per cui la madre o il padre hanno tanto peso in tutte le culture, è che ci si sente al sicuro in un rapporto basato sul “per sempre”.
Parlando soprattutto ai giovani, aggiungo anche quest’altro esempio. Vi sfido, quando siete veramente innamorati, autenticamente innamorati, a dire “ti amo” alla donna cui volete bene, senza aggiungere “per sempre”. È impossibile! Lasciate perdere se dopo dieci minuti non siete capaci di mantener fede a quanto affermato; è un’altra questione. Voglio dire che l’esigenza, l’istanza dell’amore in sé, è il “per sempre”.
In realtà viviamo in una società che sembra aver reso ovvio e pacifico il contrario di tutto questo. Il “per sempre” è come l’uva della favola di Esopo; la volpe non arriva a prenderla ed allora dice che è acerba. Siccome non ce la faccio ad amare “per sempre”, anziché interpellarmi e farmi aiutare dagli amici a vivere questa dimensione, dico che il “per sempre” non c’è e lo sostituisco con una sequenza di esperienze.
Prendiamo un altro esempio. Picasso fu uno che cambiò un’infinità di donne; certamente fu un genio dell’espressione artistica che seppe penetrare e descrivere il profondo della sua psicologia, anche in forza di questa pluralità di esperienze. Quindi è una persona di cui la nostra società può dire: “Ecco la ragione perché bisogna cambiare tante donne, o tanti uomini, se si è donne” (al giorno d’oggi bisogna sempre precisare perché c’è sempre il rischio di essere fraintesi).
Eppure vi dico che mio padre e mia madre, che hanno vissuto insieme 63 anni, sono persone più riuscite di Ricasso; non ho nessun dubbio nell’affermare questo. Essi sono stati certamente e infinitamente inferiori a Picasso nel descrivere il profondo dinamismo dell’inconscio ma, umanamente parlando, la profondità dell’amore tra mio padre e mia madre, fa di loro un uomo e una donna più riusciti di Picasso, e ciò vale anche per la stragrande maggioranza dei vostri genitori, senza alcun dubbio. Anche se nessuno va al cimitero di Malgrate per salutare il mio papà e la mia mamma – ci vado di rado anch’io, purtroppo - mentre tutti vanno a rendere omaggio all’artista
LA DIFFICOLTÀ ALL’ACCOGLIENZA
Terzo esempio di società confusa: la grandissima difficoltà all’accoglienza, all’ospitalità e, di conseguenza, l’ideologia utopistica come via d’uscita da questo stato di cose. Lottiamo, andiamo in piazza, manifestiamo per cambiare il mondo, perché non ci sia più bisogno di accogliere nessuno ed in questo modo tutto funzionerà alla perfezione. Sappiamo benissimo che tutto questo è falso.
Non è sbagliato andare in piazza, in sé: può essere un metodo, se usato bene, con intelligenza e criterio. Non ho nulla contro le manifestazioni, come non ho nulla contro l’elaborazione di forme di società giusta (san Paolo dice: per
quanto possibile costruite la pace, vivete nella pace; cfr. Rom 12,18) , ma se conosciamo la nostra fragilità, a tutti i livelli, sappiamo che senza un nostro coinvolgimento diretto, senza la testimonianza personale, non c’è verità che passi. Solo chi si autoespone, pagando di persona per il bene dell’altro – la donazione, il dono di cui si è parlato –, solo costui crea quel substrato, quel terreno in cui si può tentare di edificare elementi adeguati di giustizia, per una società pacifica ed effettivamente costruttiva.
In realtà basta girare per le nostre regioni: io, fino ai miei vent’anni, non ho mai visti nella mia Lombardia tutti questi muri di cinta e queste porte blindate. Non sto dicendo che è una stoltezza farlo, sto solo registrando che c’è un’involuzione dal punto di vista civile: si è creato un tale grado di violenza nei rapporti, per cui ci si deve difendere in questi termini.
Ho voluto dare tre esempi di cosa sia la confusione, ma ne aggiungo un quarto, visto che il tema dell’accoglienza è stato già accennato molto bene in un vostro intervento, parlando della nuova parentela tra Maria e Giovanni sotto la croce.
Su questo punto voglio andare fino in fondo: l’assoluta insipienza (non solo della persona - uomo e donna - ma anche della società) di fronte al pauroso calo demografico del nostro paese, che si esprime nella condizione di non fare spazio all’elemento più reale della speranza che sono i figli. Parlare della speranza al di fuori dei figli è parlare di un’idea astratta; chi è il soggetto di questa speranza? Infatti, disse genialmente qualcuno, la speranza è la piccola virtù, è la virtù del bambino, è la modalità con cui possiamo vivere secondo l’invito di Gesù: «se non diventate come bambini…» (cfr. Mt 18,3)
Gli esempi che ho fatto (quello dell’accoglienza può essere ripreso dentro il tema ultimo della fecondità dei figli) descrivono la dimensione più concreta, più reale dell’amore, alla portata di ogni uomo e di ogni donna, di ogni cultura, di ogni etnia, di ogni fede, di ogni religione, di ogni filosofia atea o meno, che è l’esperienza dell’unità inscindibile tra la differenza sessuale, che apre al dono di sé e che non può non tendere a generare la vita
essendo noi fatti di anima e di corpo.
L’unità di queste tre cose costituisce il “mistero nuziale”, per usare l’espressione del papa.
L’ESPERIENZA ELEMENTARE DELLA NUZIALITÀ
Il mistero nuziale è un’esperienza elementare dell’uomo, a qualunque latitudine: uno può nascere musulmano, induista, animista, shintoista, può essere ateo, non essere battezzato, ma per il fatto stesso di essere uomo e di vivere in relazione agli altri, anche se non è capace di spiegarselo, percepisce che quando dice amore (e il bisogno dell’amore ce l’ha addosso come quello di respirare, come quello di mangiare) dice l’unità indissolubile della differenza sessuale che fa spazio all’altro e che tende a generare la vita,.
Se noi riportiamo l’amore a questo livello elementare, siamo automaticamente dentro la realtà e la storia, senza dover inventare discorsi o strategie. Non c’è uomo che non faccia i conti con questo dato e il matrimonio, come sacramento, è né più né meno che l’esplicitazione pratica di questa struttura nuziale dell’amore. Nel sacramento del matrimonio un uomo e una donna, ricevono in concreto la possibilità di praticare nella loro vita questa unità stringente tra differenza sessuale, dono di sé e fecondità.
Questo è il matrimonio cristiano e l’esito si chiama famiglia che è il soggetto elementare della Chiesa e della società civile, come il vostro documento preparatorio all’Assemblea affermava. Allora vi sono molto grato perché siete un soggetto che vive questa realtà e siccome la vive nella trama nella comunione ecclesiale della nostra chiesa, la vive tendenzialmente secondo quel tipo di preoccupazione di fede, di speranza, di carità che avete esplicitato e che tanti interventi di oggi hanno messo a tema.
IL
GENIO PROFETICO DI PAOLO VI
Da
dove arriva la tragedia della confusione su questi elementi di fondo
nella società di oggi? Aggiungo al mio discorso due Nota Bene. Ecco il
primo.
Negli ultimi cinquanta anni il potente connubio fra le biologie e le tecnologie hanno reso tecnicamente possibile separare i tre fondamentali aspetti dell’amore: la differenza sessuale, il dono di sé e la fecondità, per cui ci può essere sessualità senza fecondità, amore senza fecondità e, adesso, si pretende addirittura vita senza sessualità.
Partendo da questa angolazione si riscopre il genio profetico di Paolo VI, il quale capì (quasi da solo, con Karol Woytila tra i pochi cardinali a sostenerlo, non a caso diventato Giovanni Paolo II) che la sfida del mondo si gioca proprio su questo aspetto del mistero nuziale e proclamò con l’Humanae vitae che se si concedeva la rottura tra la dimensione unitiva e quella procreativa nell’atto coniugale, si sarebbe giustificata questa frattura, resa possibile dalla tecnica, e si sarebbe subìto l’imperativo tecnologico, come sta avvenendo oggi. Nel senso: poiché la scienza può, allora tu devi.
Il genio di Paolo VI, la grande potenza di Humanae vitae, ha una profezia di carattere ontologico, storico, molto prima che etico. Egli ha intuito che lì cominciava la deriva della confusione per l’umanità che poteva portare, come dice Lewis, addirittura all’abolizione dell’umano, a sfigurare l’esperienza elementare dell’uomo.
Siccome le scienze e le tecniche scindono questi tre elementi, il mondo ha la pretesa di dire che sono separabili, invece non è così: sono intrinsecamente connessi, soltanto che – ecco un’espressione importante che è stata detta prima – questo esige dei testimoni della bellezza (secondo e ultimo nota bene) e del fascino del mistero nuziale dentro la realtà.
LA
LEGGE AUTENTICA DEL DESIDERIO
Queste sono le famiglie cristiane: nelle parrocchie, nei quartieri, là dove lavorano esse devono dimostrare la bellezza e il fascino del seguire Cristo, perché seguire Cristo rende possibile assumere fino in fondo la dimensione elementare dell’amore che è la nuzialità.
La vita vissuta nell’ottica del matrimonio e della famiglia cristiane, come luoghi veri e reali dove l’amore nuziale si attua, è più conveniente rispetto al caso in cui si subisce ed accetta la frattura perché è più umanamente affascinante, è più bella, ti realizza di più, pur mantenendo tutti i suoi drammi, i suoi dolori, le sue fatiche, le sue fragilità, i suoi peccati, il suo bisogno di perdono, di grazia (tantissime le cose belle che avete dette e voglio ringraziarvi ad uno ad uno per quello che ho sentito). E questo vale anche per la vita di uomini che magari sono più piccoli e più meschini di tanti non cristiani.
Certo
è una vita che non sfugge alla legge autentica del desiderio. Un altro
punto di disordine nella nostra società è proprio la confusione tra il
piacere ed il desiderio.
Il desiderio è l’aspirazione al “per sempre”, il piacere è per sua natura puntuale. Poiché l’aspirazione al “per sempre”, che è nel desiderio di realizzazione del mio cuore, passa attraverso l’altro (che è diverso da me, ma limitato come me), può anche ingannarmi e non farcela a mantenere tutto quel che mi promette, allora è inevitabile che io debba passare attraverso la rinuncia perché il desiderio si realizzi. Dice Gesù: «Chi vorrà salvare
la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del
vangelo, la salverà» (cfr. Mc
8,35; Mt 16,25).
Del resto questo asseconda una legge naturale: è l’esperienza che fa il bambino vedendo il padre vicino alla madre e che Freud – non stiamo parlando di un cristiano – ha descritto alla perfezione. È l’esperienza del rapporto di scambio: il bambino deve perdere qualcosa poiché la madre non è il puro prolungamento del suo io, e bisogna fare spazio ad un altro vicino alla madre. Ciò richiede di pagare qualcosa: quando il bambino non esce bene da questo rapporto, va incontro ad una serie di difficoltà che voi, avendo famiglia, conoscete meglio di me. Certamente l’autismo è la più terribile conseguenza essendo proprio la mancata uscita dal rapporto originario con la mamma.
Inoltre c’è la stoltezza di non accettare la vita fin dal concepimento, come se noi non fossimo parlati, amati, voluti, desiderati, non fossimo dentro una trama di rapporti prima ancora di venire al mondo; io sono stato amato, parlato, voluto in un certo modo dal mio papà e dalla mia mamma prima ancora che di venire alla luce. E questo mi posiziona nell’essere, nell’esistenza, mi colloca in una certa posizione, esattamente come il fatto che ho una determinata altezza, che non sono un adone, ecc.
CAPIRE
È....
Un inconveniente che dobbiamo superare quando ci incontriamo è che bisogna intendersi sul significato di “capire”, poiché ognuno di noi è un soggetto con un suo bagaglio culturale ed è l’espressione di una vita. Capire non è un atto intellettualistico, non è star attenti ad afferrare ogni frase che l’altro dice, parola per parola. Capire è giocare la propria vita con quella dell’altro che ti è affidato, comprendere che siamo messi insieme da Cristo.
Quindi, se qualcuno non ha capito tutte le parole che vi ho detto oggi, o se un intervento vi sembrava difficile o sconclusionato non preoccupatevi, le capirete domani, un po’ come succede in famiglia quando non si capisce perché il figlio si comporta in un certo modo, ma due anni dopo si arriva a dire: “Ah, adesso afferro perché...”.
La vita va avanti, siamo un soggetto in crescita, per cui non importa se talune cose che avete sentito oggi non sono del tutto chiare. Il capire cristiano non ha nulla a che fare con la concezione razionalistica e moderna del capire: quello che conta è che stiamo camminando. Allora è chiaro perché adesso andiamo a celebrare l’Eucaristia: per andare alla fonte di questa posizione che non ci fa stare in una dimensione conclusa dentro le mura domestiche ma ci lancia nella realtà e ci fa assumere la struttura elementare dell’esistenza con tutti i condizionamenti storici, compresi quelli che sono stati richiamati da voi e che io mi sono permesso di riprendere col tema del carattere di confusione. Questa è la nostra società dentro la quale viviamo e della quale non ci stiamo lamentando ma solo constatando la realtà.
DUE
PAROLE FINALI
Questo
soggetto, questa comunione di famiglie è una grande speranza per la
Chiesa di Venezia: don Silvio, mi raccomando, è nelle tue mani, va
custodito.
Custodire
questo soggetto dipende anche dalla vostra responsabilità; allargate la
trama della vostra amicizia, in parrocchia, nel quartiere, aprendo le
vostre case e accogliendo la persona che abita due piani di sopra o in
faccia al canale, che abbiamo sempre intravisto e mai salutato. Magari
lo invito a bere il tè e comincio a parlare di queste cose, perché se
si parla di differenza sessuale, di affezione, di amore, di fecondità,
si interloquisce subito con chiunque, anche se non va più in chiesa da
molti anni. Questi sono aspetti della vita di tutti, e la fede ha a che
fare con la vita di tutti.
La testimonianza e la missione è in questo dilatare la trama dei rapporti, però con discrezione e libertà, perché si può essere timidi, oppure avere un coraggio da leoni, si può essere come Geremia che si schernisce (“ma no, tartaglio, non ce la faccio, io non c’entro, scegli un altro”), o viceversa irruenti come Isaia (“manda me”). Se hai il temperamento di Isaia, va’ ma rispetta chi ce l’ha come Geremia. È questa la bellezza della comunità cristiana: ognuno sia se stesso.
Ampliate dunque questa trama di rapporti e allora tutte le cose belle che ho letto nel sussidio preparatorio all’assemblea riguardante il cammino fatto in questi cinque anni, esploderanno nella nostra Chiesa. Questa è la speranza per tutti, perché realmente Cristo sia il cuore del mondo.
la conclusione
di
mons. Silvio Zardon
Non so se nella mia vita ho fatto qualcosa di bene, però posso dire di avere ricevuto sempre molto. In particolare, in oltre vent’anni di lavoro insieme nella pastorale famigliare, ho ricevuto molto dagli sposi.
Riferendomi
alla presenza delle carissime giovani sorelle, voglio aggiungere che per
noi è sempre stato un intento quello di mettere insieme i due carismi.
Infatti noi abbiamo sempre avuto almeno una suora nella nostra
commissione e mi fa piacere che questa esperienza sia stata rinnovata
con la vostra testimonianza, Simona, Maria Grazia e Michela.
Vorrei porgere un ringraziamento personale – c’è sempre un tratto personale nei nostri rapporti – nei confronti dei membri della Commissione diocesana, il cui apporto riprova che il lavoro che si sta facendo non è da “preti” (anche se, essendo stato educato da prete, c’è in me la voglia di coprire tutti gli spazi). Però è forte anche l’amore per la realtà ecclesiale e quindi per la presenza dei laici nella chiesa: per grazia di Dio ho lavorato per molti anni nell’A.C. diocesana, e in questi ultimi oltre vent’anni con voi sposi. La realtà laicale è forte nella nostra chiesa e io sono contento che il patriarca abbia sottolineato che il soggetto pastorale degli sposi è una realtà.
Di
questo dobbiamo ringraziare il Signore, ma io sento il bisogno di
ringraziare anche gli amici della Commissione.
A
conclusione vorrei ricordare che uno degli intenti che abbiamo cercato
di perseguire da anni, è stato quello di diffondere una Pastorale del
matrimonio di respiro diocesano in modo tale da formare un gruppo sempre
più ampio di sposi testimoni nella nostra chiesa che possano anche
dedicarsi attivamente a quei servizi che tempo fa abbiamo suggerito come
ambiti di impegno stimolati dal Patriarca Marco Cè che sento di dover
ricordare a tutti voi per aver fermamente creduto nel carisma del
sacramento del Matrimonio.
Ricordiamo
velocemente:
-
Casa
Famiglia S. Pio X, alla Giudecca, ricordata prima da Lidia e Francesco;
-
la cooperazione con il Consultorio Diocesano S. Maria Mater Domini (senza dimenticare l’UCIPEM di Mestre);
-
il
problema delle famiglie con malati psichici che vede coinvolte almeno
tremila famiglie della nostra Diocesi (particolarmente gravi quei casi
in cui i famigliari del malato sono anziani);
-
le
coppie in difficoltà.
Il Patriarca e Daniele hanno inoltre richiamato il tema importante dell’accoglienza.
Gli
sposi non possono non preoccuparsi per queste realtà.
Pensare al sacramento del Matrimonio significa mettere in luce il valore della nuzialità e dell’amore coniugale vissuto nella realtà storica così come insiste fortemente la Gaudium et Spes. Ed è questo su cui dobbiamo continuare ad impegnarci.
Voi sposi, quindi, non dovreste andare via da questa Assemblea tranquilli, in pace sì, ma non tranquilli, perché ci sono delle esigenze che urgono e sarebbe bello che voi andaste dal Patriarca o gli scriveste per dire: “Eccellenza noi ci mettiamo a disposizione della nostra chiesa”.
Ringrazio infine l’amico Daniele e la moglie Ornella che ormai sono membri della nostra Commissione anche se vengono da Urbino. L’apporto che ci hanno dato stasera e che costituisce una grande testimonianza, è stato ancora una volta preziosissimo; esso viene da un’esperienza, da una sensibilità che ci incoraggia.
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