PATRIARCATO DI VENEZIA

PASTORALE SPOSI E FAMIGLIA

 

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ATTI DELLA XV ASSEMBLEA DEGLI SPOSI

 Seminario patriarcale e Basilica S.M. della Salute 

Venezia  

1 Ottobre 2000

 

       Ministero sacerdotale degli sposi 

nella storia della salvezza

 

 

 

  SOMMARIO

 

     Presentazione                                                    

don Silvio Zardon

q     Articolazione dell’assemblea                                          

q     Veglia di preghiera                                              

q     Apertura dell’assemblea                                       

Card. Patr. Marco Cè

q     Presentazione dell’assemblea                                         

Dilvia e Virgilio Rossi

q     “Il sacerdozio battesimale”                                   

  mons. Lucio Cilia

q     “Storia degli sposi, storia della salvezza”                 

  Ornella e Daniele Garota

q     Sintesi dei gruppi di discussione          

                

q     Proposte pastorali della Commissione                     

Daniela e Sandro Giantin

q     Conclusioni                                                       

Card. Patr. Marco Cè

q     Celebrazione Eucaristica                                      

Omelia del Patriarca

 

 

 

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PRESENTAZIONE

 don Silvio Zardon[1]  

Puntiamo subito la nostra attenzione sul tema di questa Assemblea degli Sposi: Il Ministero Sacerdotale degli sposi nella Storia della Salvezza.

Per il nostro Patriarca è “Un tema grande, bello, importante, che motiverà molto la vostra vita, le vostre gioie, le vostre pene, le vostre fatiche. La possibilità di offrire ogni giorno la vita come sacrificio spirituale con il Signore Gesù, è veramente una motivazione profonda capace di dare senso a tutto il nostro esistere”.

Don Lucio spiega: “Essere sacerdoti vuol dire mostrare chi salva e, poi, essere i primi a imboccare questa strada, vivere in Cristo, mostrando, magari con tutta la propria debolezza, di avere scoperto veramente in Gesù l’unica via di salvezza che rende possibile la comunione con il Padre”.

Sono in comunione con il Padre, sono figli del Padre coloro “che vivono la sua volontà: Il mio sacrificio, la mia offerta non sarà più qualcos’altro, ma sarà, come ha fatto Gesù stesso, trasformare la mia vita e le mie relazioni in luoghi in cui avviene il sì al Padre… Questo è il sacrifico spirituale… che per gli sposi si coniuga nella loro vita di relazione in cui deve trionfare questo sì al Padre, in cui sono consegnati l’uno all’altra per aiutarsi a riconoscere che solo Dio basta. In questo senso gli sposi sono sacerdoti l’una nei confronti dell’altro. Il concetto è importantissimo perché, normalmente, per dire di sì al Padre abbiamo bisogno dei fratelli”.

Ed ora come non reimmergerci subito in questa preziosa meditazione di don Lucio, che qui rileggiamo in tutta la sua freschezza e chiarezza, ma soprattutto in tutto il suo rigore biblico e teologico? In un certo senso si dovrebbe dire: guai a saltarne anche un solo passaggio!

Immediatamente prendiamo in mano il testo della relazione che Daniele Garota ci proposto anche per la sposa Ornella.

Nelle loro parole - in realtà, sono la loro testimonianza - dovremmo trovare il contesto dell’attuarsi storico, quasi giorno per giorno, del ministero sacerdotale degli sposi nella loro casa, nella vicenda quotidiana della loro coniugalità. “Anche dalla nostra vita di sposi, facendo esperienza delle vicende dolorose ma anche gioiose, scopriamo il volto di Dio… Subito così potremmo capire quello che dice S. Paolo: Questo mistero è grande!…

Il Patriarca ha detto una cosa molto bella: Sposi, celebrate la vostra quotidianità!… a cominciare dai gesti. Noi vediamo il sacerdote che fa molti gesti intorno all’altare. Noi, in casa, come genitori, ma anche come sposo e sposa possiamo riempire la nostra vita di gesti, anche piccoli, che possono avere un significato nel momento in cui sono fatti con fede.

… Ho conosciuto una coppia di anziani sposi, li ho conosciuti che erano già vecchi. Colpiva come si amavano tra loro; lo capivi da come si tenevano la mano e si guardavano ogni tanto, dagli  ammiccamenti e che non era esibizionismo, erano delicati, erano discreti, ma si volevano un gran bene. È una cosa meravigliosa vedere due persone ormai anziane che continuano ad amarsi in quel modo”.

“Anche le fatiche di ogni giorno, sono celebrazione della vita quotidiana, anche guadagnare il pane per sé e per i figli… bisogna fare tutto come se ci fosse lo sguardo del Padre che vede ogni piccola cosa”.

“Forse è questa la prima volta, continua Daniele, che il Seminario vede così tanti sposi fra le sue mura. Anche questo è un segno dei tempi. In fondo abbiamo avuto sempre questa idea: i sacerdoti da una parte, gli altri sposati dall’altra. Mi sembra una cosa bella stare insieme perché Dio ci ha fatti un popolo solo, visto che, dei sacerdoti, ci hanno detto che anche noi abbiamo dei compiti sacerdotali”.

***  

La scelta del Seminario.

“Sono contento che l’annuale assemblea degli sposi si sia tenuta in Seminario, afferma il nostro Patriarca… questa è realtà che appartiene alla nostra Chiesa particolare e quindi a tutti noi. Come non si diventa preti per se stessi ma per e dentro la comunità, così il Seminario non ha senso per sé stesso, ma è di questa Chiesa particolare, è per questa Chiesa particolare. Oggi la vostra presenza in questo luogo afferma questa realtà  e credo che sia una presa di coscienza molto importante per tutti… La carenza di vocazioni è un problema di tutti: vorrei che questa diventasse una questione che vi tocca… Cari amici coniugi questo pensiero dev’essere vostro tutti i giorni; durante il giorno dedicategli una piccola preghiera, voi e i vostri figli; orientate il peso delle vostre fatiche verso questo problema della nostra Chiesa. Dio ascolta sempre le preghiere dei suoi figli!”.

Una prima risposta all’appello del Patriarca agli sposi la Commissione l’ha voluta esprimere annunciando alla fine dell’Assemblea la propria disponibilità a collaborare subito con il Seminario nella ricerca di possibili iniziative comuni, in particolare per l’impegno educativo alla fede e alla vocazione.

  AL SOMMARIO

ARTICOLAZIONE DELL’ASSEMBLEA

 

Presidenza :           S. Em. Card. Patriarca MARCO CÈ

Moderatori :           Coniugi Dilvia e Virgilio ROSSI

Relatori sul tema :   ð   Mons. Lucio CILIA

                                     ð Coniugi Ornella e Daniele GAROTA

Svolgimento :

Sabato 30 settembre c/o chiesa di s. Chiara - Venezia

ore 21,00      veglia di preghiera

Domenica 1 ottobre c/o basilica Madonna della Salute e Seminario patriarcale

ore  9,00       arrivi alla sede dell’assemblea ed accoglienza

ore  9,30       preghiera delle Lodi, saluti e presentazione dell’assemblea

ore  9,45       meditazione “Il sacerdozio battesimale” (Cilia)

ore 10,45      pausa ristoro

ore 11,15       meditazione “Storia degli sposi, storia della salvezza” (Garota)

ore 12,30       pausa per il pranzo al sacco

ore 14,30       gruppi di riflessione coordinati dalla Commissione

ore 17,00      proposta operativa della Commissione e conclusioni del Patriarca

ore 17,30      S. Messa  

VEGLIA DI PREGHIERA

 

Nella meditazione  in preparazione all’Assemblea  si è voluto  recuperare il tratto di strada percorso  e lo faremo grazie alla memoria dei due Santi che ricorrono: SAN GIROLAMO e SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINO.

   

SAN GIROLAMO

sacerdote e dottore della Chiesa

 

San Girolamo è, tra i Santi, l’uomo della Bibbia per antonomasia. Nato in Dalmazia verso il 342 fu battezzato a 25 anni e divenne prete a 38. Fu segretario di papa Damaso e, dopo la sua morte, nel 385 si stabilì a Betlemme ove si dedicò a vita monastica e a tradurre e commentare tutta la Sacra Scrittura, morendo nel 420.

È patrono dei biblisti e scrisse: “Ignorare le Scritture è ignorare Gesù Cristo”.

Con lui vogliamo ricordare il primato che occupa la Parola nella pastorale familiare e, conseguentemente, ricordare anche la connotazione profetica del ministero coniugale che abbiamo affrontato nella scorsa assemblea.

 

Dalla seconda lettera di Paolo a Timoteo (3, 14-16)

Tu rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.

La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita della mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo. Nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza da essere sostegno e vigore della Chiesa.

È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia - che è impregnata di parole divine - sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi.

Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l’uomo.

(DEI VERBUM 21 e segg.)

 

  SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINO

vergine e dottore della Chiesa

 

Teresa Martin nacque ad Alençon nel 1873 e a 15 anni entrò nel Carmelo di Lisieux ove vi passò 9 anni di straordinaria intensità spirituale praticando eroicamente l’umiltà, la semplicità evangelica, l’abbandono all’Amore misericordioso.

Morì il 30 settembre 1897. Fu canonizzata nel 1925 e proclamata compatrona delle missioni. Dal 1997 è anche dottore della Chiesa.

Facciamoci introdurre da lei nel mistero dell’amore: Dio è grande in una creatura piccola.

  Nella sua breve esistenza giovanile, Dio è grande e lei è piccola. Non si fa concorrente di Dio, Teresa di Gesù Bambino. Neppure una volta. È uno spazio di Dio. Lascia che Dio dilaghi nella sua vita. E questo lasciare dilagare Dio nella propria esistenza, diventa la sua misura interiore. Che cosa ha di suo, lei? Niente. Però, sa di essere colma di grandi cose. Lo dice, anzi non può fare a meno di dirlo perché non può fare a meno di dire che Dio è grande: grande con tutti, grande dappertutto, grande in lei, soprattutto perché lei è piccola. Questa visione dell’uomo che deriva alla santa da tutta la sua vicenda spirituale, è di un’attualità sconcertante che contrasta con l’attuale ribaltamento dell’ideale di grandezza e piccolezza: oggi l’uomo è lui grande, mentre Dio è piccolo !

Ma questa “bambina” ha un altro modo di ragionare. Ha una presunzione interiore, derivatale dallo Spirito santo, che ci sbalordisce: guardandola possiamo ritrovare serenità e un po’ di fiducia in noi stessi che siamo creature di Dio, creature piccole quando vogliamo rimanere chiuse nella nostra autonomia di povere creature, ma che diventiamo grandi quando ci sappiamo aprire al Signore che non è pigro nell’incontro con coloro che Egli ama, perché li crea con amore, come per amore li chiama e li chiama a salvezza.

(A. B.)

Vogliamo allora farci guidare da Santa Teresa nella nostra ricerca di sposi verso il “sacerdozio”, comune a tutti i fedeli, ricordando la centralità che l’Eucaristia ha nel cammino della pastorale familiare .

 

Dal Vangelo secondo Matteo (18, 1-4)

I discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?“. Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me”.

 

Essere tua sposa, Gesù, dovrebbe bastarmi.  Non è così !... Sento in me altre vocazioni. Sento in me la vocazione di Sacerdote: con quanto amore, o Gesù, ti porterei nelle mie mani; con quanto amore ti darei alle anime!

Nonostante la mia piccolezza, vorrei illuminare le anime come i Profeti, i Dottori! Ho la vocazione d’essere Apostolo... vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome, ma, o mio Amato, una sola missione non mi basterebbe: vorrei essere missionaria dalla creazione del mondo fino alla consumazione dei secoli...

O mio Gesù, cosa risponderai a tutte le mie follie?...

Durante l’orazione i miei desideri mi facevano soffrire un vero e proprio martirio. Aprii le epistole di S. Paolo per cercare qualche risposta. Mi cadde sotto gli occhi la prima lettera ai Corinzi. Lessi che non tutti possono essere apostoli, profeti, dottori..., che la Chiesa è composta da diverse membra e che l’occhio non potrebbe essere al tempo stesso la mano. La risposta era chiara, ma non appagava i miei desideri, non mi dava la pace.

Senza scoraggiarmi continuai la lettura e questa frase mi rincuorò: «Cercate con ardore i doni più perfetti; ma io vi mostrerò una via ancora più eccellente». E l’Apostolo spiega come tutti i doni più perfetti non sono niente senza l’Amore... Che la Carità è la via eccellente che conduce sicuramente a Dio. Finalmente avevo trovato il riposo ! ...

Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ero riconosciuta in nessuno dei membri descritti da San Paolo: o meglio, volevo riconoscermi in tutti!...

La Carità mi diede la chiave della mia vocazione .

Capii che se la Chiesa aveva un corpo, composto da diverse membra; il più necessario, il più nobile di tutti non le mancava.

Capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d’Amore.

Capii che solo l’Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue...

Capii che l’Amore racchiudeva tutte le Vocazioni, che l’Amore era tutto, che abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi!... Insomma che è Eterno!...

Allora, nell’eccesso della mia gioia ho esclamato: O Gesù mio Amore... la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore!... Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa e questo posto, o mio Dio, sei tu che me l’hai dato: nel Cuore della Chiesa, mia Madre, sarò l’Amore!... Così sarò tutto... così il mio sogno sarà realizzato!!!...

(Ms B 250-254)

AL SOMMARIO

APERTURA DELL’ASSEMBLEA

del Card. Patriarca Marco Cè

Saluti

Rispondo al vostro saluto con molta cordialità e gioia, perché l’Assemblea diocesana degli Sposi è diventata ormai un appuntamento abituale nella nostra comunità ed è sempre un incontro gioioso. È un momento di riconoscimento fra di noi e di identificazione per la nostra Chiesa: per questo è un tempo di grazia.

Oggi sento di dovervi esprimere il mio compiacimento in maniera particolare, perché la giornata non è splendida: avremmo tanto desiderato il sole ed invece è venuta la pioggia. Nella Bibbia la pioggia è segno di benedizione, ma il biblista[2] che mi sta accanto potrebbe obiettare che molte volte l’acqua è anche segno di distruzione. Prendiamo la giornata come viene dalle mani di Dio, e benediciamo il Signore per “sorella acqua” che oggi ci dona. Del resto voi lo sapete meglio di me: questo è l’atteggiamento con il quale dobbiamo affrontare ogni nuovo giorno; aprendo gli occhi al mattino diciamo: «Signore ti ringrazio perché mi hai donato di iniziare questa nuova giornata e ti benedico per quello che oggi mi darai». Tutto ciò che siamo ed abbiamo è dono della bontà di Dio, per cui dobbiamo benedire e ringraziare.

Due motivazioni

Oggi vi siete raccolti in Seminario con una duplice finalità. In primo luogo per riflettere sul tema del ministero sacerdotale degli sposi nella storia della salvezza. Un tema grande, bello, importante, che motiverà molto la vostra vita, le vostre gioie, le vostre pene, le vostre fatiche. La possibilità di offrire ogni giorno la vita come sacrificio spirituale con il Signore Gesù, è veramente una motivazione profonda capace di dare senso a tutto il nostro esistere.

Siete qui riuniti, però, - ed io ne sono molto contento - anche per porre fortemente all’attenzione il problema delle vocazioni sacerdotali. Essere in Seminario non può non significare un forte richiamo alla questione, che per la nostra Diocesi è un problema sofferto.

Siamo un po’ come Israele che cammina nel deserto: mai senza una grande fiducia nel Signore, mai soltanto lagnandoci per le difficoltà che incontriamo, ma sempre consapevoli e sicuri che la strada sulla quale Dio ci conduce deve porci degli interrogativi. Il Signore ci fa passare attraverso il deserto, ma dobbiamo sempre ricordare che il deserto è un tempo di affetto del Signore nei confronti del suo popolo. Geremia lo chiama addirittura il tempo del fidanzamento, cioè un tempo bello, di grazia, di benedizione, anche se questa bellezza, questa grazia, questa benedizione passano attraverso la fatica propria del deserto.

Queste sono le motivazioni che ci hanno radunato oggi e su di esse abbiamo invocato l’effusione dello Spirito Santo: la sua grazia certamente opererà nei nostri cuori. Identificato così l’incontro odierno, non mi rimane che dichiarare aperta l’Assemblea.  

AL SOMMARIO

PRESENTAZIONE DELL’ASSEMBLEA

di Dilvia e Virgilio Rossi[3]

Il saluto di accoglienza

Porgiamo un caloroso saluto al nostro Patriarca Marco, cui siamo ben felici di dare la parola per l’apertura di questa Assemblea degli Sposi: avrà sicuramente qualcosa da dirci per ben cominciare questa giornata

Prima di tutto ci presentiamo, siamo Dilvia e Virgilio e facciamo parte della Commissione che ci ha dato l’incarico di fare da moderatori di questa Assemblea. Nostro compito sarà quello di scandire i tempi dei lavori, dare la parola ai relatori, sollecitarvi ad intervenire quando sarà il momento e, scusateci in anticipo per questo, a togliervi la parola se sarà necessario.

Iniziamo subito dando a tutti i presenti, sposi, presbiteri e religiosi, il benvenuto a nome della Commissione e ringraziando per l’ospitalità il Seminario nella figura del Rettore don Lucio Cilia, al quale va la nostra gratitudine anche per il contributo che fra poco darà a questa Assemblea con la sua preziosa meditazione. Con don Lucio salutiamo con affetto tutti i seminaristi e le loro famiglie.

Un ringraziamento doveroso anche a tutte le persone che hanno offerto la loro collaborazione per tutto un lavoro che si è svolto e si sta svolgendo tuttora dietro le quinte: parliamo degli addetti al Servizio cortesia, a quanti si stanno prendendo cura dei vostri bambini, a coloro che provvederanno alla pulizia. Un grazie davvero di tutto cuore.

Vorremmo poi scusarci per i possibili disagi che avrete incontrato per raggiungere la Basilica e il seminario, ma quando abbiamo stampato le locandine e inviato le lettere, ci avevano assicurato la presenza in orario della corsa straordinaria G2 fino a tutto il mese di ottobre. Pochi giorni fa abbiamo saputo che è stata soppressa per scarsa affluenza di utenti. Solo se avessimo saputo quante persone avrebbero partecipato alla manifestazione avremmo potuto richiedere l’effettuazione di una corsa bis a nostra disposizione. Nel pomeriggio dovrebbero, il condizionale è d’obbligo, esserci le famose corse G2.

La documentazione dell’Assemblea

Prima di passare a parlare del tema di oggi dobbiamo richiamare brevemente la vostra attenzione sul contenuto della cartellina: non vi tediamo elencando tutto, anche perché non vogliamo togliervi il gusto della sorpresa, ma è necessario richiamare la vostra attenzione su alcune cose fondamentali:

-   in un unico foglio abbiamo raggruppato la scheda di partecipazione, l’adesione alla 7^ consegna della Bibbia che avverrà il 21 gennaio durante la Festa della Famiglia, e la prenotazione degli Atti di questa Assemblea.  

Ovviamente chi non è interessato alla consegna della Bibbia perché l’ha già ricevuta, lascerà in bianco questo settore.

Vi preghiamo di compilare la scheda con chiarezza, possibilmente in stampatello; don Silvio, che da quando ha scoperto Internet, da buon veneziano vi naviga con l’esperienza di un perfetto nocchiero, raccomanda a tutti di segnalare il proprio indirizzo di e-mail. Scrivetelo chiaro altrimenti non si sa bene che strada prenda la nostra posta telematica…. La scheda verrà ritirata a suo tempo dal servizio cortesia.

Vi invitiamo anche a prenotare gli Atti di questa Assemblea, che speriamo di poter pubblicare al più presto. Ci sapremo così regolare sul numero delle copie da stampare.

-        nel pomeriggio ci sarà l’opportunità, come l’anno scorso, di riflettere assieme su quanto don Lucio e Daniele ci diranno questa mattina; ci divideremo quindi in quattro “Gruppi di riflessione”. A questo proposito nella cartellina troverete un talloncino con l’indicazione del Gruppo di riflessione cui dovrete partecipare.

-        vogliamo accennare poi ad un volumetto che è un piccolo regalo della Commissione: in esso sono raccolti circa cinquanta pensieri sulla Parola di Dio scelti tra i molti interventi del nostro Patriarca e da decine di maestri che ci hanno aiutato a scoprire e ad amare questa Parola. Questo volume vuole essere un piccolo primo contributo della Commissione alla concretizzazione delle aspettative e delle sollecitazioni contenute nel programma pastorale 2000/2001, presentando il quale il Patriarca ci invita a “sostare un anno intero sul tema fondamentale della Parola di Dio”.

-        non vorremmo apparire venali, ma come potrete immaginare, allestire un’Assemblea costa. E allora, con discrezione, vi invitiamo a prendere atto che nella cartellina c’è una busta, vuota. Non vi diciamo di più: la busta va consegnata anch’essa al Servizio cortesia.

Introduzione al tema

Ed ora spendiamo due parole sulle due scelte che la Commissione ha fatto in ordine al tema e alla sede di questa Assemblea.

Come sapete bene, il tema di oggi è il sacerdozio, visto da due angolazioni: il sacerdozio battesimale e il sacerdozio sponsale. Tutti, in quanto battezzati, abbiamo ricevuto questo dono, che è anche e soprattutto un impegno; ma in noi sposi è stato ribadito col Sacramento del Matrimonio per il quale siamo chiamati a vivere questo impegno come coppia.

È un tema difficile, ce ne rendiamo conto, e sappiamo anche che se ne parla poco.

Non ci vogliamo addentrare nello specifico del tema perché questo è compito dei due relatori di oggi, don Lucio Cilia e Daniele Garota, ma è opportuno spiegare come si è arrivati alla scelta di questo tema. Una scelta che appare in qualche modo obbligata, se si ha presente il cammino che la Commissione ha proposto agli sposi in particolar modo a partire dall’Assemblea di Quarto d’Altino del 1997.

Raccogliendo le sollecitazioni del nostro Vescovo e l’eredità spirituale di don Germano Pattaro, la Commissione ha sempre avuto come principale preoccupazione cercare di indirizzare la pastorale famigliare in modo che gli sposi (stiamo parlando di noi, vero?) prendessero  sempre più consapevolezza del ruolo che essi svolgono nella Chiesa e nella società civile. Più volte il Patriarca ci ha detto che noi siamo  “come un prolungamento del corpo di Cristo in cui va a compimento la sua opera di salvezza”; in una parola gli sposi sono chiamati a vivere con pienezza la propria ministerialità, il proprio servizio nella Chiesa e dentro la storia e questo era in sintesi il titolo dell’Assemblea di Quarto dove ci si soffermò a riflettere sui tre ministeri nell’ambito dei quali gli sposi sono chiamati a vivere la propria quotidianità: il ministero profetico, quello sacerdotale e quello regale.

In quella occasione il Patriarca ci invitò a fissare lo sguardo sul “Figlio”, mentre ad Eraclea, sempre il nostro Vescovo, contemplando il Padre, ci fece riflettere come la nostra Paternità/maternità trovi necessariamente la propria matrice nella Paternità di Dio.

Certo, si volò alto e così l’anno scorso pensammo di restringere il campo della riflessione, cercando nel contempo di scendere sul concreto, affrontando un singolo ministero, quello profetico, affidando a don Silvio il compito di offrirci una meditazione che partisse dalla Parola. Ornella e Daniele Garota portarono invece il loro contributo esperienziale: la testimonianza di una coppia che si affida alla Parola per assolvere al compito educativo.

Partendo da questa nostra ministerialità coniugale, gli sposi sono chiamati ad operare nella storia, e perché sia storia di salvezza, deve esser una storia di persone che si donano agli altri. Ecco allora che rimane sempre attuale l’iniziativa “Famiglia per le famiglie” lanciata dalla Commissione nell’Assemblea di Mira, che chiama gli sposi ad una attenzione più viva per le realtà che ci circondano e che esprimono il disagio, come “Casa Famiglia” della Giudecca e l’Istituto “Gris” di Mogliano, dove, come  consuetudine di questi ultimi anni, vi diamo appuntamento per  domenica 29 ottobre, quando celebreremo l’Eucaristia con don Giabardo e gli ospiti della struttura.

Riceverete comunque a giorni la lettera con quest’annuncio.

Permetteteci l’osservazione che è sempre lo Spirito che guida i nostri passi: don Silvio, l’anno scorso, ci parlò della profezia partendo dal brano dei “Numeri” c’è il giovane servo di Mosè si scandalizza perché aveva sorpreso alcuni anziani a profetare, non essendone autorizzati. Mosè non si scompone ed: «Fossero tutti profeti!». Ebbene, sapete quale lettura ci propone oggi la liturgia: proprio quello stesso brano. Sembra che lo Spirito ci dica: «vi ricordate dove eravamo rimasti?».

Perché è stata scelta questa sede

Ed ora due parole sul luogo che ci ospita, il seminario.

Considerando il tema di oggi il Seminario ci sembrava la sede più adatta.

Forse, nello stare qui, oggi, c’è la tentazione mettere a confronto due ministeri, quello sponsale e quello ordinato; noi pensiamo invece a ciò che ci pone sullo stesso punto di partenza: il sacerdozio battesimale che costituisce la base di partenza per tutti. Questo luogo ci suggerisce anche pensieri su comuni discorsi vocazionali, ma a questo verrà dedicato uno spazio nel pomeriggio, prima della celebrazione della S. Messa.

Vi anticipiamo per quel momento una gradevole sorpresa: al rientro in Basilica vi sarà consegnato un “gadget” come si usa dire adesso, che ha a che fare con il seminario e su questo si svilupperà un certo discorso.

Per ora immergiamoci in questi luoghi meravigliosi, ricchi di storia, di arte, ma soprattutto intrisi di significati che siamo sicuri don Lucio ci aiuterà a cogliere nella meditazione che si appresta a fare.

Don Lucio supponiamo non abbia bisogno di presentazioni: pensiamo che la maggior parte di noi abbia avuto almeno una volta l’occasione di ascoltarlo e di apprezzarlo.

AL SOMMARIO  

IL SACERDOZIO BATTESIMALE

di mons. Lucio Cilia[4]

Una parola poco gradita

Nella trattazione del tema relativo al ministero sacerdotale, è opportuno ricordare innanzitutto che ai primi cristiani la parola sacerdote era poco gradita. Nel Vangelo, infatti, essa viene usata per definire il sacerdozio ebraico che si svolgeva nel tempio, ma non la troviamo mai in riferimento a Gesù e ai discepoli. Spesso, i testi che parlano del Sommo Sacerdote o dei sacerdoti, hanno una certa venatura polemica perché, in fondo, sono coloro che daranno il giudizio di condanna nei confronti di Gesù. Sembrava, quindi, una specie di offesa attribuire a Gesù la qualifica di sacerdote e questo lo si può riscontrare negli scritti di san Paolo – ma anche in tutto il Nuovo Testamento – dove, riferendosi all’azione sacerdotale, si preferisce parlare di sacrificio spirituale.

Quindi, quando usiamo questo termine, non dovremmo dimenticare questa cautela, perché c’è sempre il pericolo di intendere il vocabolo nel senso antico contestato dal Nuovo Testamento. Vedremo in seguito come il pericolo può essere presente per alcuni aspetti.

Ad un certo punto della riflessione cristiana, però, si è posta la questione se fosse del tutto lecito cancellare questa parola, che troviamo invece parecchie volte nella storia e nella legislazione dell’Antico Testamento. Al tempo di Gesù, l’immagine del sacerdote era la figura per eccellenza dell’espressione religiosa.

C’è un autore, di cui non conosciamo il nome, che ha il coraggio di riprendere la questione ed affermare che, nella misura in cui ci confrontiamo con la storia ebraica, non possiamo vietare l’uso di questa parola: è l’estensore della Lettera agli Ebrei. Egli, pur sapendo di trattare un argomento abbastanza complesso, l’affronta, ne parla, ha il coraggio di metterlo a tema; usa questo termine e comincia a parlare di Gesù Sommo Sacerdote: sa di trattare un tema difficile da spiegare e ad un certo punto scriverà ai suoi cristiani: «Su questo argomento abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare…»; poi dice anche: «…perché siete lenti a capire» (Eb 5,11).

È un monito anche a noi per usare con  precauzione questa parola.

È necessario un mediatore

In effetti cosa intendiamo quando affermiamo di avere il ministero sacerdotale? Sarebbe interessantissimo scoprire quale concezione abbiamo - noi, oggi qui presenti – del termine sacerdozio, tenendo conto che esso è stato accantonato a lungo dai cristiani e considerando che è stato ripreso con grande precauzione e chi ne ha avuto il coraggio, l’ha fatto con un discorso abbastanza complesso. Tutto il ragionamento della Lettera agli Ebrei, infatti, mette in difficoltà i miei allievi quando lo propongo a scuola.

Cercherò di sintetizzarlo in poche parole: nel senso antico e dal punto di vista teologico, potremmo dire che sacerdote è colui che rende possibile accostarsi a Dio. Per chiarire il significato della definizione, devo fissare tre considerazioni:

·       il sacerdote ha senso nella misura in cui il suo ruolo va colto all’interno di una logica di fede, per cui si riconosce che il bene supremo per una persona, per una famiglia, per una comunità, è entrare in dialogo, in contatto con Dio. È formulare una preghiera ed avere la sicurezza che essa arrivi a Dio; è desiderare che Dio ci parli, e che la parola che ascoltiamo non sia di qualcun altro, ma sia “la Parola di Dio”; è credere possibile un contatto con Dio, perché questo è il bene supremo.

·       all’interno di questa visione, la seconda constatazione diventa drammatica: in realtà all’uomo, non è possibile entrare in comunione con Dio, perché Egli è Santo, Santo, Santo e noi, santi, non lo siamo. Su questo gli Ebrei hanno le idee chiare: noi desideriamo entrare in comunione con Dio ma non possiamo, né come persone singole, né come famiglia, né come popolo. Questo pensiero è importante, altrimenti il sacerdote perde la sua funzione. Ma se, da una parte, il bene supremo è entrare in comunione con Dio e dall’altra mi è impossibile entrare in contatto con Lui, che cosa è necessario?

·       necessita un ponte, qualcuno che faccia da mediatore, che mi renda possibile (come singolo, come famiglia, come popolo) arrivare ad accostarmi a Dio; qualcuno che mi apra le porte, come dice il salmo, «aprite le porte…» (Sal 117,19). Il primo salmo, che abbiamo pregato alle Lodi, è un salmo di ingresso nel tempio dove non era semplice entrare: si doveva chiedere: «apritemi la porta», allora colui che accoglieva, rispondeva: «Benedetto colui che viene…», (Sal 117,26)

Il “sistema di separazioni rituali”

Il sacerdote, quindi, ha senso nella logica dell’Antico Testamento, per cui essendo il bene supremo la comunione con Dio e non potendo realizzarla da solo, devo avvalermi di un “ponte”, di qualcuno che compia una mediazione.

Gli studiosi hanno inventato un procedimento, tradizionalmente chiamato “sistema di separazioni rituali”, che riconosce alcune figure nella rivelazione dell’Antico Testamento. Per esempio: tutta la terra è di Dio, però tra tutta la terra ce n’è una che è santa; in questa terra tutti i popoli sono di Dio, ma tra essi c’è un popolo eletto; nel popolo eletto ci sono dodici tribù, tra le quali c’è la tribù sacerdotale di Levi; all’interno della tribù di Levi ci sono i sacerdoti, tra di essi c’è un Sommo Sacerdote.

Altro esempio di sistema di separazione, però di tipo spaziale: tutta la terra è di Dio, la terra santa è Israele, in Israele c’è la città  santa Gerusalemme, in Gerusalemme la terra santa è il tempio, nel tempio ci sono diversi spazi, il cortile dove possono entrare tutti, quello dove possono entrare le donne, quello dove possono entrare gli uomini, quello dove possono entrare i sacerdoti. Il Sommo Sacerdote è colui che, da solo ed una volta all’anno, può entrare in un determinato spazio chiamato Santo dei Santi.

Un sistema di separazione di tipo temporale è, invece, questo: tutti i giorni sono santi, il sabato però è un giorno più santo; c’è, poi, un giorno santo che è santissimo: il Yom Kippur, ovvero il giorno della purificazione in cui il Sommo Sacerdote può entrare nello spazio santissimo che è il Santo dei Santi.

In questi modi, la separazione crea un itinerario per cui nel giorno santissimo dello Yom Kippur si entra nel Santo dei Santi e lì si stabilisce la comunione con Dio attraverso una serie di azioni che costituisce a sua volta un sistema di separazione rituale: tutte le cose sono di Dio, se ne prendono alcune consentite dalla legge, per esempio un animale puro, lo si uccide, lo si brucia e lo si offre in olocausto, in modo che salga a Dio.

Viene quindi ripreso un sistema presente nella cultura ebraica che permette al popolo di avere un suo rappresentante - il sacerdote, appunto - che nel luogo santo, nel tempo santo, faccia da ponte con Dio. L’accesso al Santo dei Santi, la comunione con Dio era quindi resa possibile, poiché c’era una persona che lo faceva per tutti. Nel giorno dello Yom Kippur, il Sommo Sacerdote entrava, legato con una corda, dietro il velo del Santo dei Santi perché, in caso di svenimento, si potesse trascinarlo fuori poiché nessuno poteva andare al di là del velo del Santo dei Santi. Il valore di questa concezione è quello di ritenere che l’accostarsi a Dio è una cosa seria, non concessa a chiunque.

Oggi, all’opposto, c’è il pericolo del cosiddetto pelagianesimo (peraltro già presente in passato) che consiste nel ritenere la natura umana talmente buona da essere in grado di arrivare naturalmente a Dio. Il  sistema sacerdotale critica questa visione e ribadisce l’impossibilità dell’uomo comune di entrare in comunione con Dio con le proprie forze in quanto, se ciò fosse realizzabile, si potrebbe dichiarare inutile e cancellare il tema del sacerdozio. In ultima analisi, però, questa concezione del sacerdozio generava il pericolo di creare la separazione di una casta a cui si apparteneva, poi, per via generazionale.

Ma c’è un altro sacerdozio

Questo pensiero è stato superato dall’autore della Lettera agli Ebrei che si è posto la domanda: chi è il vero sacerdote? Di per sé non poteva dire che Gesù era Sommo Sacerdote perché non apparteneva alla tribù di Levi, ma alla tribù di Giuda. Approfondendo le sacre Scritture, il nostro autore scopre però che era stato annunziato un altro sacerdozio, quello secondo Melchisedek, che non era certamente della tribù di Levi perché anteriore ad essa (Gen 14,18). Ciò significava che era possibile ci fosse un altro sacerdote, annunciato già da Melchisedek, come si recita – non a caso – ogni domenica ai vespri: “Tu sei sacerdote secondo l’ordine di  Melchisedek …”(Sal 109,4).

Chi è quest’altro sacerdote? È Gesù il sacerdote annunciato secondo l’ordine di Melchisedek, perché è l’unico - ecco la novità - che, essendo vero uomo, ha avuto la possibilità di stabilire un contatto con il Padre, non attraverso un sistema di separazione dagli altri ma in quanto è stato colui che ha detto il suo sì pieno al Padre. Egli è l’unico uomo, in quanto anche Figlio di Dio, che ha avuto la possibilità di accostarsi a Dio.

Ricordando le due asserzioni fatte all’inizio (il bene più prezioso per l’uomo è entrare in comunione con Dio e l’uomo non è in grado di farlo da solo), possiamo sostenere che il fatto di “non esserne capaci” è stato vinto da Gesù perché è stato obbediente sino al sì supremo, il cui segno è la croce. Gesù, quindi, è stato il primo uomo – veramente uomo - a dire il suo sì al Padre, entrando così nel vero “tempio”, non quello costruito a Gerusalemme, ma nel tempio “comunione con Dio”.

L’autore della Lettera agli Ebrei ha intuito allora che la strada per arrivare a Dio è Gesù, il vero sacerdote. È lui che rende possibile entrare in amicizia con Dio, che garantisce che la parola udita è la Parola di Dio, che il Padre ci ascolta se preghiamo assieme a lui, che facciamo la volontà del Padre se facciamo quello che lui ci dice. Ci assicura, cioè, che non stiamo seguendo un Dio costruito da noi, ma ci rivela il vero volto di Dio e ci mostra la strada per arrivare all’amicizia con lui.

Riassumendo, fino ad ora abbiamo toccato questi argomenti:

·       la paura/avversione per la parola sacerdote;

·       il significato di sacerdozio nell’Antico Testamento;

·       la mediazione attraverso quelle separazioni che non raggiungevano lo scopo perché terminavano sempre dentro una stanza, offrivano degli animali ma non cambiavano la coscienza della persona;

·       la realizzazione della comunione con Dio compiuta da Gesù proprio perché ha cambiato la sua vita dicendo un sì di obbedienza al Padre, perché ha vissuto da figlio.

Noi, sacerdoti, quando?

A questo punto, in che senso possiamo essere chiamati sacerdoti? Innanzitutto, nella misura in cui riconosciamo che l’unico sacerdote è Gesù. Fondamentalmente, comprendere che Gesù è l’unico vero sacerdote, significa ammettere che noi non possiamo arrivare ad entrare in comunione con il Padre, a raggiungere il bene supremo se non ci uniamo a lui, se non lo ascoltiamo, se non lo conosciamo, se non facciamo comunione con lui.

Per tratteggiare brevemente il ministero sacerdotale, partiamo da un dato fondamentale. Essere battezzati in Cristo, avere la vita cristiana significa che non siamo più noi che viviamo, ma è Cristo che vive in noi. Parlare del battesimo come sorgente della vita cristiana, vuole dire che la nostra vita è orientata al bene, che è in comunione con Dio nella misura in cui, appunto, non siamo più noi che viviamo, ma è Cristo che vive in noi. Non bisogna dimenticarlo.

Qualche volta siamo portati a pensare di arrivare a Dio per via naturale, per la sua bontà e in forza di quanto ci vantiamo di fare. In realtà la vita cristiana è invece essenzialmente imparare a morire perché viva Cristo in noi. Il primo annuncio cristiano è infatti: “Convertitevi e credete al vangelo perché il Regno di Dio è vicino” (Mc 1,15; Mt 4,17). Il messaggio è: Dio regna, Dio deve essere il Re!

Questo deve essere chiaro perché qualche volta si rischia di intendere il sacerdozio come una presa di poteri, mentre nel linguaggio veramente cristiano è tutto il contrario. È vero tuttavia che, nella realtà, può succedere che si continui a pensare al sacerdozio alla maniera antica e anche la Chiesa ha ceduto qualche volta a questa tentazione. L’architettura di questa basilica[5] è un esempio di come si possa ritornare a pensare secondo la mentalità antica: sono stati creati spazi diversi per i fedeli e per il clero. Invece il centro, prima di tutto, è avere la convinzione di essere sacerdote nella misura in cui non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me.

Noi, sacerdoti, come?

Come svolgere il mio sacerdozio? Innanzitutto bisogna credere che il bene supremo della mia vita singola e di coppia, della mia vita di famiglia, della mia vita di prete, della mia vita di comunità sia entrare in comunione con Dio, cioè che Dio regni. Il primo annuncio sacerdotale che come cristiani dobbiamo fare è: “Solo Dio basta”, mentre in realtà oggi siamo molto tentati a pensare che bastino altre cose.

  In secondo luogo occorre annunciare che non possiamo raggiungere Dio nella nostra autonomia, né possiamo essere salvatori di altri, poiché l’unico che salva e che rende possibile arrivare al Padre è Gesù. Il ruolo sacerdotale consiste nel mostrare un altro, cioè rivelare che per entrare in comunione con il Padre - l’unico Bene - dobbiamo unirci a Gesù. Dico questo perché – e parlo da prete - chi ha relazioni di aiuto con altri, può avere la tentazione di sentirsi necessario e ritenersi salvatore: “Se quello mi ascolta, vedrai che si salva”. In realtà un prete, svolgendo relazioni di aiuto, deve imparare a sentire e ad annunciare che lui per primo è salvato, e che la salvezza per la persona cui si rivolge sarà realizzata nella misura in cui non è più lei che vive, ma si aggancia al Padre in Cristo.

La stessa cosa può capitare anche all’interno della famiglia: “Se trovo la persona giusta, sono a posto”. Siccome poi c’è qualche problema, allora vuol dire che non ho trovato la persona giusta. Lo sposo e la sposa dovrebbero aiutarsi a dire: “Io non ti basto, ma ti aiuto a trovare chi basta”. I genitori, davanti ai figli devono dire: “Certo, ti do una mano essenziale, ma non sono io il tuo salvatore”. Essi possono svolgere il ruolo sacerdotale nella misura in cui mostrano al figlio chi salva.

Perché la nostra preghiera sia ascoltata, non ha senso dirla soltanto, dobbiamo viverla. Nella messa diciamo: “Per Gesù Cristo nostro Signore”. Posso trovare tanti altri modi di preghiera, per esempio mettendomi coi piedi scalzi sull’erba in modo da sentire la natura, ma devo essere convinto che la preghiera non sale a Dio se non è unita a quella di Gesù. Deve essere una preghiera di Gesù, altrimenti non è preghiera. Si può affermare: “Ah, ma Dio è buono”, certo che è buono ma il problema è che non siamo capaci di entrare da soli in comunione con Dio se non uniamo la nostra preghiera a Gesù.

Quindi essere sacerdoti vuol dire:

·       riconoscere che solo Dio basta;

·       imparare a lasciare il posto.

Il sacerdote è colui che lascia il posto a Gesù, mostrando che è Lui che salva. Gesù ha fatto la stessa cosa. Egli è diventato sacerdote, ha ricevuto la sua consacrazione sulla Croce. È bellissimo il passo in cui il teologo Balthasar, scrive: “…lì dove lui ha lasciato il posto ad un altro ed è diventato attraente”, cioè nella misura in cui si è tirato da parte (“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me»” Gv 12,32) . Gesù era più protagonista quando sfamava cinquemila persone, quando guariva, però il vertice della sua sacerdotalità, la sua consacrazione, è stato raggiunto sulla Croce quando ha lasciato il posto ad un Altro.

Essere sacerdoti vuol dire mostrare chi salva e poi essere i primi ad imboccare questa strada e - torno a chiudere il cerchio - vivere in Cristo, mostrando, magari con tutta la propria debolezza, di avere scoperto veramente in Gesù l’unica via di salvezza che rende possibile la comunione con il Padre.

Questo vuol dire essere sacerdoti, proprio partendo dal battesimo. Ma se, in nome del fatto che si è sacerdoti o si vuol svolgere il sacerdozio, invece di lasciare il posto ci presentiamo noi, si ritorna alla concezione antica che era fallimentare.

Sacrifici spirituali

Completiamo il discorso accennando anche alla differenza tra il sacerdozio comune dei fedeli, il sacerdozio dei ministri ordinati ed il sacerdozio sponsale. Se vogliamo però cogliere queste differenze, anzitutto dobbiamo tenere ancora ben presenti questi punti fondamentali:

·       il bene supremo di una persona è Dio che solo basta,

·       l’incontro con il Padre non è dato alle mie possibilità ma deve avvenire attraverso una mediazione,

·       questa mediazione è solamente Gesù

·       il mio sacerdozio sarà annunciare ciò e vivere in Gesù.

Per sacrifici spirituali, quindi, si intende che la mia vita, sia piena di relazioni, di incontri, di decisioni in cui trionfa il sì di Gesù. Questo significa essere figli del Padre che vivono la sua volontà. Il mio sacrificio, la mia offerta non sarà più qualcos’altro, ma sarà, come ha fatto Gesù stesso, trasformare la mia vita e le mie relazioni in luoghi in cui avviene il sì al Padre, e chiederò perdono nella misura in cui riconoscerò che sto facendo “la mia volontà”, invece di dire sì. 

Questo è il sacrificio spirituale, tipico del sacerdozio battesimale, che per gli sposi si coniuga nella loro vita di relazione in cui deve trionfare questo sì al Padre, in cui sono consegnati l’uno all’altra per aiutarsi a riconoscere che solo Dio basta. In questo senso gli sposi sono sacerdoti l’uno nei confronti dell’altro. Il concetto è importantissimo perché, normalmente, per dire di sì al Padre abbiamo bisogno dei fratelli.

Ma se dobbiamo seguire la strada di Gesù, che senso hanno gli altri? Sono forse inutili? In realtà, per riconoscere Gesù abbiamo bisogno di altri che ce lo indichino, che ci aiutino a scoprire la pienezza che c’è nel Padre. Nel linguaggio della Chiesa, la parola sacerdote è stata usata tardi nei confronti dei ministri; in precedenza, difatti, essi venivano indicati con il termine presbitero, cioè anziano, copiando la terminologia di Israele dove c’erano gli anziani della comunità.

Il sacerdozio ordinato

Cerchiamo ora di chiarire in che senso si distingue il termine “sacerdozio ordinato”. Si potrebbe sintetizzare in pochissime parole: nella misura in cui è segno della mediazione.

Noi ci raccogliamo per celebrare l’eucaristia, ma non siamo una assemblea autoconvocata, perché non potremmo arrivare al Padre: è Gesù che ci porta al Padre. Chi è segno, all’interno della comunità, che siamo chiamati da un Altro? Una persona che ha ricevuto l’ordine, per cui in quel momento lui, oltre che essere “fedele” e quindi camminare assieme agli altri nella strada che è Gesù, è segno di Gesù.

Questa persona ci ricorda che siamo convocati dal Padre, che quando commentiamo la Parola del Signore, non siamo noi che la interpretiamo, ma prima di tutto siamo in obbedienza di un’altra Parola, cioè che siamo fondamentalmente “ecclesìa”, cioè “chiamata da”, in cammino, non per autodecisione; in questo senso la chiesa non è democratica, ma gerarchica, non tanto per nostalgia verso un tipo di sistema di governo, ma perché riconosce che l’unico capo, l’unico pastore, l’unica guida è Gesù.

Ciò rientra nella logica sacramentale, la quale afferma che all’interno della comunità c’è un ministero che, sacramentalmente attraverso il segno, mi ricorda che c’è una guida: ecco il ministero dell’Ordine. Non siamo da soli. Io non mi posso dare il perdono, lo devo ricevere da Gesù. Io non posso celebrarmi l’eucaristia, neanche un gruppo di amici credenti può dire: «Celebriamoci l’eucaristia», perché deve esserci un segno che ricorda che l’eucaristia non la facciamo noi, ma è Lui che ci guida. Il sacerdote è proprio il segno che continuamente siamo guidati da un altro. È chiaro che esiste sempre il pericolo che se il prete se ne dimentica e pensa di essere lui la guida, invece di essere trasparente diventa ostacolo.

Nella logica sacramentale, quindi, il ministero ordinato è il segno dell’assoluta necessità di una mediazione per arrivare a Dio, perché da soli non ci arriviamo. Ciò sta alla base di tutto il regime sacramentale. Pensate al pane e vino nell’eucaristia: quello è un segno di Gesù. Evidentemente posso pregare Gesù dappertutto, ma nella logica di questa incarnazione, di questa strada unica per arrivare al Padre (che è Altro) ho il segno dell’eucaristia che mi richiama questa alterità.

Questo vale anche per il sacramento della penitenza. Anche se desidero il perdono, non posso darmelo da  solo. Posso essere pentito, ma ho bisogno di uno che mi innalzi. In realtà, oggi, siamo un po’ “pelagiani”, siamo un po’ autosufficienti. Pensiamo di poter essere buoni: «Sono pentito, adesso cerco di cambiar vita, …», e in fondo, riteniamo di essere i protagonisti della nostra vita.

Invece la fede cristiana è sempre: “Mettiti un po’ da parte, dai il posto ad un altro”. Al centro deve esserci Gesù. La predicazione cristiana riguarda il Regno di Dio. L’annuncio del primo posto dato al  Padre in Gesù che ne è il comunicatore, che si è fatto carne, è mantenuto nella Chiesa attraverso la logica sacramentale.

In poche parole, è questo che diversifica il presbitero. Dice Sant’Agostino: «Con voi sono cristiano (cioè ho bisogno di salvezza), per voi sono vescovo, rappresento Gesù (cioè sono sacramento)». Ecco perché, nell’eucaristia, che è il vertice di questa logica, ad un certo punto dalla terza persona si passa alla prima; il sacerdote dice: «Questo è il mio corpo», dopo aver usato la terza persona: «Prese il pane, lo diede ai suoi discepoli…». Usa cioè la prima persona singolare e non perché lui sia più santo. Neanche il Patriarca può dire: «Io sono il vostro salvatore, io vi salvo», ma bensì: «Io sono segno che questa è la chiesa di Gesù, che è convocata dal Signore Gesù, e siamo in obbedienza a lui».

Non stiamo creando una comunità di salvati con un’idea propria, ma siamo una comunità che è convocata da Gesù, in obbedienza a Gesù: è lui che lo assicura. Io presbitero, unito a Gesù, assicuro questo in una Comunità. È questo il servizio del ministero ordinato.

  AL SOMMARIO

STORIA DEGLI SPOSI, STORIA DELLA SALVEZZA

di Ornella e Daniele Garota

Presentazione

Per chi ha partecipato all’Assemblea dell’anno scorso a Santa Barbara, Ornella e Daniele Garota non sono una novità. Per gli altri è opportuno spendere due parole di presentazione. Innanzitutto vi chiederete dov’è Ornella: vi assicuriamo che c’è, ma essendo una persona schiva, non ama particolarmente apparire in pubblico. È comunque presente nelle parole di Daniele…

Ornella e Daniele vivono a Scotaneto, una frazione di Isola del Piano in provincia di Urbino, tra le dolci colline marchigiane, in un ambiente veramente rasserenante, almeno per chi, come noi, (parliamo dei “campagnoli” di terraferma) è abituato alla caotica città.

Che dire di loro? Praticano agriturismo, hanno quattro figli, due sui vent’anni e due decisamente più piccoli: Paolo ha tredici anni e Filippo cinque.

Daniele è un innamorato della Parola, dalla quale fa discendere le sue riflessioni e le sue testimonianze. La Parola è veramente una cosa importante in questa famiglia. Daniele, oltre a dedicarsi alla agricoltura biologica, collabora a programmi radiofonici della Rai, ed è autore di libri che ruotano attorno alle domande più sentite dell’esistenza e della fede.

Durante la nostra recente visita a Isola del Piano, dove ci siamo recati per concordare con Daniele il suo intervento, abbiamo scoperto di lui un’altra attività: è un gradevole illustratore di libri.

A questo punto non ci resta che dargli la parola ringraziandolo per essere ancora una volta in mezzo a noi.

Il treno della storia, il treno delle storie 

Vi ringrazio per avermi invitato anche quest’anno. Qui mi sento in un clima familiare, tra amici. Sono tante le persone che ci mostrano affetto; con Ornella ed i miei figli veniamo sempre accolti come se fossimo parte della vostra famiglia. Ringrazio anche don Lucio per le cose belle che ha detto e che mi permettono di partire da qualcosa che è già stato seminato, perciò mi innesterò nel suo discorso.

Don Lucio è partito dalla realtà sacerdotale, ma nel tema la parola sacerdote non c’è. C’è la parola storia e la parola salvezza. Gli sposi si trovano all’interno di queste due parole e comincerò da qui per poi arrivare al tema del sacerdozio che è un tema difficile. Almeno a me è apparso difficile, ma mi hanno aiutato i membri della Commissione perché quando mi hanno proposto il tema, mi hanno suggerito anche delle piste di ricerca e di cammino.

Pochi minuti fa il Patriarca mi diceva: «Io so che la vostra storia è una storia di croce». È proprio così. Le nostre piccole storie (ognuno ha la sua, a casa propria), sono storie faticose: la vita di tutti i giorni ci mostra ostacoli e spesso c’è anche la fatica del giorno per giorno nell’educare i figli. Dice il Salmo 90 che gli anni della nostra vita sono pochi, e quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo. Però ci sono anche le gioie - per i più fortunati, s’intende - che vanno accolte e vissute.

Ma ogni nostra piccola storia è inserita in una grande storia: è la storia dell’uomo e del mondo, quella che conosciamo dai libri di storia, ma anche dai giornali, quella di ieri e quella di oggi. È la storia del mondo e dell’umanità. Proviamo a immaginare questa grande storia, in cui ci troviamo tutti inseriti, come se fosse un treno sul quale ci troviamo a viaggiare. Un treno che oggi, molto più di ieri, sta viaggiando velocemente. Un noto sociologo francese dei nostri giorni - Serge Latouche - ha addirittura parlato di un treno "privo di freni e di retromarcia, diretto verso un futuro in costante accelerazione, il cui unico scopo sembra essere la corsa stessa".

Noi ci troviamo dunque dentro a questi vagoni con le nostre piccole storie, e qualcuno tra noi resta nel proprio scompartimento a parlare con i vicini; altri invece, più curiosi, cominciano ad alzarsi,  guardare dai finestrini e si chiedono: «Da dove veniamo? Dove siamo diretti? Chi guida il treno?». E siccome ogni tanto qualcuno viene sbattuto fuori da questo treno, a tutti viene anche da chiedersi: «Quando sarà il mio turno? Quale sarà il nostro destino una volta fuori dal vagone? Ci ritroveremo ancora in qualche modo?» . E poi, cominciando a visitare gli altri scompartimenti, ci si accorge che ci sono magari quelli che vivono meglio di noi, ma ci sono tantissimi che vivono peggio, fino ad arrivare alla sofferenza dei bambini, dei morti di fame. La storia è questa e noi ci troviamo dentro.

Io credo che a questo punto due pericoli ci sovrastano: quello di guardare solo la punta dei propri piedi, parlare solo coi nostri vicini, occuparsi solo delle nostre piccole storie; e quello di essere sempre in giro nel treno per vedere a destra e a sinistra, per occuparsi di quello che c’è intorno, dimenticandoci della nostra piccola storia, dimenticandoci di ascoltare la nostra sposa, i nostri figli, le persone a noi vicine. Se c’è il pericolo della chiusura, ugualmente esiste anche quello di essere troppo proiettati negli impegni sociali fino a dimenticarci di noi e delle nostre realtà dove davvero siamo responsabili in prima persona. Direi, parafrasando un po’ Bonhoeffer, (diceva questo riguardo alla vita di comunità e alla vita di singolo), che soltanto colui che sa vivere bene la vita nella propria casa e nella propria famiglia può vivere bene anche il suo impegno nella comunità quando si apre, e soltanto colui che vive bene a contatto con i problemi sociali, sempre attento a quello che accade intorno a lui sa vivere bene anche le situazioni che accadono nella propria casa, tra le mura domestiche.

Ma vivendo nella storia, il credente, a differenza di chi non ha fede, si apre alla salvezza perché sa che al fondo della “corsa” c’è qualcosa che risponde in qualche misura alle nostre aspettative, che c’è un senso al nostro cammino, a questo viaggio del treno. Il treno non viaggia a caso, non c’è un pilota automatico, non viene da non si sa dove. Il credente sa da dove è partito e dove arriverà questo treno, perché c’è una rivelazione che gli ha parlato di un Dio.

Ci sono anche quelli che non si pongono domande, perché rimangono nel proprio scompartimento e non si interessano; il credente, invece, deve porsi domande di senso, domande sulla storia. Diceva il grande teologo Karl Barth che il credente dovrebbe tenere in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale, perché non possiamo sentirci fuori della comunità umana.

Il Dio della storia

E subito dietro l’idea di storia e di salvezza, ecco apparire il Dio della storia, il Dio ebraico-cristiano che si distingue dalle altre divinità per il fatto che esse non sono legate con la stessa intensità alla storia umana. Il Dio che si rivela nella Bibbia e che promette salvezza, è il Dio della storia, il Dio che sta alla partenza del “treno” e che ci conduce al punto di arrivo.

Avere fede, infatti, non è dire: Dio esiste, che Dio esiste anche i demoni lo sanno, e tremano dice la Lettera di Giacomo (2,19). La fede è, invece, credere che Dio salva, dà un significato alle nostre sofferenze, nel senso che ci promette che le sofferenze un giorno avranno termine, saranno riscattate. Se non abbiamo coscienza di questo, che cosa potremmo dire, se non restare muti, di fronte a certe notizie che i telegiornali danno in questi giorni su ciò che accade a danno di migliaia di bambini, per non dire di milioni di creature umane, se non ci fosse un Dio che pensa a queste grandi ingiustizie. Il nostro Dio è un Dio che salva; il Signore Dio libera dalla morte, dice il Salmo (68,21) e nulla rimarrà sospeso ma tutto avrà in qualche misura un riscatto o una ricompensa. 

La storia, se sappiamo guardarla con occhi coraggiosi, è tutta un gemito e la morte può travolgerci in ogni momento. Ma la speranza è che Dio riscatterà i miseri che cercano aiuto e farà risorgere coloro che sono morti. Dio ha promesso che salverà la storia, che ci ritroveremo con coloro che sono stati sbattuti fuori dal “treno”. Salvezza è che Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi, là dove

non ci sarà più la morte,

né lutto, né lamento, né affanno,

perché le cose di prima sono passate (Ap 21,4).

Ci si mostrerà faccia a faccia il Signore, e noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1Gv 3,2). Dio ci ha promesso che ci servirà a tavola, che danzerà per noi gridando di gioia, e questo ci dovrebbe riempire il cuore. In quel giorno ognuno di noi si chiederà stupito chi poteva immaginarsi una cosa del genere, un Dio che si manifesta in questo modo. E sarà ancora, proprio come duemila anni fa, la semplicità di Dio a stupirci, l’umanità di Dio che si cinge i fianchi per servirci a tavola.

La fede è il fondamento

Certo, accanto a noi, nel treno, troviamo ormai tanta gente, forse troppa, che ci dice: «Non c’è nessun Dio che ci salva. Se andiamo a vedere nella cabina, non c’è nessuno che guida il treno» . Non lo ha detto soltanto Jacques Monod che tutto nasce per caso e vive per necessità, lo ha ripetuto anche dieci giorni fa il filosofo Flores D’Arcais in dialogo con il cardinal Ratzinger, quando hanno dibattuto proprio sull’esistenza di Dio. Sono tanti che dicono che Dio non c’è e sono accanto a noi, ma al credente la fede dice che non è vero: Dio c’è ed è un Dio che salva. Però non possiamo combattere con le armi dei concetti e delle dimostrazioni come se dovessimo accertare l’esistenza delle galassie: il credente non ha altro fondamento che la propria fede.

La fede è fondamento delle cose che speriamo, dice la Lettera agli Ebrei (11,1); lì troviamo il fondamento, è un fondamento che è nel nostro cuore e non sappiamo bene perché. Sant’Agostino, quando doveva parlare del tempo, diceva: «Io so cos’è il tempo ma se qualcuno mi dice dimmi cos’è, non glielo so spiegare» . La fede è qualcosa che abbiamo dentro, che ci muove, è qualcosa per cui daremmo la vita, ma non sappiamo spiegarla come si spiegano i numeri e i concetti filosofici. Il filosofo e matematico Blaise Pascal diceva che il nostro Dio - il Dio di Cristo, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe - non è il Dio dei filosofi, è il Dio che salva e solo il cuore può sentire questo Dio, non la ragione.

Il Dio della libertà è un Dio appassionato

Ma chi è il Dio della storia? Innanzitutto è il Dio della libertà. È un Dio che si è sentito libero di fare molte cose, a differenza delle divinità antiche, come quelle greche per esempio. Gli dei non potevano fare tutto quello che volevano perché c’era un fato che incombeva. Nessun destino e nessun fato sta al di sopra del Dio ebraico-cristiano, che è un Dio libero e fa le cose perché le vuole e le può fare.

Ma è un Dio che ha reso libere anche le creature davanti a sé. Non è un Dio che pensa alla libertà solo per se stesso, ma l’ha donata anche a noi. Noi possiamo decidere molte cose nella nostra vita. Se abbiamo il coraggio di guardare la realtà – anche quella quotidiana - ci rendiamo conto che possiamo operare talune scelte o altre, e da questa libertà di scelta possono derivarne conseguenze che non possiamo neanche immaginare. Potrei fare l’esempio di una donna che decide di abortire, di sopprimere la vita nel proprio grembo. Chi poteva diventare, cosa poteva fare quel bambino? Quali progetti aveva Dio su quel bambino? La libertà di quella donna ha deciso di chiudere questo spiraglio.

Dio mette nella nostra libertà molte cose e si attende molte cose. Sono in molti ormai a dire che il dinamismo della storia moderna del progresso, della scienza e della tecnica, questo dinamismo potente che porta il treno della storia a viaggiare a velocità inimmaginabile, viene da questa libertà ebraico-cristiana che è stata messa dentro di noi. Che poi l’uomo dica: «Faccio come pare a me; mi dimentico di Dio», è un altro discorso, ma la forza che ha l’uomo di progredire, nasce da lì.

Ma oltre ad essere il Dio della libertà, il Dio della storia è anche il Dio del pathos. È un Dio cioè capace di appassionarsi. Non è come gli dei che se ne infischiavano di noi mortali e potevano anche ridere delle nostre disgrazie. Il Dio ebraico-cristiano è un Dio che si appassiona, che soffre e gioisce con le sue creature, è capace di sentimento e di pathos.

Se andiamo a vedere le sacre Scritture, troviamo che nel Libro dell’Esodo si parla di Israele schiavo e sofferente in terra d’Egitto. Si legge che Dio, quando appare a Mosè in un roveto ardente, dice: Ho osservato la miseria del mio popolo... Ho udito il suo grido e sono sceso per liberarlo, per salvarlo , (3,7-8). Lui ode il grido di coloro che soffrono. Nella tradizione ebraica ci sono dei racconti nati da spunti biblici chiamati midrash[6] ed in uno di questi, rifacendosi all’episodio del roveto, si fa dire a Dio, nel dialogo con Mosè: «Non vedi che io sono nel dolore, come i figli d’Israele sono nel dolore? Guarda da dove ti parlo, dalle spine, perché così mi associo al dolore del mio popolo» (Esodo Rabbà 2,5). Una riflessione questa, che non può non rimandare noi cristiani alle spine che hanno trafitto il capo di Gesù prima di essere crocifisso per la nostra salvezza.

Ma ci sono ancora altri passi della Scrittura che soprattutto noi sposi - che conosciamo bene la dinamica della vita a due - possiamo comprendere. Ce ne sono un paio dove si parla della gelosia di Dio: Non ti prostrerai davanti agli idoli, perché io sono un Dio geloso, (Es 20,5); Il Signore si chiama Geloso, egli è un Dio geloso, (Es 34,14). Un uomo, o una donna sanno bene cosa significherebbe tornare a casa e trovare la sposa, o lo sposo nelle braccia di un altro/a. La gelosia, qui intesa, è l’altra faccia dell’amore: tanto più ami la persona che hai accanto, tanto più diventi geloso se la persona ti tradisce. Certo che la gelosia non c’è nei locali degli “scambisti”, lì non c’è gelosia, ma non c’è nemmeno amore! È anche vero che ci sono gelosie di tipo negativo, ma qui si parla della gelosia di Dio che nasce proprio dalla sua passione per l’uomo. Dio è innamorato di noi come lo è uno sposo della propria sposa. L’immagine che i profeti usano è quella del tradimento, l’infedeltà di Israele è l’adulterio:

Accusate vostra madre ...

Essa non è più mia moglie

e io non sono più suo marito!

... Essa ha i segni dell’adulterio nel petto (Osea 2,4).

Sono gli idoli che rendono geloso Dio e di vitelli d’oro, oggi, io ne vedo tanti.

Distratti dagli idoli

Quando don Lucio parlava dell’autosufficienza pensavo che la vita di benessere della nostra società è invasa da idoli che ci distraggono di continuo e ci danno la sensazione della sazietà. Questo è il dramma: costruita una casa comoda, fatta la casa in montagna, la bella macchina in garage, non mi serve altro!. Questa è la tentazione: dimenticarsi di Dio per seguire gli idoli. Che io non gusti i loro cibi deliziosi, dice un salmo (141,4), perché sono cibi che fanno gola, ma poi c’è il rischio che mi distraggano.

L’uomo nella prosperità non comprende,

è come gli animali che periscono , dice un altro salmo (Sal 49,21).

L’abbondanza è il pericolo delle nostre società: tutto viene a noia, tutto ci nausea. I tempi dell’abbondanza sono terribili proprio per questo. Quando Israele è nell’abbondanza, Dio dice: Ma com’era meglio quand’eri nel deserto e mi cercavi . In verità siamo in tanti a dire che, nella nostra vita, Dio è più importante di tutto il resto, ma se ci pensiamo bene non è così, visto che dal mattino alla sera siamo invasi da molti interessi che ci distolgono da Dio. Un po’ tutti siamo attratti dai “vitelli d’oro” che luccicano qua e là. Attenzione: dice Dio per bocca del profeta:

Io detesto le vostre feste... Lontano da me il frastuono dei tuoi canti:

il suono delle tue arpe non posso sentirlo, (Am 5,21-23).

Non venire da me solo quando hai bisogno di qualcosa come fossi un tappabuchi per i tuoi interessi. Io voglio il tuo cuore, voglio la tua attenzione sempre: quando sei nell’abbondanza devi dire grazie perché quest’abbondanza viene da me. Invece quando siamo a posto, diciamo “mi basta” e ci dimentichiamo di lasciare il posto a lui. C’è un’altra immagine, del profeta Isaia questa volta. Il Signore dice così:

Si dimentica forse una donna del suo bambino,

così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? 

Anche se queste donne si dimenticassero,

io invece non ti dimenticherò mai (Is 49,15).

Quando papa Luciani diceva che Dio è anche madre intendeva questo: ogni madre sa bene cosa significa avere le viscere scosse per il figlio del proprio grembo. La parola ebraica - nell’ebraismo anche le parole hanno una loro valenza - che sta per misericordia (la misericordia di Dio) è rachamìm e deriva dalla stessa radice di rechem (l’utero materno). Dio ama di un amore materno viscerale e una mamma sa cosa significa amare il frutto delle proprie viscere. Noi potremmo anche ribaltare il versetto del salmo e dire: Di noi ha sete l’anima sua: di noi ha sete Dio, come una mamma ha sete del suo figlio, delle attenzioni, della gratitudine del proprio figlio.

Ciò che ha detto il filosofo Lévinas sul “volto dell’altro”, vale in qualche modo anche per il Volto del Padre. Se guardiamo il volto impresso sul lenzuolo della Sindone, al di là delle polemiche che si possono fare, vediamo impressa l’immagine di un Dio che ci ha amato in quel modo. È quello il volto dell’altro da amare, che ha dato se stesso per noi, un volto insanguinato, trafitto dalle spine, pieno di dolore. È il volto di Dio, è il volto di Cristo.

Dio si lascia guidare dall’uomo nella storia

Dio ci ha dimostrato che ha camminato insieme a noi; non è rimasto lassù nel cielo ma è disceso e ha camminato insieme all’uomo nella storia fino a soffrire e a lottare con l’uomo, ad essere immerso nei suoi dolori, fino a farsi trafiggere e restare insanguinato. C’è un filosofo ebreo André Neher che ha detto una cosa interessante: «Abramo guida i passi brancolanti di Dio nella storia» . Dio ad un certo punto, si lascia persino guidare dall’uomo. Dio, di fronte ad Abramo, ha agito come se avesse avuto bisogno di questo uomo per capire il da farsi. Prima di distruggere Sodoma va da Abramo e lo ascolta. È capace di scendere così in basso e di mettersi al nostro fianco fino ad aspettare qualcosa da noi. Così come facciamo noi con i nostri figli, come fa una mamma con suo figlio. 

Noi facciamo bene ad occuparci dei nostri problemi, delle nostre case, delle nostre famiglie, dell’educazione dei nostri figli. Ma guai se ci dimenticassimo di Dio, che sta là ed è un Dio che ha un volto ed è un Dio innamorato di noi. Una volta, parlando insieme, don Silvio mi ha detto una cosa molto importante: quando Adamo riceve da Dio Eva, gioisce del dono, ma in qualche misura si dimentica dell’amore con cui Dio glielo aveva donato. Sembra quasi non ci sia la dovuta gratitudine. Riceve questo dono ma gli manca la consapevolezza che c’è un Dio che gliel’ha dato. Così facciamo anche noi se non percepiamo dietro le nostre spose o i nostri figli, le viscere scosse di questo Dio che ci li ha donati, e ci dona quei momenti belli insieme a loro. Siamo degli ingrati, non siamo sacerdoti, nel senso che diceva don Lucio prima, perché non facciamo posto a Dio. Così non mostriamo il volto del Padre.

A Colmar, in Germania, c’è un immagine bellissima e terribile di una crocifissione di un pittore rinascimentale, Grunewald, dove, al fianco della croce c’è Giovanni Battista il quale indica, con un dito più lungo del normale, il Cristo, e dice: Egli deve crescere e io invece diminuire, (Gv 3,30).

Sacerdozio degli sposi sarebbe dunque dirsi l’un l’altro, con la vita e coi gesti, prima ancora che con le parole: Egli deve crescere e io invece diminuire. Sacerdozio dei genitori sarebbe dunque dire ai propri figli: Egli deve crescere e io invece diminuire. Se non facciamo questo, siamo delle belle famiglie, delle belle coppie, ma non siamo dei cristiani, non siamo uomini di fede e non siamo sacerdoti alla maniera di Melchisedek.

C’è un versetto di san Paolo che manda ogni volta giustamente su tutte le furie la comunità femminile; le donne si arrabbiano sempre quando sentono quei versetti tratti dalla lettera agli Efesini dove si dice: Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore. E avrebbero anche ragione: essere sottomesse a Dio va anche bene, ma al marito…. e i diritti, la pari dignità, dove vanno a finire? Però dovrebbero continuare perché nei versetti successivi c’è dell’altro e lì sui mariti incombe un macigno ancora più pesante perché viene detto: E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei (Ef 5, 22-25).

È come dire: anche voi mariti fatevi “agnelli” di fronte alla vostra sposa.

Il desiderio: un dono buono di Dio

La sposa che ci sta accanto, quando si va d’accordo, è fonte di grandi gioie, ma nulla ci sarebbe di questa gioia se non ci venisse da Dio, in ogni momento. Se noi godiamo, con la nostra sposa, con il nostri sposo, possiamo farlo perché là c’è Dio. Il libro del Qoèlet dice: Giovane, godi la vita finché sei in tempo, perché poi arrivano i capelli bianchi e… ciao, però ricordati che in tutto ciò che fai, là c’è Dio che ti dona queste cose (cfr Qo 9,9)

Noi viviamo la maggior parte del nostro tempo nella noia, nella fatica, nel dolore. Ma può capitare che ad un certo punto scatta qualcosa e vediamo con altri occhi le nostre spose, sembra si trasfigurino, sono più belle, più dolci e ci sentiamo avvolti da qualcosa che non è normale, fino ad unirci in una carne sola. Allora ci sembra di uscire dalla storia, di attraversare le galassie, di toccare Eden e il Regno di Dio, in un attimo, perché poi di nuovo si ritorna come prima.

Ognuno, credo, ha avuto la fortuna di avere attimi come questi. Sono dei momenti: lì bisogna avere la forza di aprirsi e dire che questo viene da altrove. Non è frutto della nostra capacità, è qualcuno che ci ha fatto un bel regalo: in un attimo ci ha fatto capire la sostanza della sua capacità di tenerezza, di volerci bene, di darci veramente ciò che ci serve. Diceva Lutero che "Appetitus ad mulierem est bonum donum Dei", (il desiderio della donna - e dell’uomo aggiungeremmo noi - è un dono buono di Dio). La sessualità è un dono buono di Dio, anche se poi l’uomo l’ha infangato fino ai livelli di cui neanche vale la pena parlare.

C’è un versetto del Cantico dei Cantici in cui, per l’unica volta, si nomina il nome di Dio, e neanche per intero: è solo scritto Yah. È quel versetto famoso dove si dice:

Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

come sigillo sul tuo braccio;

perché forte come la morte è l’amore,

tenace come gli inferi è la passione:

le sue vampe sono vampe di fuoco,

una fiamma del Signore! (Ct 8,6).

Nel Cantico non c’è nulla di religioso; l’esegesi di questi ultimi decenni ha constatato che c’è un valore anche senza fare della simbologia. È la storia di un giovane e di una giovane, una storia d’amore, ma tra i due giovani il fuoco dell’amore viene da Dio. Con questo libro è un po’ come se ci venisse detto che è buona cosa l’innamorarsi, è buona cosa la sessualità, ma anche che tutto viene da Dio. È lo Spirito che infiamma i cuori fino a renderli appassionati, senza lo Spirito saremmo fiacchi.

Nel Talmud, giocando sui termini ebraici, ci sono due parole che stanno per marito (ish) e moglie (isha), anagrammando le quali si possono avere altre due parole: iah (Dio) e esh (fuoco). Allora i maestri ebrei dicevano: state attenti perché tra marito e moglie se ci mettete Dio, il fuoco dell’amore è quello buono, ma se togliete Dio, rimane soltanto il fuoco della discordia e della trasgressione.

Non siamo assieme per caso

L’amore di coppia non è mai quello che noi progettiamo. Se incontriamo una persona, è perché qualcuno l’ha messa nel nostro cammino. Quando siamo insieme alle nostre spose e ai nostri sposi e costruiamo qualcosa, ci accorgiamo che la vita è fatta di tante cose e noi diciamo che è successo “per caso”. Invece non è vero: qualcuno ci mette in certe situazioni, per cui, quando prendiamo la Scrittura, non dovremmo mai leggerla come fosse una specie di vademecum. Alla Scrittura dobbiamo avvicinarci per conoscere Dio.

È lì che Dio ci chiede di scoprire quanti doni ci fa ogni giorno, è lì che ci chiede di ascoltarlo, di camminare insieme per le difficili vie della storia. Leggendo la Scrittura dovremmo cercare Dio, non cercare il manuale che serve per costruire belle le nostre famiglie. Dio ha bisogno che conosciamo lui, che gli facciamo posto.

Gesù impara soffrendo

Dio, in qualche misura, impara. Nella lettera agli Ebrei è detto proprio questo: Gesù impara l’obbedienza dalle cose che soffre (cfr Ebrei, 5,8). È come se Dio, facendosi uomo, abbia imparato qualcosa che prima non conosceva bene. Diventando carne, una carne sola col suo popolo e soffrendo, ha fatto esperienza.

Anche dalla nostra vita di sposi, facendo esperienza delle vicende dolorose ma anche gioiose, scoprendovi dietro il volto di Dio, può uscire quel sentimento di gratitudine di cui parlava don Silvio, che non ci fu in Adamo. Non prendiamo questo regalo fermandoci a guardarlo senza poi vedere chi ce lo ha dato. Soltanto così potremmo capire quello che dice san Paolo: Questo mistero è grande!. Ed è riferito al matrimonio, all’essere una carne sola. Questo mistero è grande! Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa (Ef 5,32). Ed è grande proprio nel momento in cui Lui diventa debole e crocifisso ed è grande nel momento in cui vengono scelte anche le vie più povere, le vie più sporche.

Se fossimo stati noi al posto di Dio, di sicuro non avremmo fatto nascere i bambini così come nascono, attraverso gli organi più “sporchi”, quelli che dobbiamo nascondere e avremmo magari trovato vie più nobili. E invece Dio sceglie le cose più povere, più deboli, più discrete, come diventare anche lui schiavo crocifisso. È una follia: un Dio che si fa schiavo! È uno scandalo! Lui sceglie di fare questo e ci dice: “Badate bene che io divento una carne sola con te come tu diventi una carne sola col tuo sposo e la tua sposa”. Ciò che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi (Mt 19,6). Questo imperativo vale anche per Lui. Dal momento che Dio ha deciso di unirsi con noi in una carne sola, non può tornare indietro, condivide con noi tutto.

Mi viene in mente un detto rabbinico che potrebbe anche scandalizzare, ma è di grande profondità: «Dio da solo potrebbe salvare soltanto l’uomo, l’uomo da solo potrebbe salvare soltanto Dio». Questo perché Dio ha fatto in modo che la salvezza deve assolutamente scaturire dall’incontro di Dio con la libertà umana. Così come ha voluto che la vita nascesse da un uomo e una donna che diventano una carne sola, così ha voluto in qualche modo che la salvezza scaturisse dall’amore vicendevole tra lui e l’uomo.

È un po’ quello che dice sant’Agostino: «Dio ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te». Se non adoperi la tua libertà, Dio non può farti arrivare a questa salvezza che è tua e di Dio insieme. È così allora che si hanno due tipi di storia - come dice Heschel -: «Una, in cui l’onnipotenza di Dio viene resa vana dalla presunzione dell’uomo, e l’altro tipo di storia è la storia di Dio e dell’uomo, insieme» Questo può essere fatto soltanto perché è il Dio della libertà, che ha lasciato degli spazi a ciò che l’uomo può, deve fare, perché se non lo fa non può farlo Dio al suo posto. E in questi spazi Dio si è fatto uomo e si è fatto persino crocifiggere dalla libertà dell’uomo perché ognuno di noi può sputare in faccia a Dio. Dio non lo impedisce, ma se lo facciamo, non possiamo neanche immaginare quanto lui soffra. Lo può immaginare una mamma se un figlio le sputa in faccia, lo può immaginare un padre se un figlio va via e dilapida tutto. Dio è così e si è fatto crocifiggere per questi motivi.

Noi viviamo in un tempo abbastanza inedito nella storia. Dio è stato allontanato dalla quotidianità nelle nostre società secolarizzate e agli inizi del secolo si è arrivati a pensare alla morte di Dio. C’è l’aforisma del filosofo Nietzsche, dell’uomo folle che va al mercato e grida: «Dove se n’è andato Dio?», e la gente ride (la gente ride se qualcuno cerca Dio). Sono forme di martirio anche queste, vivere la fede in una società dove chi crede viene perfino irriso. La gente ride al mercato e l’uomo folle dice: «Ve lo dico io dov’è Dio! Dio è morto perché l’abbiamo ucciso, siamo noi i suoi assassini!». E questo avviene nelle nostre società, tutte aggrappate agli idoli, dimentiche di Dio.

Diceva il filosofo Heidegger che non è tanto grave la mancanza di Dio, ma il non vivere più questa mancanza come mancanza. Siamo cioè indifferenti, autosufficienti. Abbiamo fatto come Pietro Maso, che ha ammazzato i genitori per prendersi il gruzzolo. È dire - come accennava don Lucio – “questo mi basta”, non sento nessun bisogno, né di Dio né della sua salvezza. Se il vino nuovo non lo si mette negli otri nuovi, accade quello che diceva Gesù, si finisce cioè col bere il vino vecchio senza più desiderare quello nuovo, perché, si dice: «Il vecchio è buono!» (Lc 5,39).

La realtà sacerdotale degli sposi

Ed è a questo punto che vorrei aprirmi alla realtà sacerdotale degli sposi, come ha introdotto molto bene don Lucio. Non però quella alla maniera di Aronne, delle caste sacerdotali, bensì quella alla maniera di Melchisedek, quella libera e senza vincoli di Gesù, di cui parla a lungo la Lettera agli Ebrei. È il sacerdozio del Dio che si fa agnello sgozzato, del Dio che sprofonda nella morte per salvarci. Ed è il nostro sacerdozio di battezzati: Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte (Rm 6,4).

Cerchiamo di immaginarlo questo Dio abbandonato e solo, tradito anche dai suoi più intimi amici, anche da noi, perché nessuno si sarebbe comportato meglio di Pietro e compagni in quell’ora. Ecco, immaginiamolo così, e cerchiamo di avvicinarci a lui in questo modo nelle nostre eucaristie: Ecco l’Agnello di Dio.... Ma noi, purtroppo, quando ci accostiamo a quel pezzo di “pane”, non sentiamo nulla del sacrificio di Dio che si offre a noi ancora oggi così come ha fatto nell’ora nona del Calvario.

Dio si offre totalmente e continuamente ancora oggi in ogni luogo della terra anche se noi non ce ne accorgiamo. C’è una creatura che soffre? Egli tribola in lui. Tu doni un tozzo di pane a un affamato? È a lui che lo doni, perché è lui il vero affamato. Egli ad un certo punto non sapeva più che farsene del sacrificio di capri e agnelli, perché a Dio è sempre interessato il cuore dell’uomo: Voglio l’amore e non il sacrificio (Os 6,6), la misericordia, l’amore di chi ha le viscere scosse, un cuore contrito, un cuore che palpita di bene è il sacrificio che Dio gradisce. E se ciò non avviene Dio impazzisce d’amore fino a diventare lui stesso vittima sacrificale, agnello sgozzato il cui sangue ha voce ben più eloquente di quella di Abele (Eb 12,24).

Diventare “agnelli” nella quotidianità

Ma di fronte a questa capacità di amare di Dio, di fronte a questo pathos, a questo terremoto d’amore, che cosa possiamo fare? La strada è questa: diventare anche noi agnelli. Questa è la via:

Siate santi come io sono santo (Lv 19,2)

siate voi dunque perfetti come il Padre celeste (Mt 5,48),

chi non rinuncia alla vita per me, non può salvarsi (cfr. Mt 10,39; 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24; 17,33)

Ma noi siamo deboli, siamo poveracci. Possiamo riempirci di belle parole con la retorica dei buoni sentimenti, ma non serve a niente. Bisognerebbe fare questo e quest’altro, ma la verità è che non ce la facciamo. Diciamocelo francamente, abbiamo le case confortevoli, dormiamo nel letto caldo, mangiamo bene, ma non facciamo posto ai poveri, non vendiamo tutto ciò che abbiamo per darlo ai poveri. Quando va bene, diamo ai poveri quello che ci avanza; quando va bene, sopportiamo nostro marito, nostra moglie, ma diventare agnelli, è una parola! Rinunciare alla propria vita per l’altro. Intorno a me non vedo tanta gente disposta a porgere l’altra guancia agli schiaffi, agli sputi. Rinunciare alla propria vita, è un miracolo: alcuni ci sono riusciti, Francesco d’Assisi, Teresa del Bambin Gesù, ma sono delle stature di spiritualità che difficilmente noi poveracci riusciamo a raggiungere.

Però possiamo cominciare da alcune cose semplici, perché la vita è fatta anche di questo e Dio ci capisce. Cercare di farle, però, senza ostentare. Quando fai qualcosa, dice Gesù, entra nella tua stanza, chiudi la porta e non suonare le trombe perché c’è il Padre tuo che ti vede nel segreto (cfr Mt 6,6). Sarebbe molto bello sentire, nelle nostre piccole azioni, lo sguardo del Padre nel segreto, perché noi siamo quelli che, se facciamo qualcosa, siamo tentati di farci vedere per ricevere una ricompensa. Ma ciò non è giusto: bisogna fare tutto come se ci fosse lo sguardo del Padre che vede ogni piccola cosa, anche quando siamo soli.

Il Patriarca ha detto una cosa molto bella: “Sposi, celebrate la vostra quotidianità”. In che modo si può celebrare la vita quotidiana? A cominciare dai gesti. Noi vediamo il sacerdote che fa molti gesti intorno all’altare. Noi, in casa, come genitori, ma anche come sposo e sposa possiamo riempire la nostra vita di gesti – anche piccoli - che possono avere un significato nel momento in cui sono fatti con fede. Muovere le mani, il modo in cui ci atteggiamo, il dire una preghiera prima di mangiare, farsi il segno di croce, sono gesti che acquistano particolare significato.

Quando si dice una preghiera prima di pranzo, a tavola, provate a guardare con la coda dell’occhio come vi guardano e come vi imitano i bambini: loro capiscono se uno lo fa per farsi vedere. Il gesto non va ostentato, ma vissuto come se non ci fosse nessuno accanto, ma solo il Padre che vede nel segreto, e allora acquista significato, perché è fatto con fede altrimenti diventa l’ipocrisia del fariseo che si fa bello con le preghiere e i gesti. C’è uno scrittore sensibilissimo, Franz Kafka, che ha scritto delle cose profondissime e che reputo sia stato un grande amico di Dio. Egli aveva un giovane amico che si chiamava Gustav Janouch, e mentre era in sua compagnia a Praga si fece un gran segno di croce. Il giovane ne rimase colpito e Franza Kafka si spiegò così: «Non solo ogni segno, ma ogni movimento, anche il più piccolo, è sacro quando contiene la fede».

Anche le fatiche di ogni giorno, se fatte con fede, sono celebrazione della vita quotidiana; anche guadagnare il pane per sé e per i figli lo è. Disse una volta un rabbì di nome Eleazar: «Si potrebbe paragonare la redenzione all’atto di guadagnarsi il pane. Vi è del meraviglioso nel guadagnarsi il pane, come pure nella redenzione del mondo. E come ci si guadagna il pane giorno per giorno, altrettanto dicasi della redenzione» (Mechilta su Es 15,11).

Forse oggi è proprio questo stupore per le piccole cose che ci manca, come sentire il valore del pane. Non lo sentiamo più perché c’è n’è troppo: i nostri figli non lo mangiano neanche più, mangiano solo crackers e brioches. E non sentiamo più neanche il sapore di Dio. Il salmo 34 dice: Gustate e vedete quanto è buono il Signore (34, 9). Il Dio vivente è il Dio che dona il pane ed è anche il Dio che si fa pane lui stesso. Melchisedek offre pane e vino prima di benedire Abramo. Pane e vino sono serviti a Gesù per diventare sacerdote alla maniera di Melchisedek, per diventare carne sui nostri altari, cibo per noi.

Amare è capacità di soffrire e gioire con gli altri

Dice la Lettera agli Ebrei che Gesù ha imparato qualcosa dal suo patire (cfr Eb 5,8). Amare è capacità di soffrire con chi soffre e di gioire con chi gioisce. Gesù amava i banchetti, è venuto per suonare il flauto affinché ballassimo, si faceva accarezzare dalle prostitute e dai bambini, ma prendeva la frusta quando si arrabbiava e scoppiava a piangere forte davanti agli amici morti. È così che Dio ha voluto imparare a essere uomo come noi, sperimentando nella carne cosa significa essere deboli e bisognosi di tutto.

Io sono d’accordo con quella teologia che dice che se noi diminuiamo l’umanità di Gesù, diminuiamo anche la sua divinità. Questo lo dice molto bene Bruno Forte in “Storia di Dio, Dio della storia”. Cioè quando percepiamo tutta la umanità di Gesù, sentiamo anche tutta la sua divinità. Egli lancia grida, ha le lacrime agli occhi, supplica il Padre, non vuole morire. Non accoglie a buon mercato il farsi agnello e l’amore vero nasce da questo grido, nasce sempre da un bisogno. Poco amore attecchisce in coloro che si sentono a posto, bisognosi di nulla e colmi di pretese e arroganza.

Anche tra marito e moglie ci si ama nel momento in cui si vive la dimensione del bisogno, della debolezza, della dolcezza, della tenerezza. Quando si comincia a urlare, ad imporre non si va da nessuna parte, ma se si guarda il proprio sposo, la propria sposa mentre dorme e si pensa: “Come siamo poveri”, il cuore si scioglie in un’altra maniera. Mi è capitato di fare esperienza, non diretta ovviamente, di quando uno sposo o una sposa vedono il coniuge morto. Se potessimo vedere la persona che abbiamo accanto nella dimensione del dolore e della morte, non potremmo mai litigare con lei, non potremmo mai odiarla. In fondo si comincia offrendo, con tenerezza, un bicchiere d’acqua a chi ha sete, dare una carezza quando c’è bisogno di affetto; pochi discorsi, basta quello per esprimere quello che abbiamo dentro.     

Ho conosciuto una coppia di anziani sposi, li ho conosciuti che erano già vecchi. Colpiva come si amavano tra loro; lo capivi da come si tenevano la mano e si guardavano ogni tanto, dagli ammiccamenti e non era esibizionismo, erano delicati, erano discreti, ma si volevano un gran bene. È una cosa meravigliosa vedere due persone già anziane che continuano ad amarsi in quel modo. C’è un versetto nel Libro dei Proverbi che dice così:

Trova gioia nella donna della tua giovinezza

... Essa si intrattenga con te,

i suoi seni ti inebrino sempre!

Sii tu sempre invaghito del suo amore (Pro 5,18-19).

Ebbene, lui è ancora vivo, ha ottantatré anni, ma lei è morta da un po’ di tempo all’età di settant’anni dopo aver trascorso qualche anno nella demenza. Ad un certo punto lei ha perso la testa e non capiva più. Lui la doveva accudire in tutto. Una volta mi disse: «Vedi, la cosa più terribile è quando l’ho vista una notte che sentivo dei rumori: ho acceso la luce e l’ho vista in ginocchio sul letto che grattava il muro e diceva parole sconnesse. E mi sono detto come può Dio ridurre così una creatura buona luminosa come Anna». Io gli ho detto: «Manlio, questa è la stessa cosa che diceva Giobbe. È una cosa buona non accettare, ma sappi che Dio, alla fine, è finito anche lui così», e questo ci può consolare.

Una volta gli chiesi: «Manlio, qual è il segreto di una vita insieme come la vostra». E lui mi disse: «Tre sono le cose importanti: primo, è necessaria l’attrazione fisica, perché ci si deve piacere. Secondo, occorre una certa affinità spirituale, anche l’interiorità deve essere simile altrimenti è difficile essere una cosa sola, ma soprattutto ci vuole una buona dose di compassione, soprattutto è necessario vedere l’altro nella dimensione del bisogno. Perché se no, quando la nostra sposa comincia ad avanzare negli anni, non è più come prima, guardiamo quelle che ne hanno meno, e chi ce lo fa fare. Invece è proprio lì, quando ha bisogno che la devi amare: quando si ammala, quando crescono gli anni». È nelle piccole cose che si diventa agnelli.

Forse è la prima volta che questo seminario vede così tanti sposi fra le sue mura. Anche questo è certamente un segno dei tempi. In fondo abbiamo avuto sempre questa idea: i sacerdoti da una parte, gli sposati dall’altra. Mi sembra una cosa bella stare insieme perché Dio ci ha fatti un popolo solo, visto che, dei sacerdoti, ci hanno detto che anche noi abbiamo dei compiti sacerdotali.

Gli specchi del desiderio

Mi voglio fare aiutare da un midrash, perché racconta qualcosa dei sacerdoti e degli sposi. Durante l’Esodo, Mosè e il popolo dovettero costruire il “santuario del deserto”. Si narra che, ad un certo punto, tutti portavano dei gioielli per costruire questo santuario e da Mosè arrivarono le donne, che non possedevano grandi cose perché erano i mariti che disponevano, e dissero a Mosè: «Noi non abbiamo niente, però una cosa la possediamo, sono i nostri specchi di bronzo, te li doniamo perché tu ci faccia qualcosa. Accettali, questi sono proprio nostri e noi vogliamo offrirli in dono per il santuario».

  Mosè, d’istinto, stava per dire: «Dovrei profanare le cose della santità con quelle della concupiscenza? Voi con gli specchi vi fate belle e io dovrei mettere questa roba nel santuario?». Ma prima ancora che lui aprisse bocca, Dio lo blocca e gli dice una cosa che mi ha commosso: «Mosè, cosa stai facendo? Tu non sai che ho pettinato io stesso i capelli a Eva, affinché piacesse di più ad Adamo? Gli specchi che ti portano mi sono più cari dei tesori regali, poiché devo loro il mio popolo. Quando in Egitto, gli ebrei rientravano in casa, dopo le fatiche e le sofferenze della schiavitù, le mogli li facevano mangiare e bere e si avvicinavano a loro, mettevano davanti gli specchi, si specchiavano insieme e dicevano loro tra le carezze: “Vedi, tu sei bello, ma io sono più bella di te”. Allora dimenticavano le loro pene e unendosi alle loro spose nella gioia e nell’intimità, moltiplicavano i figli e le anime d’Israele. Accetta dunque questi specchi del desiderio santificati dall’amore umano e fanne la vasca dell’acqua pura, che santificherà i miei sacerdoti, nel mio amore» (E. Fleg, Mosè secondo i saggi).

Che sia proprio l’amore umano, quello fatto di desiderio, della bellezza, di corpi che si uniscono e danno vita, che sia questo l’amore che santifica, ci sembra un mistero. Questo mistero è grande, diceva san Paolo pensando a Dio in rapporto al suo popolo, in rapporto agli uomini fatti di carne e ossa. Il Dio della storia, il Dio vivente si unisce a noi come uno sposo si unisce alla sua sposa, in una carne sola.

Anche se il nostro mondo prepotente vorrebbe farci credere altro, è solo da queste unioni che può scaturire vita e salvezza. Voglia Dio farci comprendere questo mistero che ci abita.

  AL SOMMARIO

SINTESI DEI GRUPPI DI DISCUSSIONE

elaborazione a cura di Dilvia e Virgilio Rossi

In ciascun gruppo, a rotazione, hanno sostato per una ventina di minuti i relatori del mattino (mons. Lucio Cilia e Daniele Garota), mons. Silvio Zardon ed il Patriarca Card. Marco Cè per rispondere ad eventuali interrogativi dei partecipanti. Per non appesantire le sintesi abbiamo di proposito omesso di citarli nel contesto  del discorso.

  

GRUPPO “A” (coordinato da Daniela e Alessandro Giantin)  

Il “treno della storia”, entrare in comunione con Dio Padre, affermare che Dio esiste e salva, il midrash degli specchi di bronzo, sono state le immagini e i concetti che hanno colpito maggiormente.

Stabilito che il collegamento tra le due relazioni del mattino sta in quel “ponte” tra l’uomo ed il Padre che è Gesù stesso, vero uomo e vero Dio incarnato, si sottolinea come Egli, salito sulla Croce, ha lì lasciato il posto al Padre, dando senso così al suo “sì”. In ciò costituisce il sacerdozio di Cristo, dal quale discende il sacerdozio quotidiano che noi siamo chiamati ad esercitare in coerenza a quel “si” che ci chiede di stare sulla croce e lasciare che il Padre operi, mettendo da parte il nostro “io”.

Sulla croce Gesù è morto, ma è anche risorto: la croce quindi conduce alla  risurrezione sulla quale troviamo la ragione della salvezza. Ciò solo se ci si affida a Dio interrogandoci nel quotidiano su cosa operi Dio nella nostra vita.

È significativo rilevare che Gesù è profeta quando legge la volontà del Padre nella storia, pastore quando offre la vita per il gregge, e sacerdote quando dice “sì” al Padre, lasciandogli il posto sulla croce. In questo consenso, fatto a volte con fatica, a volte quasi con ribellione, risiede il sacerdozio di Cristo.

Da questa dimensione di Gesù, che è un aspetto della sua missione, discende il sacerdozio degli sposi. Questa prerogativa rientra nell’ampio quadro della ministerialità coniugale che  trova la sua fondamentale espressione nella capacità della coppia di far vedere come e quanto Dio ami rivelando la sua presenza nella gioia. La coscienza di essere stati scelti come strumenti per rendere visibile l’amore di Dio si colloca in una prospettiva sacramentale che si concretizza principalmente nell’esprimere, proprio in quanto maschio e femmina, l’immagine di Dio, pur nella consapevolezza dei propri limiti. Da questa debolezza nella carne, Dio comincia ad operare chiedendo agli sposi di farsi “agnelli” per accorgersi l’uno dell’altro.

Ma per questa debolezza c’è anche la fatica di dire “solo Dio basta”, quando si tende a privilegiare le concretezze della vita quotidiana (casa, salute, lavoro). La nostra vita quotidiana è costellata di insicurezze che si manifestano poi nelle incomprensioni, tanto da scavare a volte solchi tra le persone. Possiamo trovare una parziale risposta nella preghiera, specie se fatta con la Parola, e nella valorizzazione del perdono, nella riscoperta della riconciliazione.

La nostra responsabilità è fatta di piccoli gesti quotidiani: vivere la quotidianità alla presenza del Signore la fa diventare Spiritualità, come strada per la Santità, che non richiede vivere “grandi croci”: la presenza di Dio nella storia è percepita nella consapevolezza e nell’obbedienza, prendendo a modello Gesù.

Quindi per concludere, e riannodare le fila del discorso, ricordando come Gesù eserciti il suo sacerdozio con un “sì” al Padre, è significativo rilevare come il “sì” è una parola sponsale che esprime l’incontro di due volontà. Trasformare la vita in un “sì” a Dio significa santificarla: si è santi perché, facendo ciò che si deve fare nella quotidianità, si fa la volontà di Dio.

Nella S. Messa ciò viene espresso all’Offertorio: il pane e il vino rappresentano noi stessi, nella misura in cui portiamo il nostro “sì”, la nostra esistenza come atto di consenso a Dio.

Per gli sposi il “sì” è sempre coniugale perché comunque tutto quello che si fa è per l’altro e con l’altro; quanto più ci si vuol bene, tanto più non ci si pensa poiché diventa un atteggiamento interiore.

Diventa un imperativo per gli sposi, allora, rinnovare ad ogni eucaristia il consenso coniugale.

  AL SOMMARIO

GRUPPO “B” (coordinato da Cecilia e Piergiorgio Dri)

Ripercorrendo le riflessioni proposte, appare evidente che “Sacerdote” è colui che rende possibile all’uomo accostarsi a Dio. Gesù, con il suo “Sì” totale e incondizionato al Padre ci ha permesso di entrare in comunione con Dio, esigenza fondamentale per l’uomo, amato da Dio in modo talmente  appassionato da volerlo libero.

Da questi assunti fondamentali nascono subito alcuni interrogativi che riguardano

-       il significato di essere sposi-sacerdoti

-       come si concretizza la “libertà di Dio” nella vita sponsale e familiare

-       avere la piena coscienza di esseere amati e cercati “appassionatamente” da Dio

-       la partecipazione alla Eucaristia come momento fondamentale per esercitare il ministero sacerdotale.

Per concretizzare il sacerdozio coniugale è importante coltivare la conoscenza della Parola per cui la Bibbia consegnata va aperta e pregata per entrare in dialogo con il Padre, per conoscerlo, lodarlo e ringraziarlo.

È fondamentale tendere alla santità sull’esempio di Cristo, riconoscendo al contempo di essere “servi inutili”. Se gli sposi si pongono su questa strada, riconoscendo che il bene supremo è mettersi in relazione con il Padre, e che solo Lui basta, parleranno di Lui anche i loro gesti quotidiani che dicono la fede, la sintonia e l’amore. La benedizione della mensa e dei figli, l’accoglienza dei poveri alla tavola con la famiglia, diventano profezia e sacerdozio.

Ma la dimensione sacerdotale è maggiormente significata da una vita vissuta all’insegna del “Sì, Padre”, che è un segno sponsale, reintrodotto da Gesù con il suo “Compio la tua volontà”. Gli sposi vivono la vita l’uno per il bene dell’altro ed il “sì” è il segno profondo della loro comunione: ciò vuol dire entrare nella dimensione offertoriale, per cui, se si pensa di continuo all’altro, non ci sono momenti banali nella quotidianità degli sposi. Quanto più ci si vuol bene tanto più questa consensualità diventa semplice e diffusa. Così si diventa santi: è la santità delle piccole cose.

Tuttavia se la fedeltà a questo “sì” ci costa fatica, non dobbiamo dimenticare che anche per Gesù non fu scontata e automatica la sua fedeltà al Padre.

E Gesù, nella celebrazione eucaristica, durante l’offertorio, offre al Padre se stesso e noi, con  le nostre fatiche quotidiane, perché possiamo, con la sua grazia, ripetere il suo stesso “sì” e trarre dal Sacrificio Eucaristico la forza di rinnovare la nostra adesione durante tutta la settimana.

Avere svolto l’Assemblea in Seminario, con al centro il tema del sacerdozio degli sposi è un segno della Provvidenza, specie in un momento di grave carenza di vocazioni,  ma anche una grande occasione di esperienza di apertura e condivisione.

Una breve considerazione sulla ministerialità del sacerdozio, sia ordinato che sponsale: chi riceve l’Ordine non ha solo il compito di svolgere delle mansioni ma soprattutto deve essere cosciente di diventare un segno sacramentale che permane anche se viene a mancare l’azione ministeriale; analogamente il sacramento del matrimonio non è solo un patto tra due persone, ma il luogo dove Dio si impegna; nella coppia ognuno dei due è segno sacramentale della presenza di Gesù per l’altro.

AL SOMMARIO

 

GRUPPO “C” (coordinato da Alessandra e Paolo Sambo)  

Emerge soprattutto la constatazione che parlare di ministero sacerdotale degli sposi è, per la quasi totalità degli intervenuti, una assoluta novità. Quanto traspare dalle riflessioni proposte nella mattinata conferisce alla coppia una dignità ed una consapevolezza del proprio ruolo che costituisce indubbiamente un salto di qualità. Se l’anno scorso erano state indicate agli sposi dei valori da trasmettere ai figli in relazione alla fede, quest’anno sono state fornite le motivazioni teologiche che conferiscono alla coppia un “valore aggiunto”.

Appare una novità anche la chiara distinzione tra il sacerdozio così com’era inteso e vissuto nell’Antico Testamento e il sacerdozio di Cristo, che consiste fondamentalmente nell’aver pronunciato un “sì, Padre”.

È tale anche la dimensione di fondo del sacerdozio sponsale: un’adesione da riformulare in ogni momento della quotidianità che si vive in coppia e che non è mai banale, quando viene offerta per l’altro. È il battesimo che ci dona la forza di rinnovare questo “sì” che altri hanno detto per noi all’inizio.

Gli sposi quindi vivono, nella quotidianità, una storia che diventa storia di salvezza in quanto sentono che, in Gesù, è stata aperta loro una strada, pur attraverso difficoltà e problemi che comunque vanno affrontati e portati assieme.

La storia della salvezza non deve essere considerata solo in una prospettiva ultraterrena, ma nella consapevolezza che essa si realizza nella storia di tutti i giorni. È importante allora essere testimoni credibili di un Dio che mostra il suo volto amorevole, con l’apertura al fratello sofferente nel quale sappiamo vedere il Cristo.

Si entra in un campo molto difficile in cui si acuiscono le divergenze con i non credenti ai quali è necessario rispondere con una forte testimonianza di fede; una fede che non sia miracolistica, cui ricorrere per risolvere ogni situazione di disagio e difficoltà, ma che sia capace di gridare alla storia l’attenzione per i più deboli.

Questo perché la storia è fatta dagli uomini che sono chiamati alla guida di quel “treno della storia” che Dio non lascia mai senza conducente.

È indubbio che gli interrogativi che sono stati posti in essere oggi affrontando il tema del sacerdozio non possono pretendere risposte definitive. È necessario accostare l’argomento con umiltà e comunitariamente, cercando di scrollarci di dosso i retaggi di una fede ancora troppo individualistica.   

AL SOMMARIO      

GRUPPO “D” (coordinato da Marina e Gianpaolo Salvador)

Il Ministero sacerdotale degli Sposi è un argomento tanto affascinante quanto difficile.

Non è facile capire cosa significhi che il Ministero sacerdotale degli Sposi non è la somma di due ministeri ma è il ministero di una coppia, di due che sono uno.

Occorre cercare la risposta nello svolgimento della propria vita quotidiana di sposi, che sebbene fatta soprattutto di routine, deve mai essere considerata banale, perché è la vita di due che sono una cosa sola, dove ogni decisione, anche piccola porta il segno di entrambi. Il valore di una vita si costruisce non solo sulle grandi occasioni ma anche e soprattutto sulle piccole cose di ogni giorno, alle quali non si dà importanza ma che invece sono gradite a Dio perché fatte con lo spirito di donazione.

Proprio in quelle piccole cose, che accomunano tutti gli Sposi, si esercita il Ministero Sacerdotale che, come dice don Germano Pattaro, consiste nel vivere l’amore come segno dell’amore di Dio, elevando l’amore degli Sposi a segno di grazia.

In altre parole il Ministero sacerdotale degli Sposi consiste nel contribuire a  testimoniare la presenza di Dio sulla terra tramite la propria vita di marito e moglie, fatta apparentemente da piccole cose.

Qual è il confine tra cose piccole e cose straordinarie? Noi consideriamo straordinario prendersi cura di un figlio che non è nostro, ma la paternità di Dio non ci chiede forse di esercitare la paternità anche verso figli non nostri? Perché allora è più straordinario l’affidamento dell’adozione?

Per essere sacerdoti nella famiglia

-      occorre essere segni della presenza di Dio,

-      esprimere che solo Dio basta, che bisogna far posto a Lui.

È necessario quindi prendere una più cosciente consapevolezza della presenza di Dio nella Parola e nel Pane consacrato, non solo la domenica ma anche negli altri giorni della settimana.

Far posto a Lui vuol dire anche impostare un rapporto con gli altri nello stile del “diminuire noi affinché Egli cresca”, gettando così una nuova luce nelle nostre relazioni con il prossimo, specie se questo viene identificato nei figli. Su di essi siamo capaci di riversare senz’altro il nostro amore, ma non di metterci al secondo posto nei loro confronti.

Ciò vale ancor di più nel rapporto tra gli sposi, il cui amore non va considerato un bene di loro proprietà, ma un patrimonio da riversare per il bene degli altri, specialmente per chi ha più bisogno.

Tutte le nostre relazioni dovrebbero portare i segni della libertà e della fantasia di Dio: la sua misericordia passa anche attraverso il nostro essere innamorati e il nostro cuore sempre aperto agli altri.

Spesso però non sappiamo come agire incontrando particolare situazioni di disagio come quelle rappresentate dalle coppie in difficoltà. Questo ci riporta alla considerazione che noi, come sposi-sacerdoti, abbiamo il compito di recuperare il significato della storia della salvezza e imparare così che anche la crisi fa parte dell’esperienza cristiana. Non ci sono territori protetti da pericoli, per cui nella vita di ciascuno possono capitare difficoltà e sofferenza ed è proprio lì che si manifesta più profondamente l’amore. Noi siamo sempre preoccupati del nostro particolare ma dobbiamo anche aver la certezza che Dio ci ha inserito in un piano di salvezza più ampio.

Ma cosa vuol dire salvezza?

Può non essere chiaro vedere ciò che Dio ha fatto nel mondo, per cui, salvezza allora consiste nel saper leggere l’opera di Dio nel progetto che ci riguarda. Oggi c’è il rischio di interpretare la storia solo come Redenzione dimenticando che prima ancora c’è la Creazione. Salvezza è ripristinare il progetto che Dio ha pensato per l’uomo.

A partire dalla Creazione, che è opera di Dio, ogni cosa deve essere vista con gli occhi della fede, altrimenti si rischia di guardare con gli occhi della fede solo la fede. Questa consiste non solo nel fare, ma anzitutto nel sentire che è in atto la salvezza operata da Dio.

Nella storia della salvezza, gli sposi hanno un ruolo “operativo”, e di essi la Chiesa ha bisogno per essere “Sacramento” di questa storia.

Il fatto che la XV Assemblea degli Sposi si sia svolta in Seminario è infine la realizzazione di una meta che dovrebbe fissare l’inizio di un tempo nuovo dove si prospettano nuove sinergie tra chi si occupa della formazione al Ministero Presbiterale e chi è impegnato nella formazione al Ministero Sponsale nella nostra Diocesi.

AL SOMMARIO

LE PROPOSTE PASTORALI DELLA COMMISSIONE

di Daniela e Alessandro Giantin[7]

La settima consegna della Bibbia

Volevamo riportarvi con la memoria velocemente alla scelta di chiedere la consegna della Bibbia. Qualcuno la chiederà quest’anno, qualcun altro l’ha già avuta, qualcuno magari ci pensa.

Ci ricordiamo questo con una frase del nostro Patriarca:

«Sogno di poter consegnare la Bibbia a tutte le famiglie della Diocesi perché, cari sposi, la Bibbia vi appartiene»   (Card. M. Cè).

È questo uno degli inviti che il nostro Patriarca da parecchio tempo ormai ci rivolge.

È anche il primo dei 50 pensieri agli sposi sulla Parola di Dio che trovate nella cartellina (l’opuscolo con la copertina verde). È un omaggio, ma anche un possibile strumento per l’anno pastorale che sta iniziando e che, appunto, sosterà sulla Parola di Dio.

Potrebbe allora essere bello ricevere la Bibbia dalle mani del Patriarca durante la prossima Festa della Famiglia, pensando come, all’alba del terzo millennio, mentre è in corso anche l’esperienza dei “Gruppi di Ascolto”, «rinnoverà la vita della Chiesa il ritorno della Bibbia nelle famiglie» (Card. M. Cè).

Quella del 21 gennaio 2001, durante la 21^ Festa diocesana della Famiglia, sarà la 7^ consegna della Bibbia da parte del Patriarca agli sposi della sua Diocesi.

Già 538 famiglie hanno ricevuto la Bibbia dalle mani del Vescovo e quanti volessero aderire quest’anno troveranno nella cartellina la scheda per iscriversi.

Come per tutte le occasioni importanti, ovviamente, necessiterà un po’ di preparazione. Perciò abbiamo previsto, tra fine novembre e primi di dicembre, alcuni incontri per meglio predisporci a questo appuntamento.

La preparazione poi si concluderà con il cammino iniziato l’anno scorso della SETTIMANA BIBLICA che culminerà la preparazione dei “consegnandi” e sarà un’occasione di recupero per quanti hanno già ricevuto la Bibbia negli scorsi anni. Cioè si propone un cammino di preghiera all’interno della famiglia.

La SETTIMANA BIBLICA si terrà nella settimana – appunto - che precede la Festa della Famiglia (quindi tra il 15 e il 20 gennaio)  e quest’anno, poi, assume un particolare significato alla luce della programmazione diocesana che ha accolto, ed esteso, questa iniziativa nell’ambito del programma per l’anno pastorale 2000-2001.

Attendiamo quindi sin da oggi la vostra adesione, che tanti hanno già maturato, e vi aspettiamo alla Festa.  

 

Il seminario, “casa educante”, luogo di sintesi tra fede e vita

Rientrando nella Basilica della Salute vi è stato consegnato un depliant che contierne delle immagini della Basilica della Salute e del Seminario.

Questo pieghevole vuole essere un omaggio per gli sposi e per quanti hanno partecipato a questa XV Assemblea e vuole però anche essere - forse soprattutto -  un omaggio al Seminario Patriarcale, alla sua funzione, alla sua bellezza e alla sua storia.

Ma poi, oltre a queste immagini del Seminario, viene offerto anche un importante discorso che il nostro Patriarca fece il 13 aprile 1997 agli sposi convenuti nella Cattedrale di San Marco per la “Assemblea Straordinaria sulle Vocazioni Presbiterali”.

Come abbiamo visto nel corso di questa giornata, se mai ve ne fosse stato bisogno, la relazione tra il sacramento del matrimonio e quello dell’ordine è di piena e stretta comunanza: il sacramento dell’ordine e quello del matrimonio, difatti, sono i due modi di vivere storicamente la propria appartenenza alla Chiesa che procede sulla strada della salvezza.

Ecco quindi perché in un depliant dedicato a degli sposi troverete – oltre che la “foto ricordo” di questa giornata al  Seminario - anche il discorso del Patriarca alla “Assemblea straordinaria sulle vocazioni” del 1997.

È un discorso molto bello, uno fra i molti inviti che il Patriarca in questi anni ci ha rivolto per orientare, stimolare, sostenere il cammino degli sposi e delle famiglie.

A dire il vero i discorsi più importanti che il nostro Patriarca ha rivolto agli sposi dall’inizio degli anni ’80 sino al 1995 sono già stati oggetto di una raccolta nel volume “Cari sposi, care famiglie” edito dalle Edizioni Dehoniane  di Bologna.…ma questo discorso è del 1997 !!! e quindi è successivo alla stampa del libro e sarebbe stato un peccato non diffonderlo: leggetevelo a casa, ne vale la pena !!!

E per chi già possiede il libro con i discorsi del Patriarca, il depliant ne rappresenta una ideale continuazione, quasi una sintesi.

Ma il 13 aprile 1997, all’Assemblea straordinaria sulle vocazioni ci furono alcuni altri importanti interventi (a questo proposito gli atti di quella Assemblea sono disponibili presso la Segreteria della Commissione).

Vogliamo oggi ricordare in particolare l’intervento del Rettore del Seminario, don Lucio Cilia, che oggi ci ospita e che, anzi, ringraziamo nuovamente a nome di tutti per il contributo e l’ospitalità.

Nel depliant che vi è stato oggi consegnato troverete un breve scritto di don Lucio che completa la presentazione fotografica del Seminario e che, oltre alle parole di benvenuto ed augurio, traccia sinteticamente alcune delle linee portanti del significato del Seminario per la Diocesi e della sua funzione di comunità educante.

Ma queste cose sin dal 13 aprile 1997 don Lucio aveva iniziato a dirle agli sposi e alle famiglie.

Il suo discorso all’Assemblea straordinaria sulle vocazioni, a differenza di quello del Patriarca, non è stato invece riportato nel depliant perché è ancora un capitolo aperto, un capitolo da scrivere… e da scrivere assieme.

Don Lucio ci disse, tra l’altro, due cose fondamentali:

-      la prima: i genitori abbiano sempre presente ciò che sta loro a cuore per i loro figli, perché si educa a ciò che si desidera. Non si educa un figlio e non lo si indirizza verso un ideale, verso una strada che non sia desiderata per primo da noi stessi.

Ed effettivamente, oggi, ci siamo anche interrogati sul senso della storia, sul significato della salvezza... e ci portiamo a casa un importante bagaglio per la nostra riflessione sulla coerenza educativa che diamo e che chiediamo ai nostri figli

-      secondariamente don Lucio ci disse: la famiglia ha a disposizione un luogo, il Seminario, che la aiuta a svolgere la  sua missione, che aiuta a mettere in atto quella ministerialità coniugale educativo-profetica (come abbiamo visto nell’Assemblea dello scorso anno) e sacerdotale-eucaristica  (di cui abbiamo discusso oggi).

Oggi, quindi, “continuiamo a scrivere” questo capitolo e anzi, vogliamo dire che la Commissione per la pastorale degli sposi e della famiglia (e sicuramente molti fra coloro che sono qui oggi) accolgono quanto don Lucio ha scritto nel suo saluto riportato nel depliant, perché è quanto noi stessi avevamo maturato e avremmo desiderato dire:

“la Chiesa di Venezia è una comunità educante ed il suo Seminario, assieme alle case degli sposi, è la “casa” educante in cui (come dovrebbe essere in famiglia) si svolge una vita comunitaria e una continua sintesi tra fede e vita”.

Oggi pertanto viene scritta una ulteriore pagina sulla collaborazione tra educatori del seminario e educatori familiari, una collaborazione che dovrà sempre più connotare lo stile comunitario e formativo della Chiesa veneziana.

La Commissione è lieta di confermare la propria disponibilità a collaborare subito col Seminario nella ricerca di possibili prospettive ed iniziative comuni, perché l’obiettivo è l’educazione alla fede e alla vocazione, in vista di concrete scelte formative. Tale disponibilità viene certamente dalla consapevolezza degli sposi circa il ministero educativo indelegabile e loro affidato dal Signore pur con la coscienza dei loro limiti e delle loro povertà personali.

Questo lo abbiamo messo per iscritto, lo abbiamo anche firmato e una copia viene consegnata al Patriarca e a don Lucio.

AL SOMMARIO

CONCLUSIONI

del Card. Patriarca Marco Cè

 

Poiché sono già intervenuto in ogni gruppo di riflessione, questo intervento non sarebbe necessario ma lo faccio volentieri per dire tre cose semplicissime che mi stanno a cuore.

La scelta del Seminario

La prima è che sono contento che l’annuale assemblea degli sposi si sia tenuta in seminario. Raccolgo una constatazione rilevata in un gruppo e che penso sia sentimento comune di tutti. È stata una scelta con un significato profondo; scelta che, in qualche modo, ci identifica. È la nostra appropriazione, nel senso più bello, del seminario: realtà che appartiene alla nostra Chiesa particolare e quindi a tutti noi. Come non si diventa preti per se stessi ma per e dentro la comunità, così il seminario non ha senso per se stesso ma è di questa chiesa particolare, è per questa chiesa particolare. Oggi la vostra presenza in questo luogo afferma questa realtà e credo che sia una presa di coscienza molto importante per tutti.

La carenza di vocazioni è un problema di tutti

La seconda cosa che volevo dirvi riguarda la carenza di vocazioni di cui sta soffrendo la nostra Chiesa di Venezia. Quando ne parlo, sottolineo con forza questo fatto ma sempre evitando di assumere un tono lamentoso, perché è evidente che siamo di fronte ad un mistero che deve interrogarci: questa situazione può anche essere un rimprovero, una tirata di orecchi che Dio ci fa. Si sa che i padri, anche quando castigano i figli, lo fanno perché vogliono loro bene; perciò, anche se la nostra Chiesa sta veramente soffrendo per la carenza di vocazioni, vorrei vivere tutto ciò con molta speranza. Io chiedo al Signore che ci sveli la grazia che c’è in questa prova: Dio non sottoporrebbe mai i suoi figli ad una prova, se essa non contenesse una grazia..

La carenza di sacerdoti, soprattutto giovani, è un problema che quest’anno mi ha fatto molto soffrire. Proprio nel periodo della Giornata della Gioventù, in 8 giorni ho celebrato i funerali di tre preti, di cui uno aveva 28 anni. Però, questa non è un preoccupazione mia - è anche mia - ma è anche vostra: non è una preoccupazione del patriarca o dei preti, è un problema della Chiesa, di tutta la nostra Chiesa che se ne deve fare carico. Quindi, tutti, dobbiamo rivolgere al Signore la preghiera di svelarci la grazia nascosta nella prova cui ci sottopone. 

Vorrei che questa diventasse veramente una questione che vi tocca. Un prete – un bravissimo prete - una volta mi diceva: «Vede Patriarca, noi la capiamo quando ci parla del problema delle vocazioni; creda, noi comprendiamo la sua passione, ma quando andiamo a casa ci lasciamo prendere dalle nostre cose e non ci pensiamo più». Cari amici coniugi, questo pensiero deve essere vostro tutti i giorni; durante il giorno dedicategli una piccola preghiera, voi e i vostri figli; orientate il peso delle vostre fatiche verso questo problema della nostra Chiesa: «Signore svelaci la grazia contenuta in questa croce!».

  Se tutta la nostra Chiesa farà questa implorazione - ma mi accontenterei lo faceste anche soltanto voi - qualcosa nascerà, perché se il povero grida, il Signore lo ascolta. Nei nostri cuori dobbiamo avere questa fede incrollabile: Dio ascolta sempre le preghiere dei suoi figli! 

Costruiamo una Chiesa dal volto umano

Infine il terzo pensiero che desideravo comunicarvi: sono profondamente convinto che le cose riescono bene quando qualcuno ci mette fatica e sacrificio. Questa Assemblea degli sposi credo abbia dato tanta gioia a tutti; ha permesso di rinnovare incontri, di scambiarci saluti e ciò in qualche modo costruisce la Chiesa e ci identifica in essa. Una Chiesa che riconosce il dono del sacramento del Matrimonio come qualcosa di costitutivo ma non in senso astratto: dietro ad essa ci sono volti di persone, alcuni dei quali ricordo giovanissimi, storie di cristiani che nella gioia ma spesso anche nella fatica, hanno costruito questa Chiesa della quale oggi ci raccontiamo le gioie e le sofferenze. È bello ritrovarci, guardarci in volto l’un l’altro, vederci cambiati - anche invecchiati - ma sentire che la Chiesa è cresciuta con noi. La Chiesa non deve essere un’astrazione, ha un volto umano, ha il nostro volto, le nostre sembianze; e ci rendiamo conto che i fratelli hanno bisogno di noi.

L’Assemblea degli Sposi costruisce, oggi, questa Chiesa concreta, storica, radicata nelle parrocchie, nel territorio, con i suoi problemi e le sue speranze. Il Signore ha dato questa Chiesa a questo territorio perché esso non si ripieghi sui propri problemi, ma li prenda in forte considerazione con grande speranza. Infatti Gesù, il Figlio di Dio, Re, Pastore, Profeta e Sacerdote, si è fatto uomo, si è incarnato in un territorio, per tutti è morto sulla croce, ma è anche risorto. E il Risorto cammina con tutti noi, con tutta la gente di questo territorio (che creda o meno), ed ama tutti incondizionatamente: questa è la cosa più bella che noi possiamo dire e pensare.

AL SOMMARIO  

OMELIA DEL PATRIARCA CARD. MARCO CÈ

alla celebrazione Eucaristica

Numeri 11, 25-29

Lettera di San Giacomo Apostolo 5, 1-6

Marco 9,38-43.45.47-48

Con la misericordia e con il perdono

Carissimi, molte volte Gesù, camminando lungo le rive del lago di Galilea o approdando con la barca nei villaggi, assisteva alla scena dei pescatori che, finito di pescare, tiravano a riva le reti e poi sceglievano i pesci; quelli di scarto venivano gettati e gli altri venivano riposti in cassette diverse, a seconda del tipo di pesce. Dopo la preghiera e le letture di oggi, mi trovo di fronte a molte cose che potrebbero essere dette, ma, come i pescatori, ne scelgo solo alcune.

Innanzitutto non vorrei vi sfuggisse la bellezza della preghiera con cui abbiamo iniziato la messa: “O Dio, che manifesti la tua onnipotenza – Come? Creando il mondo, placando le tempeste, moltiplicando i pani? - soprattutto usando misericordia e perdonando”.

Vi rendete conto della bellezza di queste parole? Vi rendete conto che sono parole da stampare nel cuore e non dimenticare mai? Esse possono avvolgere la nostra vita di ogni giorno che è fatta di difficoltà, ma anche di miserie e di debolezze; avvolgerla come la sindone ha avvolto il corpo morto di Cristo e lo ha consegnato alla risurrezione. “O Dio, che manifesti la tua onnipotenza -   il potere assoluto che tu solo hai - soprattutto perdonando e usando misericordia”.

Dove troviamo il vero volto di Dio? Nella figura del pastore che finalmente ritrova la pecora - stupida, sciocca – che era scappata via. Lui la prende e con amore la abbraccia: la misericordia.

Qual è il volto di Dio? Il volto di Dio è il perdono e la misericordia, là noi troviamo Dio. Non dimentichiamolo più; teniamolo presente ogni giorno. Chiudiamo la nostra giornata ricordandoci che Dio manifesta la sua onnipotenza soprattutto nella misericordia e nel perdono.

Il discepolo geloso

Tralascio la prima lettura che avrebbe tanti legami con la giornata odierna, e così pure la seconda lettura che esigerebbe qualche spiegazione perché sembra troppo dura, e faccio invece una brevissima sottolineatura a qualche espressione del vangelo che raccoglie quattro forti affermazioni di Gesù.

Giovanni, il più giovane degli apostoli, quello a cui Gesù voleva particolarmente bene, qui non fa una gran bella figura. È geloso, perché dice: «Abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome, e glielo abbiamo vietato perché non era dei nostri». Ma Gesù risponde: «Non glielo proibite perché non era dei nostri». Se siamo discepoli del Signore, non dobbiamo mai dire di nessun fratello: “Quello non è dei nostri”. Quante volte siamo tentati di esprimerci così!

Quando si è pregato così: “O Dio che manifesti la tua onnipotenza soprattutto nella misericordia e nel perdono”, si può ancora dire: “Proibisciglielo perché non è dei nostri”?

Chi vi darà un bicchiere d’acqua…

La seconda piccola sottolineatura riguarda la frase di Gesù: «Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa». Noi siamo la Comunità dei discepoli del Signore, siamo chiamati da Dio. Essere Chiesa vuol dire essere convocati da Dio, per porci alla scuola di Gesù, perché Lui sia il nostro maestro. E chi segue i suoi insegnamenti, i suoi esempi, non può far altro che dare un bicchiere d’acqua al fratello che ha sete, condividere il pane con il fratello che ha fame.

La carità, l’amore fraterno, la condivisione, la comunione dei beni, il far sì che il mio bene diventi anche il tuo bene (anche un semplice bicchiere d’acqua), sono atteggiamenti propri del discepolo del Signore. Cosa c’è di più povero di un bicchiere d’acqua? Eppure il Signore Gesù ci dice che, darlo ai fratelli, è una cosa grande.

Come distinguere la comunità dei discepoli del Signore? Come dev’essere il cuore del discepolo? È un cuore che ama, condivide, perdona, è misericordioso, partecipa alle gioie ma soprattutto alle sofferenze del fratello, è solidale, non esclude assolutamente nessuno. È un cuore che si apre a tutti.

I piccoli e lo scandalo

Desidero anche evidenziare il termine “piccoli”. Nel vangelo, i piccoli sono importanti. Domenica scorsa abbiamo ascoltato che Gesù prende uno dei piccoli che ruzzolavano (come quello che ruzzolava qui un attimo fa) - probabilmente si trovavano nella casa di Pietro a Cafarnao - e lo mette in mezzo. I piccoli, nella Chiesa, sono in mezzo. Ma chi sono i piccoli? Sono i bambini che oggi avete portato qui, sono i peccatori (quelli che noi chiamiamo i peccatori) che Dio ama.

“O Dio che manifesti la tua onnipotenza soprattutto nella misericordia e nel perdono”. Gesù ama quelli che noi chiamiamo i peccatori, i lontani, ma che per Dio non lo sono, e li mette in mezzo. Lontani è una parola che non appartiene al vocabolario di Dio, per Lui c’è una sola parola che ci esprime: figli, e Lui ci mette in mezzo. Si possono fare tanti discorsi però, nella comunità i poveri, gli emarginati, gli extracomunitari vanno posti nel mezzo, perché così dice il Signore.

Infine volevo sottolineare il discorso dello scandalo. Qui Gesù è duro, duro, duro. Smentisce forse le parole della preghiera? In realtà, con questo discorso, Gesù vuole dirci che ci perdona, che manifesta la sua onnipotenza  soprattutto nella misericordia e nel perdono, ma che noi abbiamo il dovere di far crescere la grazia della santità che è già dentro il nostro cuore, in forza del Battesimo ricevuto. Questa grazia ci è stata donata assieme alla forza di impegnarci, di lottare contro le insidie del  peccato fatto con le mani, con gli occhi…  

Malgrado la durezza, Gesù  vuole dirci una cosa bella: sotto ogni parola, anche severa, del Signore c’è una grazia. Con il nostro peccato noi siamo pietra d’inciampo (questo è il significato di scandalo) sul cammino di fede del fratello che, a causa del nostro comportamento, trova difficoltà a credere. Se Gesù afferma con tanta asprezza che non dobbiamo dare scandalo, è perché lui ci ha dato la grazia di non farlo.

Dobbiamo ricordarci che nel Battesimo c’è la grazia per non peccare: grazia che non ci esime dalla debolezza, ma grazia della fedeltà al Signore, grazia di chiedergli perdono per essere stato debole e per avere peccato. Il perdono ricostruisce il nostro rapporto con Dio ed è grazia che circola nella comunità dei fratelli: dove ci sono i santi, ci sono i peccatori.

Vi consegno questi pensieri avvolgendoli in quella grande certezza che ci deve sempre accompagnare: la onnipotenza di Dio Padre si manifesta soprattutto nella misericordia e nel perdono.

AL SOMMARIO    

ALL'ELENCO DELLE ULTIME ASSEMBLEE



[1] Responsabile della Pastorale Diocesano degli Sposi e della Famiglia di Venezia

[2] mons. Lucio Cilia

[3] Membri della Commissione Diocesana della Pastorale degli Sposi e della Famiglia di Venezia

[4] Rettore del Seminario patriarcale di Venezia

[5] la Basilica della Salute in Venezia

[6] Ogni tanto citerò la tradizione ebraica perché la amo molto e sento che è nelle nostre radici; come ha detto il santo Padre, gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori e da lì qualcosa ci viene (Nota del relatore).

[7] Coppia coordinatrice della Commissione per la Pastorale degli Sposi e della Famiglia