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Il Grande imbroglio: ventunesima puntata

 

Le holding della Fininvest, trasparenza 0, il quindicennio craxiano, epoca di arricchimenti, malefatte, volo astronomico del debito pubblico

   
   

Come abbiamo visto, nel luglio del 1979 la Fininvest unificata a Roma si trasferisce a Milano, nell'ex villa Borletti di via Rovani. Umberto Previti lascia. La Fininvest ha finalmente un presidente: Silvio Berlusconi. Nel consiglio di amministrazione siedono il fratello Paolo e il cugino Giancarlo Foscale.

Solo il 3.9% del capitale è intestato a Berlusconi, il'97% fa capo alle 22 holding, tutte chiamate Holding Italia e seguite da un numero da 1 a 22. Ingegnoso il meccanismo del controllo: Berlusconi è proprietario al 100% delle azioni di tredici holding, dalla 8 alla 20 e il totale in suo possesso è del 50.3%. Controllo mascherato dalle holding. (Marco Cobianchi, "Berlusconi, svelato il mistero dell'impero", Avvenire, 7 gennaio 1994.)

Una nota importante. Chi controlla il restante 49.7% della Fininvest? Berlusconi ha sempre sostenuto e dichiarato al garante per l'editoria di possedere la maggioranza della Fininvest, ma di non essere in possesso del restante 49.7%. Ciò gli ha consentito in seguito di aggirare la legge sull'editoria con l'aiuto di Mammì che ha sostenuto che gli azionisti di minoranza, anche se raggiungono il 49.7% possono restare nascosti.

Ma il rapporto del 1993 di Mediobanca, "R&S", bibbia degli analisti finanziari svela la verità, a legge fatta e frittata pure: " L'intero capitale della Fininvest fa capo direttamente e indirettamente a Berlusconi".

Berlusconi ha creato una company in mano a lui solo che può, unico nel mondo occidentale, non rendere conto a nessuno del suo operato. Lui comanda e gli altri obbediscono. È il padre padrone. Non capita in eguale misura ad Agnelli, a Pirelli, a De Benedetti.

Questa la prerogativa e questa la cultura che ne scaturisce: il potere è tutto suo. Difficile poi, quando entrerà in politica, l'adattamento ad una realtà regolata in modo diverso, sarà frustrante la scoperta della distanza tra il governo dell'azienda e quello del Paese. L'opposizione pretende di controllare, gli alleati pretendono di partecipare alle decisioni. Sugli alleati di oggi però rileviamo un problema: si sono totalmente già inchinati alle sue decisioni.

Ma torniamo alla storia e chiediamoci: perché quell'architettura complessa con le 22 holding?

Ce lo spiega, parzialmente,  Salvatore Sciascia, dirigente dei servizi fiscali Fininvest:" il meccanismo permetteva l'emissione di prestiti obbligazionari ad un certo tasso d'interesse. Essendo titoli al portatore, ciò permetteva di tramutare un reddito soggetto ad IRPEF piena, in uno che scontava un'aliquota più bassa".

Dunque un aggrovigliato assetto societario per alleggerire, legalmente, il carico fiscale. Tutto legittimo.

Berlusconi, nel 1989 ha detto ad un Master Fininvest: " Noi siamo molto dialettici con il fisco e cerchiamo di pagare il meno possibile". Ma c'è dell'altro. Lo sminuzzamento del capitale in 22 holding, consente un calcolo non innocente: si abbassa notevolmente il livello di trasparenza, che per un imprenditore liberale e liberista dovrebbe essere un valore in se. Sino al 1989, neppure Mediobanca riusciva a conoscere i bilanci della Fininvest. La Fininvest non tollera neanche i blandi controlli della Consob e non viene neppure quotata in borsa. Nel 1994, in occasione del voto di fiducia al governo Berlusconi, Filippo Cavazzuti, ordinario di scienza delle finanze dice:" Perché nelle grandi democrazie occidentali, le imprese di maggiori dimensioni sono quotate in Borsa, mentre le sue non lo sono?". La risposta fu che le imprese di Berlusconi hanno rendimenti bassi! Fu replicato: "Non sarà che  lei non vuole sottostare alla legge sulla trasparenza dei mercati finanziari? Lei sa che, una volta quotato in borsa, gli obblighi di comunicazione, seppur modesti rispetto a quelli che ci sono in Inghilterra o negli USA, sono pregnanti. Bisogna far sapere dove sono i pacchetti finanziari dati a riporto, a garanzia dei debiti. Occorre dire dove sono le azioni depositate in garanzia, dove sono i patti di sindacato. La democrazia economica transita per il mercato borsistico e si basa sulla trasparenza degli affari e degli assetti proprietari. Questo, signor presidente, per quanto la riguarda non lo abbiamo ben chiaro" (Atti parlamentari. Senato. XII legislatura. Seduta del 18 maggio 1994).

 Il quindicennio craxiano sarà ricordato per le occasioni di carrierismo e di arricchimento, il potere per la perpetuazione del potere, la "feudalizzazione" del paese e il dileggio per chi insiste nella questione morale, lo yuppismo, la smania del successo in un deserto di valori, la goffaggine consumista, il debito pubblico che si allarga a voragine, la perdita del ruolo della cultura, la gara delle televisioni pubbliche e private a inseguire l'audience verso il basso, l'involgarimento del costume, la libertà dal dovere, i rapporti sociali e politici imbarbariti, l'arroganza verso le istituzioni.

In quegli stessi anni, le società capitalistiche avanzate conoscono un ciclo di slancio impetuoso dell'economia. Grandi produzioni e grandi consumi di cose utili e superflue. Grandi sprechi. È un cambio d'epoca.

Nel 1986 Paolo Sylos Labini ci dice:

"Da alcuni anni sono in atto mutamenti di grande portata, originati da grandiose trasformazioni tecnologiche, tra cui quelle connesse con i multiformi sviluppi dell'elettronica e, in particolare dell'informatica, l'automazione e la robotizzazione." ("le classi sociali negli anni 80" P.S.Labini, Laterza, 1986, pag. 26).

 L'onda lunga arriva anche in Italia, ma da noi si apre una fase di "rivoluzione senza rivoluzione". Per dirla con Gramsci una "rivoluzione passiva".