Nassiriya: una brutta storia, finita così...
...alle 10,40 del 12 novembre 2003 un’autocisterna carica di esplosivo arriva, indisturbata, accanto alla palazzina di Nassiriya dove ha sede il contingente italiano, ed esplode. E’ strage. Muoiono, a scelta, 17, o 19, o 28 persone. Dipende da chi ne parla: se ne parlano i militari, sono morti 17 soldati italiani (12 carabinieri e 5 soldati dell’esercito); se ne parla qualcuno pià attento, aggiunge 2 civili italiani; infine, se ne parla qualcuno per il quale i morti sono morti, qualsiasi divisa o abito da lavoro indossino, e di qualsiasi nazionalità siano, allora ci si ricorda anche di 9 morti iracheni.
Oggi sono passati tre anni da quel giorno, e possiamo tentare di parlare freddamente del perchè siano arrivati a Nassiriya, del perchè siano morti, del perchè gli altri non siano ancora tornati a casa. Possiamo anche tentare di fare un bilancio sulla (molto) eventuale utilità del loro soggiorno in Iraq.
Nassiriya, una missione all'ombra del petrolio
In un documento datato 11 novembre 2004, un anno dopo la strage di Nassiriya (12 novembre 2003), che il ministro degli Esteri Franco Frattini inviò alla Camera, venivano riassunti i motivi che sono alla base della partecipazione italiana alle missioni militari all'estero, ed in special modo in Iraq. La Farnesina, in sintesi, spiegava che «l'impegno italiano per la sicurezza internazionale» è determinato da «un calcolo razionale del nostro interesse». A pagina 2 questa filosofia viene ulteriormente specificata: il ministro Frattini spiega che «il nostro impegno nelle missioni di pace rappresenta un solido investimento» e che, di conseguenza, «possiamo attenderci considerevoli benefici economici dalla stabilizzazione di regioni sensibili per i nostri approvvigionamenti e per le prospettive di apertura di nuovi mercati e di nuove aree di collaborazione». A quali approvvigionamenti si riferisce il ministro degli Esteri, oggi commissario europeo?
Secondo un'inchiesta pubblicata dal settimanale Diario e trasmessa su Raitre (l'autore è Sigfrido Ranucci di Rainews24) l'interesse dell'Italia in Iraq è «l'oro nero», il petrolio del quale il paese mediorientale possiede il secondo giacimento al mondo. Mai, nei tanti dibattiti parlamentari che si sono tenuti da due anni a questa parte, il governo non ha mai citato il petrolio tra le ragioni che hanno portato alla decisione di inviare le truppe a Nassiriya. Fin dagli esordi della spedizione (alle Camere se ne parlò per la prima volta il 14 e 15 aprile 2003, pochi giorni dopo la caduta di Baghdad) Frattini, e successivamente Fini, hanno solo ed esclusivamente parlato di «iniziativa umanitaria». Secondo l'inchiesta pochi giorni prima dell'inizio dell'attacco anglo-americano contro l'Iraq di Saddam il governo italiano aveva ricevuto un voluminoso dossier redatto dal professor Giuseppe Cassano, docente di statistica economica a Teramo, per conto del ministero delle attività produttive. L'analisi dello studioso era iniziata sei mesi prima della guerra e aveva come oggetto le opportunità che si offrivano all'Italia di sfruttare le risorse petrolifere irachene.
Il relatore è convinto che l'Italia possa puntare sui «giacimenti di Halfaya e Nassiriya». Sul fatto che l'Eni avesse raggiunto, come altre aziende e governi europei, un accordo con gli iracheni non vi sono dubbi. Di questo parlano anche i documenti citati nel rapporto sull'energia che Bush ebbe dal suo vice Cheney all'inizio del suo primo mandato. Viene citato un accordo, datato 1997, e realizzato tra gli iracheni da un lato e le compagnie Eni e Repsol (Spagna) dall'altro per lo sfruttamento di immense riserve, varianti tra i 2,5 e i 4 miliardi di barili. Tra la metà degli anni novanta ed il 2000 (come conferma l'ex dirigente Eni Benito Li Vigni) l'Eni aveva dunque raggiunto un'intesa con Baghdad che però (come per altri accordi realizzati coi i russi ed altri paesi occidentali) non si tramutò nello sfruttamento dei pozzi perché Saddam pretendeva come contropartita la fine dell'embargo che solo gli americani erano in grado di decretare. Il professor Cassano, nel dossier consegnato al governo, guarda però al «dopo Saddam» ipotizzando che, a guerra conclusa, vi sarà dapprima una «fase emergenziale» e quindi si aprirà la corsa per la ricostruzione.
La «seconda fase - scrive il relatore - sarà più interessante della prima». Come abbiano appreso da una fonte diplomatica funzionari dell'Eni si sono recati a Nassiriya «ma solo per brevi periodi» e, anche se gli americani sono orientati a confermare i contratti realizzati ai tempi di Saddam, le condizioni di sicurezza non hanno finora permesso l'avvio della ricostruzione. A Nassiriya vi è una grande raffineria nella quale sono in funzione impianti relativamente moderni realizzati dai russi negli anni settanta, ma la produzione è modesta. Il documento del professor Cassano dimostra dunque, prove alla mano, che poche settimane prima della guerra e fin dalla metà degli anni novanta il governo italiano e l'Eni avevano puntato gli occhi sul petrolio di Nassiriya. Mentre, in Parlamento, Frattini chiedeva voti per la «missione umanitaria», nei cassetti della Farnesina c'erano già i piani per «solidi investimenti» e soprattutto per garantire «i nostri approvvigionamenti».
Ma perché eravamo proprio li
Tutto così facile... ma perché eravamo proprio in quel posto? Il palazzo che alloggiava la base “Maestrale” era l’ex sede della Camera di Commercio, ed era quanto di più facile da attaccare. Gli italiani l’avevano ereditata dai marines americani, che generosamente gliela avevano passata (forse addirittura gratis...) Col senno di poi, ma non solo, era quanto di più indifendibile si potesse immaginare. Arrivando in Iraq, colpiva l’assetto di guerra della capitale, le lunghe file di pannelli di cemento “texas” alti nove metri che avvolgevano tutti gli obiettivi sensibili, compreso il “Palestine”. A Nassiriya invece solo mucchi di Hesco Bastion, sacchi riempiti di sabbia o di sassi e avvolti da una rete di acciaio. La strada che fiancheggiava la base “Maestrale” era chiusa a metà. Solo la carreggiata più vicina all’edificio era inaccessibile. Quelle riportate di seguito sono le dichiarazioni del comandante dell’Arma, il generale Guido Bellini, nell’immediatezza dei fatti:
“Contro un’onda d’urto del genere – calcolava il numero uno dei carabinieri - forse sarebbe stato necessario uno spazio vuoto di duecento metri”. Da chi erano state scelte le due basi? “Ci sono state consegnate dai marines. Noi abbiamo potenziato i distanziamenti e abbiamo elevato la difesa passiva…ora sarà migliorata la difesa passiva di questa area. E il ponte (sull’Eufrate percorso dalla cisterna - bomba ndr.) resterà chiuso”. Perché queste precauzioni non sono state prese prima? “La presenza dei carabinieri all’interno della comunità di Nassiriya è una scelta strategica fatta di concerto con il comando inglese…continueremo il nostro servizio fra la gente e per la comunità. Il blocco del ponte ci fu impedito dal comando inglese della divisione che lo considerava una misura impopolare”. Il tenente colonnello Gino Micale, vicecomandante della M.S.U., ammette: “L’assetto è stato il frutto di un compromesso, il migliore possibile”. Circolò subito dopo l’attentato la voce che un notabile di Nassiriya avesse avvertito i militari italiani degli strani movimenti di una cisterna. I vertici della “Missione Antica Babilonia” hanno sempre negato di aver avuto segnalazioni specifiche di pericoli imminenti. Un sopravvissuto, il maresciallo Gaetano Vultaggio, ha rilasciato di recente a “News” questa sibillina dichiarazione: “ Diciamo che ho saputo che lo sapevano”... Dunque noi eravamo lì per un mix di sottovalutazione del rischio (ricordate? La “ggente” vi cuole bene...) e di vassallaggio ai comandi anglo-americani, ai quali non abbiamo mai detto un solo no. Gli inglesi ci avevano spiegato che era opportuno vivere la vita di Nassiriya, ma hanno preferito che a farlo fossero gli italiani: c’est plus facile....
LO STUDIO DELL’OPERAZIONE
Rileggere ora le motivazioni che hanno spinto Haraz a scegliere l’obiettivo è un esercizio utile e raggelante. Il suo braccio destro Haji Thamer è passato per caso da Nassiriya e ha visto una bandiera italiana su un edificio. Nasce così l’idea di colpire il governo Berlusconi per il suo appoggio alla Coalizione dei Volonterosi. Ai primi di ottobre i due fanno un sopralluogo. Haraz è colpito dalla facilità dell’impresa.
Il 13 marzo del 2005 ha dettato a verbale: “Non riuscivamo a capacitarci della inverosimile situazione logistica degli italiani. La loro base, ubicata al centro della città, era divisa in due parti. Le misure di sicurezza erano scarse. Chiunque avrebbe potuto attaccare, visto che la strada di accesso era molto facile”. Il piano prende forma. Haraz e Thamer pensano di colpire la sede della Autorità provvisoria di Coalizione e la “Maestrale”.
Dentro un
vecchio mezzo dell’esercito iracheno il capo delle operazioni di “Qaidat al
Jihad fil bilad al Rafidain” ossia la “Base della guerra santa nella terra fra i
due fiumi”, la succursale irachena di Al Qaeda, ha fatto stipare tre tonnellate
e mezzo di esplosivo del tipo Tnt e Cnc e 50 razzi da 135 e da 155 millimetri.
L’uomo si chiama Said Mahmoud Abdelaziz Haraz , è nato il 12 agosto 1969 a
Qaneqin, nella provincia irachena di Diyala, a nord est di Bagdad. Voleva radere
a zero il palazzo che ospitava la “Maestrale”. Non c’è riuscito per puro caso.
Belgacem Bellil, il kamikaze alla guida del mezzo, un algerino trapiantato in
Spagna, ha cominciato a sparare qualche decina di metri prima di piombare
sull’obiettivo.
I tiratori scelti appostati sul tetto del palazzo e quelli della base
“Libeccio”, Il comando della M.S.U. sulla riva occidentale dell’Eufrate,
rispondono al fuoco. La cisterna esplode poco dopo aver superato la sbarra del
passo carraio.
Un camion forza il posto di blocco all'entrata della base e prosegue la sua corsa sino alla palazzina di tre piani che ospitava il dipartimento logistico italiano. C'è una sparatoria. Dietro al camion irrompe l'autobomba che finisce la sua corsa esplodendo e causando l'inferno. In tarda serata il generale Giorgio Cornacchione, comandante del contingente italiano, spiegherà che a compiere l' attentato sono stati "quattro kamikaze" su due veicoli con a bordo tra i 150 ed i 300 chili di esplosivo. Gli attentatori sono stati inizialmente "fermati da difese esterne", costituiti da reti e fili spinati. "Ma il quantitativo di esplosivo - ha detto il generale - era così potente da aver distrutto quasi completamente la palazzina".
L'esplosione è potentissima, fa crollare gran parte dell'edificio e danneggia una seconda palazzina dove ha sede il comando. I vetri delle finestre del complesso vanno in frantumi. Nel cortile davanti alla palazzina molti mezzi militari prendono fuoco. In fiamme anche il deposito delle munizioni, da cui provengono forti esplosioni. Il traffico nella zona circostante è in tilt, mentre la popolazione scende in strada in preda al panico.
I primi a parlare di attentato suicida sono i giornalisti della tv araba Al Jazeera che ipotizzano uno o due mezzi impiegati dai kamikaze. La base colpita, ribattezzata "Animal House" si trova nella vecchia sede della Camera di Commercio, sulle rive del fiume Eufrate. Nell'esplosione sono andati distrutti anche gli uffici di un edificio dove ha sede una Ong americana, la International Medical Corps, attiva nella zona da circa sei mesi. Tra il personale della Ong vi sono almeno altri 10 feriti, tra cui lo stesso coordinatore, il britannico Ewmar Tiangle. Gli italiani avevano già dovuto affrontare episodi di ostilità a Nassiriya in settembre. Disordini erano esplosi durante il pagamento degli stipendi ad ex militari iracheni. (12 novembre 2003)
Nassiriya..quando i "bravi ragazzi" giocavavo al tiro a segno...