In questa sezione:
Sapeva Garibaldi ciò che faceva, nè in Talamone stava certo a perdere tempo. Ivi
doveva trovare le munizioni da guerra o andar avanti lo stesso a pigliarle in Sicilia al
nemico. Ma frattanto vi faceva dar forma alla spedizione, comporre le compagnie
combattenti e tutti i corpi che deve avere un esercito per entrar in guerra. Non poteva
già scendere in Sicilia alla testa di uno stormo disordinato!
Al suo quartier generale diede per capo il colonnello Stefano Turr che allora aveva
trentacinque anni. Da giovane tenente dell'esercito austriaco, il Turr era passato in
Piemonte l'anno '49; sapeva cos'era stato il dolore della sua Ungheria e dell'Italia
quell'anno; sapeva cosa voleva dire essersi trovato condannato a morte e liberato quasi
nell'ora del supplizio, e cos'erano le gioie e le ansie del cospiratore nell'impaziente
attesa della riscossa. Aveva combattuto l'anno avanti sotto Garibaldi in Lombardia, e a
Tre Ponti aveva sparso il suo sangue tra i Cacciatori delle Alpi. Bellissimo uomo, alto e
diritto, con due gran baffi e un gran pizzo scuri, e occhi pensosi ma vigili e mobilissimi
sotto la fronte quadrata a torre. Novecento anni avanti sarebbe stato un fiero capo di
quegli Ungheri che vennero a turbare il regno di Berengario; ma ora, con la gentilezza
acquistata dalla sua gente nei secoli e la sua nativa, era un cavaliero che poteva tenere
scuola d'ogni cortesia. Finita quella guerra divenne diplomatico, apostolo di lavoro e di
pace. Scavò canali di navigazione nella sua Ungheria, tagliò l'istmo di Corinto; va
ancora pel mondo gridando all'umanità la concordia, l'amore e il bene.
Ungherese come il Turr, un po' più giovane di lui, aiutante anch'esso del Generale, v'era
il Tukory, che veniva ad offrir l'ingegno e la vita a quest'Italia, la quale, nel
Cinquantanove, in certa guisa aveva disdetto la fratellanza di sventure e di speranze, che
l'avevano legata fino allora alla patria sua. Diceva egli così senza raffaccio, ma con
dolore. Egli aveva militato per la Turchia contro la Russia durante la guerra di Crimea, e
s'era trovato a difendere la fortezza di Kars contro quei soldati dello Czar che nel '49
gli avevano rovinato la patria. Servire un barbaro per odio contro un altro barbaro gli
doveva essere stato grande strazio; ma con Garibaldi a faticare per l'Italia era quasi
felice. Però s'indovinava che era molto deluso del mondo, e morire come morì poi a
Palermo non gli dovette parere amaro.
Poi c'era il Cenni di Comacchio, uomo di quarantatré anni, avanzo di Roma e della
ritirata di San Marino; uno tutto fremiti, che ad averlo vicino pareva di camminar col
fuoco in mano presso una polveriera. Amico del Cenni v'era l'ingegnere Montanari di
Mirandola, anch'egli avanzo di Roma, che aveva trentott'anni e ne mostrava cinquanta per
la tetraggine che gli avevano impressa le meditate sventure del paese. Anche aveva molto
patito nelle carceri di Mantova e di Rubiera. Ma contrasto quasi d'arte gli stava a lato
un senese, che da giovane aveva fatto versi, sembrati al Niccolini degni del Foscolo. Nei
suoi ventisei anni bellissimo e forte, era sempre gaio come se gli cantasse un'allodola in
core. Era quel povero Bandi, che cinque ferite di piombo non poterono poi uccidere sul
colle di Calatafimi; e doveva campare ancora trentacinque anni, per essere ucciso quasi
vecchio e a ghiado, da uno a lui sconosciuto.
E v'era Giovanni Basso, nizzardo, ombra più che segretario del Generale, ch'egli aveva
visto sublime a Roma, umile ma ancora più sublime da povero candelaio alla Nuova York. E
c'erano il Crispi, allora poco conosciuto, e l'Elia anconitano, che poi a Calatafimi fu
quasi ucciso mentre si lanciava a coprir Garibaldi. C'erano il Griziotti pavese di
trentott'anni, matematico di bella mente ma di cuore più bello ancora; e il Gusmaroli di
cinquanta, antico parroco del Mantovano, che come l'eroe dell'Henriade andava tra quelli
che uccidevano, senza difendersi e senza mai pensare ad uccidere. Ma il tocco
michelangiolesco lo metteva in quel gruppo Simone Schiaffino, bel capitano di mare, che
pareva andasse studiando Garibaldi, per divenire simile a lui nell'anima come gli
somigliava già un po' nel volto; biondo come lui, assai più aitante di lui, con un petto
da contenervi cento cuori d'eroe.
Allo Stato Maggiore generale presiedeva il colonnello Sirtori. Antico sacerdote, aveva
chiuso per sempre il suo breviario, portandone scolpito il contenuto nel cuore casto, e
serbando nella vita la severità e la povertà dell'asceta claustrale. Spirito rigido,
cuore intrepido, ingegno poderoso, nel Quarantanove con l'Ulloa napoletano, era stato
ispiratore del generale Pepe nella difesa di Venezia. Poi esule in Parigi, aveva visto
indignato trionfare sull'uccisa repubblica Napoleone III. E la vita gli si era fatta un
lutto. Non aveva perdonato all'Imperatore il 2 dicembre, neppure vedendolo poi scendere
nel Cinquantanove con centocinquantamila francesi a liberargli la sua Lombardia; anzi,
antico soldato della patria s'era astenuto dal venire a quella guerra imperiale. Ma la
guerra stessa, com'era seguita, gli aveva insegnato a non illudersi più. Non aveva guari
speranze che quell'impresa si potesse far bene; consultato, l'aveva sconsigliata, ma
dichiarando che se Garibaldi ci si fosse risolto, lo avrebbe seguito. Ed ora a
quarantasette anni, era lì con quella sua faccia patita, incorniciata da una strana barba
ancor bionda, esile alquanto della persona, silenzioso, guardato come se portasse in sé
qualcosa di sacro, forse le promesse dell'oltretomba. Pareva il Turpino di quella gesta.
Da lui dipendevano, come capitani, un Bruzzesi romano di trentasette anni; il matematico
Calvino esule trapanese di quarant'anni, onore dell'emigrazione siciliana; Achille
Maiocchi milanese di trentanove, e Giorgio Manin, figlio del gran Presidente della
repubblica veneziana, che non ne aveva ancor trenta.
Ufficiali minori seguivano Ignazio Calona palermitano, un gran bel sessagenario che a
guardargli in viso pareva di leggere la poesia del Meli; il mantovano ingegner Borchetta
di trentadue anni gran repubblicano; ultimo v'era un giovane tenente dell'esercito
piemontese, disertato a portar tra i Mille il suo cuore. Questi doveva morire a Calatafimi
sotto il nome di De Amicis, ma veramente si chiamava Costantino Pagani.
*
E poi veniva il grosso del piccolo esercito.
Alla testa della prima compagnia chi se non il Bixio?
Era quel Bixio che nel Quarantasette, in una via di Genova, fattosi alle briglie del
cavallo di Carlo Alberto, gli aveva gridato: "Dichiarate, o Sire, la guerra
all'Austria, e saremo tutti con voi!" Nel Quarantotto era volato in Lombardia con
Mameli; con Mameli era stato a Roma dove era parso l'Aiace della difesa, e il 30 aprile vi
aveva fatto prigioniero tutto un battaglione di francesi. Poi aveva navigato portando per
gli oceani le sue speranze. Ma nel Cinquantanove aveva riprese le armi, non più
riluttante a fare la guerra regia, e facendola bene: adesso era capitano del Lombardo, ma
in terra avrebbe comandata la prima compagnia.
Il Dezza ingegnere e il Piva, che dovevano divenire generali dell'esercito italiano, erano
suoi luogotenenti. Marco Cossovich, veneziano, uno che nel '48 aveva concorso a levar
l'arsenale agli Austriaci, e Francesco Buttinoni da Treviglio provato già nel '48 e nel
'49, erano loro sottotenenti, tutti e quattro già chi di trenta, di trentacinque o
trentasei anni; e sergenti e soldati benché fior d'uomini tutti, badassero bene con chi
avevano da fare, ché con Bixio, non dico paurosi, ma solo inesperti o disattenti o
svogliati, c'era da essere inceneriti.
Ma ogni dappoco sarebbe divenuto un valente anche solo pel contatto con sergenti come
erano Ettore Filippini, Eugenio Sartori, Angelo Rebeschini, Enrico Uziel, e tra
commilitoni come Giovanni Capurro, Emilio Evangelisti, Enrico Rossetti, e altri molti che
Bixio aveva impressi del suo sigillo. E poi vi erano nella compagnia Pietro Spangaro,
Raniero Taddei, Antonio Ottavi, già ufficiali di grido che per nobile compiacimento si
erano lasciati fondere con la massa dei semplici militi, e vi facevano scuola di virtù
militari.
La seconda compagnia, detta dei livornesi perché di Livorno era Jacopo Sgarallino, il
più popolare dei suoi ufficiali, e di Livorno erano i suoi sergenti, fu affidata al
colonnello Vincenzo Orsini. Questi non veniva dalla storica famiglia Orsini di Roma e
neppure da quella romagnola da cui uscì Felice Orsini, uomo allora di recente
terribilità, per le bombe che aveva lanciate in Parigi contro Napoleone III, e rimpianto
per la nobile vita così sacrificata e per la rassegnata morte sul patibolo. Il colonnello
garibaldino era di famiglia palermitana, uomo già di quarantacinque anni, ufficiale
dell'artiglieria borbonica da giovane, poi affiliato alla Giovane Italia, passato al
servizio dell'isola sua nella rivoluzione del '48, cresciuto con essa, con essa caduto nel
'49. Da quell'anno era vissuto esule negli eserciti di Turchia, salendovi a colonnello
dell'arma ne' cui studi era stato allevato. Venuto il '59, era tornato in Italia, e adesso
era lì a riportar il braccio alla sua Sicilia. Prevalevano nella compagnia per numero gli
operai, anch'essi però uomini intelligenti, che sapevano bene qual passo avevano fatto: e
i più erano toscani, e portavano nomi i nobiltà popolaresca antica.
Per la stessa ragione per cui la seconda compagnia fu chiamata dei livornesi, la terza
poteva dirsi dei calabresi perché di Calabria erano il barone Stocco che la comandava,
verde vecchio di cinquantaquattro anni, e Francesco Sprovieri, Stanislao Lamensa, Raffaele
Piccoli, Antonio Santelmo suoi ufficiali. V'erano inquadrati degli uomini insigni come
Cesare Braico, Vincenzo Caronelli, Domenico Damis, Domenico e Raffaele Mauro fratelli,
Nicolò Mignogna, Antonio Plutino, Luigi Miceli; e avvocati e medici e ingegneri, e futuri
deputati, senatori, ministri e generali, tutti fra i trentacinque e i cinquant'anni, tutti
di Calabria e di Puglia. Pareva la compagnia dei savi!
La quarta toccò a Giuseppe La Masa, siciliano di Trabia, antico all'esilio, già
quarantenne. Era un singolarissimo uomo. Biondo quasi ancora come un giovinetto e di
carnagione che doveva essere stata rosea, finissimo nei lineamenti del volto, più che un
siciliano sembrava uno scandinavo. Certo aveva nelle vene sangue normanno. Poeta
improvvisatore, giureconsulto, agitatore d'idee, s'era fatto mandar via presto dall'isola
natia, e a Firenze nel '47 aveva stretto amicizia col fiore dei patriotti. Doveva aver
sentito di sé grandi cose e grandissime averne agognate; e fino a un certo segno le aveva
conseguite. Si diceva che nel gennaio del '48 avesse decretato lui la rivoluzione di
Palermo, per il 12 di quel mese preciso, genetliaco del Re, firmando audacemente un
proclama di sfida col proprio nome per un Comitato che non esisteva. Ma non era vero.
Però la rivoluzione era scoppiata, ed egli nella guerra che n'era venuta tra Napoli e la
sua Sicilia era stato Capo dello Stato maggiore dell'esercito. In un intermezzo di quella
aveva condotto i Cento Crociati isolani alla guerra di Lombardia; poi, finita male ogni
cosa nell'isola come altrove, si era rifugiato in Piemonte, aveva scritto libri di guerra,
infaticabile. Pochi giorni avanti la spedizione dei Mille, quando Garibaldi esitava a fare
la impresa, egli si era offerto di condurla, e l'avrebbe condotta con grande animo, se non
forse con grande fortuna. Però non lo avevano voluto lasciar fare neppure i siciliani.
Pareva ambizioso. Un po' di quell'avversione che poi lo tribolò, già gli si manifestava
contro, e forse per questa non ebbe sotto di sé in quella sua compagnia ufficiali di
nome. Ma aveva nel quadro de' suoi sott'ufficiali dei giovani eminenti. Vi aveva Adolfo
Azzi da Trecenta, di ventitré anni, che con Simone Schiaffino si era diviso l'onore di
far da timoniere a Bixio; vi aveva l'avvocato Antonio Semenza, monzasco, che nell'animo
aveva tutta l'opera di Mazzini, e Francesco Bonafini, di Mantova, che riassumeva in sé
tutta la vigorosa gentilezza della sua regione. E nella compagnia s'erano concentrati
quasi tutti i bresciani, forse perché del bresciano egli aveva preso qualche cosa. Nel
'57 aveva sposata la duchessa Felicita Bevilacqua sua fidanzata fin da prima del '48,
donna che lo aveva fatto signore del proprio destino, delle proprie ricchezze sterminate,
quasi fatto re d'un piccolo regno. Ora egli abbandonava quegli splendori, per tornare
all'amore della sua terra. Ed era un prezioso elemento, e doveva presto mostrarlo in
Sicilia, dove raccolse le squadre paesane dei Picciotti, e le tenne ordinate per
Garibaldi.
Alla testa della quinta compagnia sonava il nome nizzardo degli Anfossi, glorioso pel
caduto delle cinque giornate di Milano. Ma ahimè! Il vivo non era del valore del morto.
Però la inquadravano degli ufficiali subalterni che bastavano a raccoglier l'anima della
compagnia come un'arma corta nel pugno. V'era tra essi Faustino Tanara del parmigiano, una
specie di Rinaldo combattente per la giustizia in un mondo che a lui fu ingiusto e che non
seppe mai il cuore che egli ebbe. In quella compagnia, nulla di regionale. C'erano un
centinaio di uomini di tutte le terre italiane, vi si sentivano tutte le nostre parlate,
vi si vedevano delle teste di tutte le tinte, e di grigie e di bianche parecchie. Mesto a
pensarsi, vi si trovavano parecchi trentini tra i quali Giuseppe Fontana, Attilio Zanoli,
Camillo Zancani, che morirono poi vecchi, senza la gioia di aver visto libera la loro
bella terra di Trento.
Ma ecco alla sesta il più bello degli otto capitani. Era un biondo di trentatrè anni,
alto, snello, elegante. Si sarebbe detto che se avesse voluto volare, subito gli si
sarebbero aperte al dorso due ali di cherubino. Parlava un bell'italiano con leggero
accento meridionale, gestiva sobrio e grazioso come un parigino; nel portamento pareva un
soldato di mestiere, negli atti e nei discorsi un Creso vissuto tra le delizie dell'arte,
in qualche gran palazzo da Mecenate. Si chiamava Giacinto Carini, nome di borghesi e nome
anche di principi siciliani che a lui, già nobilissimo della persona, dava un'aria alta e
singolarmente aristocratica. In lui v'era il generale che sei anni dopo avrebbe comandata
una brigata italiana all'attacco di Borgoforte. E da lui fu detto un giorno che se alla
morte di Pio IX fosse venuto, come venne, al seggio di San Pietro il Vescovo di Perugia,
ch'ei ben conosceva, l'Italia avrebbe avuto il Papa italiano iniziatore di quella vita che
poi non ebbe.
Luogotenente del Carino era Alessandro Ciaccio, palermitano, uomo di quarant'anni, esule
da dieci. In mezzo alla compagnia pareva il sacerdote di una religione non ancora
predicata ma già viva nei cuori. Non era tempra da uomo di guerra, ma da dar la vita per
qualche grande amore, sì: sarebbe stato capace di ber la cicuta e morire conversando di
cose alte e pure in mezzo a quei suoi militi che, lui presente, si sentivano sempre come
avvolti da un'aura casta e purificatrice.
Altri ufficiali del Carini erano Giuseppe Campo e Giuseppe Bracco-Amari, palermitani
anch'essi; quello rivoluzionario per tradizione di famiglia, questo un altezzoso uomo che
pareva aristocratico e schivo, ma era soltanto un distratto. Andava distratto fino nei
combattimenti. Altro singolare uomo era il sottotenente Achille Cepollini, napolitano, di
quarant'anni, vecchio difensore di Venezia, letterato anzi professore di lettere, che fu
visto a Calatafimi l'ultima volta, e sparito non lasciò di sé traccia sicura, né di lui
se ne riseppe mai più.
Sfilava la settima compagnia, la più numerosa e la più signorile, quasi tutta di
studenti dell'Università pavese, lombardi di ogni provincia, milanesi eleganti, veneti
che la grazia natìa temperavano alla baldanza dei compagni nati tra l'Adda e il Ticino.
La comandava Benedetto Cairoli, che allora aveva già trentacinque anni. E pareva così
contento, in quella sua bella faccia di giusto, aveva un'aria così paterna, che uno
avrebbe detto: "Certo a costui è stato affidato ogni soldato dalla madre in persona,
perché, se non è necessario sacrificarlo, glielo riconduca puro e migliore." Ah, il
contatto con quell'anima! Molti vanno ancora pel mondo che vissero giovinetti sotto
quell'occhio, in quei giorni di altissima scuola; e ne portarono la luce tra la gente,
che, pur divenuta scettica, pensa che un mondo migliore debba essere stato, e spera che
torni.
Era luogotenente del Cairoli il Vigo Pellizzari, da Vimercate, bello e giocondo giovane,
di ventiquattro anni, nato coi più bei doni di natura, ma sprezzatore superbo fin di sé
stesso. Amava la vita, avrebbe potuto averla felice, non volle. Scherzava con la morte,
pareva che l'andasse cercando per schiaffeggiarla, e che la morte lo scansasse, tanto era
ardimentoso. Sette anni di poi, le si diede irato a Mentana gridando insulti ai francesi.
Sottotenenti della compagnia erano Biagio Perduca di venticinque anni e Nazzaro Salterio
di trentasei. Pavese quello, aveva personale giusto, viso fiero ma a certi momenti
dolcissimo. Non morì in guerra e fu sorte crudele, perché doveva finire di là a
quindici anni con la luce della mente già spenta. Invece il Salterio visse cinque anni
più di lui, e quando fu l'ora sua cadde di colpo, sano e intero, nella sua divisa di
colonnello, come uno fulminato sul campo.
Furiere della compagnia era il marchese Aurelio Bellisomi da Milano, allora sui
ventiquattro, bellissimo giovane e colto assai, mazziniano per fare l'unità nell'ora che
passava, ma forse già vagheggiatore dell'idea del Cattaneo, come di cosa da venir sicura
col tempo, conseguenza della stessa unità allora necessaria per conseguire
l'indipendenza. Ma non parlava guari delle sue idee federaliste per non seminare
discordie.
In quanto ai sergenti, quando s'è detto che si chiamavano Enrico Cairoli, Luigi
Mazzucchelli, Pompeo Rizzi, Camillo Ruta, par d'aver detto tutto anche a chi non portò
mai camicia rossa. Erano giovani tra i venti e i ventisett'anni, e son già morti da un
pezzo; ma di essi soltanto Enrico finì come erano degni di trovarsi a finire tutti, in
quel bel giorno di Villa Glori, sotto le mura di Roma, uno contro venti.
Il caporal furiere era Luigi Fabio, il buon Fabio morto poi quasi sessantenne, ma di cuor
sempre giovane. E i quattro caporali erano lo studente Ferdinando Cadei, che cadde a
Calatafimi, Giuseppe Campagnuoli, Alessandro Casali, Luigi Novaria; quello di Caleppio,
questi tre di Pavia. Tra quei compagni di ventitrè anni il Novaria ne aveva trentatré,
pareva un vecchio, ma stonava poco perché versava larga la sua vena di ilarità, sebbene
talvolta fosse canzonatore mordace, e talvolta pigliasse il tono fin di Tersite.
Così la compagnia era fortemente inquadrata. Contava centotrenta militi, ventitré dei
quali erano proprio pavesi. E tra quei centotrenta, ventiquattro erano studenti di legge,
dodici di medicina, quattordici di matematica, due di farmacia. Di commercianti ve n'erano
una dozzina, di possidenti e di impiegati una trentina. Gli altri erano artigiani e
operai, ma tutta gente anche questa che sapeva bene dove andava. Allegri e vibranti di
vita, parevano avviati a conquistarsi un regno ognuno per sé. Ma dei più cari a
ricordarsi fu un giovanetto, forse non ancora ventenne, che durante la traversata cantava
sempre, accompagnato da due altri pavesi Giuseppe Tozzi e Luigi Rossi. In quelle notti del
Tirreno empiva il mare e il cielo con le arie eroiche del Nabucco e dei Masnadieri, con
una voce che faceva tacere tutti e pigliava i cuori. Si sentiva che l'anima sua si
inebriava di un'acre voluttà di morire; e forse fu poi felice quell'ora a Palermo, su
d'una barricata, combattendo e cantando: "Si vola d'un salto nel mondo di là,"
cadde morto. Lo chiamavano Pùdarla, ma il suo vero nome era Angelo Gilardelli.
E l'ultima era l'ottava. L'aveva raccolta quasi tutta nella sua Bergamo Francesco
Nullo, che la dava bell'e fatta ad Angelo Bassini pavese, certo di darla a chi l'avrebbe
condotta da bravo. Era il Bassini un uomo che se avesse lanciato il suo cuore in aria,
quel cuore avrebbe mandato luce come il sole; e se lo avesse lanciato nell'inferno,
avrebbe fatto divenir buono Satana stesso. Così dicevano coloro che avevano già lette
sin da allora queste immagini nelle poesie di Petofi. A Roma il 3 giugno del '49, nell'ora
dello sterminio, s'era avventato quasi solo contro i francesi di Villa Corsini,
percotendo, insultando, gridando a chi volesse ammazzarlo, e nessuno lo aveva ucciso.
Aveva una testa che sembrava una mazza d'armi, ma l'espressione della sua faccia ricordava
quella di certi santi anacoreti. Sapeva poco, discorreva poco; ostinato nell'idea che gli
si piantava nel capo, a chi lo vinceva di prove gridava: "Appiccati!" ma lo
abbracciava e gli dava subito ragione, intenerito e devoto. Per tutte queste sue doti, e
perché aveva già quarantacinque anni, gli si erano lasciati volentieri metter sotto
Vittore Tasca, Luigi Dall'Ovo, Daniele Piccinini, coi loro bergamaschi, quasi un centinaio
e mezzo di quella gente Orobia, quadrata e intrepida sempre, sia che scelga la patria per
suo culto, sia che ad altri ideali volga il pensiero: quella che parve ai siciliani
formidabile per gli ardimenti sulle barricate, e per la serena fidanza nei vini
dell'isola, bevuti ai banchetti liberamente, senza perdere dignità né d'atti né di
parole.
Vittore Tasca aveva trentanove anni, ed era una strana testa, che con un po' di studi
forse sarebbe riuscita d'un artista. Con quelli ch'egli aveva fatti era rimasto qualcosa
di mezzo tra un commerciante geniale e un agricoltore. Conosceva le vie del Levante dove
era andato per seme di filugello, e si trovava appunto sulle mosse di tornarvi, quando
sentì della spedizione garibaldina. Allora piantò ogni cosa e seguì Garibaldi, cui si
diè tutto e cui nella tarda età dedicò quasi bosco sacro una sua villetta in Brembate,
dove fino al 1892 raccolse ogni anno anche da lontano i suoi amici, a commemorare in una
cerimonia all'antica il gran Duce.
Il Dall'Ovo che aveva anch'egli trentanove anni, era una figura su per giù sul fare del
Tasca, forse un po' meno aspro ma anch'egli burbero e buono. Non sapeva che da quell'umile
posto di sottotenente della compagnia, le sorti della guerra e dell'esercito nazionale lo
avrebbero elevato su tanto, da fare di lui un colonnello. E da colonnello doveva
invecchiar nell'esercito per uscirne alfine e sparire come tanti, che si rincantucciarono
a rivivere del loro passato, dei quali non si seppe più se fossero vivi o morti.
Ma Daniele Piccinini che più di lui e più del Tasca personificava in sé il bergamasco
cittadino insieme e valligiano e di monte, come rimase vivo e presente a tutto il mondo
garibaldino! Nato a Pradalunga in Val Seriana, da una famiglia radicata tra le rocce e
ricca e forte ivi come una volta quelle dei feudatari, ma però tutta di virtù
patriarcali; candido a trent'anni come un adolescente, valoroso come un personaggio dei
'Reali di Francia', allora ancora molto letti nelle campagne; in quel maggio era disceso
dal suo paesello a vedere se non si tornasse a far qualche cosa per l'Italia, e aveva dato
il suo nome di tono guerriero antico alla compagnia bergamasca. Fu lui quello che a
Calatafimi, in un momento che Garibaldi si trovò tanto vicino ai nemici da farsi colpire
fino da un colpo di pietra, gli si lanciò quasi irato davanti, e coprendolo col suo
pastrano da pioggia onde la camicia rossa non lo facesse più far da bersaglio, osava
gridargli che non a lui stava bene andare a farsi uccidere come un soldato qualunque.
"Chi è quel giovane?" domandò allora Garibaldi, guardando quella bella figura.
"Piccinini di Bergamo," gli fu risposto. Il Generale non se ne scordò più, né
il Piccinini lasciò più di seguirlo. Due anni dipoi, in Aspromonte, ruppe la spada di
capitano per non consegnarla intera al capitano dei bersaglieri che lo faceva prigioniero:
prigioniero con gli altri compagni garibaldini stipati nel forte di Bard in Val d'Aosta,
si rannicchiò in una cannoniera dove stette quasi notte giorno a languire di nostalgia e
di dolore civile. Poi nel 1866 volle far la guerra del Trentino da semplice milite,
perché aveva giurato di non portare spada mai più. Tornato poi a' suoi monti, non ne
uscì per venti anni. Alla fine si lasciò vincere dal desiderio d'andare a visitare la
Sicilia e la Calabria che egli aveva percorse e voleva di nuovo percorrere a piedi, per
vedervi quanto fosse migliorato il popolo e quanto la terra. Non poté giungere fin
laggiù. Un giorno dell'agosto 1889 a Tagliacozzo gli accadde di esser ferito per
disavventura da un giovane amico. E morì là, quasi lieto di morire tra quei monti, dove
suona ancora con tanta mestizia il nome della battaglia perduta da Corradino. Ora la sua
salma è chiusa nel piccolo camposanto della sua Pradalunga, a cui salgono i clamori del
Serio sonante che passa. Càpita là talvolta ancora adesso qualche vecchio forestiero che
fa chiamar il custode per farsi mostrar la terra dove sta Daniele. Entra in quel recinto,
cui con forse quattro lenzuola cucite insieme si potrebbe fare un velario, svolta a
sinistra, nell'angolo c'è una cappelletta nuda. "Sta qui," dice il custode.
Qui? Pensa il forestiero. E vorrebbe gridare: Su, Piccinini! D'uomini come te v'è ancor
penuria nel mondo. Risorgi e insegna!
Un po' della tempra del Piccinini erano quei bergamaschi tutti, anche i più popolani;
anime esaltate dal patriottismo e un po' mistiche. Nel 1863, quando la Polonia fece la sua
terza rivoluzione, uno stormo di quei militi tornati dall'ottava compagnia dei Mille,
volò laggiù con Francesco Nullo. E il 5 maggio, terzo anniversario della partenza da
Quarto, entrarono nella Polonia russa a Olkusz, dove s'imbatterono subito nei Cacciatori
finlandesi del generale Szakowskoy, coi quali impegnarono un combattimento. Il Nullo cadde
ai primi colpi, e morì magnifico fin nella caduta; essi combatterono fin che furono tutti
morti o feriti o ridotti a non poter più. Elia Marchetti si trascinò ferito a morte fin
nel territorio austriaco; dove un austriaco capitano, ammirandolo se lo raccolse in casa e
ve lo tenne con religione a morire. Quelli che sopravvissero furono mandati in Siberia.
Nelle miniere di Jskutz logorarono la vita sette anni, invidiando i morti, e parecchi vi
morirono. Quelli che erano scampati alla strage e alla cattura, camminando come belve,
valicando montagne, passando fiumi, vennero dietro il sole a cercar la patria. E per le
terre dell'Austria vi giunsero. Ma non si erano ancora riposati di tanta via, che scoppiò
la guerra del 1866. Allora tutti tornarono in campo, e Giuseppe Dilani detto Farfarello,
umile operaio, andava a farsi uccidere dagli Austriaci, nelle terre trentine nostre a
Monte Suello, vecchio nei patimenti a ventisette anni.
E Luigi Perla, con quel suo visetto arguto? Oh! Egli andò nel 1870 a morire a Digione per
la repubblica, alla testa di un battaglione che gli fu affidato. La Francia riconoscente
lo fregiò, morto, della Legion d'onore; ma già egli era compensato nell'aver potuto
morire per quel nome di repubblica, che alla sua mente semplice pareva realtà di tutte le
belle cose sognate.
Quei bergamaschi fecero scuola. Così, come alcuni in Polonia e come il Perla in Francia,
ultimo alunno di quell'antica compagnia, figlio d'uno di quei bergamaschi, Ettore Panzeri
ufficiale degli Alpini nell'esercito della nuova Italia, andava a morir giovinetto per la
Grecia a Domokos nel 1897, bella favilla dell'antico fuoco garibaldino, che ridiede dopo
tanti anni quella tardiva vampata.
Ora ecco i Carabinieri genovesi, quasi tutti di Genova, o in Genova vissuti a lungo,
mazziniani ardenti, armati di carabine loro proprie, esercitati nel tiro a segno da otto o
nove anni i più, gente che s'era già fatta ammirare nel 1859, ben provveduta, colta,
elegante.
Li comandava Antonio Mosto, tutto di Mazzini, uomo non molto sopra i trent'anni, ma che ne
mostrava di più: barba piena, lunga, sguardo acuto, ficcato lontano come per guardare se
al mondo esistesse il bene quale ei lo sentiva in sé. Quanto al coraggio, era per lui
cosa tanto naturale, che non poteva credere vi fosse altri che non ne avesse. In tutta la
campagna i borbonici non ebbero per lui una palla, ma il cuore glielo straziarono
uccidendogli il fratello Carlo, che piantato lo studio all'Università di Pisa, aveva
ripreso la carabina. E la fortuna gli serbava di tornare illeso anche dalla guerra del
1866. Ma l'anno appresso, a Mentana, una palla francese lo colpì di tale ferita, che lo
rese invalido fin che nel 1880 morì.
Suo luogotenente era Bartolomeo Savi, un fierissimo repubblicano, tutto nudrito di studi
classici, e già ben sopra la quarantina; uomo austero e cruccioso, che guardava sempre
con un certo piglio di rimprovero Garibaldi, perché s'era lasciato tirare dalla parte del
Re. Ma lo seguiva perché gli pareva di non aver diritto di negar il suo braccio alla
patria, soltanto pel motivo che la patria si andava rifacendo nel nome di un re. E lo
seguì poi fino al giorno che, dopo Aspromonte, tutto gli parve falsato, e, poco appresso,
tediato della vita si uccise.
Inquadravano la compagnia Canzio, Burlando, Uziel, Sartorio, Belleno, dei quali i tre
ultimi non tornarono più; e tra tutti, quei trentasette carabinieri dovevano pagare un
gran tributo fin dal primo scontro di Calatafimi, dove cinque morirono, dieci furono
feriti. Ma la vittoria fu dovuta in gran parte alle loro infallibili carabine.
Mancavano i cavalli, né c'era tempo di far una corsa nella vicina Maremma a pigliarne
un branco al laccio, ma le Guide furono ordinate lo stesso. Erano ventitré. Le comandava
il Missori, l'elegantissimo milanese, passato dal culto delle eleganze a quello delle
armi, e come da prode lo seppero tutti. Basti che in quella guerra l'Italia dovette a lui
e a pochi altri se a Milazzo Garibaldi non fu sopraffatto e ucciso da un branco di
cavalieri napoletani, che essi a rivoltella sgominarono, mentre il Generale che si trovava
a piedi poté, uccidendolo, liberarsi dal capitano di quelli ruinatogli addosso furioso,
menando fendenti.
Sergente delle Guide era Francesco Nullo, il più bell'uomo della spedizione. Aveva
trentaquattro anni, era mercante come Francesco Ferrucci. Allora gli entrò la passione di
cavalier di ventura dell'umanità, e non ebbe più requie finché non gliela diede tre
anni di poi, nel cimitero di Miekov, il generale russo che ve lo seppellì con onori
militari da generale pari suo. Sapeva quel russo di dover andare punito nel Caucaso, ma
nonostante, a quella nobile figura di morto volle mostrare il suo nobile cuore di uomo.
Compagni più che sottoposti al Missori e al Nullo, erano certi degni uomini come Giovan
Maria Damiani da Piacenza, che a sedici anni aveva combattuto a Novara, dove gli era morto
un fratello; e Giuseppe Nuvolari da Roncoferraro nel Mantovano ricchissimo di possessioni
e già sui quaranta; due puritani, niente allegri, provati nell'esilio, pensierosi sempre,
quasi scontrosi.
Semplice guida era Emilio Zasio da Pralboino, di ventinove anni, che uscito di modesta
casa pareva figlio di principi, tanto ambiva le cose signorili; fantastico, impetuoso,
temerario e nell'amare e nel volere sempre grandioso. Luigi Martignoli, da Lodi come
Fanfulla, che a trentatré anni doveva morire a Calatafimi, somigliava un po' al Zasio nel
portamento non nella bellezza; ma bello ancor più di Zasio era il conte Filippo Manci da
Poro nel Trentino, giovinetto di ventun anni. Tutti e due furono infelici. Sopravvissuti a
quelle guerre e alle altre venute dopo, dovevano finire quasi insieme nel 1869, col raggio
della mente già spento per dolori così crudeli, specie quelli del Manci, che chi li
conobbe ingiuriò la morte perché non se li aveva presi quando le andavano incontro sani
d'anima e lieti.
E poi tra quelle Guide erano scritti l'avvocato Filippo Tranquillini e Egisto Bezzi
trentini anch'essi come il Manci; Domenico Cariolato da Vicenza, che di ventiquattro anni
era già un veterano della difesa di Roma; il medico Camillo Chizzolini da Marcaria e
l'ingegnere Luigi Daccò da Marcignano giovanissimi tutti, che parevano figli del
sessagenario Alessandro Fasola novarese, già carbonaro nel 1821 col Santarosa, profugo,
poi soldato di tutte le guerre sino a quella del 1859, e che ora correva a quell'impresa
romanzesca con la baldanza d'un giovanetto che fa la sua prima volata fuori casa.
Poiché la spedizione doveva avere una Intendenza, questa fu formata sul serio, benché
in verità, la cassa di guerra non contenesse che trentamila povere lire. E vi fu messo a
capo Giovanni Acerbi, avanzo dei martirii di Mantova, il quale andava rivendicando nelle
cospirazioni e nelle guerre l'onor del nome, macchiato da uno del casato che aveva venduto
l'ingegno e le lettere all'Austria, prima ch'egli nascesse. Aveva compagni Ippolito Nievo,
Paolo Bovi, Francesco De Maestri e Carlo Rodi, tre veterani questi ultimi, mutilati
ciascuno d'un braccio, che parevano intervenuti per dire ai giovani: "Vedete che cosa
ci si guadagna? Eppure non fa male!" In quanto al Nievo andava tra quella gente, per
dir così, come Orfeo tra gli Argonauti. Chi lo guardava indovinava che era già grande, o
che era destinato a divenirlo. Egli era noto per due suoi romanzi sentimentali: 'Angelo di
bontà' e 'Il conte pecoraio'; e anche si sapeva da qualche amico suo che ei stava
lavorando alle sue maravigliose 'Confessioni d'un Ottuagenario', e che le lasciava
imperfette per accorrere alla grande impresa. Diceva egli stesso che gli sarebbe tanto
rincresciuto morire senza averle finite! Nel 1859 aveva cantati gli 'Amori garibaldini',
liriche scintillanti come spade, scritte sull'arcione cavalcando alla guerra di Lombardia,
e stampate sul punto di partire per la Sicilia. E, 'Partendo per la Sicilia', fu appunto
il titolo che egli dava all'ultima, non uscita dal suo petto ma rappresentata nella pagina
da una fila di interrogativi. Forse egli presentiva che non sarebbe più ritornato?
Difatti spariva dal mondo nel marzo del 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un
vapore che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe
cantato davvero l'Epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato
sulla riva d'Ischia, l'isola dei poeti.
Più necessario allora che non l'Intendenza, fu ordinato anche il Corpo sanitario,
sotto il vecchio dottor Pietro Ripari da Solarolo Rainiero, che de' suoi cinquantott'anni
ne aveva passati molti nelle carceri dell'Austria e del Papa. Ma per tormenti che vi
avesse durati, non si era mai stancato di adorare la propria idea, e tant'era che per
essa, con l'età che aveva, lì si metteva al caso d'andare a sperimentare anche le galere
del Borbone e a finir la vita tra i ferri. Aveva con sé Cesare Boldrini, mantovano, uomo
di quarantaquattro anni, e Francesco Ziliani del bresciano, di ventotto, valenti medici e
bravi soldati. Il Boldrini, nel seguito della guerra, volle poi essere soltanto ufficiale
combattente. E il 1° ottobre cadde a Maddaloni, comandante di un battaglione rimasto
celebre col suo nome; consolazione grande questa al prode nei dolori che durarono due mesi
a consumarlo e a farlo morire. Il Ziliani bellissimo, robustissimo e giocondo, per qualche
cosa che aveva nel far suo metteva la soggezione, e temperava solo con la sua presenza
anche i più spensierati e chiassosi. Dove egli capitava, fossero pur allegri i discorsi,
tutti diventavano serii, le lingue si facevano caste, di cose frivole nessuno sapeva più
dirne. Crebbe su agli alti gradi, ma non se ne volle giovare: tornò modestamente alle
case patriarcali da dove non uscì che per le altre guerre; vi si chiuse alla fine a farsi
crescere intorno una famiglia secondo il suo cuore, e in mezzo ad essa invecchiò,
ricordando ed amando i campi e le plebi.
Altri medici in quel piccolo corpo erano Oddo-Tedeschi d'Alimena e Gaetano Zen di Adria; e
del resto se ne trovavano sparsi in tutte le compagnie, combattenti dei migliori e da
combattenti infermieri. A Calatafimi ne furono visti tra un assalto e l'altro deporre il
fucile, tirar fuori ferri e bende, curare qualche ferito; ripigliar su l'arma, e andar a
farsi ferire.
*
La storia dovrebbe aver già detto e dirà che quella spedizione fu più che per metà
composta d'uomini di studio e d'intelletto. Ne contava più d'un centinaio e mezzo che
erano già o divennero poi avvocati; e così come questi un centinaio di medici, un mezzo
centinaio di ingegneri, una ventina di farmacisti, trenta capitani marittimi, dieci
pittori o scultori, parecchi scrittori o professori di lettere e di scienze, tre
sacerdoti, alcuni seminaristi. V'era anche una donna, Rosalia Montmasson savoiarda, moglie
di Crispi, che volle seguir il marito in quel pericolo; poi centinaia di commercianti e
centinaia di artefici, operai il resto, contadini quasi nessuno.
Non sarà inutile aggiungere che trecentocinquanta di quegli uomini erano lombardi,
centosessanta genovesi, il resto veneti, trentini, istriani e delle altre provincie
dell'Italia superiore e centrale, con forse un centinaio di siciliani e napolitani
tornanti dall'esilio. Non ve n'erano affatto delle provincie di Aquila, Benevento,
Caltanissetta, Campobasso, Chieti, Caserta, Forlì, Pesaro, Ravenna e Siracusa. Stranieri
accorsi per amor d'Italia ve n'erano diciotto, uno dei quali africano, l'altro d'America,
e questi era Menotti, il figlio del Generale.
Di quel centinaio di meridionali trentacinque appartenevano alla parte peninsulare del
Regno; gente degna davvero tutti. Ma sette di essi erano venerandi per chi sapeva la
storia dei loro dolori. Avevano portato per dieci anni la catena negli ergastoli di
Procida, di Montefusco o di Montesarchio; condannati a trenta, a venticinque, a vent'anni
di ferri per amore di libertà. Ma il 9 gennaio del 1859, proprio la vigilia del giorno in
cui Vittorio Emanuele diceva, lassù, lontano, nel Parlamento piemontese, la sua storica
frase delle 'grida di dolore'; avevano ricevuto laggiù col gran Poerio, col Settembrini,
con Silvio Spaventa, la beffarda grazia di andar banditi, deportati in America. Re
Ferdinando, sentendosi divenuto odioso a tutta Europa, che lo chiamava da un pezzo
negazione di Dio, aveva voluto dare quel segno della sua clemenza, a sessantasei delle sue
vittime. Di queste si sa il viaggio a Cadice, la liberazione avvenuta a bordo
nell'Atlantico per opera del figlio di Settembrini, la discesa a Cork in Irlanda e il
rifugio in Piemonte. Ora di quei sessantasei, sette erano lì che se n'andavano tra i
Mille, come sette vendette. Bisognava esser nati con cuori veramente eroici per mettersi
dopo tanto patire a quel passo, o aver lo spasimo di riveder lui il Re crudele; e poiché
egli era già morto, incontrarsi almeno con qualche suo rappresentante per afferrarlo al
petto e farlo domandar pietà. Questo diciamo noi, forse perché in generale siamo ancora
tanto deboli, che ci compiacciamo di pensar da violenti; ma que' sette erano forti e miti.
Allora non erano più nel fior degli anni. Achille Argentino ingegnere di Sant'Angelo dei
Lombardi ne aveva trentanove; Cesare Braico, medico di Brindisi, trentasette; Domenico
Damis, gentiluomo di Lungro, trentasei; Stanislao Lamnesa, legale di Saracena,
quarantotto; Raffaele Mauro, gentiluomo di Cosenza, quarantasei; Rocco Morgante,
farmacista da Fiumara, cinquantacinque; Raffaele Piccoli di Castagna diacono, quarantotto.
E Mauro aveva a casa cinque figliuoli, Lamensa quattro. Non li avevano più veduti dal
1849, anno della loro condanna; ora andavano a ritrovarli per quella via. Parlavano poco,
ma se dicevano gli orrori delle galere nelle quali erano stati, a quelli che ascoltavano
avveniva di augurarsi che essi vi fossero ancora chiusi, d'aver dieci vite, d'andar a
darle tutte per liberare da tante miserie dei cristiani come loro. Al paragone quelle
dello Spielberg dovevano esser state sopportabili, umane. Ma ce n'erano ancora tanti altri
negli ergastoli del Regno! Tutto il Regno era un carcere, dunque era bello andare a
sfondarlo.
Perché fu allora cosa inaspettata, si narra qui un po' fuor di posto che in Talamone
fu pur formata l'Artiglieria. Fin dalla prima ora della sua discesa a terra, Garibaldi
aveva visto nel vecchio castello una colubrina, lunga come la fame, montata su di un
cattivo affusto, a ruote di legno non cerchiate, e pel logoro di chi sa quanti anni
divenute poligonali. Portava in rilievo sulla culatta l'anno del suo getto, 1600, e il
nome del fonditore Cosimo Cenni, certo un toscano. Una delle maniglie in forma di delfino
le era stata rotta, ma due segni di cannonate ricevute le facevano onore. Forse non aveva
mai più tuonato dal 9 maggio 1646, quando novemila francesi condotti da Tommaso di Savoia
erano giunti in quel golfo su d'una flotta di galee e tartane. Adesso là nel castello non
faceva più nulla, e Garibaldi se la prese.
Il giorno appresso, vennero da Orbetello tre altri cannoni, uno dei quali non guari
migliore della colubrina, ma due erano di bronzo bellissimi, alla francese, fusi nel 1802.
Sulla fascia della culatta d'uno si leggeva "L'Ardito" su quella dell'altro
"Il Giocoso". I nomi piacquero; convenivano agli umori di quella gente. Quei
cannoni non avevano affusto, ma laggiù in Sicilia qualcuno avrebbe saputo incavarseli, e
per questo c'erano tra i Mille i palermitani Giuseppe Orlando e Achille Campo, macchinisti
valenti, i quali difatti fecero poi tutto alla meglio sei giorni appresso.
Ma chi aveva dato quei cannoni?
Garibaldi aveva mandato il colonnello Turr, al comandante della fortezza di Orbetello con
questo scritto:
"Credete a tutto quanto vi dirà il mio aiutante di campo, colonnello Turr, e
aiutateci con tutti i mezzi vostri, per la spedizione che intraprendo per la gloria del
nostro Re Vittorio Emanuele e per la grandezza della patria."
Il comandante, che era un tenente-colonnello Giorgini, quando lesse quel foglio si
dovette sentire un grande schianto al cuore. L'aiutante di campo di Garibaldi gli chiedeva
delle munizioni! Impossibile.
Ella è militare, - disse al Turr - e sa che cosa significhi consegnare le armi e le
munizioni di una fortezza, senza ordine dei capi.
Ma se gli ordini li riceveste dal Re? - rispose il Turr - basterà che gli inviate questa
mia lettera.
E lì per lì, sotto gli occhi del Comandante, scrisse al conte Trecchi, notissimo
aiutante di campo di Vittorio Emanuele:
"Caro Trecchi,
Dite a Sua Maestà che le munizioni destinate per la nostra spedizione sono rimaste a
Genova; ora preghiamo Sua Maestà di voler dar ordine al Comandante della fortezza di
Orbetello di provvederci con quanto più può del suo arsenale.
Colonnello Turr."
Porgendo la lettera al Comandante, il Turr gli disse che siccome la risposta non
verrebbe se non forse in una settimana, su di lui Comandante peserebbero tutte le
incalcolabili conseguenze di quel ritardo; lo informò della spedizione; lo accertò
dell'intesa tra il Re e Garibaldi; insomma seppe far tanto che quell'ufficiale, solo
facendosi promettere che l'impresa non sarebbe volta contro gli Stati del Papa, diede
tutte le cartucce che aveva pronte, e casse di polvere e quei tre cannoni e quant'altre
cose poté. E tutto fu caricato e condotto a Talamone, dov'egli stesso volle recarsi per
veder Garibaldi e la spedizione. Vollero accompagnarlo due suoi ufficiali, e insieme il
maggior Pinelli che comandava un battaglione di bersaglieri, diviso tra Orbetello e Santo
Stefano. Temeva questi che quei soldati gli scappassero mezzi per imbarcarsi con
Garibaldi, e voleva pregarlo di non riceverli a bordo. Il Generale accolse tutti con grato
animo, ma non senza pensare che al Giorgini dovevano seguire de' guai. E gliene seguirono,
perché il povero Comandante fu poi tenuto a lungo nella fortezza di Alessandria
sottoposto a Consiglio di guerra; ma alcuni mesi dopo, nel tripudio della patria, fu
mandato sciolto di pena.
Ora dunque la spedizione possedeva anche delle artiglierie, e bisognava formare il
corpo dei Cannonieri. A ordinarli e comandarli venne messo il colonnello Vincenzo Orsini,
che per questo dovette lasciare la 2° Compagnia cui si era appena presentato. Egli
chiamò a sé quanti avessero già militato nell'artiglieria, e ne trovò una ventina. Ai
quali ne aggiunse dieci altri, inesperti nell'arma, ma studenti quasi tutti di matematica
nell'Università di Pavia. E fu di questo numero Oreste Baratieri, giovinetto sui
diciannove, pigliato appunto allora dalla fortuna che non lo abbandonò più per trentasei
anni, e doveva elevarlo tanto da farlo brillar come un astro e spegnerlo poi in un giorno,
come nulla, nel buio. Egli aveva allora compagni in quell'artiglieria strana, giovani come
lui, Luigi Premi da Casalnovo, Arturo Termanini da Casorate, saliti poi anche essi
nell'esercito nazionale e assai alti, ma senza clamori. Vi aveva Domenico Sampieri di
Adria, uomo di trentadue anni, avanzo della difesa di Venezia e degli esigli di Smirne e
d'Epiro, e divenuto anch'egli Generale dell'esercito nazionale. Rimasto oscuro e modesto,
vi si trovava insieme ad essi Giuseppe Nodari, da Castiglione delle Stiviere, anima
d'artista, che dappertutto laggiù avea sempre la matita in mano a schizzare dal vero
bivacchi, fatti d'arme e figure caratteristiche, delle quali s'ornò poi la casa dove
morì medico, trentott'anni di poi. E giovane mistico, nato per ogni sacrificio, vi stava
bene col Nodari l'ingegnere Antonio Pievani da Tirano, che già deliberato a farsi frate,
solo quando fu finita l'opera di rifar la patria, entrò nei Francescani, per andar
missionario nel mondo barbaro. E invece, tradito dalla salute, morì nel 1880, in una
cella del convento di Lovere, sul lago d'Iseo, sulle cui rive deliziose eran nati quattro
compagni suoi nei Mille, Zebo Arcangeli, Gian Maria Archetti, Carlo Bonardi e Giuseppe
Volpi, questi ultimi due a lui carissimi e morti in guerra.
Poiché ormai quel piccolo esercito aveva tutte le sue membra fuorché il Genio, fu
ordinato anche questo: una dozzina e mezza di operai, di macchinisti, d'ingegneri, con
Filippo Minutilli da Grumo d'Appula per Comandante, uomo di quarantasette anni, severo, di
poche parole, cui si leggeva in viso, e certo lo aveva dentro, qualche profondo dolore.
Pativa l'esilio dal 1849; era stato in Oriente, in Malta, in Piemonte; lasciava in Genova
coi figliuoli la moglie, eroica donna messinese, che si era sentita il cuore di cucire per
lui la camicia rossa, e di scendere alle porte di Genova, a dirgli addio, mentre egli
passava per andar a Quarto ad imbarcarsi.
Luogotenente del Minutilli fu l'ingegnere Achille Argentino, uno dei liberati l'anno
avanti dalle galere di Re Ferdinando, dei quali si è detto.
Formati così anche i piccoli corpi dell'Artiglieria e del Genio, gli uomini che vi
appartenevano andarono a piantar sul Piemonte un piccolo laboratorio. E subito, e i giorni
dipoi, pur non avendo strumenti, fabbricarono scatole di mitraglia con ogni sorta di
rottami e di lamiere di ferro rinvenute nelle stive dei due vapori. Con le lenzuola di
bordo fecero sacchetti per le cariche da cannone, e fabbricarono cartucce da fucile, metà
delle quali passarono sul Lombardo.
Tutto cominciava ad andare per bene: solo sembrava strano che la spedizione continuasse
a stare a perdere un tempo prezioso.
Ma nel pomeriggio dell'8 corse vagamente la voce che Garibaldi avesse deliberato di
gettarsi nel Pontificio, per marciare senz'altro su Roma. Una sessantina di uomini, presi
qua e là nelle campagne e raccolti in drappello, erano partiti sin dalla sera avanti, per
la strada che, girando il golfo, mena da Talamone in Maremma. Marciava alla loro testa un
Zambanchi. Era un forlivese già sulla cinquantina, quadrato, barbuto, di poca testa,
assai rozzo e millantatore. E aveva fama d'esser uomo di sangue, perché nel '49, a Roma,
era stato crudo contro tre preti, i quali, volendo entrare nelle città travestiti da
contadini, avevano dato del capo nei suoi avamposti. Egli li aveva tenuti prigionieri;
poi, senza averne ordine dal Governo, gli aveva fatti fucilare. Per tal suo fatto gli
pesava addosso l'accusa di sterminatore di preti e frati, e sin d'averne colmato un pozzo.
A chi non sapeva tutto, pareva che quella compagnia fosse l'avanguardia, e che la
spedizione dovesse tenerle dietro. E i più giovani lo credevano, ma gli anziani no. Delle
otto compagnie, Garibaldi ne aveva affidate tre a comandanti siciliani, una ad un
calabrese; ora come poteva darsi che egli volesse far loro il torto di non andare in
Sicilia? Però il fatto che quel piccolo drappello se n'era andato per entrare nel
Pontificio a farvisi distruggere forse ai primi passi, se tutta la spedizione non lo
volesse seguire, non si capiva. Vi era chi diceva che Garibaldi avesse fatto così, per
levarsi dai piedi quel Zambianchi che gli era odioso: ma altri faceva osservare che forse
si esagerava perché non a un uomo così fatto Garibaldi avrebbe dato da condurre quel
manipolo, in cui si erano trovati a dover andare dei giovani come il Guerzoni, il Leardi,
il Locatelli, il Ferrari, il Fumagalli, il Pittaluga, e avvocati, scrittori, scultori, e
quattro medici come Fochi, Bandini e Soncini da Parma, e Cantoni da Pavia, e tanti altri,
proprio gente già di conto. Pensavano forse meglio quelli che dicevano che il Generale
aveva mandato quel manipolo nel Pontificio affinché n'andasse la voce a Roma e a Napoli,
a generar confusione in quei governi; e che quanto al Zambianchi qualcuno, forse il
Guerzoni, avesse l'ordine di levargli il comando, se mai venisse l'occasione di doversene
liberare per qualche suo sproposito o qualche violenza.
Verso sera le trombe suonarono, le compagnie si ordinarono, scesero al porto, tornarono a
imbarcarsi sui due vapori. Quella tornata a bordo levò via ogni dubbio. E allora nacque
negli animi una generosa pietà per i compagni partiti. Che brava gente! Avevano compìto
il più duro sacrificio che si potesse ideare: perdevano la vista di Lui e l'epopea che
s'erano sentita nel pensiero, per andar a crearne un episodio oscuro, non sapevano dove,
pochi, bene armati, ma condotti da un uomo disamato. Parlando d'essi, molti confessavano
che comandati a quel passo non avrebbero ubbidito; ma i più lodavano l'ubbidienza di quei
sessanta come indizio di gran virtù, e testimonianza del più alto valore.
Garibaldi aveva fretta di partire, ma non aveva fatto imbarcare le compagnie per
questo. Alcuni dei suoi uomini per cattiveria o per braveria, avevano dato noia a qualcuno
di Talamone, ond'egli, sdegnato, si era risolto a levar tutti da terra. Così i due vapori
stettero carichi all'ancora tutta la notte dall'8 al 9; e solo all'alba salparono pel
golfo a Santo Stefano, breve tratto. La cittadetta si svegliava. Viste dal porto, le sue
case parevano edificate l'una a inseguir l'altra su su, per arrivare in alto a trovar i
giardini, i vigneti, gli oliveti pensili tra le rocce.
Vi scesero Bixio, Schiaffino e Bandi, per andare ai magazzini del governo, e in qualche
modo farsi dare carbone, perché la traversata della Sicilia era ancora lunga, e poteva
anche capitare di dover andare chi sa quanti giorni, fuggendo di qua e di là pel
Mediterraneo, perseguitati dalle navi napoletane. Il Bandi s'accostò al custode dei
magazzini e cominciò colle buone a tentarlo. Ormai sapevano tutti colà che Orbetello
aveva dato armi, e in quei giorni quel custode poteva fare uno strappo anch'egli ai
regolamenti. Ma colui nicchiava, e il Bandi non riusciva a convincerlo. Allora gli cadde
là Bixio, che preso al petto il custode fedele, lo scosse un poco, e, miracoli di
quell'uomo, il carbone andò a bordo per dir così da sé. E andarono a bordo e viveri e
barili d'acqua. V'andarono anche per imbarcarsi stormi di bersaglieri, ma Garibaldi aveva
promesso all maggior Pinelli di respingerli, e non li volle. Tre soli che poterono salire
a nascondersi sul Lombardo, seguirono la spedizione, e divennero poi ufficiali dei
migliori nella bella compagnia.
Durante la sosta a Santo Stefano furono distribuite le armi alle compagnie; solenne
momento! Faceva pensare a un altro ancor più solenne, quello di quando vicina l'ora della
battaglia, i reggimenti d'allora caricavano i fucili con quell'indescrivibile ronzio di
bacchette tutte piantate a un tempo nelle canne, che dava il raccapriccio e il cupo
sentimento della morte. Quelle armi erano vecchi fucili di avanti il '48, trasformati da
pietra focaia a percussione, lunghi, pesanti, rugginosi, tetri. Stava legata a ciascun
fucile una baionetta nel fodero cucito a un cinturone di cuoio nero, con certa piastra da
fermarselo alla vita e certa cartucciera proprio da far malinconia a provarsela. Oggi non
se ne vorrebbe servire, per così dire, neppure un bandito. Eppure nessuno se ne lagnò.
Insieme con quell'arma, ognuno ricevette venti cartucce, e se le mise a posto con gran
cura. Quelle povere cose erano tutte le risorse di cui Garibaldi poteva disporre. Povero
Garibaldi! Nell'ultimo momento che stette in quelle acque, un suo compagno d'altri tempi
che lo aveva seguito nei mari della Cina e che poi aveva perduto una gamba combattendo pei
liberali del Perù, bel soldato, vivacissimo ingegno, voleva seguirlo così mutilato
com'era anche a quella sua bella guerra. Egli dovette supplicarlo di andarsene, e infine
comandarglielo. Furono lagrime! Ma Stefano Siccoli dovè ubbidire, discendere, veder da
terra salpare l'ancora, stringersi il cuore perché non gli scoppiasse. Però aveva già
il suo proposito bell'e formato: egli avrebbe raggiunto Zambianchi.
Era quasi il tocco dopo mezzodì, quando il Piemonte e il Lombardo si mossero verso
l'isola del Giglio. Finalmente!
Garibaldi era stato tutti quei due giorni in angustia. Certo egli ignorava ciò che si
seppe poi, e cioè che il Ricasoli, governatore della Toscana, aveva telegrafato al
prefetto di Grosseto di "tenersi estraneo a quanto succedeva" nel golfo di
Talamone. Ma lo avesse anche saputo, temeva del Farini, temeva del Cavour, né avrebbe
potuto giustamente lagnarsi di loro, se gli avessero fatto giungere addosso la squadra di
Persano a pigliarselo. Il momento era ben più cruccioso che quello di Genova. Nei tre
giorni della sua partenza, tutta l'Europa avea avuto tempo di mettere il Governo di Torino
alla stretta o di catturare lui o di prepararsi alla guerra. E allora che rovina! Le genti
del mezzodì deluse e cadute nell'accasciamento; egli e il suo partito umiliati; Vittorio
Emanuele costretto a rinnegare il pensiero unitario! Ci sarebbero voluti molti anni a
rimetter su gli animi; e intanto, prima che tornasse un'occasione, sarebbero divenuti
vecchi, sarebbero forse morti il Re, Cavour, Mazzini, lui, tutta quella generazione; e non
si sapeva che cosa sarebbe poi avvenuto.
Ora dunque egli e tutti sulle due navi respiravano contenti. Girata la punta
dell'Argentaro, ecco a destra l'isola del Giglio con la sua costa erta e rocciosa e col
suo borgo su in cima. Una freschezza, una pace! Quanti di quei naviganti già vecchi e
stanchi avranno pensato di venirvi un dì a trovarsi un posticino lassù, per invecchiarvi
del tutto e morirvi, pensando alla loro odissea! Ma ora l'odissea non era finita, anzi
andavano a crearne forse l'ultimo canto.
Più in là del Giglio, Montecristo, l'isola dei sogni; e lungo la costa occidentale
dell'Argentaro a guardare in su torri, torri e torri. Che strano arnese da guerra doveva
essere stato quel monte! E poi a sinistra Giannutri, luogo da capre selvatiche e da
conigli.
Di là da quelle isolette i due vapori pigliarono il largo; dunque alle coste romane non
c'era proprio più da pensarci, e presto sarebbero entrati nelle acque napolitane.
Veniva ai Mille la sera e la malinconia. Cosa si pensava di loro nelle loro città, nei
loro villaggi, nelle loro case? Davvero tutta l'Italia doveva stare in grande ansietà.
Ormai la spedizione era via da quattro giorni; ogni istante poteva esser quello di una
grande tragedia, in qualche punto del Tirreno. Se i due vapori si fossero imbattuti nella
crociera napolitana, avrebbero dovuto arrendersi o avventarsi cannoneggiati contro le navi
borboniche, lanciarsi all'arrembaggio da disperati, e farsi saltar in aria con esse o
pigliarsele. Chi sapeva mai! Con Garibaldi e con Bixio alla testa, tutto era possibile. Ma
se invece fossero stati catturati e menati nel porto di Napoli, dove quel Re potesse veder
Garibaldi e i suoi là, sotto le finestre della reggia, prima di farli morire forse tutti,
o empirne le sue galere? Chi amava, pensava così e temeva e sperava; e forse non sarà
mancato chi anche peggio della cattura avrà augurato una tempesta di cannonate sui due
vapori e il fondo del mare a chi vi era su, per tomba.
Ma i due vapori andavano ancora sicuri. E andarono tutta la notte e tutto il giorno dipoi,
che era il 10, senza veder che cielo ed acqua come se fossero nell'Oceano. A bordo, i
pavesi cantavano. Tutto era quieto. Solo a una cert'ora prima del mezzodì, ci fu un po'
di trambusto, perché uno del Lombardo si era gettato in mare, pel dolore di non essere
riuscito a farsi inscrivere nei Carabinieri genovesi. Fu subito fermato il vapore; una
lancia vogò come saetta, giunse dove quell'uomo si dibatteva tra le onde, e uno della
lancia si chinò, lo tirò su mezzo morto ma come fosse un gingillo. Quel forte dalle
braccia così gagliarde doveva essere, era certo il figlio di Garibaldi. A bordo si diceva
così, perché così le moltitudini fanno la loro poesia, e infatti quel forte era proprio
Menotti.
Dopo, sul meriggio, il Piemonte cominciò a filar via più spedito e il Lombardo a
rimanere indietro. La distanza s'allungava ora per ora... Dove voleva andare il Generale
così solo? Forse aveva pensato di dividere in due la spedizione, per non correre tutti la
stessa sorte, se mai fosse stata avversa? Chi lo sapeva! Divisi, Piemonte e Lombardo,
l'uno o l'altro sarebbero riusciti ad approdare, e riuscendo tutt'e due, una volta
sbarcati, facile sarebbe stato riunirsi nell'isola.
Era un nuovo dolore per quei del Lombardo, poiché se Bixio era Bixio, ben più fortunati
erano coloro che si trovavano a correr le sorti del Generale, ora che la prova era così
vicina. Finire con lui come che fosse, ognuno se lo poteva augurare.
In un certo momento, mentre gli animi erano agitati così, Bixio chiamò tutti a poppa.
Era furioso: Aveva scaraventato un piatto in viso a uno che s'era lamentato dei superiori,
e aveva perduto a lui il rispetto. - Tutti a poppa! -
E Bixio di lassù, dal ponte del comando, fremente come un'aquila librata sull'ali, già
per piombare sulla preda, parlò:
"Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato
naufrago, prigioniero, ma son qui e qui comando io. Qui io sono tutto, lo Czar, il
Sultano, il Papa, sono Nino Bixio. Dovete ubbidirmi tutti: guai chi osasse un'alzata di
spalle, guai chi pensasse d'ammutinarsi. Uscirei col mio uniforme, colla mia sciabola, con
le mie decorazioni, e vi ucciderei tutti. Il Generale mi ha lasciato, comandandomi di
sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi impiccherete al primo albero che troveremo, ma
in Sicilia, ve lo giuro, vi sbarcheremo."
Veramente esagerava, perché l'atto di colui che lo aveva offeso era affatto individuale,
e non meritava quel suo fiero discorso. Però quand'egli ebbe finito e voltò le spalle,
forse per non farsi vedere commosso, tutte le braccia erano alzate a lui, tra grida di
lode. Ma da quel suo discorso parve a tutti di aver indovinato che il disegno di Garibaldi
era proprio di tentar lo sbarco, egli e Bixio, ognuno da sé. Difatti il Piemonte era già
quasi fuori della lor vista, sicché prima che fosse notte fatta, non ne scorgevano neppur
più il fumo. E passò sul Lombardo un soffio di gran malinconia. Erano congetture. Di
certo vi era che cominciava la notte dei pericoli veri. Ormai la marineria napoletana
doveva sapere da un pezzo che la spedizione era in mare, e che si era forse già tesa
tutta davanti all'isola ad aspettarla. Garibaldi andava ad esplorare.
Egli, prudentissimo e in guerra sempre geloso del proprio segreto, soltanto dopo salpato
da Santo Stefano, poiché allora nessuno avrebbe più potuto propalar nulla, aveva detto
al suo aiutante Turr di chiamargli Crispi, Castiglia e Orsini siciliani, per determinare
il punto di sbarco. E in quella conferenza, abbandonato il suo primo pensiero di scendere
a Castellamare del Golfo, aveva deliberato di tentarlo a Porto Palo, sulla costa tra
Sciacca e Mazzara, dove è fama che il 16 giugno dell'827 siano sbarcati i primi Saraceni
che invasero l'isola, chiamati e guidati da Eufemio di Messina. Ma certamente questo fatto
di mille anni avanti non entrò per nulla nella scelta di Garibaldi: perché né egli, né
quegli uomini che stavano con lui, se anche lo sapevano, erano teste da fissarvisi su.
Comunque sia, per andare a Porto Palo, i due vapori dovevano fare falsa rotta verso la
Berberia, e poi, se le acque parevano libere, voltar di colpo verso Sicilia a trovarlo.
Ma assai dopo il mezzo di quella notte dal 10 all'11, Garibaldi giunto presso l'isoletta
di Maretimo, che nel gruppo delle Egadi è la più lontana dalla costa di Sicilia,
deliberò di fermarsi celato dall'isoletta e a lumi spenti, per aspettare il Lombardo. Da
ponente e da tramontana vedeva i fanali delle navi napolitane in crociera, e in quei
momenti doveva parergli d'esser ne' suoi tempi quasi favolosi di Rio Grande d'America.
Stato un pezzo in quel silenzio come in agguato, inquieto pel Lombardo che non appariva,
tornò indietro per cercarlo. E coloro che stavano sul Lombardo e che a quell'ora
vegliavano, quando rividero il Piemonte lo credettero una nave nemica che corresse loro
incontro a investirli. Lo credette lo stesso Bixio. Piantato sul suo ponte, egli fece
levar su tutti e inastar le baionette; comandò al macchinista di dar tutto il vapore, e
al timoniere di voltar tutto a sinistra, per andare alla disperata addosso a quel legno. A
prora Simone Schiaffino, capitan Carlo Burattini d'Ancona, Jacopo Sgaralino di Livorno,
con dietro una folla, stavano pronti per lanciarsi all'arrembaggio, tutto il ponte del
Lombardo fremeva, e mancava poco al grand'urto. Ma allora sonò la voce di Garibaldi:
- Capitan Bixio!
- Generale! - urlò Bixio. - Indietro! Macchina indietro! Generale, non vedevo i fanali.
- E non vedete che siamo in mezzo alla crociera nemica? -
La commozione era stata così grande, il passaggio dallo sgomento, dall'ira, dalla ferocia
alla gioia così repentino, che la parola 'crociera' non fece quasi niun senso, e tutto
fino a un certo segno tornò quieto. Intanto Garibaldi e Bixio si concertarono, poi i due
vapori ripresero la via l'un presso l'altro verso l'Africa, sempre però il Piemonte un
po' avanti. Così andarono fino all'alba, e per le prime ore del mattino, in quell'acque
tra la Sicilia e le coste di Barberia, ma senza mai perder di vista il gruppo delle Egadi;
Levanzo lontana, Maretimo più in qua, ancor più in qua verso loro la Favignana. A bordo
del Lombardo un Galigarsia, nativo di quell'isoletta, povero milite che doveva morire
quattro giorni dipoi a Calatafimi, diceva ad un gruppo di quei suoi compagni che in
quell'isoletta così bella v'era un carcere profondissimo sotto il livello del mare, dove
stavano chiusi sette compagni di Pisacane sopravvissuti all'eccidio di Sapri. Condannati
al patibolo e poi graziati, morivano ogni ora un po' in quella fossa maledetta.
Ma il sentimento del pericolo presente, la maravigliosa vista delle cose in contrasto col
disgustoso stato in cui tutti si trovavano, pigiati da tanto tempo su quel legno, non
lasciavano quasi posto alla pietà per chi dolorava altrove. Del resto, l'ora era
decisiva: o presto quei miseri sarebbero usciti liberi, o avrebbero avuto dei nuovi
compagni.
Tutti intanto sui due legni stavano accovacciati per ordine severissimo dei Comandanti,
ma tutti guatavano dall'orlo dei parapetti certi monti che dapprima parevano nuvolaglia e
che svolgevano via nell'aria vaporosa i loro profili sempre più netti. Quei monti per
quei cuori eran già tutta la Sicilia che si animava, che esultava, che cantava alla loro
venuta. E poco appresso, quando cominciò ad apparire una striscia bianca tra mare e
terra, si diffuse la voce che là fosse Marsala.
Marsala! Tra quella e i due vapori erano libere le acque. Che fortuna! Pareva che quella
striscia bianca e tutta la terra movesse loro incontro, tanto la distanza si stringeva,
tanto i due legni filavano agili, aiutati anche da un po' di ponente che appunto allora si
era messo. Dunque ancora forse qualche breve ora, e i due vapori avrebbero atterrato.
Tutto dipendeva da questo, che non si staccassero da Marsala navi da guerra a incontrarli
a cannonate. Ma la speranza era grande.
Sul ponte del Piemonte che andava sempre avanti, quei del Lombardo vedevano Garibaldi
circondato da un gruppo dei suoi, coi cannocchiali all'occhio. Guardavano due legni da
guerra bianchi, ancorati nel porto. Ad un tratto il Piemonte rallentò, si fermò quasi,
pigliò su qualcuno da una barca peschereccia che veniva da Marsala. E da colui Garibaldi
seppe che quei due legni erano inglesi; che dal porto di Marsala, nella notte, n'erano
partiti due napolitani per Sciacca e Girgenti; che in quella mattina stessa delle milizie
venute il dì avanti eran tornate via dalla città, dirette a Trapani. La fortuna, dunque,
era proprio tutta dalla parte di Garibaldi! E il Piemonte filava e il Lombardo dietro con
Bixio, che non sapendo ciò che Garibaldi sapeva, tempestava i suoi di star giù,
minacciava ira ai marinai se gli sbagliassero manovra: Ma di sbarcare era anch'egli
sicuro: anzi a un certo momento che passò vicino al suo un piccolo legno inglese, egli
gridò: "Dite a Genova che il general Garibaldi è sbarcato a Marsala oggi 11 maggio,
alle una pomeridiana!"
Quella sicurezza di Bixio passò in tutti i cuori. Perciò non fece quasi senso
l'apparizione di due pennacchi neri, lontani, in giù a destra; fumo di due navi da guerra
certo, che dovevano venire a furia. Fulmini se mai giungessero in tempo! Ma esse quel
tanto spazio non potevano divorarselo; la terra era ormai vicinissima: si distingueva già
il molo e fino la gente. Un altro po' di ansietà, poi...
E poco appresso il Piemonte imboccava il porto, e vi si andava a posare in mezzo come
in luogo suo. Bixio, nella rapina dell'animo tempestosa, lanciò il Lombardo come un
cavallo sfrenato, andasse pure ad investire, a spaccarsi, magari a sommergersi, tanto
meglio! Così, una volta sbarcati, quelli che vi stavan su avrebbero capito che non v'era
più via di ritorno. E si fermò così fuori del molo destro, a poche braccia da quella
riva. Era il tocco dopo mezzodì. Nessuna poesia potrà mai dire l'anima di quella gente
in quell'ora.
Ecco il momento degli uomini di mare. Benedetto Castiglia, capo della marineria da guerra
sicula nel 1848; capitano Andrea Rossi da Diano Marina, capitan Giuseppe Gastaldi da Porto
Maurizio, Burattini, Assi, Sgarallino, Schiaffino e tutti quelli che com'essi erano
marinai, scesero a raccoglier nel porto quante barche vi si trovavano. E per amore o per
forza le fecero lavorare.
Bisognava far presto a levar la gente e le poche cose da guerra e le artiglierie dai due
vapori, perché in men di due ore quelle navi che si vedevano sempre più vicine potevano
giungere a tiro e fare una strage. Intorno al Lombardo e al Piemonte parve un finimondo.
Intanto Turr con Missori, Pentasuglia, Argentino, Bruzzesi, Manin, Miocchi, discesi primi,
salirono alla città, su cui cominciavano a sventolare bandiere d'altre nazioni, ma le
più inglesi. E dalla città alcuni cittadini calavano al porto timidamente. Dei ragazzi
li precedevano a corsa; sopraggiungevano frati bianchi, che davano poderose strette di
mano a quegli strani forestieri sbarcati in armi e tutti vestiti alla borghese, salvo
pochi in qualche divisa piemontese o in camicia rossa, forse una cinquantina. E quei frati
facevano delle domande strane, da curiosi ma semplici; e udendo da uno dir che era di
Venezia, da un altro di Genova, di Milano, di Roma, di Bergamo, inarcavano le ciglia,
maravigliati come se l'esser essi potuti giungere nella loro Sicilia da quelle città,
fosse cosa quasi fuori del naturale.
In un'ora o in un'ora e mezzo al più, tutta la spedizione fu a terra. Qualcuno si
ricordò che quel giorno era venerdì, malaugurio; qualcun altro disse che era pur
venerdì il giorno in cui Colombo partì da Palos, e che andassero al vento le
superstizioni...! Ma a un tratto tuonò una prima cannonata. Le navi borboniche giungevano
a tiro.
Erano tre: due a vapore più vicine, la terza a vela tirata a rimorchio da una di esse e
lasciata poi indietro per far più alla lesta. Ma anche quella si avvicinava. E avrebbe
potuto tirar qualche poco prima, ma avevano indugiato alquanto i lor fuochi, perché i due
legni inglesi Argus e Intrepid ancorati nel porto avevano pregato a segnali di bandiere di
non tirare, finché i loro uffiiciali da terra non fossero tornati a bordo. Difatti dei
marinai in calzoni bianchi uscivano da Marsala e scendevano frettolosi al mare. E allora
quelle navi cominciarono a sfogarsi contro gli sbarcati, le due a vapore con tiri quasi in
cadenza, quella a vela addirittura a fiancate.
Però i loro proiettili o davano in acqua, sguisciando poi a rotolar sulla riva già mezzi
morti, o non oltrepassavano guari la linea del molo. Cadde qualche granata in mezzo alle
compagnie già ordinate, ma queste pronte, si gettarono a terra e lasciarono scoppiare:
una di quelle colpì e sfasciò mezzo un casotto da doganieri del molo; un'altra fece
tremare la settima Compagnia, passandole parallela alla fronte, così che due braccia più
a sinistra la mieteva tutta. "Alte le teste!" gridò Cairoli; e la Compagnia
stette salda.
Alfine fu dato il comando di salire alla città. Manin e Maiocchi regolavano la corsa a
gruppi. Un po' curvi, un po' carponi, un po' ritti, regolandosi alle vampate dei cannoni
nemici, correvano quei gruppi su per il pendio verso la porta della città e vi entravano.
Cara Marsala! E di qua e di là si spandevano per le vie traverse, perché in faccia a
quella maestra era andata a porsi una delle fregate, e tentava, coi suoi tiri, d'infilare
la porta. Poca gente per quelle vie; degli usci si chiudevano; dalle soglie d'altri usci e
dalle finestre donne e uomini guardavano paurosi; e ve n'erano che applaudivano, i più
parevano gente trasognata.
Garibaldi, sbarcato degli ultimi, saliva anch'egli ma lento alla città, portando la
sciabola sulla spalla come un contadino la zappa. E ogni poco si volgeva a guardar il
porto. Gusmaroli e altri pochi che lo seguivano, avrebbero voluto portarlo via di peso dal
pericolo d'essere ucciso o soltanto ferito in quel primo istante. Senza di lui non si
sapeva cosa sarebbe stato di quel gruppo d'uomini, fossero pur molti i grandi e i forti
tra loro. Egli da solo era un esercito. Ma nessuno osava dirgli che si guardasse, nessuno,
neppur Bixio, venuto via addirittura l'ultimo da bordo. Egli aveva voluto prima far
portare a terra tutto ciò che gli era parso buono a qualcosa, poi non avendo più nulla
da farvi, aperti egli stesso i rubinetti delle macchine affinché il Lombardo s'empisse
d'acqua, era disceso.
Intanto le navi borboniche continuavano a tirare. E fu saputo subito che le due fregate a
vapore si chiamavano Stromboli e Capri, e che quella a vela, tanto maestosa, era la
Partenope. Ah! La Stromboli! V'erano tra gli sbarcati quei tali sette che vi avevano
navigato su nel 1859 fino a Cadice, con gli altri deportati che dovevano andare a finire
in America. Ora la riconoscevano ai profili. Non erano più quei tempi, sebbene fossero
ancora tanto vicini: né era più l'11 luglio del 1849, quando, comandata da un Salazar,
la Stromboli aveva inseguito i trabaccoli siciliani che, fallito loro lo sbarco in
Calabria, andavano a rifugiarsi nelle Ionie. Lo Stromboli allora aveva issato bandiera
inglese, perfidamente ingannando quei siciliani, e li aveva catturati e condotti a lunghe
pene nelle carceri dei Borboni. Adesso era lì mortificata con quegli altri due legni, cui
non restava che pigliarsi il Piemonte per menarlo via. Quanto al Lombardo l'avrebbero
dovuto lasciar là giacere, come un mostro marino sputato sulla spiaggia.
Testimoni di quei fatti stettero i due vapori inglesi, ammirando la discesa e la prontezza
e l'ordine con cui tutto era avvenuto. E non sapevano che si sarebbe subito gridato e
ripetuto poi lungamente pel mondo che essi avevano aiutato Garibaldi, e che anzi per
aiutarlo s'erano trovati là apposta. Furono voci false. L'Argus stava in quel porto da
parecchi giorni per proteggere gli inglesi residenti in Marsala, L'Intrepid v'era giunto
di passaggio da poche ore, e poche ore dopo se n'andava per Malta.
A guardia del porto, se mai dalle navi borboniche sbarcasse della gente, rimasero la
7° Compagnia e i Carabinieri genovesi. Con le loro infallibili carabine, quei genovesi,
che, per dir così, davano in una capocchia di chiodo a trecento metri, avrebbero presto
levato ogni voglia di sbarcare a chi l'avesse tentato. Da mare dunque Garibaldi non aveva
da temere. Da terra sì. Per questo mandò ricognizioni verso Trapani e verso Sciacca,
fece uscire dalla città quanto poté più delle Compagnie, fors'anche non si fidando dei
vini del paese pei loro effetti sulle teste di quei suoi uomini, i quali in cinque giorni
non avevano mangiato che poco biscotto e bevuto acqua di botte quasi imputridita. Per
esplorare il paese montò egli stesso sulla cupola della Cattedrale, cui passarono subito
ben vicine due granate delle navi che avevano visto gente lassù. Disceso andò al
Municipio, e di là disse alla Sicilia la sua prima parola:
"Siciliani!
Io vi ho condotto un piccolo pugno di valorosi, accorsi alle vostre eroiche grida,
avanzi delle battaglie lombarde. Noi siamo qui con voi, ed altro non cerchiamo che di
liberare il vostro paese. Se saremo tutti uniti sarà facile il nostro assunto. Dunque,
all'armi!
Chi non prende un'arma qualunque, è un vile o un traditore. A nulla vale il pretesto che
manchino le armi. Noi avremo i fucili, ma per il momento ogni arma è buona, quando sia
maneggiata dalle braccia di un valoroso. I Comuni avranno cura dei figli, delle donne, dei
vecchi che lascerete addietro! La Sicilia mostrerà ancora una volta al mondo, come un
paese, con l'efficace volontà d'un intero popolo, sappia liberarsi dei suoi
oppressori."
Di questo proclama, affisso alle cantonate di Marsala, furono mandati esemplari alle
città vicine, e lontano alle squadre che tenevano i monti. Bisognava che la gran voce
andasse, e infiammasse la rivoluzione già quasi vinta.
I Marsalesi leggevano e cominciavano a comprendere, coloro che cinque giorni avanti non
avevano osato insorgere al grido di Abele Damiani, loro concittadino, adesso pigliavano
animo, seguisse poi ciò che potesse, perché con quegli italiani c'erano pur Crispi, La
Masa, Orsini, Palizzolo, Carini, tutti dei loro, proprio dell'isola, e tutti già celebri
fin dal '48. E poi avevano visto Lui, Garibaldi in persona. Se la colonna del generale
Letizia, che il giorno avanti aveva fatto la sua comparsa minacciosa, e se n'era andata
credendo di lasciarsi dietro tutto tranquillo, fosse anche rinvenuta; avrebbero avuto da
far con Garibaldi, con quei suoi ufficiali facili a riconoscersi per uomini di guerra sul
serio, con quella gente un po' d'ogni età ma pratica d'armi e disciplinata, con loro
infine e con al loro città che si sarebbe difesa.
Anche il popolino pigliava via via confidenza con quei forestieri. Nelle taverne, nelle
botteghe dove essi entravano per rifocillarsi e provvedersi di qualche cosuccia
necessaria, la gente faceva subito folla. E si tratteneva a sentirli parlare. Come erano
buoni e cortesi! Le donne osservavano che molti portavano i capelli lunghi, cosa strana
per soldati, e che avevano gli occhi azzurri e le mani e i panni indosso da veri signori.
I bottegai ricevevano le monete con su l'effigie di Vittorio Emanuele, mirando e facendo
mirare i gran baffi del Re di cui avevano sentito parlar vagamente, domandavano se
Garibaldi fosse suo fratello. Davano i resti in mucchi di monete luride e fruste, e
facevano tutto gli uni e gli altri con gran fidanza. Quelle non erano ore da inganni.
Correvano intanto dei racconti curiosi di particolari minuti dello sbarco, un fatterello
seguito qua o là, a questo o a quell'altro di questa, di quella Compagnia. Faceto, nel
serio, ma vero, si diceva che appena sceso a terra, un Pentasuglia, pratico del mestiere,
era entrato nell'ufficio del telegrafo, dove l'impiegato aveva appena finito di annunziare
a Palermo e a Trapani che gente armata sbarcava da due legni sardi. Ripicchiavano appunto
da Trapani, domandando quanti fossero gli sbarcati; e il Pentasuglia aveva risposto egli
stesso: - Mi sono ingannato, sono due vapori nostri. - Poi, stato un istante ridendo a
sentirsi dare dell'imbecille da Trapani, subito aveva tagliato il filo.
*
Dunque la gran notizia era andata, e a quell'ora la avevano già a Napoli nella reggia.
Ivi che sgomento e che collera! Se ne aspettavano ben altra. Il giorno 6 avevano saputo
della partenza di Garibaldi da Genova, e protestato col telegrafo a tutte le Corti
d'Europa contro il Pirata e contro chi lo doveva aver favorito. La mattina del 7, il Re
era andato a far le sue divozioni a San Gennaro, e il Governo aveva mandato ordini alla
flotta "d'impedire a ogni costo lo sbarco dei filibustieri; di respingere con la
forza; di catturare i legni." Poi erano stati quattro giorni d'angoscia mortale. E
ora lo sbarco era avvenuto! Ma ancora assai che l'invasore era andato a mettersi dal punto
più lontano dalla Capitale! Tempo e spazio per schiacciarlo non sarebbe mancato. Pure il
colpo era tremendo.
Ancor più tremendo il colpo doveva essere sentito a Palermo, dove il luogotenente del Re,
principe di Castelcicala, e i generali e l'esercito avevano così vicino l'uomo temuto.
Chi sapeva mai in quale trambusto era la gran città, se anche la popolazione era già
venuta a conoscere che il Garibaldi annunziato da Rosolino Pilo stava in Sicilia davvero?
Intanto a Marsala bisognava vegliare. Potevano giungere nella notte numerose truppe da
Trapani, da Sciacca, dal mare; e l'impresa garibaldina, così ben riuscita nella
traversata e nello sbarco, finire là in quella piccola città come già quella di
Pisacane a Sapri.
Ma la notte passò tranquilla; verso l'alba furono ritirati gli avamposti, raccolte le
compagnie e tutto approntato per la prima marcia verso l'interno.
|