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Storia dei Mille

Storia dei Mille, di Giuseppe Cesare Abba

Copertina Parte 01 Parte 02 Parte 03 Parte 04

In questa sezione:


In marcia alto

Alla chiamata non mancava neppure un uomo. Ed era naturale. Ognuno sentiva in sé il pericolo di rimaner isolato; ognuno, per quanto piccolo, aveva coscienza della propria responsabilità. Quasi staccati dal mondo, ridotti per dir così in un campo chiuso dove erano discesi a mettersi da sé, comprendevano, chi più chi meno, molti forse confusamente, che trovarvisi non voleva dire soltanto essere in guerra contro altri soldati ne' quali da un'ora all'altra si sarebbero imbattuti; e che quella che erano venuti a cercare non era una guerra come tutte le altre. Vincere dovevano ad ogni costo, perché dall'isola non potevano più uscire che vincitori; ma soprattutto bisognava non lasciar perire Garibaldi. Era coscienza dunque che ognuno desse tutto sé stesso, e che tutti insieme si facessero amare dal popolo siciliano per virtù e purezza in tutte le azioni. Perciò si udirono fieramente rimproverar dai compagni certi pochi che nella notte s'erano dati bel tempo. Diceva Enrico Moneta da Milano, piccolo soldatino della 6° Compagnia, di diciannove anni, uno dei quattro fratelli che l'anno avanti erano stati Cacciatori delle Alpi, diceva che chi era là per aiutare quel mondo a mutarsi, doveva badare ad essere austero ancor più che prode. - Per di più, quella che stava per accendersi era sotto un certo aspetto una vera guerra civile. E se per quella trafila doveva passare l'Italia a divenire nazione, bisognava badare a farsi onore e a far onore anche al nemico pur vincendolo, per lasciargli possibile l'oblio della sconfitta senza viltà, e facile e pronto il ritorno all'amore.
Tali spiriti si venivano formando negli animi anche di quelli che non avrebbero saputo spiegarsi a manifestarli, così come uno quasi senza che se ne avveda si ritempra d'aria pura.

Schierate fuor di Marsala sulla via che mena a Sciacca, stavano tutte le compagnie con gli altri piccoli corpi. Il tempo era bello e fresco, la guazza sull'erbe magre di quello spiazzo pareva quasi una brinata. Il mare dormiva: lontani, già verso l'Egadi, i legni napolitani rimorchiavano il Piemonte. E per tutto era una quiete diffusa, anche nella città che pareva avesse già dimenticato il turbamento del giorno innanzi. Pochi cittadini si aggiravano intorno alle compagnie. Qualcheduno armato di doppietta era là per seguirle. Faceva senso tra gli altri un signore, forse di trentacinque o quaranta anni, taciturno e pensoso. Si chiamava Gerolamo Italia. Egli di là fino all'ultimo di quella guerra nel Regno, marciò poi, fido alla 6° Compagnia, semplice milite, sempre pensoso e modesto.
Una tromba suonò in distanza, poi comparve Garibaldi a cavallo. Indossava camicia rossa, portava i calzoni grigi da generale ma senza le strisce d'argento, e in capo teneva il suo solito cappello dalla foggia che allora si diceva all'Orsini o anche all'ungherese, come glielo hanno poi fatto gli scultori quasi in tutti i monumenti; e gli sventolava dietro un gran fazzoletto annodato al collo. Teneva il mantello americano ripiegato sull'arcione davanti. Dietro di lui cavalcavano il suo stato maggiore e alcuni delle Guide, Nullo tra gli altri, bellissimo nella sua divisa del '59, tutta grigia con alamari neri e galloni da sergente. Pareva col suo cavallo un solo getto di bronzo. Il Missori indossava la giubba rossa da ufficiale con alamari d'oro.
Al passaggio del Generale non furono presentate le armi. Egli certe cose non le voleva. Tirò via, guardando le Compagnie molto ilare in viso; poi queste si mossero, fianco destro, trombe in testa e partirono. Quelle trombe suonavano le arie semplici ma pungenti de' bersaglieri di La Marmora; il passo delle compagnie era franco, nessuno si sentiva più mareggiare il terreno sotto, come il giorno innanzi dopo lo sbarco; e quando spuntò il sole cominciarono i canti.
A forse un miglio da Marsala, la testa della colonna svoltò per una via traversa che, staccandosi dalla consolare, menava verso l'interno tra vigneti allora già in pieno rigoglio. Passati i vigneti cominciarono gli oliveti, e pareva che quella prima marcia dovesse condurre a vedere meravigliose colture. Verso le undici la colonna fece il grand'alto in una conca, presso una casa bianca, fresca, silenziosa, con a ridosso delle fitte macchie d'olivi vetusti. Là, Garibaldi, seduto a' piedi d'uno di quegli alberi, come se fosse l'ultimo di quella gran Compagnia, si mise a mangiar del pane. Tutta la conca era popolata di gruppi, tutti mangiavano gagliardamente il saporito pane di Marsala; quanto a bere, pei novellini che s'erano imbarcati senza fiaschetta, c'era presso la casa un pozzo, e intorno a questo molti facevano ressa contendendosi un poco d'acqua. Il Generale guardava con certa compassione quei poveri ragazzi: "Poveri ragazzi!" come fu udito dire egli stesso.
Ripresa la marcia, spuntato il valichetto del colle in cui giaceva quella conca, la colonna si vide davanti una distesa ondulata senz'alberi, senza case, il deserto. - Come la Pampa! - dicevano alcuni che nella loro vita avevano visto l'America. E in quel deserto s'inoltrò la spedizione, sotto un sole, ah che sole! E che peso i panni! Felici coloro che ne avevano appena indosso tanto da non andare scoperti.
E quella prima marcia fu una gran prova, ma nessuno rimase indietro. Eppure c'erano dei giovanetti che ad ogni passo parevano doversi lasciar cadere in terra sfiniti. Ma lo spirito li reggeva, e continuavano a marciare, aiutati anche dai compagni più esercitati che levavano loro fino il fucile, tanto che ricogliessero un po' di fiato.
Dove mai si sarebbero fermati?
Per quanto guardassero a sinistra, a destra e davanti, nulla, mai un ciuffo d'alberi, mai una casa. Cosa era dunque la Sicilia già granaio d'Italia? Degli uomini pratici di campi dicevano che tutta quella miseria dipendeva dal disboscamento, altri che dai latifondi, dal feudalesimo, dai frati. Il fatto era che quel deserto metteva un senso di sgomento nei cuori. Là sarebbe stato bello trasformarsi in un esercito di legionari alla romana con la marra, la vanga, gli aratri di Lombardia! Ma là non c'erano le acque di Lombardia; anzi non ci si trovava neppure da dissetarsi. E alcune voci intonavano il coro del Verdi: 'Fonti eterne, purissimi laghi...'

*

Finalmente quando già si faceva sera, apparve lontano un corpo di casa massiccio e scuro, su di un rilievo un po' più spiccato di quella campagna. Era il maniero di Rampagallo, quello che si chiamava bellamente feudo, come se là il feudalesimo fosse ancora una cosa viva. E tutto, dai muri massicci, alle finestre, alla gran porta, ai cortili dentro, ai contadini che vi si aggiravano, tutto vi aveva infatti una fisionomia d'antichità corrucciata.
Le Compagnie si accamparono davanti a quel vasto casamento su di un pendio erboso, che dopo l'arsura della lunga giornata pareva dar un carezzevole senso di refrigerio. A pié dei loro fasci d'arme, mangiarono il loro pane, e in silenzio si addormentarono.
Ma i pochi che per servizio dell'accampamento vegliavano, videro di prima notte entrar nel gran cortile di Rampagallo una piccola schiera d'uomini, forse sessanta, condotti da tre o quattro cavalieri, alti su degli stalloni piuttosto che sellati, bardati, con attraverso sulle cosce dei lungi fucili. Gli uomini a piedi erano armati di doppietta, con alla vita la ventriera per le cartucce e qualche pugnale. Vestivano panni strani, parecchi avevano sopravesti e cosciali di pelli caprine, e portavano in capo dei berretti quasi frigi o dei cappellacci a cencio. I loro capi, fratelli Sant'Anna e barone Mocarta, passarono da Garibaldi. Egli fece liete accoglienze a quel primo manipolo che la Sicilia armata gli dava; la scena era quasi da medio evo: pareva proprio che in quelle ore in quel luogo quei signori fossero giunti per prestare l'omaggio a un conquistatore.
Ma Garibaldi che sapeva ricevere come un re, nello stesso tempo sapeva parere quasi inferiore a chi gli si presentava, onde quel fascino e quel suo dominio sui cuori, da cui subito quei siciliani si sentirono presi. E uscivano da quel ricevimento, magnificando.

A Salemi alto

A levata di sole, il giorno appresso che era domenica, la colonna si mise in cammino. Andava alla testa la 1° Compagnia con Bixio, il quale aveva l'ordine d'avanzarsi fino a Salemi, grosso borgo che fu presto veduto apparire lontano in cima a un monte. Bella vista a guardarlo, ma poveri petti! La salita lassù fu faticosissima e lunga; però, quando le compagnie vi giunsero, provarono un forte compiacimento. Tutta la gente aspettava gridando: "Garibaldi! Garibaldi!" storpiandone il nome con alterazioni strane; ma insomma era un vero delirio. E le campane squillavano a festa; e una banda suonava delle arie eroiche. Via via che le compagnie giungevano nella piazza, si trovavano avvolte da uomini, da donne, persin da preti; e tutti abbracciavano, molti baciavano, molti porgevano boccali di vino e cedri meravigliosi. Ma v'erano anche dei poveretti, troppi! i quali stendevano la mano per dar a capire d'aver fame, facevano certi segni da parer nemici se non fossero stati i loro occhi pieni di umiltà. - E noi pure abbiamo fame! - rispondevano quei soldati stizziti, ma parecchi davano degli spiccioli a quella povera gente, che largiva loro dell'Eccellenza.
E Garibaldi qual è? Domandava la folla. Passava Turr. E' questo? No. Passava Carini. Dunque sarà questo? No. Ognuno dei più belli e prestanti tra i grandi della spedizione, per essa doveva essere Garibaldi. Chi sa quale se lo immaginavano! Ma quando lo videro, quei siciliani quasi quasi si inginocchiarono. Oh che viso, che testa, che santo! Egli sorridendo si levò come poté dalla turba, e andò a mettersi al suo lavoro.
Cominciava così a formarsi intorno a lui la leggenda che pigliò poi tante forme; da quella che un angelo gli parasse le schioppettate, a quell'altra che fosse parente di Santa Rosalia e fin suo fratello.
Stettero poco a giungere delle cavalcate da tutte le parti, e poi drappelli di insorti come quei della notte avanti, a cento, ducento, trecento; e chi portava lo schioppo ancora a pietra focaia, chi la doppietta, chi fino il trombone. I più erano armati di picche, e tutti insieme, per quelle viuzze a salite e discese ripide, facevano un chiasso più da sagra che da rivoluzione. Ma si udivano anche delle grida ingiuriose ai Borboni, e delle canzoni che ferivano il nome di Sofia regina. E spiacevano.
Dopo mezzodì fu affisso alle cantonate un proclama.
Ah! Ora dunque tutto è nelle mani sue! - dicevano i militi, e pareva loro che quel titolo di Dittatore infondesse una forza di disciplina superba. E pensavano al nemico. Non si sarebbe fatto vedere! O bisognava andare a trovarlo? Già, di salir lassù a Salemi per trovar loro, non avrebbe certo tentato. Chi sapeva mai! Ma a buon conto, già dalle prime ore, erano partiti per gli avamposti i Carabinieri genovesi, e più lontano ancora era andata una mezza squadra della Compagnie di Bixio. In quella squadra, comandata dal giovanissimo Ettore Filippini veneziano, si trovavano da semplici militi Raniero Taddei ingegnere e Antonio Ottavi tutt'e due da Reggio Emilia, ufficiali esperti e considerati nelle guerre passate; e così da quella parte il servizio di campo era bene affidato.
Intanto gli artiglieri avevano già piantato alla meglio una sorta di officina, dove lavoravano a costruir gli affusti pei canoni di Orbetello. Giuseppe Orlando e Achille Campo, coi soli e primitivi strumenti che avevano potuto trovare dai carrai di Salemi riuscivano a far miracoli di meccanica; e il giorno dipoi i tre cannoni e la colubrina, rimessa un po' a nuovo anch'essa sul suo carretto, facevano buona promessa che nello sparo non si sarebbero, rimboccandosi indietro, avventati addosso ai loro serventi.
E quel giorno fu veduto giungere in Salemi un giovane monaco, raggiante di quell'allegrezza che ognuno ricorda d'aver letto in viso ai sacerdoti del '48. Chi non aveva udito benedire la patria da qualche pulpito, in quell'anno che pareva ancora tanto vicino? E poi appresso, dall'oggi al domani, le chiese erano divenute mute. Pio IX s'era disdetto, e la coscienza delle moltitudini tra la patria e la religione s'era confusa. Pure, a non lungo andare, le moltitudini avevano poi ripreso lume da sé, e poiché la patria doveva a ogni modo rifarsi, o s'erano messe ad aiutar la grand'opera, o se non altro avevano lasciato che si andasse svolgendo, spettatrici non ostili né indifferenti. Ma laggiù nell'isola, dove il clero viveva ancora delle passioni civili del popolo, i sacerdoti in generale erano caldi patriotti.
Quel monaco si chiamava fra Pantaleo. Era un bello e robusto giovane di forse trent'anni, che parlava come se fosse uscito allora da un cenacolo miracoloso, donde avesse portato via il fuoco degli apostoli nell'anima e nella lingua. Piacque ma non a tutti. Tra quella gente dell'alta Italia, v'erano i diffidenti e gli avversi per sistema agli uomini di chiesa; ma poiché Garibaldi accolse bene il monaco, e lo chiamò l'Ugo Bassi delle sue nuove legioni, anche quelli rispettarono il frate e lo lasciarono predicare. Intanto riconoscevano che la parola di lui immaginosa e ardente era una forza di più.
Continuavano ad arrivare squadre alla spicciolata, e tra quello scorcio di giornata e tutta l'altra appresso si poté calcolare alla grossa che quegli insorti fossero già due migliaia. Non dovevano essersi mossi da lontanissimo, anzi era da presumersi che fossero tutti della estrema parte occidentale dell'isola; dunque una volta che Garibaldi si fosse avanzato verso il centro, si sarebbe trovato tra popoli che avrebbero fatto levar su il fiore della gioventù pronta a seguirlo. Frattanto quelli che erano già lì si mostravano ossequenti, guatavano con occhio cupido i fucili del Mille, che per quanto meschini erano sempre armi da guerra; ma discorrendo di fatti d'arme, essi così saldi a star al fuoco e a sparar da fermi contro il nemico, essi così destri e fieri nei loro duelli ad armi corte, se sentivano parlar d'attacchi alla baionetta, quasi raccapricciavano.
Piovve dirotto tutta la notte tra il 13 e il 14, e poi tutto quanto questo giorno con tedio grande e grande stizza di tutti, perché il mal tempo li faceva indugiar lassù in quell'ozio. Ed essi erano tormentati da un desiderio inquieto di trovarsi alla prima prova, per esperimentare il nemico con cui avevano da fare, e di cui, non sapendo nulla di preciso, sentivano dir le cose più stravaganti. Neppur dagli avamposti avevano segno che fosse in movimento. Che faceva?

Il nemico alto

Da Palermo, sin dall'alba del 6, era partita una colonna comandata dal generale Landi, vecchio di settant'anni, promosso di fresco a quel grado. Da soldato egli aveva combattuto contro le rivoluzioni siciliane, sin da quella del 1820, ed era venuto su grado grado in quella milizia stagnante, che sentiva d'essere mantenuta più per assicurare il Re contro i sudditi che per difendere il Regno. Questo se ne stava infatti sicuro, coperto com'era dallo Stato pontificio e protetto dal mare.
Quel Landi era un uomo pio. In marcia si era fermato a sentir messa a Monreale, per santificare la domenica, proprio quella domenica in cui Garibaldi con la spedizione faceva il suo primo giorno di mare. Poi, continuando la sua via molto adagio, andando in carrozza alla testa della sua colonna, il 12 aveva fatto sosta in Alcamo. Di là partito la notte per Calatafimi, v'era giunto la mattina del 13, appunto mentre Garibaldi saliva a Salemi. Da Calatafimi aveva scritto lettere dogliose al Comandante in capo dell'isola, annunziando che prima di marciar su Salemi, dove sapeva trovarsi una banda di 'gente raccogliticcia', voleva aspettare un battaglione del 10° di linea che gli avevano promesso. Ignorava ancora lo sbarco di Garibaldi, ignorava che quelle genti raccogliticce erano i Mille con Garibaldi in persona. Ma, il 14 sapeva già qualche cosa di più, e scrivendo parlava di 'emigrati sbarcati'. Si proponeva d'andare il 15 ad attaccarli. Poi risolse d'aspettar a Calatafimi, "posizione tutta militare, molto vantaggiosa all'offensiva ed alla difensiva ed essenzialmente necessaria ad impedire che le bande si scaricassero su Palermo da quel lato della Consolare". E il 15, fermo nel suo proposito, scriveva che "tentare un assalto a Salemi sarebbe un'imprudenza ed un avventurare la colonna fra la imboscata nemica." Mostrava dunque di ignorare il numero degli avversari ma di temerli: e veramente spie la Sicilia non ne diede a lui allora, né ad altri dopo; però egli li chiamava già 'Garibaldesi'. Tuttavia non nominava Garibaldi quasi che a scriver quel nome temesse di vedersi apparir lì innanzi il terribile uomo. Forse ripensando al passato, rammentava che quel giorno stesso cadeva l'anniversario di due grandi fatti: il 15 maggio del 1848, re Ferdinando spergiuro aveva fatta far la strage nelle vie di Napoli, chiuso il Parlamento, tradita la nazione; il 15 maggio del 1849, oppressa la rivoluzione in tutta la Sicilia, il generale Filangeri era entrato in Palermo vittorioso. E rammentando, forse quel povero Landi sperava.

*

Non si potrebbe dire se Garibaldi, pensando anche egli a quelle date, abbia aspettato quel giorno 15 come una scadenza di buon augurio. Un po' preso da certi fili era egli pure, e spesso la sua bella stella Arturo guardata da lui gli aveva fatto venir su dal cuore il consiglio buono. Comunque sia, all'alba del 15 maggio, fatto leggere alle compagnie un suo ordine del giorno che piantava nei cuori le risoluzioni supreme, mise il suo piccolo esercito in marcia.
Le compagnie mossero con la sinistra in testa, e così andava innanzi alle altre la 8° bergamaschi; orgoglio di Francesco Nullo e di Francesco Cucchi, gran ricco questi che dato di suo largamente a denaro, adesso era pronto a dar l'anima. Ma i carabinieri genovesi la precedevano, e le guide erano già assai più oltre di questi. Discendeva quella gente da Salemi per le giravolte che fa la via calandosi nella valle; e Garibaldi, fermo ancora appena fuor da Salemi lassù, a quei che giunti a mezzo la china si volgevano a guardarlo, pareva librato nell'aria. Il popolo della cittadetta affollava il ciglio del monte attorno alle mura, e gridava a modo suo gli augurii a chi se n'andava... Certamente quello sarebbe stato giorno di battaglia, e molti di quegli uomini che partivano non avrebbero veduto andar sotto quel sole che nasceva.
Coi Mille camminavano le squadre. Ed essi non già più così, ma le chiamavano 'Picciotti', dilettandosi in questo nome paesano che pareva l'espressione del confidente abbandono con cui quegli uomini si erano messi nelle mani di Garibaldi. Per vezzo chiamavano 'Picciotto' qualcuno delle compagnie che avesse tipo più di meridionale: carissimi pel gran valore militare, ma dolci a ricordare anche per questa cosa da nulla, Ferdinando Secondi da Dresano studente di legge e Giuseppe Sisti da Pasturago studente di matematica, della compagnia Cairoli. Parevano proprio nati dalla più bella gente aristocratica dell'isola. Altri d'altre compagnie si erano fin vestiti da 'picciotti'; bellissimo tra tutti Francesco Margarita da Cuggiono che col berretto frigio nero, con la giacca mezza fatta di peli e cosciali pure fatti di pelle, pareva un tipo di baronetto da star bene in uno di quei feudi là intorno. Avevano smesso i panni di gala e i cappelli a cilindro, alcuni che s'erano imbarcati a Genova forse appena usciti dal teatro o da qualche salotto, e anch'essi vestivano alla siciliana.
Dal capo alla coda della colonna, correva come un fluido che fondeva sempre più in un sentimento di forza e d'allegrezza tutti quegli animi; e via via che la colonna avanzava, pareva che ognuno fiutasse nell'aria la misteriosa presenza del nemico. A un certo punto, si ripiegò sulla colonna un drappello di uomini che scendevano da certi pagliai fuori di mano nella campagna. Parevano irati.
Erano quelli della mezza squadra della Compagnia Bixio, che andati agli avamposti da quarantott'ore, erano stati via sotto la pioggia e fin senza pane. Raccontavano che poco avanti era capitato a trovarli lo stesso Bixio, e che li aveva assai bruscamente ripresi, come se avessero avuto qualche gran torto. Ma essi, pazienti, da quel terribile che non mangiava, non dormiva, tempestava giorno e notte non lasciando quiete neppur le pietre, si erano lasciati dir tutto; e ora lieti di ricongiungersi ai compagni, vi portarono in mezzo la gran notizia, Sì! Il nemico doveva essere, anzi era certo non lontano, già in posizione. Dunque tra poco la battaglia.
E intanto si vedevano le squadre dei 'Picciotti' svoltare per le vie traverse, anche i cinquanta o sessanta che andavano a cavallo, e allontanarsi, pigliare i monti. Dove andavano? Nessuno ci capiva nulla.

La bandiera alto

Durante una breve sosta, che fu fatta fare alla colonna, passò l'ordine di mandar la bandiera al centro della 7° Compagnia, quella del Cairoli. Da Marsala fin là, quella bandiera l'aveva custodita la 6° del Carini. E la portava Giuseppe Campo palermitano, uno che nell'ottobre avanti aveva tentato la rivoluzione a Bagheria presso Palermo, e che lasciato quasi solo era fuggito dall'isola a Genova. Ma ora tornava portabandiera dei Mille. Egli dunque con sei militi della 6° andò al centro della 7° salutato da questa con molto onore. E allora alla bandiera fu tolto per la prima volta l'incerato da Stefano Gatti mantovano. Sfavillarono al sole da una parte del drappo, ricchissimi nei tre colori, emblemi d'argento e d'oro che figuravano catene infrante e cannoni ed armi d'ogni sorta, con su un'Italia, in forma d'una bellissima donna trionfante colla corona turrita. E dall'altra parte, a lettere romane trapunte in oro, spiccava questa leggenda:

A Giuseppe Garibaldi
Gli Italiani residenti a Valparaiso
1855.

Su tre grandi nastri pendenti dalla cima dell'asta tutto bullettine d'oro, brillavano pure d'oro tre parole che allora facevano sospirare come roba da sogni impossibili ad avverarsi, tre cose che ora perché si hanno pare siano sempre esistite: 'Indipendenza, Unità, Libertà'. Allora volevano esprimere semplicemente delle speranze e dei voti, ma dicevano insieme che i donatori di quella bandiera, in quelle terre d'America da dove veniva, tra i nativi e gli stranieri, sentivano più amari che in Italia il rammarico, la vergogna, il danno di non avere un nome patrio come gli inglesi, i francesi, gli spagnuoli, tutti gli europei emigrati come loro, pur sentendosi, da lavoratori, pari e forse migliori. Ciò forse avevano voluto significare a Garibaldi, mentre egli dolente era passato pei porti del Pacifico: ed egli ora in quell'angusta valletta siciliana, tra gente nata e tenuta nell'ignoranza dell'esistenza d'un'Italia, sventolava quella bandiera e gettava le sorti della nazione.
Fatto un altro po' di cammino, la colonna giungeva a Vita, piccolo borgo, case rustiche, molte catapecchie, una chiesa. Parecchi di quelli che posarono l'occhio su quella chiesa, non immaginarono di certo che la sera di quel giorno vi sarebbero stati portati dentro feriti, a patire, a veder morire, a morire. Faceva brutto senso veder la gente di quel borgo fuggire a gruppi, a famiglie intere, trascinare i vecchi e pigliare i monti, carica di masserizie, mandando lamenti. Pareva che fuggissero a un'invasione di barbari. Ma quella gente sapeva cosa c'era là vicino e ricordava eccidii recenti. La colonna traversò il borgo, e poco distante fece alto.
Passò Garibaldi frettoloso; domandò se le Compagnie avessero mangiato; se no, mangiassero pure. Ma che cosa? Senza scomporre troppo gli ordini, e anche ridendo giocondamente, chi volle si adagiò, e si misero tutti a sbocconcellare il loro pane: molti sbrancarono alquanto in certi piccoli campi di fave lì ai lati della via, e con quel companatico fecero il loro pasto.
Allora furono viste alcune Guide tornar trottando per lo stradale che si stendeva innanzi. Tra quelle il sessagenario Alessandro Fasola pareva ringiovanito. Poi fu un correre di cavalli dal luogo dove stava Garibaldi alle Compagnie, e subito s'udirono due squilli di tromba. Tutti a posto e via come stormi, pigliarono quasi a volo un colle a destra brullo, ronchioso, arso dal sole. Vi si piantarono in cima ordinati.
E di lassù, oltre una breve convalle, forse a duemila metri, videro su di un altro colle rimpetto schierato il nemico. Era un balenio d'armi che coronava la vetta gran tratto; due macchie scure parevano due cannoni; certe linee nette profilate nel fianco del colle facevano indovinare dei terrazzi sostenuti forse da muri a secco; filiere di fichi d'India rotte qua e là si spandevano dal ciglio d'alcuni di quei terrazzi; forse nascondevano delle linee di soldati. Su di un balzo del colle sorgeva una casetta; pochi alberi grami lassù; in molti punti pareva la roccia nuda.
Di là da quel colle facevano sfondo alti monti. Grigio, con aspetto più di rovina che d'abitato, si vedeva lontano in alto, a pie' d'un castello, un gruppo grande di case, che non si sapeva ancora chiamare Calatafimi. Nelle gole dei monti a sinistra formicolavano turbe di gente; le squadre partite da Salemi erano anch'esse lassù; ogni tanto vi scoppiavano delle grida.
E quelli dall'altra parte, i napolitani, videro anch'essi e lo narrarono poi per anni. Videro quella linea che s'era formata rimpetto a loro con movimenti non soliti tra gli insorti, rotta a tratti da macchie rosse. E stupirono. Non capivano cosa volessero dire, o dubitavano che quei rossi fossero casacche di galeotti fuggiti da non sapevano quale bagno. I soldati ignoravano che fosse là Garibaldi, ma s'accorgevano d'essere dinanzi a gente che doveva sapere star in battaglia.
Mancava poco al mezzogiorno.

Il combattimento alto

Dal 1814 quando i napolitani di Murat salirono fino al Po, senza saper bene se si sarebbero incontrati amici o nemici coi loro vecchi commilitoni dell'esercito italico del Viceré Eugenio; e poi si offesero scambiando con essi delle cannonate: da allora non si erano più trovati di fronte italiani delle due parti estreme, armati per darsi battaglia. L'ora dunque era solenne.
I due piccoli eserciti stettero ancora un pezzo a guardarsi. Garibaldi su di una sporgenza del colle, tra certe rocce che gli facevano riparo dinanzi a mezzo la persona, stava con Turr, Sirtori, Tukory, osservando il nemico. Aveva dato l'ordine di tener chete le Compagnie che non sparassero, e queste stavano chete, anzi a terra sdraiate.
I Carabinieri genovesi erano stati messi avanti a tutti, già un po' più giù nel pendio verso il nemico: dietro di loro la 8° e la 7° Compagnia giacevano stese in cacciatori a quadriglie, e così era formata da loro la prima linea. La 6° e la 5° Compagnia sul ciglio del colle, sdraiate anch'esse in ordine aperto formavano la seconda linea; tutto il battaglione di Bixio, e cioè la 4°, la 3° e la 2° Compagnia, stavano in riserva sul versante dalla parte di Vita, ma solo pochi passi dal ciglio; più in giù, quasi alla falda, era rimasta la 1° Compagnia, quella di Bixio, il quale la aveva lasciata al suo luogotenente Dezza. Egli si era portato avanti forse per trovarsi sempre vicino al Generale, per non perderlo di vista mai, quasi che in caso di sconfitta si sentisse di salvarlo, o, non lo potendo, volesse morirgli al lato.
Passavano le ore, e Garibaldi, che di solito preferiva assalire, non si risolveva all'attacco.
Sperava forse che nelle file nemiche si destasse qualche sentimento italiano? Chi lo sa! Ma si può crederlo perché aveva ordinato di portar nel punto più alto la bandiera tricolore, e di farla sventolare. Ad ogni modo sembrava che avesse risolto cavallerescamente di lasciar ai Napolitani il vanto d'assalir primi.
E verso il tocco squillò una tromba napolitana. Uno dei garibaldini, certo Natale Imperatori della 6° Compagnia Carini, che conosceva quella sonata, disse subito: "Vengono i Cacciatori!"
E difatti, contro il grigio e il verde del suolo, furono viste prima come un formicolio, poi più nette, spiccate le divise cilestrine discendere alla sfilata, agili, giù pei terrazzi del loro colle, serpeggiando tra i ciuffi di fichi d'India. Erano addirittura due Compagnie. Giunti all'ultima falda del colle, s'avanzarono pel po' di spazio che faceva la valletta, e cominciarono i loro fuochi di sotto in su contro i garibaldini della prima fronte. Questi erano i Genovesi. Chi li poteva tenere che non rispondessero al fuoco delle quadriglie? Pure durarono un pezzo senza sparare e peritissimi al tiro giudicavano impediti i nemici le cui palle passavano miagolando molto in alto: ma alla fine cominciarono anch'essi con le loro carabine di pochissimo scoppio, ma secco, acuto, e le palle andavano al segno. Allora quei Cacciatori si arrestarono a scambiare ancora pochi tiri, così da fermi, coi Genovesi. Ma subito le trombe garibaldine suonarono l'attacco alla baionetta. Bisognava levar le Compagnie dalla tentazione di sprecar di lassù le munizioni, perché i più non avevano che dieci cartucce, e i fucili non portavano più che a quattrocento metri. Le Compagnie, a quegli squilli, balzarono ritte come sorgessero dalla terra improvvise, e si rovesciarono giù dal colle una dietro l'altra, correndo scaglionate oblique giù per la china, ma mirabilmente composte, poi s'allargarono in ordine sparso, quando i cannoni napolitani cominciarono a trarre granate.
Lo narrarono poi molti che stavano allora nelle file nemiche. Quel movimento, fatto così di lancio e con sicurezza da veterani, produsse in loro un effetto indicibile. Ma non si sgomentarono. E fu bene, perché per la loro mirabile resistenza meritarono d'esser lodati nell'ordine di Garibaldi il giorno appresso; e la lode poté forse sugli animi più della stessa vittoria riportata da chi li lodava.
Così il bel fatto d'arme era cominciato.
In un lampo le due Compagnie di Cacciatori furono spazzate via, lasciando esse alcuni caduti in quel fondo, bei giovani d'Abruzzo, di Calabria, di chi sa quale di quelle terre delle rivoluzioni gloriose e infelici. Sul berretto elegante a barchetta, portavano il numero 8 - 8° Cacciatori! - E indossavano delle divise di tela cilestrina, giubba corta, elegante, su cui s'incrociavano pittorescamente le corregge degli zaini e della fiaschetta a zucca, schiacciata e foderata di cuoio. La loro carabina, pei tempi d'allora, era perfettissima, e la daga baionetta faceva pensare a quelle terribili degli zuavi. Poveri ragazzi!
Come fanno stringere il cuore l'eleganza delle divise indosso ai morti sui campi, e quelle cose e quei numeri e quei nomi dei corpi! Coloro che giacciono non hanno più né vita né nome, né paese né nulla: a casa loro i parenti non sapranno la zolla che beve il loro sangue, né l'erba su cui spirarono l'ultimo fiato. Solo non li vedranno mai più; essi son morti.
Triste cosa la guerra! Ma allora pareva ancora bella perché vi si poteva patire, morire, per far trionfare un'idea, più che perché vi si potesse provar la gioia e la gloria di vincere.
Rispettate i nemici, rispettate i feriti! - gridò Francesco Montanari di Mirandola, caduto per grave ferita su quel colle - sono italiani anch'essi! -
E la sua faccia severa, quasi dura e in quel momento contratta dal dolore, parve trasfigurata da quella sua sublime pietà.
A che ormai descrivere il fatto d'armi di Calatafimi?
Le battaglie, da quelle che descrisse Omero all'ultima della storia moderna, si somigliano tutte. Sono furia d'uomini contro uomini che s'avventano gli uni agli altri, dandosi a vicenda da vicino o da lontano la morte, con più o meno arte, secondo i tempi. Cortesi fin che si vuole, i combattenti son sempre ancor poco diversi "dagli uomini sul vinto orso rissosi."
Eppure leggiamo rapiti dalle narrazioni, ammirando fatti che in sé sono atroci, e ci esaltiamo e chiamiamo magnanimo tanto chi dà come chi riceve la morte in campo. Ci pare sovrumano il maresciallo Ney a Vaterloo, quando nella tragica ora della sconfitta già imminente, grida con voluttà disperata che vorrebbe tutti nel petto i proiettili dei cannoni inglesi rombanti nell'aria. Sublime ci pare quell'oscuro lanciere francese, che là, in una delle ultime cariche di cavalleria, gittò la sua lancia in mezzo a un quadrato inglese, per andare a raccattarla come per gioco in quel quadrato; e spronò e balzò e cadde egli e il suo cavallo sulle siepi di baionette, schiacciando altri e morendo. Chi mai ci pare più grande di lord Cardigan, quando ricevuto l'ordine di assalire la batterie russe a Balaclava, sa che vi morrà egli, l'ultimo di sua schiatta, forse con tutti i suoi seicento cavalieri; ma snuda la spada e gridando: "Avanti, ultimo dei Cardigan!" galoppa alla morte come se volasse al cielo?
Ma quel Montanari e quel suo grido, son ben più degni di storia.
Quello di Calatafimi fu fatto d'arme che appena potrebbe stare come frammento episodico di una di quelle grandi battaglie. Eppur e per l'importanza e per l'influenza sua sulla vita della nostra nazione, conta quanto e forse più di ciascuna d'esse per le altre. E il Generale? L'arte di Garibaldi, mirabile già nell'aver saputo creare in tutti i suoi un sentimento profondo, sicuro, superbo della loro situazione, nei tre giorni avanti; in quello del fatto d'armi, stette tutta nell'averseli tenuti stretti nel pugno come un fascio di folgori, fino al momento in cui, non essendo più possibile in nessun modo lasciare il campo non vincitori, poté abbandonar ognuno al comando di sé stesso, certo egli che da quel momento si sarebbero svolte le più recondite virtù e le forze e l'ingegno d'ognuno, dalla calma pontificale di Sirtori al furore di Bixio, all'impeto geniale di Schiaffino, all'audacia di Edoardo Herter, d'Achille Sacchi, di cento altri, e, si può dire di tutti, perché un codardo che è uno, in quell'ora, in quel luogo, non ci poté più essere. E il merito di questo miracolo fu tutto del Generale. L'anima sua era entrata, era presente in tutte quelle anime, fosse egli in qual si volesse punto del campo. Due momenti della pugna furono esclusivamente suoi: uno, quello di quando Bixio, che era Bixio, osò domandargli alla maniera sua se non gli paresse il caso di battere in ritirata, ed egli rispose che là si faceva l'Italia o si moriva: l'altro, quello dell'ultimo assalto, quando tutti rifiniti boccheggiavano sotto il ciglio del colle, su cui si erano ridotte via via risalendo le schiere nemiche scacciate da terrazzo a terrazzo in su. Là disperavano tutti, non egli, che parlando pacato andava per le file come un padre con gli occhi rilucenti di lagrime: "Riposate, figliuoli, poi un ultimo sforzo e abbiamo vinto." Fu in quel momento che lo colpì nella spalla destra uno dei sassi che i borbonici facevano rotolar giù; ma egli non degnò mostrare d'essersene accorto, e continuò a mantenere quell'aria sicura che creava la sicurezza altrui, in quel quarto d'ora in cui, se i borbonici avessero osato rovesciarsi giù alla baionetta, in più di duemila quanti erano ancora, la rotta era sua. Essi invece, raccolti lassù, urlavano: 'Viva lo Re'; rotolavano sassi, e tiravano schioppettate a chi si faceva su dal ciglio a guardare. Uno di questi fu Edoardo Herter da Treviso, medico di 26 anni. Pareva una damigella bionda vestita da uomo, tanto aveva esile l'aspetto, ma i suoi muscoli erano d'acciaio. Parlò con Garibaldi un istante, poi si lanciò su per un greppo.
'Ah piangerà tua madre!'
fu cantato di lui, e appena su, cadde riverso colpito nel petto a morte.
In quel momento l'artiglieria garibaldina tuonò di giù dalla strada, dove alla fine aveva potuto mettersi a tiro, e un suo proiettile andò a cadere tra i regii. Fu come il segno della ripresa, perché poco appresso si fece come un subbuglio, e fu gridato: "La bandiera, la bandiera in pericolo!" E la bella bandiera di Valparaiso fu veduta salire, come se andasse da sé, trascinando dietro ai lembi delle sue pieghe quanti vi s'affollavano presso.
Passata dalle mani di Giuseppe Campo a Elia, a Menotti, a Schiaffino, ora Schiaffino la portava all'ultima prova. E giù, staccati dalla loro fronte, uno stormo di napolitani corsero per pigliarsela. Allora le si formò un viluppo intorno, cozzo breve, fiero, feroce, vera mischia; e la bandiera sparì, lasciando uno dei suoi nastri nel pugno di Gian Maria Damiani. E Schiaffino, il superbo nocchiero del Lombardo, giacque là morto.
E' questo il momento d'annunziarmi una pubblica sciagura? - gridò Garibaldi a chi gli dava notizia di quella morte. Ma proprio in quel momento, in un altro punto della battaglia scoppiava un urlo di gioia... Un cannone era preso. Fumigava ancora la sua gola dell'ultimo colpo sparato contro quelli che vi s'erano lanciati su primi, primo Achille Sacchi da Pavia, giovanetto di diciassett'anni, che cadde già con le mani sulla volata di quel pezzo e giacque morto.
"Ancora uno sforzo!" e lo sforzo era fatto. Erano balzati su fino i moribondi; l'ultimo assalto alla baionetta fu veramente meraviglioso. I napolitani non vi ressero, si volsero, rovinarono via.
Non però tutti in fuga. Avevano cominciato i Cacciatori e i Cacciatori finivano. Mentre la fanteria e i Carabinieri napolitani si ritiravano confusi giù pel declivio del colle perduto; quei Cacciatori, come stessero in un campo a istruirsi, facevano le loro fucilate a quadriglie, allontanandosi lentamente. Fin Garibaldi stette a mirarli un pezzo, in quelle loro belle mosse; ma poi diede ordine di caricarli a una delle Compagnie che appena conquistato il colle, già si erano quasi riordinate intorno ai loro ufficiali. Corse la 6°, Carini. E quell'ultimo strascico del fatto d'arme fu presto levato. Tutta la colonna borbonica si sprofondò nel vallone, sparì un momento, poi ricomparve di là. Saliva l'erta per Calatafimi. La chiudeva un manipolo di cavalli, forse mezzo squadrone, che durante il combattimento s'era tenuto giù sullo stradale, certo aspettando di potersi gettare sui nemici vinti a sciabolarli. Invece ora proteggeva la ritirata ai suoi. Dal campo di battaglia fu vista quella gente serpeggiare su per l'erta lunga, stendersi e di nuovo sparire poi più su, a poco a poco, in Calatafimi.

Dopo la vittoria alto

Sul colle conquistato riposarono i vincitori. E cominciò subito la raccolta dei feriti gravi, che non avevano più potuto reggersi, e giacevano giù pei fianchi del colle, molti, troppi, per un fatto di così pochi combattenti e di così corta durata. Tra grave e non gravi erano 182, i morti 31. Le ferite erano orribili, lacerate, larghe, massime quelle fatte dalle palle ogivali cave dei Cacciatori. Pochi napolitani che i loro non avevano potuto portar via, si lasciavano pigliar su meravigliati di vedersi trattati bene, mentre s'erano forse aspettati d'essere uccisi. All'allegrezza della vittoria si mescolava così quella grande malinconia. E s'era messo un vento freddo che faceva frizzar la pelle. Calavano intanto dalle montagne le squadre dei 'Picciotti', e invadevano il campo di battaglia, meravigliati anch'essi del combattimento contemplato dall'alto, come dai gradini d'un anfiteatro una lotta di gladiatori.
Garibaldi guardava sempre una strada che da ponente, per una gola, metteva in quella specie di conca da cui sorgevano su i due colli, quello della sua posizione del mattino e quello conquistato su cui si posava coi suoi. Forse temeva l'arrivo di un corpo nemico da Trapani. Ma aveva fatto mettere gli avamposti, e dato l'ordine a Bixio di collocare le artiglierie. Aveva anche già detto di voler salire a Calatafimi il giorno appresso, e sapeva lui per quali vie si sarebbe incamminato. Per quella fatta dai Napolitani nella ritirata no certo: e questo capivano tutti, perché tentar un attacco da quella parte sarebbe stata una follia. Ma egli era allegro in viso, e ciò bastava.
Uno strano sentimento, che tutti dovettero provare, ma di cui si accorsero e se lo spiegarono per dir così solo i più raffinati allora e molto di poi anche gli altri, ripensando a quelle ore, fu quello dell'isolamento in cui si trovavano. Non erano passati che dieci giorni da quando avevano lasciato Genova, eppure pareva loro d'essere via da mesi e mesi, d'aver navigato molto, d'aver camminato molto, d'esser già quasi gente dimenticata. Si sapeva nell'Alta Italia che erano sbarcati, che erano stati accolti bene? Qualche spirituale forza dava almeno in quel momento un senso vago del dove si trovavano e della loro vittoria? A Milano, a Genova, a Torino e nella Venezia gemente in mani austriache, per tutti i borghi e i villaggi da dove qualcuno d'essi s'era mosso, cosa si pensava, cosa si sperava, cosa si temeva per loro? Ah! Un filo di telegrafo per mandare la gran notizia alla patria e riceverne una parola. Certo da Napoli sarebbe taciuta o mandata pel mondo svisata, falsata la notizia della battaglia a far piangere.
E intanto erano scene di gioia, come a rivedersi dopo anni ed anni, nell'incontrarsi fra loro amici di casa, di scuola, di Compagnia che si erano perduti di vista durante il combattimento e che si ritrovavano sani e salvi. Ed erano lamenti per i caduti, il tale giù ai primi colpi, il tal altro a mezzo al colle, un altro addirittura in cima quasi in braccio ai nemici. Andavano a cercarli, a guardarli, a baciarli. E così i nomi dei morti e dei feriti, il modo, il come, il dove, il quando, tutti i particolari se li scambiavano, e parlavano commossi, ma tuttavia ancora con un po' del sentimento egoistico d'essere usciti salvi dal pericolo in cui altri aveva lasciato la vita. Si sa; il vero dolore, quello grande e sincero viene dopo, quando il sangue si è rimesso in calma e la pietà si ridesta.

Tra le Compagnie che si erano riordinate, si faceva un gran parlare dell'importanza del fatto; qua e là in quel campo ci parevano dei piccoli Parlamenti. Quelli che avevano sentito Garibaldi, quando aveva detto a Bixio: "Qui si fa l'Italia o si muore," commentavano le solenni parole, e pareva proprio a tutti di sentirsi piantato in cuore che il fatto d'armi, piccolo in sé, era già come un'ultima battaglia risolutiva, da combattersi ancora sì, non si sapeva dove né quando, ma già vittoriosi. E ciò voleva dire l'Italia fatta sin da quel giorno, su quel colle.
Il qual colle aveva tuttavia un nome di malaugurio. Era stato subito detto che si chiamava 'Pianto dei Romani', perché ivi, più di duemila anni indietro, questi erano stati vinti dai Segestani e dai Cartaginesi. Ma quel nome di mestizia era un'invenzione, o per lo meno una interpretazione errata. 'Pianto' non è che il vernacolo siciliano 'Chiantu', o piantamento di viti; e uno n'era stato fatto far su quel colle da un'antica famiglia Romano. E difatti, quei tali terrazzi dovevano essere stati fatti per dei poderosi filari di viti, sebbene allora vi si vedessero soltanto arbusti grami, e piante che esalavano un tristo odore di cimitero. Così, e durante il combattimento, aveva detto il livornese Giuseppe Petrucci della compagnia Bixio, facendo parer ai vicini di fiutar davvero un'aria di morte.

*

La notte calò rapida come nelle giornate più corte dell'anno. E in quel crepuscolo fu commovente veder un gruppo di sei o sette Francescani, i quali dopo aver combattuto fino con tromboni, partivano per tornare al loro convento. Erano accorsi là da Castelvetrano. A quell'ora se ne andavano giù dal colle nei loro tonaconi grossi, con le loro armi in spalla, seri e tranquilli, come se tornassero da aver fatto la questua tra quei soldati che avevano fame, e stavano divorando pane e cacio distribuito in fretta già quasi nel buio. Poi le Compagnie si addormentarono.
Al tocco dopo la mezzanotte la sentinella dell'avamposto verso Calatafimi diede l'alto a due persone che le venivano incontro.
- Amici, galantuomini di Calatafimi.
- Avanti. -
Tutto l'avamposto fu subito in piedi.
- Cosa volete? -
Con l'anima nelle parole, quei due galantuomini recavano che i Napoletani avevano abbandonato Calatafimi, marciando verso Alcamo, che stava di là, di là...
La notizia era lieta. Levava la gran preoccupazione di ciò che sarebbe potuto avvenire il giorno appresso. Da Palermo, a quell'ora, poteva già esser giunto per nave a Castellamare un corpo di aiuto ai vinti, e con tutta comodità aver marciato da Castellamare a Calatafimi. Ora se i Napolitani se n'erano invece andati, ciò voleva dire che a Palermo non c'era un generale che avesse occhi. Bene, bene! Quei galantuomini furono condotti da Garibaldi, che stava ben desto nella casupola sul colle, e che gli accolse con gioia. Fatta l'ambasciata, volevano tornarsene; ma egli, non li volendo lasciar esporsi a pericoli, se li tenne fino al mattino. Avrebbero marciato con lui. Ed essi non s'accorsero che forse diffidava di loro, tanto era buona e incredibile la notizia che gli avevano portato.

*

Nel brivido che dà l'alba, prima ancora che le trombe suonassero le sveglie, molti di quei militi, mezzo intirizziti dalla gran guazza, giravano già pel campo a rivedere i morti. Di questi ve n'erano che parevano dormirsene sicurissimi d'essere svegliati a lor tempo, tanta era la pace che avevano nel volto. Così Giuseppe Belleno, così Giuseppe Sartoriio, tutti e due Carabinieri genovesi; questo colpito nel petto proprio nel momento che fulminava un gran fante borbonico, mirato a prova da lui. Aveva data e ricevuta la morte in un punto. Poco discosto giaceva Ferdinando Cadei di Caleppio, bel giovane di ventun'anno, che adagiato sul fianco destro pareva sogguardasse timidamente. Carlo Bonardi da Iseo non si trovava più nel luogo dov'era caduto e rimasto morto bocconi, né per quanto gli amici suoi cercassero là attorno vedevano le sue larghe spalle da atleta, né il mantello che portava rotolato a bandoliera ancora nell'ultimo istante. Cosa n'era mai stato? Invece il gran Schiaffino copriva ancora la terra là dove l'anima sua lo aveva lasciato. Era solo un po' scolorito in viso. In uno dei punti, dove la resistenza del nemico era stata più forte, giaceva Luciano Marchesini da Vicenza, col capo su d'un sasso nero che pareva un libro. "Come il Battaglia l'anno scorso a San Fermo!" diceva Odoardo Rienti da Como. E narrava di Giacomo Battaglia poeta, che combattendo tra i Cacciatori delle Alpi cadde a San Fermo colpito in fronte, e tratto di tasca un suo Dantino se lo pose sotto il capo e sul poema divino spirò. Un po' più in su, e proprio sulla cima del colle, dove erano stati fatti gli ultimi colpi, giaceva come un assiderato Eugenio Sartori da Sacile. La morte che, toccandolo quasi per saggiarlo a Venezia nel '49, lo aveva lasciato tornare alle mense patriarcali di casa sua, se l'era preso lì. Egli no, non pareva in pace! Gli occhi non gli si erano ancora chiusi, e, dopo tante ore, il suo viso esprimeva sempre una gran collera da battaglia.
E via via cercati così, i morti furono rivisitati quasi tutti. Ma alla fine bisognò pure che i vivi gli abbandonassero. Sarebbero poi venuti i seppellitori a scavare a ogni morto una buca lungo il corpo, ve l'avrebbero fatto rivoltar giù forse con malgarbo, poi o sul corpo o sul dorso, poche badilate di terra e addio. Un dì, chi sa quando, qualcuno verrebbe a scoprire delle ossa.

*

Le compagnie partirono. E per la stessa china e poi per la stessa erta fatta dai Napolitani la sera avanti, marciarono a Calatafimi. Ivi trovarono la gente ancora scompigliata. Quei poveri abitanti avevano visto dalle loro case, il combattimento del Pianto Romano, e poi i borbonici tornare vinti tra loro. Erano stati gran parte della notte tremando che il mattino portasse loro uno scontro nelle stesse vie della città tra le loro case: invece i borbonici erano partiti. Ma potevano sopraggiungerne di nuovi. Insomma la fisionomia generale era triste. Nella via maestra si trovavano a ogni passo i segni della sosta fattavi dai vinti; nelle poche botteghe, misere assai, non c'era più nulla; quelli avevano portato via ogni cosa.
Ma le Compagnie, a poco a poco, misero un po' di fidanza e d'allegrezza; tanto più poi nel pomeriggio, quando fu lor letto l'ordine del giorno di Garibaldi. Era uno de' suoi più eloquenti, e parve la voce di tutta la patria.
"Soldati della libertà italiana, con compagni come voi io posso tentare ogni cosa, e ve lo mostrai ieri conducendovi alla vittoria contro un nemico superiore per numero e per le sue forti posizioni. Io avevo contato sulle vostre fatali baionette, e vedete che non mi sono ingannato.
"Deplorando la triste necessità di dover combattere soldati italiani, debbo confessare d'aver trovato una resistenza degna di causa migliore. E questo vi mostra quanto noi potremo fare, quando l'intiera famiglia italiana sarà riunita intorno a una sola bandiera.
"Domani il continente italiano sarà parato a festa, per la vittoria dei suoi liberi figli e dei nostri prodi siciliani.
"Le vostre madri, le vostre amanti, usciranno nella via superbe di voi, con la fronte alta e radiante.
"Il combattimento ci costò molti cari fratelli, morti nelle prime file; e nei fasti della gloria italiana risplenderanno eternamente i nomi di questi martiri della nostra santa causa.
"Paleserò al nostro paese i nomi dei bravi che con sommo valore condussero alla lotta i più giovani e i più inesperti militi, e che domani li guideranno alla vittoria su altri campi, a rompere gli ultimi anelli delle catene che tengono avvinta la nostra Italia carissima."
I nemici! Ve n'erano in Calatafimi parecchi, feriti il giorno avanti e abbandonati là, perché per via avrebbero patito troppo. I vincitori andavano a trovarli nelle chiese e nei conventi, li confortavano, li carezzavano. Ed essi dicevano che non sarebbero più tornati alle loro bandiere. Cominciava già allora la fratellanza; solo qualcuno guatava bieco e mormorava sdegnoso.
Dai Francescani, prodigava la sua carità un padre Luigi, il quale fu poi amorosissimo nei giorni appresso ai garibaldini portati là da Vita, dove non c'era luogo per tenerli se non ammucchiati come nelle prime ore dopo il combattimento. Forse quel frate si sentì prendere fin da allora da quella forza per cui ebbe il coraggio di spogliar l'abito, di lasciarsi portar via dalla rivoluzione nella vita nuova italiana; e tornato al secolo divenne col tempo uomo di cattedra, uomo di Stato in Roma, dove coloro che lo avevano conosciuto laggiù continuarono a chiamarlo in segreto "padre Luigi".
Le emozioni del giorno avanti, il bisogno di raccoglimento, la stanchezza, non svogliarono di visitar il paese intorno chi aveva sentimento dei luoghi e delle cose. Uscendo dalla parte occidentale molti andavano in poco tempo alle rovine di Segesta, e vi si appressavano esaltandosi via via. Quelle trentasei colonne del tempio dorico rimaste in piedi come parte di un'opera incompiuta, tanto sembravano recenti; il teatro poco più in là, ispiravano una malinconia magnanima. Era mai possibile che fosse stata abitata da gente così ricca e grandiosa da aver eretto quei monumenti, una terra ora popolata quasi solo di miseri? Quelle colonne parevano vive e pensanti, quel tempio pareva aver ancora un'anima cui facesse dolore vedersi intorno caprai indifferenti, nei quali tuttavia l'uomo antico doveva starsene addormentato. Ora quei visitatori si lusingavano d'essere capitati a svegliarlo.

La marcia ad Alcamo alto

Garibaldi non perdeva tempo: all'alba del 17 rimise la sua gente in cammino.
Da Calatafimi un'ultima occhiata d'addio al colle del Pianto Romano, poi via per Alcamo. E fu una marcia mattutina di poca fatica anche per quelli dei feriti che, sentendo di potersi reggere, piuttosto che starsene inoperosi, avevano voluto seguire la colonna, chi col braccio al collo, chi con la testa bendata, chi a piede nelle file, chi su quei carri di laggiù storiati di Madonne e di Santi, illustrati da sentenze e leggende paesane. Parlavano dei compagni rimasti a Vita nella chiesa o nelle case, dove mancavano di tutto e pativano, e qualcuno stava forse per morire, sebbene il vecchio Ripari e Ziliani e Boldrini e gli altri medici facessero prodigi d'amore.
Erano cose meste; eppure la campagna meravigliosa metteva nei cuori il proprio rigoglio, onde si sentivano senza troppi rimpianti. Ah che paese! Se quel trionfo di verde fosse venuto crescendo così come pareva, la via doveva menare davvero alla terra promessa. Intanto qualche cosa di paradisiaco si vedeva già. La fama di Garibaldi era andata a rinnovare le fantasie già note altrove; onde, agli sbocchi delle stradicciole campestri che mettevano in quella via, gruppi di donne dinanzi ai loro uomini e coi bimbi al collo o per mano, gli gridavano dei saluti quasi religiosi. Alcune si inginocchiavano, altre dicevano "Beddi!" ai giovani soldati.
Via via andando si scoprivano, tra le biade peste, arnesi militari dei borbonici; e quei villici li additavano imprecando agli 'schifiosi' che li avevano gettati nella ritirata. Poi, già nelle vicinanze di Alcamo, comparvero delle carrozze di signori che venivano incontro a Garibaldi, tirate da pariglie superbe. A un certo punto comparve il mare del Golfo così azzurro, sotto un cielo così terso, che tra per quella vista e la bella campagna e il tutt'insieme, fu un'ora di incanto. In qualche gruppo della colonna scoppiarono canti lombardi, di quelli della regione dei laghi.
Quella era proprio la terra degna che vi fosse sbocciato uno dei primi fiori della nostra poesia, perché tutto ciò che vi si vedeva ricordava la 'Rosa fresca aulentissima' di Ciullo o di Cielo. Allora la variante non importava. E poi ecco Alcamo con le sue belle case e i suoi giardini coi muri passati dai palmizi, che si spandevano fuori torpidi nel caldo meriggio. Non poteva essersi dato che il delizioso 'Contrasto' fosse avvenuto davvero con di mezzo uno di quei muri o la siepe d'uno di quegli orti? Tutto vi pareva così antico!
La città, quasi moresca d'aspetto, quasi mesta, era in festa religiosa, ma pareva allegrarsi a poco a poco, per l'arrivo di quegli ospiti d'oltremare. E poi si esaltò addirittura per un fatto quasi incredibile, di cui si parlava già sin dal giorno avanti in Calatafimi come di cosa avvenuta o da avvenire. Garibaldi si era lasciato indurre da fra Pantaleo a ricevervi la benedizione in chiesa. Egli schiettamente, semplicemente, in mezzo al popolo, si sottomise alla Croce che il frate gli impose sulla spalla, proclamandolo guerriero mandato da Dio. La scena fu un po' strana, ma il Generale stette con tanta sincerità di spirito, che neppure i più filosofanti della spedizione trovarono nulla a ridire. Fu un lampo di misticismo sprigionato dall'anima di lui, formata d'un po' di tutte le anime grandi che furono, e anche di quella di Francesco d'Assisi, dietro al quale, nato nel suo tempo, egli si sarebbe scalzato dei primi a seguirlo.

A Partinico alto

Fu dunque un giorno lieto quello d'Alcamo; ma l'altro appresso, quando la colonna partì acclamata e marciò a Partinico, qual diverso mondo le si apprestava a così breve distanza! Per Alcamo la milizia borbonica battuta a Calatafimi era passata senza che nessuno le si fosse fatto contro per impedirla; ma Partinico la aveva affrontata, e per le vie e per le case era stato un combattimento da selvaggi. A entrare in quella città, parve di affacciarsi a uno degli orrendi spettacoli di strage fra Greci e Turchi della rivoluzione ellenica di quarant'anni avanti.
Proprio sulle soglie della cittadetta, stavano mucchi di morti bruciacchiati, enfiati, in cento modi straziati. E tenendosi per mano a catena e cantando, vi danzavano attorno fanciulle scapigliate come furie, cui faceva da quadro e da sfondo la via maestra nera d'incendi non ancora ben spenti. Le campane sonavano a stormo; preti, frati, popolo d'ogni ceto, urlavano gloria ai militi correnti dietro a Garibaldi, che traversò rapido la città col cappello calato sugli occhi, e andò a posarsi all'altro capo, in un bosco d'olivi, mesto come non era ancor parso in quei giorni. E là gli furono condotti alcuni sodatucci borbonici, rimasti prigionieri in mano dei Partinicotti e salvati a stento da qualche buono; poveri giovani disfatti dal terrore di due giorni passati con la morte alla gola. Consegnati a lui si sentirono sicuri, e piansero e risero come fanciulli.
Sprazzo di sereno nella tempesta, chi si potrebbe tenere dal narrarlo! Garibaldi sedeva in quel momento a pie' d'un olivo. Aveva appena finito di confortare quei poveri soldati, che gli fu presentato dal capitano Cenni suo carissimo uno dei giovani della spedizione, il quale portava una manata di fragole in un canestrino fatto di foglie. "Generale," disse il Cenni, "questo cacciatore delle Alpi vi offre le fragole." Garibaldi guardò Cenni, guardò il giovane, poi sorrise un poco, crollò la sua bella testa e gli domandò: "Di dove siete?" - "Genovese" rispose il giovane quasi tremando. E allora il Generale in dialetto genovese. "E avete ancora la madre?" "Generale sì;" e gli occhi del giovane videro allora molto lontano. "Cosa direbbe - continuò Garibaldi - se fosse qui a vedere che mi piglio le vostre fragole?" Ma intanto tese la mano e ne levò due o tre per gradire, soggiungendo: "Andate, andate, godetevele voi, che vi parranno più buone che a me."
Dopo non lungo riposo, le Compagnie si rimisero in marcia, allontanandosi quasi con gioia da quel luogo di sangue. Alcuni Partinicotti le seguirono armati di doppiette e di pugnali. Ve n'era uno che pareva di bronzo, tutto vestito di velluto biancastro, con a cintola due pistole. Il Sampieri dell'artiglieria diceva che erano dell'aria di colui i Palicari e i Clefti dei quali egli, nell'esilio suo in Grecia, ne aveva conosciuti alcuni, vecchi ancora di quei di Bozzaris. Si sarebbe detto che quell'uomo non fosse fatto che ad uccidere, e invece a parlargli era buono e anche grazioso. Raccontava quasi scusandosi l'eccidio cui aveva partecipato; e diceva con poesia di Palermo, bella, grande: "Vedrete, vedrete! Il palazzo reale!" E forse tutto il suo patriottismo era per l'isola sua, pel regno, pel piccolo regno di Sicilia, indipendente da tutto il mondo. Seguì la marcia di Garibaldi senza più staccarsi, divenne amico di qualcuno in tutte le Compagnie, portava la letizia in tutti i crocchi e le buone promesse. Nove giorni di poi, il mattino del 27, nell'assalto di Palermo, fu visto l'ultima volta, sotto il Ponte dell'Ammiraglio, disteso morto presso un Cacciatore borbonico, che moribondo egli stesso lo guardava. Forse lo aveva ucciso lui.

Al Passo di Renda alto

Sul vespro di quel giorno la colonna garibaldina entrò nell'ombra di un anfiteatro di monti, dove si immerse quasi a celarsi. In quell'ora, tutto là intorno pareva minaccioso, dalle falde ronchiose ai profili di quei monti dentati in alto e taglienti. Il po' di piano traversato dalla strada consolare dava un senso di freddo. E il luogo, al dire dei Siciliani, era infame per istorie truci di masnadieri. Passo di Renda voleva dire pericolo di non uscirne vivo chi vi si avventurasse da solo.
Le Compagnie, rifinite dalla stanchezza e dalla fame, si gettarono in terra ciascuna, per dir così, dove fu fermata; e per un po' fu silenzio profondo. Ma poi qua e là furono accesi dei fuochi con gli arbusti raccolti per quelle ripe, e intorno ai fuochi quei militi si misero come al solito a sgranocchiare il loro pane. Da otto giorni non si cibavano quasi d'altro che di pane e cacio come il Generale, semplice uomo che faceva divenir semplici tutti e senza voglie, senza bisogni.
Quella sera si mise a dormire in un cantuccio di quell'accampamento, tra corte rocce ferrigne, dove i più novelli tra i suoi andavano timidamente a passargli vicino per guardarlo. Ma era veramente Garibaldi quell'uomo coricato su quella povera coperta, sotto quel mantello, con la sella del suo cavallo per origliere? Ed era Dittatore, e voleva levar via dal trono il Re delle Due Sicilie, egli così povero e che riposava così tranquillo, senza guardie né nulla? Pareva un sogno. Contemplatolo un poco, quei giovinetti se ne tornavano alle Compagnie, a dire che egli dormiva e che perciò tutto doveva andar bene. Ma tutti sentivano di trovarsi a una breve camminata da Palermo, da dove un generale un po' ardito avrebbe potuto condurre una colonna a sorprenderli; e guai se anche un'altra colonna mandata a sbarcare a Castellamare, per Alcamo e Partinico, per la via stessa che essi avevano fatta, fosse giunta alle loro spalle.
Invece quella notte passò quieta, senz'altra noia che d'un po' di pioggia. ma all'alba, che bella sveglia! Da un'altura di quell'anfiteatro scese sul campo improvviso un suon di banda, che parve venuta dall'infinito a far una melodia nota, ma tal quale come laggiù non gustata mai da nessuno in nessun teatro del mondo, e nemmeno in cuore dal Verdi, che l'aveva creata. Era il suo bolero dei 'Vespri Siciliani'. Benedetto lui! L'anima sua tornava a soffiare l'entusiasmo in quei cuori, in quel luogo, come già sul mare da Quarto a Marsala coi canti dei 'Masnadieri', col coro del 'Nabucco' "Va' pensiero sull'ali dorate." Una voce di tenore limpida e potente s'accordò subito ai suoni, adattandovi i bei versi del 'Giovanni da Procida' del Niccolini "Le Siciliane Vergini," e qualche parte del campo applaudiva.
Ripetuta tre o quattro volte, quell'aria dei 'Vespri' mise una grande agitazione. E non era più lo scoppio di gioia idillica d'Elena, che nel melodramma scende dalla scalea incontro al coro di fanciulle, che le portano fiori; ma passava come un vento eroico di martirio, che invitasse amici e nemici a morir insieme per la pace del mondo.
Il piccolo esercito si levò tutto; e allora fu un andare verso un punto dove la strada consolare mette da quell'orrido passo alla vista della Conca d'Oro. Tutti si fermavano là incantati. Vedevano giù in basso quel paradiso; e in fondo Palermo che pareva infinita; e nel tremolare della marina un fitto di antenne, navi da guerra certo le più, navi di tutta Europa e forse d'America, corse là per vedervi la gran scena che vi doveva avvenire. Di quella scena essi dovevano essere poi attori! Ma quando, come, con quali sorti? Sapevano che laggiù tra quelle mura stavano ventimila soldati, ma insomma v'erano pure dugentomila cittadini. E alcuni, quasi col sentimento dei diecimila di Senofonte quando scopersero il mare, gridavano: Palermo, Palermo!
Di là, il vecchio Ignazio Calona mostrava gli sbocchi dei monti da dove erano discesi i Napolitani di Florestano Pepe e di Filangeri, nel 1820 e nel 1849. A quelle due rivoluzioni egli aveva partecipato di venticinque anni e di cinquantatré, e si poteva immaginare con qual animo se tanto glie ne avanzava adesso, che ne aveva sessantacinque. E diceva con foco giovanile che nel maggio del 1849, quando Palermo si preparava all'ultimo sforzo per respingere Filangeri già vincitore del resto dell'isola, laggiù nella pianura che si vedeva tra la città e il Monte Grifone, ogni giorno accorreva gente d'ogni ceto a scavar fossati, ad alzar ripari, e che tutti lavoravano insieme signori e plebe, anche le dame e le più nobili fanciulle. A quei discorsi i giovani si esaltavano.
Così per tutta la mattinata fu una grande vivezza nell'accampamento, dove quei militi si facevano giocondamente ognuno da sé le più umili cose; si lavavano le camicie a una gran cisterna, si rattoppavano le scarpe, si ricucivano gli strappi dei panni così mal ridotti, che coloro che avevano indosso i più signorili parevano ormai i peggio vestiti. Ma alle belle persone, al portamento elegante, quella miseria dava quasi maggior risalto. Altri davano una ripulita ai fucili o si ingegnavano di raccomodarne i guasti. I cannonieri stavano intorno ai loro pezzi. Appoggiato alla gran colubrina, Antonio Pievani da Sondrio leggeva il Vangelo, e lo spiegava ad alcuni che aveva intorno. Tutti ascoltavano raccolti e pensosi, e facevano venire in mente i Puritani di Cromwell. Passava qualche scettico, stava un istante, poi se n'andava compreso di rispetto per quel soldato credente.
Ma in un canto dell'accampamento v'era qualcuno che, per dir così, teneva il posto che nei poemi cavallereschi hanno le Orche e i mostri. Sdraiato in terra, legato mani e piedi, vestito alla siciliana con certa eleganza, custodito da alcuni 'Picciotti' delle squadre del barone Sant'Anna, stava un uomo grande e forte, di viso cattivo. Guardava sprezzante e taceva. I garibaldini che andavano a vederlo, sentivano dire che egli era un tal Santo Mele, il quale sin dallo scoppio della rivoluzione aveva principiato a correre la campagna con alcuni ribaldi, rubando le casse pubbliche e assassinando gente. Aveva fino incendiato il villaggio di Calamina. E tutto aveva fatto in nome di certa sua giustizia che gli pareva d'aver diritto d'esercitare; anzi, se ne gloriava. I Siciliani che dall'esiglio erano tornati nell'isola con Garibaldi, dicevano che colui doveva essere 'Maffioso'; e spiegavano ai compagni la natura d'una tenebrosa società, che aveva le sue fila per tutta l'isola, in alto, in basso, nelle città, nelle campagne, dappertutto. Piace rammentare che i continentali scusavano l'isola, narrando che anche da loro vi erano state compagnie di malfattori che avevano esercitato una giustizia di loro genio, favoriti dalle plebi delle campagne e anche dai ricchi delle città, quando le leggi parevano torte contro la giustizia vera; e dicevano che quelli erano passati e che sarebbe passata anche la 'Maffia'.
Quel Santo Mele il giorno appresso sparì. Forse la 'Maffia' potentissima gli aveva dato aiuto fino in quell'accampamento.
Noiosissima cosa, nel pomeriggio di quel giorno cominciò a piovere. Senza tende, senza coperte era un gran brutto stare; ma il campo non si attristò per questo; anzi, vi fu un momento di gaiezza fin troppa. Era stato macellato un gran bove donato da un Comune là presso, e in certi pentoloni mandati pure da quel Comune, cuochi improvvisati cuocevano di quel bove a pezzi, e del riso. Ma quando si fu sul punto di scodellare, e tutti si sentivano già quasi nello stomaco quel ristoro, s'accorsero di non avere né gamelle né cucchiai, e una risata generale empì l'aria di chiasso. Però vi fu l'ingegnoso che si prese la parte sua di riso in una foglia di fico d'India, e allora tutti ai fichi, e nel cavo di quelle foglie coriacee un po' di quel cibo poterono gustarlo tutti. Quanto a vino ce n'era nel campo a botti.
Seguitò la pioggia tutto il resto del giorno e anche quella notte, sicché la dimane quella gente, fradicia fino alla pelle, faceva un brutto vedere. Garibaldi guardava mesto. Egli nella notte aveva fatto levar via una specie di baldacchino che alcuni di quei suoi militi gli avevano formato sopra con dei mantelli sostenuti da pali, mentre dormiva. Ma alfine anche quel giorno venne il sole, e ognuno tornò a sentirsi bene.
Intanto Garibaldi aveva meditato una mossa. Voleva piantar nella mente dei difensori di Palermo che egli avesse deliberato di assalirli da Renda per la via di Monreale, e creare in essi l'illusione che egli potesse scendere a farsi pigliare come in una trappola su quella via. Così la sera del 20, messo in marcia il battaglione Carini, lo fece calare nel villaggio di Pioppo, a pie' dei monti e già sul lembo della Conca d'oro. Ivi tenne quelle Compagnie tutta la notte. All'alba del 21 si spinse avanti egli stesso dove erano già i Carabinieri genovesi, con le compagnie del battaglione Bixio passate anch'esse durante la notte. Quasi subito l'avanguardia venne alle schioppettate con gli avamposti napolitani, mentre che a sinistra, su pei fianchi dei monti, si svolgeva una loro ala, certo per aggirare la gente garibaldina, calarle addosso e metterla in rotta tra gli aranceti del piano.
Quel mattino i napolitani parevano di buon umore. Ma la loro ala girante s'abbatté nelle squadre di Rosolino Pilo, che stava a mezza costa, e dovette arrestarsi. Allora s'impegnò lassù un fuoco vivissimo di fucileria, a cui le squadre ressero bravamente, per più di due ore, finché i borbonici furono costretti a ritirarsi. E giù nel piano le Compagnie garibaldine, menate avanti, indietro e poi ancora avanti per modo che esse stesse non ci capivano più nulla, verso il mezzodì ricevettero l'ordine di ritirarsi. Videro Garibaldi tornar dalla fronte col suo Stato maggiore in sì gran fretta, che avrebbero potuto credere di doversi sentir dietro i compagni dell'avanguardia fuggenti; ma bastò loro guardar in faccia il Generale, e la breve ritirata di ritorno al Passo di Renda fu fatta con calma. Risalite lassù trovarono sul ciglio del passo i cannoni in posizione con le gole chinate verso la pianura, dove, volgendosi a guardarla, vedevano brillar non lontano le armi dei nemici distesi. Forse questi si apparecchiavano a farsi avanti. E allora pareva di capire che Garibaldi avesse mirato a tirar fuori di Palermo una parte di difensori per piombarle addosso, e se la fortuna lo secondasse, romperli, ed entrare con essi in Palermo, che sarebbe insorta.
Invece seguì una gran quiete. Ma in quella quiete si sparse una notizia dolorosa. Rosolino Pilo, che su quei colli di San Martino, con le sue squadre, aveva così ben rintuzzato l'attacco dei regii, era stato colpito al capo da una palla di rimbalzo, mentre scriveva un biglietto a Garibaldi. Ed era morto, povero prode, con in vista la sua Palermo laggiù, sospirata dall'esilio per undici anni. Alla testa delle sue squadre rimaneva l'amico suo Corrao, uomo di gran coraggio ma incolto e di poco prestigio; e così con la gran figura di Pilo veniva a mancare una delle forze più vive della rivoluzione. Perciò si diffuse una gran mestizia, Garibaldi fu visto afflittissimo; e facilmente il pensiero de' suoi passava da Pilo a lui, che da una palla poteva essere spento da un'ora all'altra.
E allora?

Marcia notturna alto

Venne intanto la sera, una sera cupa che minacciava una notte di pioggia. Eppure le Compagnie furono fatte mettere sotto le armi e in marcia, di nuovo come il giorno avanti sulla via per discendere a Pioppo. Dunque Garibaldi si ostinava davvero a tentar Palermo da quella parte e con un attacco notturno? Fosse pure! Gli animi erano ben disposti, perché quello stare con la gran città alle viste e con le spalle mal sicure cominciava a diventar fastidioso. E marciarono. Ma là dove la via chinava, dove sul mezzodì avevano visto i cannoni in batteria, i cannoni non c'erano più, e le Compagnie invece di scendere, si videro fatte girar a destra per entrare in un sentiero che non poteva menare se non sulle creste di certi monti, dei quali nei due giorni passati nel campo di Renda avevano potuto considerare l'asprezza. All'imbocco di quel sentiero, soldato per soldato ricevevano tre pani da alcuni uomini, che agli ordini del capitano Bovi, bolognese, facevano fretta ai passanti che pigliassero e andassero. Quei tre pani volevano dire tre giorni forse di marcia per le montagne. Erano dunque preziosi; onde i più dei soldati non sapendo dove se li mettere, inastate le baionette ve li infilzavano, e tiravano via col fucile in spalla sbilanciato a quel modo, celiando. Ma come fu notte chiusa e il sentiero venne a mutarsi in sterpeto, si fecero alquanto tristi. Sennonché a un certo punto trovarono Garibaldi che tribolava a mandare avanti dei contadini, i quali curvi sotto lunghe stanghe portavano a spalle appesi a quelle i cannoni smontati, dieci o dodici per ciascun pezzo. E li esortava, e li metteva sul gioco di moversi ognuno con tutte le sue forze, li aiutava persino, e per insegnar loro come dovevano stare sotto la stanga ci si metteva egli stesso. In quel mestiere lo secondavano il Castiglia, il Rossi, il Burattini, i marinai del Lombardo e del Piemonte, già sin da Salemi formati in una piccola Compagnia.
Con quell'esempio la colonna sfilava, un uomo dietro l'altro oramai, ché per due non c'era più luogo. E cominciò una pioggerella che presto divenne fitta tra quelle tenebre, dando alla gente il senso di camminare nelle nubi. Ah le belle vie di Milano, di Venezia, di Genova, tutte inondate di luce, a quell'ora! I pani, inzuppandosi, cascavano giù dalle baionette, cascava qualche uomo a ogni passo; tuttavia si rideva ancora, ma, per dir così, d'un malinconico riso interiore. Metteva un po' di sgomento il non veder più nulla, salvo dei gran fuochi indietro nel campo di Renda abbandonato, e un altro gran fuoco solitario avanti, lontano, verso il quale si accorgevano di marciare; mentre dal fondo, sulla sinistra, salivano a intervalli i gridi d'allerta delle sentinelle napolitane. Dalla testa della colonna veniva il nitrito d'un cavallo, insistente, selvaggio. A un tratto s'udirono due colpi di fuoco. Fu un fremito per tutta quella sfilata: forse l'avanguardia s'era imbattuta nel nemico. Ma poi non si udì più nulla. E sempre tirando avanti, passò la voce che quei colpi erano stati scaricati da Bixio nella testa del suo cavallo, per farlo smetter di nitrire; atto proprio da Bixio che aveva voluto far quella marcia del diavolo in sella. Era vero. Andando avanti, i soldati passavano vicino a un cavallo spianato là morto fuori de' piedi.
Quando fu quasi l'alba, le Compagnie si trovarono a calare dalle ultime falde di quei monti su d'una grossa borgata. Pioveva ancora. Credevano d'aver camminato lontano, e invece la Conca d'oro era ancora lì davanti ad essi come quando stavano a Renda, solo che adesso la vedevano da oriente. Mirabile marcia! Garibaldi che per natura si ricordava così poco delle cose fatte, ebbe ragione quando, riparlandone dopo molti anni, disse che neppure in America si era trovato a farne fare una a' suoi, somigliante a quella del Parco. E non un uomo si era perduto; qualche ritardatario aveva saputo serrarsi presto alla colonna; anche i cannoni erano venuti per quelle balze.
Ma in quale stato, povera gente! Il borgo di Parco sia lodato sempre pel modo come la accolse. Non ci fu casa che non si aprisse a ristorare qualcuno, a rasciugare i panni, a rifornirne che non poteva più tener indosso i propri, ridotti in cenci, a rincalzare chi non aveva più scarpe in piede. Ma ancora più da lodarsi quel borgo, perché si prese in seno tutta quella gente, e se la tenne celata tutto quel giorno e la notte appresso, senza che nulla ne trapelasse ai borbonici, campeggianti nella Conca d'oro.

Un frate strano alto

Cotesto giorno, uno di quei soldati fu fermato da un giovane monaco che egli avea già veduto girare pel borgo, e soffermarsi qua e là a parlare coi suoi compagni. E capì subito che era un'anima tormentata da qualche gran cruccio. Avviato il discorso, il monaco si spiegò: avrebbe voluto gettarsi nella rivoluzione, ma qualcosa lo tratteneva. Seduti a pie' d'una delle tre grandi croci che sorgevano su d'un poggio a figurarvi il Calvario; quei due parlavano già come vecchi amici. E il garibaldino diceva al frate che se avesse voluto entrare nella sua Compagnia, vi avrebbe trovato il Comandante e gli ufficiali e molti militi siciliani tornati dall'esilio; e che l'esser frate non voleva dire; che già altri frati avevano combattuto per Garibaldi a Calatafimi e che anzi, un francescano lo seguiva già da Salemi. Il monaco rispondeva che pur ammirando Garibaldi gli pareva che quella ch'egli combatteva non fosse la guerra di cui la Sicilia aveva bisogno. L'unità d'Italia e la libertà pel vero popolo siciliano erano quasi nulla. Che potevano farsene quelle plebi ancora oppresse da tutte le ingiustizie, altrove, in Piemonte, in Lombardia, levate da un secolo? Non avevano visto essi venuti da fuori, per quel poco che avevano già corso dell'isola, quanta era la miseria e quanta l'abiezione di quelle plebi? La libertà non era pane per lo stomaco e nemmeno per lo spirito; anzi sarebbe poi per i già prepotenti un mezzo per opprimere di più. In Sicilia era necessaria una guerra che trasformasse la società e la vita, facendo guadagnare al popolo il tempo che per forza gli era stato fatto perdere. Non vedeva Garibaldi che la Sicilia era ancora quasi come doveva essere stata ai tempi delle guerre servili di venti secoli avanti? Insomma quel monaco voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma contro tutti gli oppressori grandi e piccoli, che si trovavano laggiù dappertutto.
Il garibaldino cui pareva di non capir quasi come un monaco parlasse a quel modo, gli diceva che allora quella guerra ch'egli voleva avrebbe dovuto esser fatta anche contro i frati ricchissimi, e molti. E il monaco ardente rispondeva che sì, che anche contro i frati si doveva farla, contro di essi prima che contro d'ogni altro, ma col Vangelo in mano e con la Croce: che allora anch'egli ci si sarebbe messo, ma che così come era fatta e per quel che era fatta, gli pareva inutile. Se Garibaldi avesse guardato bene, si sarebbe accorto che le plebi lo lasciavano solo coi suoi.
Allora il garibaldino accennò alle squadre che numerose tenevano i monti qua e là. - E chi vi dice - esclamò il monaco con voce risoluta - chi vi dice che non si aspettino qualche cosa di più? -
Il discorso era stringente. Il garibaldino che non si voleva dar vinto, sentiva tuttavia che il monaco ne sapeva più di lui. Mirava quel volto illuminato da una fiamma che non era la sua di mazziniano, taceva un po' confuso e anche alquanto impicciolito. Poi egli e il monaco si levarono di là, si abbracciarono, e questi se n'andò. Egli discese tra i suoi con l'animo turbato e scontento. Gli pareva d'aver imparato molto in quel colloquio, e vagamente sentiva che l'unità della patria non era tutto, che la libertà avrebbe scoperto molte piaghe, alle quali poi col tempo altri avrebbe dovuto pensare. E se ne ricordò e pensò a quel monaco trent'anni dipoi, quando proprio da quella parte dell'isola parlò più alto l'antico dolore che quegli sin da quel tempo remoto sentiva.


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