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Storia dei Mille

Storia dei Mille, di Giuseppe Cesare Abba

Copertina Parte 01 Parte 02 Parte 03 Parte 04

In questa sezione:


I borbonici all'offensiva alto

Tornando ai fatti allora presenti, i borbonici si erano svegliati la mattina del 25 maggio, certi di avere ancora in faccia Garibaldi su al passo di Renda, dove tutta la notte erano stati tenuti accesi dei grandi fuochi. Ma allo schiarirsi s'accorsero che egli non era più là. Dove mai poteva essere andato? Forse la prima supposizione fu ch'egli si fosse ritirato indietro. Non passò loro neppur per la mente che avesse fatto quella marcia inverosimile per andarsi a porre sul loro fianco in quel nascondiglio di Parco. E non ne seppero nulla tutto quel giorno, perché la Sicilia non dava spie, non ne seppero fino al mattino appresso, quando videro coronarsi d'armati il poggio che sorge sopra quel borgo. Certo là era lui; quelle che si vedevano non potevano essere squadre. E deliberarono di andare a trovarlo.
Il dì stesso sul vespro mossero, e parve per assalire Garibaldi in due colonne a tenaglia. Ma non era che un movimento per saggiarlo o forse per tirarselo giù nel piano. Egli aveva scelta bene la sua posizione; piantato Bixio a mezza costa col suo battaglione, il battaglione Carini aveva schierato lungo la strada che sale per quel dosso ed entra poi tra i monti verso Piana de' Greci. I cannoni erano in batteria. Tutto era pronto per ricevere i borbonici. Ma la loro ala sinistra si avanzò appena a tiro di fucile, e scambiò qualche colpo con alcuni 'Picciotti' che stavano sulle più basse falde, l'altra non si inoltrò neppur tanto. Erano dunque soltanto ricognizioni, ma volevano dire che per l'indomani si preparava qualche cosa di grosso.
E avvenne.
Alla levata del sole, un gran tratto della via da Palermo a Monreale fu visto dal Campo di Garibaldi sfavillar tutto d'armi. Pareva che i ventimila uomini del presidio fossero usciti tutti alla campagna, tanto era lunga quella traccia, la cui testa entrò nei fitti pomari e continuò a marciarvi nascosta, come s'indovinava dall'accorciarsi delle sue code.
Garibaldi, fermo nelle sue posizioni, faceva lavorar di zappa il suo Genio e la sua Artiglieria, come se si preparasse a ricevere l'assalto. Aveva già mandati i Carabinieri genovesi alla posta, là dove il primo incontro degli assalitori doveva naturalmente seguire, certo che contro le loro carabine il nemico si sarebbe sentito cader la baldanza. Antonio Mosto doveva pensare a reggervi quanto fosse possibile a brava gente qual era la sua, e alla fine ritirarsi la via che tutta la Colonna avrebbe pigliata, perché Garibaldi, contro ogni apparenza data da principio alle proprie intenzioni, aveva deliberato un'altra volta la ritirata, quasi la fuga. Infatti, quando i primi colpi dei Carabinieri genovesi annunziarono che la colonna nemica attaccava, egli mise le sue Compagnie in marcia con l'artiglieria già avviata; passò egli stesso avanti a cavallo, disse qualche parola d'incoraggiamento, e un po' di gran passo e un po' di corsa, in una stretta lunga parecchie miglia, la marcia fu gagliardamente condotta.
Va' e va', anche quella volta le Compagnie furono messe a una dura prova, perché quando trafelate giunsero a veder la Piana de' Greci, e idealmente già vi si riposavano, con quel sentimento che devono avere sin gli uccelli migratori di oltremare all'apparire della terra; ecco le Guide a sbarrar loro la via e additare la salita a un monte. Uno sgomento! Ma lassù era già il Generale, di lassù chiamavano con alte grida ben note i più rotti alle fatiche; bisognava raggiungerli perché il nemico tentava di precederli alla Piana de' Greci varcando quel monte. Chi non era addirittura spossato ubbidiva.
Veramente il Comandante nemico che aveva ideato quel movimento, si era ingannato sulla possibilità d'eseguirlo, data la mobilità delle compagnie garibaldine. Contro altra gente forse gli sarebbe riuscito. Ma esso non aveva ancor guadagnata la prima, e già Garibaldi gli appariva sulla seconda delle cime che credeva di aver tempo a varcare, avanti che i garibaldini avessero percorso la via da Parco alla Piana. Così non ci fu che uno scambio di fucilate lassù da gola a gola; poi i borbonici se ne tornarono indietro giù pel versante verso Parco; Garibaldi, ridisceso dalla parte sua, andò a occupare la Piana de' Greci.
Si chiama così la città degli Albanesi, adagiata in mezzo a una campagna grigia, grigia essa stessa e tetti e muri e tutto. Almeno aveva tale aspetto quel giorno, vista traverso l'aria infiammata del mezzodì, che tremolava come una sottilissima rete di fil d'argento, sì che uno avrebbe detto di poterla palpare solo a far quattro passi avanti. Oh che sole! Che refrigerio sarebbe stato sdraiarsi appena giunti tra quelle case! Ma la gente della città fuggiva. Cosa le avevano fatto credere di quei forestieri, di quel Garibaldi di cui anche i preti, i frati e le monache dicevano bene? Sapeva quella gente che i garibaldini avevano i borbonici alle spalle, e temeva che in quella sua città volessero far fronte al nemico e aspettarlo a battaglia? Certo non era cosa che dovesse incuorarla a stare. Il fatto è che fuggiva. Ed era proprio il 24 maggio, giorno che per costume di secoli gli Albanesi della Piana salgono al Monte delle Rose, a cantarvi con le fronti volte a oriente, verso l'antica patria, lamentose parole nella loro antichissima lingua.

O bella Morea,
Da che ti lasciai non ti vidi più!
Quivi trovasi mio padre,
Quivi la madre mia,
Quivi i miei fratelli sepolti ho lasciati.
O bella Morea,
Da che ti lasciai non ti vidi più.

Quella data, quell'ascesa, quel canto ricordavano loro i dolori degli avi tre secoli e mezzo indietro, che per non soggiacere ai Turchi s'erano rassegnati a lasciar l'Albania, e col fior degli Epiroti condotti da Giorgio Scanderberg avevano trovato rifugio in Sicilia, portando seco loro le immagini e quanto possedevano di più caro. Fiera e costumata gente, orgogliosa della sua origine, che ne' suoi canti serba vivo il sentimento di quattro secoli, e sogna ancora che uno del suo sangue possa, quando che sia, ricondurla nella vecchia patria lontana.
Si può dire che i Garibaldini videro appena gli abitanti della città, perché, accampati fuori, stettero stanchi, inquieti e pensosi d'altro. Sapevano che da un'ora all'altra il nemico che li seguiva sarebbe apparso. I Carabinieri genovesi che, sostenuto il primo assalto al Parco, s'erano ripiegati sulla colonna, raccontavano che i borbonici erano almeno cinque mila, mercenari bavaresi la più parte, con artiglieria e cavalleria. E lamentavano di aver perduto nello scontro Carlo Mosto e Francesco Rivalta, ai quali forse quei feroci non avevano dato quartiere. Tutti dunque erano pensosi. Che cosa meditasse il Generale lo ignoravano; se quella fosse una manovra o una vera ritirata, nessuno poteva dirlo. Garibaldi ne scrisse poi, riconoscendo egli stesso che quel giorno poteva essergli funesto, se avesse avuto da fare con un nemico più diligente.
Verso sera, le Compagnie furono rimesse in marcia, e ancora quasi con aria di ritirarsi in fretta. L'artiglieria e i pochi carri erano già stati incamminati verso Corleone, scortati da poche dozzine di quei militi, tra i quali i non ben guariti di Calatafimi. L'Orsini comandante dell'artiglieria aveva ricevuto l'ordine di andare, andar sempre; e la colonna gli si mise dietro persuasa che omai di Palermo non si sarebbe più parlato, se pure non c'era da dubitare che tutto dovesse finire con quanto già s'era sentito sussurrare due volte, cioè che Garibaldi avrebbe sciolta la spedizione, lasciando a ciascuno la cura di mettersi in salvo da sé. L'ora correva triste.
Ma dopo aver marciato un pezzo e fatta notte, la Colonna fu menata fuor della via Consolare a piantarsi in un bosco, dove accampò. Il luogo era selvaggio. E ordine fu dato di non parlare, di non accender fuoco neppure per fumare, di sdraiarsi ognuno nel posto ove si trovava senza più moversi per nulla.
Si discusse molto per trovare se tutte le cose che Garibaldi aveva fatto nei due giorni avanti a quello, e ciò che fece nei due dipoi, siano state fasi d'esecuzione d'un suo concetto svolto con intenzioni ben determinate; o se tutta una sequela di fatti, non legati tra loro da verun concetto, e venuti quasi fortuiti ora per ora, l'abbiano condotto al resultato glorioso d'entrar in Palermo, nel modo, per dir così, favoloso con cui v'entrò. E così, soltanto a discuterlo, si disconobbe tutto il suo studio di quei giorni, che fu di trar da Palermo una parte del grosso presidio; illuder questo, creandogli l'opinione d'aver costretto lui a rifugiarsi co' suoi lontano; illudere il Comando supremo della capitale, farlo sicuro ch'egli non tornerebbe, tanto che vigilasse meno e si lasciasse sorprendere. Certo nell'esecuzione di quel suo disegno vi furono dei momenti ne' quali poté parere il disegno stesso non fosse ben fermo, né Garibaldi lo contesterebbe. Ma poi, che contestare quando si sa come egli pensava e sentiva? La guerra non la faceva per gusto, e non era per lui né scienza né arte. Si trovava al mondo in queste nostre età, in cui essa è ancora uno dei mezzi per far trionfar la giustizia, e la faceva senza cercarvi né gloria né altro. Anzi ne dimenticava i fatti appena li aveva compiuti. Non è forse vero che quando, per esempio, scrisse di Calatafimi, che pur egli stimava uno de' suoi più bei fatti d'armi, ne scrisse quasi come uno che non vi fosse stato presente, e non avesse mai visto neppure quel campo? Nei tempi che verranno, tale noncuranza sarà forse il titolo più alto per la sua gloria di generale, cui nessuno preparava i mezzi di guerra, che tutto doveva improvvisare ed eseguire, solo con l'aiuto d'uomini devoti a lui come a un'idea; e col sentimento del bene, e con la fede in qualche cosa di superiore da cui si credeva assistito, andava avanti vincitore sempre, almeno moralmente anche quando era vinto.
In quel bosco, la forza misteriosa superiore da cui gli pareva d'essere assistito, gli si rivelò nello splendore d'Arturo, la bella stella che egli sin da giovane marinaio aveva scelta per sua. Lo udirono i suoi intimi rassicurarsi in quello splendore. Ciò almeno fu detto e creduto per tutto il campo, dove sottovoce si diceva che il Generale era lieto perché Arturo appariva fulgido più che mai.
E se era n'aveva cagione. In quella notte, poco distante dal bosco, per la via consolare di Corleone, il nemico marciava sicuro di andare dietro di lui rotto e in fuga, e mandava a Palermo la notizia, e la notizia andava a Napoli, e Napoli diceva al mondo un'altra bugia così: "Le regie truppe riportarono una segnalata vittoria. Garibaldi battuto una seconda volta al Parco, perduto un cannone e sconfitto a Piana de' Greci, fuggiva inseguito dalla milizia verso Corleone. Gravi dissensi tra i ribelli."
Invece quelle milizie non avevano battuto nessuno, non preso cannoni, né inseguivano lui ma la sua artiglieria, di cui in quella manovra aveva saputo disfarsi; e lui si lasciava alle spalle coi suoi, più d'accordo che mai coi ribelli siciliani, e prossimi a far con essi la congiunzione.
Infatti all'alba, egli salì da quel bosco a Marineo, e vi si trattenne fino alla sera; poi marciò a Missilmeri, dove, come gli annunziava un messaggio del generale La Masa, lo aspettavano quattromila isolani che questi aveva raccolti per lui.
Certo la posizione in cui Garibaldi s'era posto con quella mossa era pericolosissima. Bastava che una spia ne avvisasse il Comandante della colonna nemica da lui così ben elusa, perché essa tornasse indietro a schiacciarlo sotto Palermo. Tanto era ciò facile, che nella marcia di notte, da Marineo a Missilmeri, in un momento di sosta fu quasi da tutti creduto di averla addosso. E allora? Il senso della lor condizione era in tutti profondo. Ma non fu nulla. Ben presto, ripresa la marcia, apparve non lontano una gran luminaria. Era Missilmeri che li invitava.
Vi giunsero verso la mezzanotte e vi si posarono. Quanto erano tornati vicini a Palermo? La gente di Missilmeri diceva loro che dopo una piccola marcia, subito salito il monte a ridosso del paese, l'avrebbero veduta.
E la rividero il giorno appresso, da quel monte di Gibilrossa. Di lassù guardando a sinistra potevano anche scoprire quasi tutte le terre che avevano percorse. Oltre certi monti lontani doveva trovarsi Calatafimi. Come vi stavano i cari feriti gravi, dei quali non avevano più risaputo nulla? E quanti vi erano morti?

Gibilrossa alto

Su quella sorta d'altopiano, se si può chiamar così la cima di Gibilrossa, formicolava il campo dei 'Picciotti' di La Masa, che vi facevano un sussurro come nelle selve il vento. Erano forse quattromila, ma pochi gli armati almeno di fucili da caccia. Tuttavia davano da sperare che, avventati a tempo opportuno, anche gli armati soltanto di picche avrebbero fatto da bravi. Aveva detto Garibaldi che ogni arma era buona, purché impugnata da un valoroso.
I continentali si frammischiavano a quelle squadre, a farsi descrivere nelle belle e immaginose parlate sicule le parti dell'isola da cui erano venuti. E osservavano che anche i più rozzi di quei 'Picciotti' avevano pensieri e sentimenti elevati, e che riusciva loro d'esprimerli quasi con eloquenza. Ispidi all'aspetto, erano squisiti dentro come certi frutti maturati ai loro lunghi soli. Ma anche pareva che alcuni di essi parlassero dialetti che sapevano di lombardo e di monferrino! E di ciò si maravigliavano appunto i lombardi, tra i quali Telesforo Cattoni del Mantovano, angelico giovane a ventun'anni già dottore in legge e studioso di lettere, cui l'ingegno lampeggiava negli occhi. Ma Domenico Maura calabrese, dottissimo uomo sulla cinquantina, che sempre tra quei giovani parlava di Dante, diceva che se la fortuna avesse secondato Garibaldi, essi avrebbero poi trovato da maravigliarsi anche in Calabria, sentendo in certi villaggi parlar piemontese dai discendenti dei Valdesi scampati dalle persecuzioni. Quelli che lì in Sicilia avevano del lombardo e del monferrino, erano discendenti d'avventurieri e di favoriti tirati nell'isola dal gran Conte Ruggero, quando vi condusse sposa Adelaide di Monferrato. Dietro quella gentildonna uscita dal paese più cavalleresco d'Italia, erano corsi a frotte nell'isola gentiluomini d'ogni grado, e Ruggero aveva dato loro da abitare certi luoghi, che per il numero grande di quegli ospiti furono poi chiamati villaggi lombardi. E coloro vi si erano misti e fusi coi nativi, greci, arabi e normanni, pur conservando le loro consuetudini e i loro dialetti. Aidone, Piazza, Nicosia, altre cittadette erano di quei luoghi.
Nel pomeriggio di quel giorno, apparvero lassù alcuni uomini di mare in calzoni bianchi, e si disse subito che erano ufficiali delle navi inglesi ancorate nel porto di Palermo, saliti per vaghezza a visitare quell'accampamento. Sapevano essi che v'avrebbero trovato Garibaldi? E se lo sapevano, poteva ignorarlo il Comandante generale borbonico di Palermo? Ciò dava dell'inquietudine. Essi intanto recavano che nella gran città tutti erano persuasi della fuga di Garibaldi, che anzi questo si leggeva stampato sulle cantonate, che l'ufficialità del presidio esultava, ma che n'era addolorato e sgomento il popolo, cui la sbirraglia raddoppiava gli insulti. Diedero per primi anche la notizia che il governo di Napoli aveva chiamato 'filibustieri' Garibaldi e i suoi appena partiti da Quarto, denunciandoli al mondo come pirati; e il nome di 'filibustieri' fu subito preso per titolo di vanto da quei giovani, come da altri in altri tempi altri nomi vituperosi. Aggirandosi nell'accampamento, quegli Inglesi si dilettavano di schizzare i profili dei più pittoreschi tra quei Garibaldini; si facevano scrivere nei loro taccuini i nomi di questo e di quello, davano delle strette di mano che parevano strappi; insomma sembravano in festa, e si facevano promettere una visita sulle loro navi.
Ma i politici, e tra quei militi ve n'erano molti, mormoravano. Ah gli Inglesi? Sempre dove avevano toccato avevano lasciato l'ipoteca o fatto mercato. Berchet li aveva ben giudicati ne' suoi 'Profughi di Praga'! Essi forse agognavano che in Sicilia si versasse tanto sangue che non fosse più possibile nessuna pace coi Napolitani: e poi d'accordo con Napoleone si sarebbero presa l'isola, lasciando libero lui di farsi dar la Sardegna da Vittorio Emanuele, e questo di dargliela. Napoli con le sue provincie continentali sarebbe rimasto ai Borboni. E così salvi questi, salvato al Papa il resto del regno, l'Austria si sarebbe baciate le mani di veder questi contenti e di tenersi il Veneto; la Russia contentissima, avrebbe applaudito; e l'unità d'Italia, addio!
Queste cose si dicevano a Gibilrossa dai mazziniani specialmente; e di quelli che le ascoltavano chi le credeva già quasi belle fatte; chi ci si arrabbiava a discuterle, a negarle, e chi crollava le spalle, ridendo. A buon conto, se era vero qualcosa d'altro che già si sussurrava, quegli Inglesi avevano portato a Garibaldi i piani delle fortificazioni di Palermo e dei posti occupati dal nemico alle porte. Questo era bene sapere, perché il tempo incalzava, si avvicinava qualche grand'ora, e con quella tal colonna andata dietro all'Orsini e che poteva da un'ora all'altra apparire alle spalle, bisognava far presto.

*

Potevano essere le sedici all'italiana antica, come si contavano le ore laggiù, quando si sentì dire che Garibaldi aveva chiamati a sé tutti i suoi maggiori ufficiali e i Comandanti di tutte le Compagnie. Grande commozione, grande attesa. Il campo pareva stare tutto in ascolto. Si seppe poi subito che in quel consiglio Garibaldi aveva fatti due casi: o ritirarsi a Castrogiovanni e là in luogo forte attendere che la rivoluzione ingagliardisse e giungessero dal continente altre spedizioni; oppure gettarsi su Palermo. Si diceva che tutti i Comandanti avevano gridato con entusiasmo: "A Palermo!" e che anzi Bixio aveva soggiunto: "o all'inferno!" Allora corse per tutta quella gente un tal fremito, che parve s'animassero fin le rocce. La gran risoluzione era presa: presa in quel punto di Gibilrossa dove fu fatto poi sorgere l'obelisco di marmo che vi si vede biancheggiare dal mare e dai monti, a ricordanza di quell'ora suprema.
Lassù fu anche stabilito l'ordine della marcia; impegno delicatissimo, in cui Garibaldi seppe usare tatto squisito. Egli aveva deliberato di tentare l'assalto di Palermo dalla Porta Termini, piombando improvviso, all'arma bianca, sulla guardia quale e quanta essa fosse. Ma in ciò non poteva adoperare le squadre del La Masa, neppure quelle armate di fucile, perché non avevano baionetta. Eppure non gli pareva né prudente né giusto, privar affatto i Siciliani di quel grande onore di andar primi o almeno coi primi, alla presa della loro capitale. Perciò risolse di far marciare alla testa un mezzo centinaio di Cacciatori delle Alpi condotti dal Tukory, i quali dovevano cadere come ombre addosso alla vedetta nemica. La avrebbero trovata oltre certe case, a pie' di un altissimo pioppo. Bisognava impedire come che fosse che quel povero ignoto soldato desse l'allarme alla guardia del Ponte dell'Ammiraglio; sorte strana di un semplicissimo uomo, dalla cui piccola vita poteva dipendere tutto un mondo di cose grandi.
Dietro quel drappello doveva marciare un mezzo migliaio di 'Picciotti', poi i Carabinieri genovesi e appresso tutte le Compagnie dei Cacciatori delle Alpi. Ultimo in coda, avrebbe seguito il grande stormo.
Disposte così le cose, tutti quei corpi furono condotti a pigliar il posto loro assegnato, nei pressi del Convento che sorge lassù, per aspettarvi che imbrunisse.
I Cacciatori delle Alpi abbandonavano così quei luoghi, dove avevano passato una delle loro giornate più tormentose, sotto un sole feroce, senz'altro riparo che di poveri fichi d'India. E in tutta quella giornata non avevano ricevuto che ognuno un pane e una fetta di carne cruda, che avevano mangiato chi rosolandosela al fuoco sulla punta della baionetta, chi scaldandosela sulle rocce arse dal sole, chi tale e quale. Non erano mesti né lieti, si incamminavano forse alla morte. Ma se avessero avuto fortuna, se fosse loro riuscito di penetrar nella gran Palermo, e farvi levar su tutto il popolo come un mare, e pigliarsela, che grido di gloria per tutta l'Italia, che gioia poi poter dire: io v'era! A ogni modo, meglio quel cimento supremo, meglio che star dell'altro in quelle incertezze, per finire alla meno peggio e tornare se forse e chi sa come, nell'Alta Italia mortificati.
Intanto che veniva la notte, furono fatte dai Comandanti raccomandazioni amichevoli. Marciare in silenzio; non badare a rumore che potesse venire da qualsifosse parte; non si lasciassero impaurire dalla cavalleria, se mai, come era da prevedersi, ne fosse capitata sui fianchi della colonna. Contro di essa bastava formare i gruppi, giovandosi degli accidenti del terreno, e tirare ai cavalli. Del resto, la fortuna di Garibaldi avrebbe sempre aiutato, e all'alba sarebbero stati in Palermo. Con certa esaltazione qualcuno ripeteva che Bixio aveva già detto: "A Palermo o all'inferno."

La calata a Palermo alto

Appena fu buio, la colonna si mise in marcia e cominciò subito la discesa. Allora, di là, fu veduto il vastissimo semicerchio di monti, che serra la Conca d'oro, coronarsi di fuochi, come se dappertutto vi fossero dei piccoli accampamenti. Se si volesse così avvisare il popolo di Palermo perché si preparasse, o confondere i borbonici non si sapeva. Ma intanto quei fuochi empivano di una forza misteriosa l'anima della colonna in marcia, fino a crear l'illusione che da tutti quei punti movessero su Palermo tante altre colonne di insorti, per assalirla da tutte le porte, e trovarvisi dentro insieme con Garibaldi, il giorno seguente, a celebrar la festa dello Spirito Santo. Era proprio la vigilia della Pentecoste. L'anno avanti, il 27 maggio, Garibaldi aveva vinto gli Austriaci in Lombardia a San Fermo; il 27 maggio del 1849 aveva messo piede sul territorio del Regno a Ceperano, dietro il Borbone fugato da lui, generale della Repubblica romana: anche una terza volta quel giorno poteva segnargli forse una bella data.

*

L'ampia strada, che oggi sale per agevoli giravolte a Gibilrossa, allora non esisteva. Non era che un sentieruccio giù pel ripidissimo pendio, dove bisognava camminare con l'olio santo in mano, sull'orlo d'un borro tutto balzi e sfasciume. Eppure, per quella traccia calò senza disgrazie tutto quel mondo, anche Garibaldi che andava su d'un cavallo molto tranquillo, che finì poi nelle mani di Alberto Mario, cui fu donato.
Perduto alquanto tempo a riordinarsi giù a piè del monte, la colonna si rimise in marcia lenta e silenziosa. Ululavano per la campagna a sinistra i cani da lontanissimo; da destra muggiva il mare; non era molto buio; faceva quasi freddo, per la gran guazza.
Nel piano, la via correva fiancheggiata da muriccioli a secco tra oliveti, e a tratti fra case mute e tetre. Da una di quelle case là attorno, veniva un tintinno di pianoforte, che ora si udiva ora no, e dava una di quelle malinconie che son fatte di dolore, d'amore, di speranza, di desideri, d'un po' di tutto ciò che è gentile in noi. Chi mai sonava in quell'ora tanto tranquilla, mentre stava per cominciare la musica della morte?
E pareva che fosse ancora molto lontano il gran punto, il gran momento, e che l'alba volesse venire più presto del solito, troppo presto. Perciò fu fatto incalzare il passo, ma sempre più raccomandando il silenzio. Poi la colonna sboccò nella via Consolare. Allora le compagnie dei Cacciatori delle Alpi si misero per quattro, serrando così più sotto, con l'ordine di tirar avanti senza badare a chi si arrestasse, e di stringersi ai muri degli orti. I cuori battevano già. Ma ad un tratto li schiantò addirittura un uragano di grida e di fucilate scoppiato alla testa, perché a un certo punto che si chiama Molino della Scafa, i 'Picciotti', credendo forse d'essere già alle prime case di Palermo, si misero ad urlare. E molti di essi, presi chi sa per qual cosa dal panico, si arrestarono, si scomposero, si rovesciarono sui Carabinieri genovesi, cagionando il rigurgito di tutta la colonna. Accorse Bixio inviperito contro il La Masa; accorse Garibaldi che richiamò lui alla calma; e volto ai Carabinieri genovesi gridò: "Colonne di bronzo, le spalle anche voi?" All'immeritato rimprovero, il Mosto rispose mesto, ma fermo: "Noi siamo al nostro posto, e abbiamo aperte le righe per non esser travolti."
Garibaldi sapeva bene cosa erano quei prodi; e del resto tutto ciò fu un lampo, perché pigliata subito la corsa avanti, una corsa impetuosa, serrata, gridata; il meglio della Colonna fu di lancio sotto il fuoco dei Cacciatori borbonici, che difendevano il Ponte dell'Ammiraglio. In quella prima luce apparvero il profilo a schiena d'asino e i dieci o dodici pilastri interrati del ponte, brulicanti d'uomini e d'armi nel fumo, visione da sogno, ma incancellabile anche per chi non sapeva che quel ponte normanno aveva ben più di sette secoli sulle sue pietre.
Così adunque la sorpresa tanto ben preparata era venuta in parte a mancare. Ma quei Cacciatori che avevano dormito intorno al Ponte, con l'animo sicuro che Garibaldi era in fuga lontano; a un assalto così violento, presi alla baionetta, non ressero a lungo, e si ritirarono fuggendo da disperati, tanto che invece d'andar a piantarsi dietro a una loro gran barricata oltre il crocicchio di Porta Termini, come avrebbero dovuto, giunti appena al crocicchio stesso, svoltarono a Sant'Antonino, per sottrarsi a quei dannati Garibaldini che giungevano di notte a quel modo. Questi inseguivano. E infilavano la via del sobborgo sotto il fuoco d'un altro battaglione schierato sulle mura a sinistra; si arrestavano al crocicchio, e subito si mettevano a sbarrarsi la via alle spalle. Di lì minacciava la cavalleria che moveva dalla chiesetta di San Giovanni Decollato. Ma Faustino Tanara da Parma, con un plotone della sua Compagnia, e il sacerdote siciliano Antonio Rotolo, con una grossa squadra di 'Picciotti', tennero quella cavalleria in rispetto.
Ora, a passar quel crocicchio faceva caldo. Dal mare lo spazzava la mitraglia delle fregate, vi grandinavano le palle da Sant'Antonino. Ma bisognava passarlo, che se no, chi sa quanta forza di nemici poteva tornarvi, appena si fossero rimessi dal primo sgomento. E vi era già Garibaldi col suo Stato Maggiore. Raggiava. Forse non sapeva ancora che tra il Ponte dell'Ammiraglio e quel crocicchio, in sì breve tratto, erano caduti Tukory, Benedetto ed Enrico Cairoli feriti gravemente. Ben vedeva Bixio tempestar a cavallo su e giù ferito anch'egli, rimproverando, ingiuriando quasi perché non s'era già presa tutta la città, e sfogando la sua furia contro di uno che aveva osato dirgli che si guardasse che sanguinava dal petto. Egli s'era già levato da sé il proiettile. E molti in quel breve tratto erano i morti. Giaceva sul Ponte il dottor La Russa di Monte Erice; giaceva presso il ponte Stanislao Lamensa. La morte lo aveva fermato lì, senza misericordia per i suoi dieci anni di ergastolo, né per i suoi figliuoli che lo aspettavano in Calabria dal 1849. Sotto il Ponte, fra parecchi altri amici e nemici, giaceva Giovanni Garibaldi, popolano genovese, morto di fuoco e di ferro. Placido Fabris da Povegliano, giovane tanto bello che i compagni d'Università lo chiamavano Febo, giaceva per morto con tutta traverso al petto la daga-baionetta d'un cacciatore ucciso da altri, mentre vibrava a lui il colpo mortale. E non morì. Doveva, guarito, ricomparire quasi un risorto, per andarsi a far ferire anche dagli Austriaci a Bezzecca sei anni dopo. Bellissimi tipi di siciliani giacevano feriti. Inserillo, Caccioppo, Di Benedetto, gente che continuò a dare il proprio sangue fino a Mentana. Narciso Cozzo, il bello e biondo patrizio palermitano che, uscito tre giorni avanti a raggiunger Garibaldi, si era unito, nell'accampamento del Parco, alla 6° Compagnia; camminava tra quei feriti, quei morti e quella calca, quasi andasse invulnerabile ammirando. Pareva un Normanno di settecent'anni addietro, tornato a guardare come dai moderni si combattesse. A lui la morte diè tempo e spazio fino al Volturno, e il 1° ottobre, nella gran battaglia garibaldina, là se lo colse.
Bisognava dunque passar oltre quel crocicchio infernale, e a un cenno di Garibaldi il passo terribile fu traversato, fu invasa alla corsa la via per la Fiera Vecchia. Piazza della Fiera Vecchia! Lì all'alba del 12 gennaio 1848, quel La Masa che ora conduceva i 'Picciotti' aveva lanciato il suo grido di guerra quasi da solo, a piè di quella statua di Palermo che ora non v'era più, perché la polizia l'aveva fatta levare. Ma era la piazza della Fiera Vecchia davvero quel largo? Non ci si vedeva nessuno, precisamente come nel 1848. Garibaldi quasi impallidì. Un cittadino, di tra i due battenti d'un uscio socchiuso, gli gridò: "Evviva!" Qualche finestra si aperse, qualche testa si sporse, ma gente non ne compariva né con armi né senza. Fu un istante da tragedia. Ma appunto per questo avanti! Garibaldi col suo Stato maggiore, preceduto dai più ardenti, seguito dall'onda de' suoi si inoltrò per quelle vie deserte fino a piazza Bologni. Ivi smontò, e nell'atrio del palazzo che dà il nome alla piazza, si assise. Proprio si assise! Ora la sua tranquillità faceva quasi paura.
Giungevano intanto i suoi da tutte le parti con notizie diverse, confuse, assurde: giungeva Bixio a piedi con in pugno la spada spezzata a mezzo, furibondo, terribile. Veniva a pigliarsi venti uomini di buona volontà, per andare a farsi uccidere con loro a Palazzo reale. "Tanto, - gridava - tra due ore siamo tutti morti!" E già si avviava, già voltava l'angolo di via Toledo, quando Garibaldi lo fece chiamar indietro.
Garibaldi in quel momento era quasi giulivo. Aveva riso d'un colpo che sfuggitogli da una delle sue pistole, gli aveva sforacchiato il lembo dei calzoni sopra il malleolo, dove fu poi ferito due anni appresso in Aspromonte: aveva confortato due giovani prigionieri napolitani; aveva baciato nel nome di Benedetto Cairoli qualcuno della 7° Compagnia, e baciandolo gli aveva detto che intendeva di baciare in lui tutti i presenti. Giulivo era anche perché cominciavano a comparire dei cittadini ansanti, trasecolati. Dunque era vero, era entrato, era Lui? E guardavano quei capelli ancora così biondi, quella barba, quel torso erculeo nella camicia rossa, quelle gambe un po' esili e quei piccoli piedi da gentiluomo. Adoravano. Era lui e non avevano creduto! Il romore della fucileria di Porta Termini, l'avevano preso per uno dei tranelli della polizia, che già parecchie volte aveva sull'alba fatto sparare qua e là; e sempre chi era stato pronto a scendere, credendo di gettarsi nella rivoluzione, era invece caduto in mano dei birri. Così raccontavano quei cittadini. Dunque, se la città non era subito insorta, nulla di male, purché si facesse, purché non si lasciasse tempo ai nemici di riaversi: barricate! barricate! Non si sentì più gridar altro che barricate. Garibaldi diede l'ordine all'Acerbi, mantovano, di mettersi a quel lavoro, e gli designò compagno il palermitano duca della Verdura; formò un comitato provvisorio per il governo della città presieduto dal dottor Gaetano La Loggia: ma veramente il governo era lui.
E le campane cominciarono a martello, perché la polizia aveva fatto levar via il battaglio da tutte. Prima suonò quella di San Giuseppe, poi un'altra, poi altre e altre; tutta la città si svegliava: Santa Rosalia! Santo Spirito! Che c'era mai? Garibaldi? Garibaldi era venuto dentro in quel giorno di festa religiosa, certo lo aveva voluto Iddio. E nessuno, forse nessuno, pensò che quell'uomo con sì poca gente era entrato a tirar su la città, su di sé, sui suoi, lo sterminio.
Tra quei cittadini vi erano fin dei preti. Quello alto, maestoso, con la gran testa già grigia, era l'abate Ugdulena; e quell'altro smilzo, pallido, vibrante, era prete Di Stefano. E giunsero degli uomini in divisa che parevano di cavalleria, giubba rossa, calzoni azzurri. Disertori forse? Al portamento no; e poi non avevano armi. Donzelli del comune erano, che venivano dal Palazzo pretorio. Dunque la magistratura cittadina, il Pretore, i Decurioni erano già in moto? No. Essi erano borbonici quasi tutti, e quasi tutta l'aristocrazia borbonica se n'era fuggita a Napoli, o ritirata sulle navi in rada, stava al sicuro. Ma insomma quelli erano i Donzelli del Palazzo. Sui bottoni dorati delle loro divise, si leggeva la sigla: S.P.Q.P. 'Senatus populusque palermitanus'. Ma Giuseppe Giusta, artigiano, lingua di fuoco, lesse subito a modo suo: "Sono Pochi Quanto Prodi." Il frizzo non destò allegria perché quello non era momento da celie; anzi, qualcuno disse che Giusta celiava per farsi dar giù, forse, un po' di paura. Ah la paura! Strana affezione. V'erano lì dei giovani che nella notte, durante la marcia, avevano forse tremato; e adesso si sarebbero messi da soli a qualsifosse cimento.
Perché adesso era davvero aperta la via a tutte le prove, e la città s'avviava a divenir tutta un campo. Verso Sant'Antonino si combatteva; da porta Macqueda, i cannoni del generale Cataldo tiravano lungo la gran via; quelli del generale in capo Lanza, da Palazzo reale, spazzavano tutta Toledo. Non pareva vero che il forte di Castellamare tacesse ancora. Si sapeva già che ivi comandava il Colonnello d'artiglieria Briganti; si seppe poi che un suo figliuolo capitano era stato ai mortai, aspettando l'ordine di cominciar il fuoco, e che rapito dalla voglia di mandar la prima bomba sulla città ribelle, aveva già mormorato contro suo padre, minacciando persino d'andar egli stesso a scuoterlo. Ma verso le sette l'ordine gli fu mandato, e allora si udì un gran tonfo a Castellamare, e su nell'aria un gran rombo. La prima bomba piombò. Cominciava quel bombardamento, che con terribili pause di cinque minuti tra bomba e bomba, doveva durare tre giorni e farne piovere sulla città ben mille e trecento. E subito scoppiarono qua e là degli incendi. A mezzogiorno in punto si misero poi a tirare anche le navi.
Intanto Garibaldi era passato col suo Quartier generale nel Palazzo pretorio. Là, con un suo decreto da Dittatore, sciolse il Municipio, per nominare, come fece il dì appresso, un nuovo Pretore e nuovi Senatori. Ora la città, anzi la Sicilia era lui. Da quel centro si diramavano i suoi ordini alle piccole colonne che si erano spinte in tutti i versi alla periferia della città. Erano gruppi di Cacciatori delle Alpi, cui si univano fidenti e volenterosi i 'Picciotti' entrati il mattino, e via via cittadini d'ogni ceto usciti di casa con armi o senza. E dove avveniva uno scontro coi borbonici, i disarmati aspettavano bramosi che qualcuno cadesse, ne prendevano l'arma, le cartucce, il posto, e combattevano esultanti. Un grosso nerbo della 8° Compagnia avanzò per vie traverse, verso Palazzo reale fino alla gran Guardia, e di lì fugò il generale Landi, quel povero vecchio Landi, già battuto a Calatafimi.
Un po' della 6° con parte della 7° e alcuni Carabinieri genovesi, andavano per pigliare il convento dei Benedettini; la 5° si spingeva verso porta Macqueda, fino a Villa Filippina. Ma dir Compagnie non è preciso. Queste si erano frante e si frangevano ognor più in manipoli, e ogni manipolo seguiva il più stimato fra quelli che lo componevano, o chi si mostrava più ricco di partiti. Così dei vecchi ubbidivano a dei giovinetti; uomini in divisa d'ufficiali si lasciavano consigliare da studenti che non avevano mai visto una caserma; qualcuno come Vigo Pellizzari che, caduto Benedetto Cairoli, era divenuto il Comandante della 7°, rivelava qualità di vero uomo di guerra; Giuseppe Dezza della 1° suppliva da bravissimo il Bixio, che, non potendo più reggere dal molto sangue perduto, era stato costretto da Garibaldi a ritirarsi in casa Ugdulena, e aveva ubbidito mordendosi per ira le mani.

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I borbonici avevano lasciato passare il momento buono ad invadere la città, come avrebbero potuto. Quattro o cinque ufficiali audaci che si fossero mossi ciascuno alla testa d'un mezzo battaglione, e avessero marciato verso il centro tutti a un tempo, pur seminando di morti e di feriti la via, bastavano a schiacciar tutti. Ma forse nessuno aveva osato cimentarvisi, per paura di entrare a farsi seppellire sotto un po' di tutto, da tutte le case, mobili, pietre, olio ardente. Adesso, dopo quattro ore dall'entrata di Garibaldi, sarebbe già stato difficile riuscire, anche se i borbonici ci si fossero provati; e già si vedeva che prima di sera sarebbe divenuto addirittura impossibile. Poiché nelle vie sorgevano come per incanto barricate per tutto. Dagli usci venivano fuori carri, carrozze, botti; dalle finestre piovevano mobili, materasse, fin pianoforti. E tutto era subito raccolto, ammontato, serrato insieme. Poi a forza di picconi e di leve si spiantavano li lastre delle vie; e queste sì, queste servivano bene! Parevano fatte apposta. E con esse, visto o non visto, venivano alzate su delle vere mura, una barricata a dieci metri dall'altra; fin troppe, come disse poi Garibaldi. Vi lavoravano e uomini e donne e fanciulli, che si rissavano tra loro facendo a chi ubbidisse meglio, se dai panni, dai capelli, dall'accento, riconoscevano un garibaldino in chi comandava. Le popolane poi parevano furie. "Signuri, nui riciano ca di li nostri trizzi un'avianu a fari ghiumazzo pi li so mugghieri! Scillirati, infami!" E davano dentro da disperate a portar pietre e sacchi di terra.
Il Comitato delle barricate, composto di cittadini esperti ancora del 1848, presedeva a quel lavoro che metteva sossopra il lastrico di ogni via. E già si vedevano uomini sugli orli dei tetti ad ammonticchiarvi tegole, uomini sui balconi a preparar mobili da buttar giù, se mai le milizie borboniche si fossero avventurate.
Ma quelle milizie non si muovevano all'offensiva. Anzi, verso le sedici, come si diceva là all'uso antico d'Italia, il general Cataldo che occupava i pressi di Porta Macqueda, i Quattro venti e il Giardino inglese, assalito dalla città, tormentato alle spalle dai 'Picciotti', si ritirava al Palazzo reale; e al Palazzo reale si ripiegava il generale Letizia, scacciato dal rione Ballerò. Sicché al Palazzo e nella piazza e negli orti intorno, si trovavano da dodicimila soldati, sotto il generale Ferdinando Lanza, alter ego del Re, uomo di 72 anni che aveva a lato Maniscalco, il fiero capo della polizia. E allora le carceri non più custodite si apersero, e ne sbucarono duemila condannati, orribile ingombro gettato tra i piedi alla rivoluzione, perché potevano solo disonorarla. Ma Garibaldi provvide. Vietò d'andar armati senza dipendere da un capo; vietò di perseguitar i birri sperduti; decretò pena di morte al furto, al saccheggio: fece tremare e fu ubbidito.
Lavoravano intanto i mortai di Castellamare, che nel pomeriggio di quella prima giornata presero specialmente di mira il Palazzo pretorio, sul quale misuravano l'arcata delle loro bombe. I nemici, non da palermitani, ma da qualche birro vagante, dovevano aver saputo che in quel palazzo si era messo Garibaldi, e perciò cercavano di seppellirvelo sotto col suo Stato maggiore! Non vi riuscivano; ma le loro bombe, cadendo nelle vicinanze, facevano delle grandi rovine.

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A notte, quel fuoco da Castellamare cessò, e cessò anche quello della fucileria quasi per tutto. Ma la veglia fu viva, incessante. Le finestre delle case cominciarono a illuminarsi, per le vie ci si vedeva quasi come di giorno. Ed era un andirivieni dalle parti della città al Palazzo pretorio e di lì alle parti; sicché pareva che i combattenti si dessero il cambio nei posti che occupavano, solo per andar un po' dal Generale, e rifare nella vista di lui le speranze e le forze. Egli aveva fatto mettere una materassa sulla gradinata della fontana di Piazza Pretoria, rimpetto al gran portone del Palazzo, e là, a pie' di una di quelle alte statue che la adornano, riceveva notizie, dava ordini, riposava, Giovanni Basso da Nizza, suo segretario e compagno sugli oceani, Giovanni Froscianti da Collescipoli antico frate, Pietro Stagnetti da Orvieto, veterani della Repubblica romana, gli facevano guardia: dall'altra parte della piazza, nelle scuderie di palazzo Serradifalco, stavano sellati i cavalli delle Guide. E sul portone di quel palazzo si vedeva Giovanni Damiani, vigile come un'aquila, pronto a qualche partito supremo di Garibaldi, se forse fosse venuta l'ora della disperazione.
Di quelli che andavano e tornavano, taluni si sentivano chiamar dentro dagli usci di qualche casa o palazzo socchiusi. E là nei cortili, sotto i porticati, giù nei sotterranei, trovavano donne, uomini, fanciulli, signori e servi; e questi a gara se li pigliavano in mezzo curiosi, e li tempestavano di domande: e di dove erano, e come si chiamavano, e se avevano madri, sorelle. E stringendo loro le mani, tastavano se queste erano fini; maravigliavano a udirli parlare da gentili uomini. Li ristoravano di cibi e di vini squisiti; empivano loro le tasche di biancherie; mostravano le coccarde tricolori, triangolari come l'isola; li baciavano, li pregavano di farsi portar da loro se mai cadessero feriti. E le donne esaltate congiungevano le mani come in chiesa; e le fanciulle sorridevano estatiche nei grandi occhi lucenti; e poi a veder coloro andarsene, piangevano come sorelle amorose.
Nei posti in faccia al nemico, quelli che vegliavano, ricevevano le notizie delle cose avvenute altrove. Ai Benedettini, Giuseppe Gnecco, carabiniere genovese, si era lanciato alla gola di un ufficiale borbonico e lo aveva tratto via seco prigioniero. Là e là, i tali della tale Compagnia o della tal'altra, avevano formato barricate mobili con botti rinvolte in materasse, e spingendole avanti a forza di spalle sotto il fuoco dei borbonici, erano giunti fino alle case occupate da questi, e balzati dentro, fulminei avevano preso le case e i difensori.
Metteva una certa sicurezza negli animi sapere che ormai tutta la parte bassa della città era in mano degli insorti, salvo il palazzo delle Finanze in piazza Marina, che era ben tenuto d'occhio perché i borbonici non potessero portar via il tesoro. Anche la caserma di Sant'Antonio era stata presa, e molti vi si erano riforniti di bellissime armi. Là Andrea Fasciolo, Carabiniere genovese, aveva dato tutto il giorno lo spettacolo d'un coraggio che i suoi compagni, per dire quanto era, chiamavano coraggio sfacciato.
Cominciava a disertare qualche ufficiale borbonico: al Palazzo pretorio era giunto il tenente Achille De Martini, comandante dei cannoni a Calatafimi, e si era dato anima e corpo a Garibaldi. Intanto seguitavano a entrar in città da porta Termini e 'Picciotti' e 'Picciotti'; da porta Macqueda era entrato Giovanni Carrao, con la squadra che era stata di Rosolino Pilo. E la notte passava.

*

Ma i mortai di Castellamare suonarono presto la diana del 28, e presto ricominciò il fuoco dappertutto. Dappertutto la rivoluzione vinceva. Ma dolorose perdite si fecero fin dalle prime ore di quel secondo giorno. Enrico Richiedei da Salò ed Enrico Uziel da Venezia, furono uccisi da una palla di cannone che li compì tutti e due al capo, lasciandoli morti sfigurati l'uno vicino all'altro quei due fiori di giovinezza.
Antonio Simonetta milanese diciannovenne, puro come uno di quei fraticelli che cantarono al letto di San Francesco morente, uscito l'anno avanti incolume dalla battaglia di San Martino, cadeva al convento dei Benedettini, dove gli amici ne cercarono poi invano il corpo e la fossa. E ai Benedettini cadeva Giuseppe Naccari palermitano, reduce dall'esilio coi Mille, cadeva senza aver ancor riveduto la sua famiglia, anch'egli bellezza maschia, che nella 6° Compagnia, per la molta somiglianza col gran lombardo morto a Roma nel 1849, era chiamato Luciano Manara. Nel campanile di quel convento fu ucciso Crispo Cavallini da Orbetello, altro bel forte cui toccò di morire senza lasciar il nome alla schiera dei Mille. Egli fu dimenticato come uno che non avesse avuto né parenti, né amici, né nulla. E forse felice lui, se morendo, avesse potuto indovinare quell'oblio; perché, diciamo noi, portar seco nella morte tutto sé stesso, la gloria e il nome, deve esser una gioia più che da uomo. Non insegnava così l'ordine del giorno di Garibaldi letto nella traversata in alto mare?
Ai Benedettini combatteva il Mosto co' suoi Carabinieri, Carabiniere infallibile anch'esso, e dal campanile fulminava gli artiglieri del bastione Porta Montalto, obbligandoli a lasciar muti due pezzi. Lo secondavano tranquillamente, con tiri che coglievano, Giambattista Capurro, giovinetto che aveva la testa bendata per una ferita in fronte, ed Ernesto Cicala benché già toccato malamente da una scheggia di granata. Vicini e mirabili per la calma, facevano i loro tiri Stefano Dapino e Bartolomeo Savi, testa d'oro da cherubino, tanto era biondo, il primo; l'altro arruffato quella sua testa grigia piena sempre delle tragedie di Sofocle.
Si combatteva dunque dappertutto e si dimenticava ogni cosa. Ma se qualcuno non si sentiva più dalla fame, i conventi dei frati erano là divenuti ospizi. Ivi le cucine fervevano. Bastava dar una corsa là, e uno ci trovava il cuoco e il cantiniere, pronti a scodellare e a mescere. Si ristorava e via, tornava benedetto a farsi onore. Dei frati veri, molti parevano più rivoluzionari dei garibaldini stessi; qualche vecchio brontolava pauroso, perché delle rivoluzioni ne aveva già viste troppe e tutte finite male, quella del '20 e quella del '48.
Si dava da mangiare anche nei refettorii e nei parlatorii dei monasteri. Folle di monacelle bianche si premevano a guardar dalle porte, e parevano stormi alati d'angeli, discesi come nella poesia a contemplar i figli degli uomini. Qualcuna osava, correva quasi ad occhi chiusi, e al primo cui le capitava di stendere le braccia metteva al collo una reliquia, subito fuggendo beata come se avesse rapita un'anima al purgatorio. Colui per quella non pericolava più. Invece delle vecchie suore si mettevano a discorrere in mezzo agli ospiti armati e laceri e sporchi di polvere; e li interrogavano curiose, e domandavano se Garibaldi era cristiano, giovane, bello, e li pregavano di vincere e di tornare poi a dar loro le notizie, a difender loro, povere monacelle, dalle genti borboniche crudeli. Non sapevano ancora che i monasteri dei Sette Angeli e della Badia nuova erano stati saccheggiati, né che quello di Santa Caterina bruciava.
Lì sì! C'era bisogno d'aiuto! Ma nel gran trambusto che assordava tutti, nessuno aveva ancor badato che lì come altrove c'era l'incendio. Eppure il monastero sorgeva a lato del Palazzo pretorio! Il fuoco vi aveva cominciato dal tetto, a cagione di una bomba di quelle destinate al Palazzo, scoppiata in aria. E l'incendio era disceso di piano in piano. Solo verso la sera del 28, qualcuno pensò che là dentro c'erano delle povere creature. E allora, sfondata la porta del monastero, vi entrarono dieci o dodici Cacciatori delle Alpi con dei 'Picciotti', a tentar di salvarle. Nel piano terreno ci si poteva ancora, ma cerca di qua, cerca di là non si trovavano monache in nessuna parte. Che si fossero lasciate perir arse nei piani superiori, non pareva da credersi. Finalmente uno andò nell'oratorio, e là ne vide che, come larve bianche nella penombra in fondo, piangevano, fuggivano a nascondersi fino in certe loro catacombe. Raggiunte, si inginocchiavano in terra, torcendo le braccia, porgendo le gole come a dei carnefici; pregate di uscir di là dentro, perché presto non ci sarebbe stato più tempo, non volevano lasciarsi condur via a niun patto. Sicché quei soldati dovettero minacciare di porre loro addosso le mani per salvarle a forza. E allora esse si lasciarono mettere in fila, lunga fila di religiose di tutte le età, monache e converse. Ve n'erano di bellezza celestiale, giovani come aurore; ve n'erano delle vecchie mummificate. I fratelli Carlo e Pietro Invernizzi da Bergamo, bizzarrissimi spiriti, ne portavano via sulle spalle una per ciascuno quasi paralitiche, e mentre che agli atti pareva che reggessero dei reliquiari, parlavano in bergamasco da diavoli cose che avrebbero fatto ridere i sassi. Fu questa la sola profanazione, se si può dir così; tutti gli altri vennero fuori serii con quella strana processione; e a vedere la raffinatezza dei riguardi che sapevano usare, faceva orgoglio. Condussero quelle meschine a un altro monastero; e là, nella gioia della salvezza, qualche stretta di mano, sin qualche bacio fu dato e preso.

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La seconda giornata passò dunque come la prima e peggio; ma la terza furono cose indescrivibili. Tutte le vie erano ormai gremite di gente. A cagione del bombardamento, lo stare in casa era più pericoloso che lo star fuori; perché dove una bomba cadeva su di un tetto, sprofondava giù fino a terreno, scoppiava e faceva crollar tutto. Invece per quelle che cadevano nelle piazze o nelle vie, la gente si gettava a terra, le lasciva scoppiare, poi su, si levava gridando: "Viva Santa Rosalia, Garibaldi, l'Italia!" E si esaltava, e si lasciava pigliare da un certo cupo entusiasmo della strage, senza neppur più inorridire perché qualcuno restava a terra morto o ferito. Di tanto in tanto si udiva uno scoppio di grida furiose qua e là; erano donne del popolo che avevano fatto la posta a qualche birro, e riuscite a pigliarlo, urlandogli "Sorcio, Sorcio!" lo malmenavano, lo straziavano a brani. Così dovevano aver urlato:"Mora! Mora!" le loro antenate dei Vespri. Sennonché ora bastava che capitasse in tempo un garibaldino a stender le mani sul birro sciagurato, e quelle donne glielo cedevano vivo, quasi contente, urlando ancora: "Viva Santa Rosalia!" Di quei miseri servi della polizia ne furono salvati parecchi in tal modo, e pel momento venivano messi nei sotterranei del Palazzo pretorio, dove almeno nessuno poteva più torturarli.
Così le turbe si aggiravano per la città, passando da barricata a barricata pei vani lasciativi apposta; e incontrandosi ai Quattro Cantoni si incrociavano, si acclamavano e si confondevano come quattro correnti. Ivi un gran tendone tirato tra due palazzi celava la metà di via Toledo verso porta Felice, all'altra metà di lì in su, verso al Palazzo reale. Perciò i borbonici del Palazzo non potevano più comunicare a segni con le loro navi da guerra del porto. Quel tendone era come un immenso arazzo bene istoriato, e però spiaceva vederlo sforacchiare dalle cannonate borboniche; ma dal Palazzo reale ci si erano accaniti contro. Diceva un Cattaneo da Bergamo, rimasto loro prigioniero e mandato a Garibaldi per certa ambasciata, con promessa sua che sarebbe tornato, come infatti volle tornare; diceva che i borbonici già quasi ridotti a cibarsi di lattughe, provavano dispetto e noia di quel tendone più che di tutto. Erano anche arrabbiati, perché l'Ospedale militare pieno di risorse era stato preso dai garibaldini.
Dunque tra gli strazi che si vedevano, le buone notizie davano gran conforto. E si seguivano. Il bastione di Porta Montalto era stato preso dal colonnello Sirtori, mosso dal convento dei Benedettini alla testa di alcuni, che si erano lasciati mettere in petto il fuoco dell'eroismo da quel prete soldato. I regi dell'Annunziata erano stati costretti a sgombrare; e comparivano a Palazzo pretorio dei giovani che avevan durato a star là giorno e notte per vincere quel posto. Venivano carichi di armi, e alcuni portavano superbi mantelli tolti a quei nemici. Ma correvano intanto gli annunzi delle morti e delle ferite. Adolfo Azzi, il forte timoniere del Lombardo, era caduto con una coscia trapassata da una palla; Liberio Chiesa, chiassoso ma prode, giaceva anch'egli con una gamba spezzata.
A confortar i feriti un po' dappertutto, andava il prete Gusmaroli da Mantova, e portava loro i saluti dei combattenti, e tra i combattenti tornava, serbando una calma e una pace di cuore meravigliosa. Mai che impugnasse un'arma! Essere ucciso poteva; uccidere no. Egli non voleva macchiare di sangue le sue mani di sacerdote. Andava così vendicandosi a modo suo dell'offesa che gli aveva fatto l'Austria, impiccandoli nella sua Mantova Orioli, Grioli e Speri e Poma e gli altri di Belfiore. E siccome somigliava molto ai ritratti di Garibaldi, per questo, dove appariva, i 'Picciotti', credendolo il Generale in persona, sotto i suoi sguardi gareggiavano a chi mostrasse d'aver più cuore. Egli aveva allora quarantanove anni, ma se avesse saputo quali dolori gli serbavano gli altri dodici che stette poi ancora al mondo, si sarebbe augurato di averne cento per morire se non lo volevano le palle di qualunque altra morte, ma là, ma allora. Finì nel 1872, in una misera casupola della Maddalena, dove era suo solo conforto contemplare almeno l'altra isola, quella di Garibaldi, dal cui cuore fu fatto cadere.
Bello e grande fu l'atto della 8° Compagnia che, mantenutasi più compatta delle altre per l'ostinata voglia di occupare la Cattedrale, vi riuscì finalmente alle quattordici di quel terzo giorno. Rovinava allora lì a lato con indicibile fragore il palazzo del principe Carini, incendiato da una bomba, come erano già rovinati i palazzi Cutò, D'Azzale e altri. E allora appunto, in faccia ai borbonici di Palazzo reale, quei bergamaschi invasero tutto il di fuori del tempio e dentro e su fino il campanile. E di là si misero a tirare sui soldati stipati nella gran piazza. Uccidevano a schioppettate gli artiglieri sui pezzi. Il loro capitano Bassini li governava coi trilli di certo suo fischietto da cacciatore, fumando alla pipa, tutto scoperto ai nemici che lo tempestavano di palle senza toccarlo. Ma egli si credeva invulnerabile.

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A quell'ora il generale in capo Lanza, volendo tentare una disperata prova, mandò il generale Sary a ripigliar la Cattedrale; e il generale Colonna a ripigliare i Benedettini, l'Annunziata, Porta Montalto. Inutile sforzo, inutile strage. Tutti gli assalti furono respinti dai garibaldini, dai 'Picciotti' e dai cittadini. I borbonici lasciarono più di cento morti e forse quattrocento feriti, intorno alla Cattedrale e per le vie percorse, ma ritirandosi incendiavano le case, uccidevano gli inermi, violavano le donne. Erano diventati selvaggi, furiosi. Forse facevano così, per dare l'ultimo sfogo all'odio secolare mantenuto vivo contro l'isola in loro, sudditi dell'altra parte del regno; forse li faceva divenir più crudeli lo spettacolo degli incendi, ardenti in più di sessanta luoghi della città; tra i quali più grande e spaventoso quello del quartiere intorno San Domenico, tutto in fiamme.
Ma se le sorti volgevano a male per i borbonici, anche dalla parte di Garibaldi crescevano le angustie. Quella sera non v'erano quasi più munizioni. Si lavorava a fabbricare polvere, ma non ne veniva abbastanza pel bisogno, specialmente perché i 'Picciotti', come scrisse poi Garibaldi, sparavano troppo. E da tutti i punti della città dove si combatteva, giungevano uomini a chieder cartucce, come chi spasima per fame chiede pane. Gli aiutanti del Generale rispondevano alzando le braccia muti: il Sirtori, sempre tranquillo, raccomandava di dir dappertutto che le munizioni giungerebbero, che intanto i combattenti s'ingegnassero con la baionetta. E invocava la notte. Almeno ci sarebbero state alcune ore di riposo. E poi girava già viva la voce che tra i regi fosse cominciato un grande scoraggiamento; si diceva che altri loro ufficiali erano passati alla rivoluzione, tra i quali due capitani del genio ed era vero; e ormai pareva certo che i dodicimila uomini del Palazzo reale stessero isolati affatto, senza viveri e senza comunicazioni col porto e con Castellamare. Dunque una risoluzione il loro generale l'avrebbe dovuta prendere; o avventarli tutti a morire o capitolare. Ma venuta la notte l'inquietudine non cessò, anzi faceva terrore il pensiero di quel che sarebbe potuto succedere il mattino seguente; e quasi si agognava che fosse già l'alba, per tornare nella furia invece di consumar l'anima in orribili fantasie.
Anche Garibaldi ebbe quella sera un momento in cui quasi disperò. Gli avevano portato la nuova che erano sbarcati alla Flora due battaglioni di bavaresi, gente aizzata da Napoli e per tutta la traversata con feroci promesse, ed esaltata dalla lusinga d'aver essa l'onore di dar il colpo mortale alla rivoluzione. Ma la notizia non era esatta. I due battaglioni erano sbarcati sì, ma non alla Flora. E il generale Lanza aveva commesso l'errore di chiamarseli al Palazzo reale. Dunque erano men da temersi, stando essi nelle mani di chi non sapeva adoprar bene neppur le buone truppe che aveva già. E Garibaldi si rassicurò. Ma quella era la notte del dolore, ed Egli ebbe pur quello di venir a sapere che alcuni de' suoi, tre o quattro in tutti, non potendo più star con l'animo alla paura, erano ricorsi ai consoli stranieri, per farsi munire di passaporti. Il dolore che ne provò non si può dire; la pena del suo disprezzo che inflisse a quei tali fu mortale. Uno di essi, poi, che portava un bel nome nizzardo, era ricorso al consolato di Francia! Il Generale ne pianse. Gli toccava là, nel pieno della sua grandezza, fosse pure alla vigilia forse della catastrofe suprema, gli toccava là quella atroce puntura di veder quel suo uomo aver riconosciuto con quell'atto che Nizza era Francese! Egli, così proclive a compatire, a scusare, non perdonò; e il nome di quell'uomo fu spento.

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Il giorno appresso, mentre il fuoco, riacceso in tutti i punti sin dall'alba, lasciava indovinare ne' regi una certa stanchezza, ma teneva pur sempre in forse dell'esito finale, Garibaldi ricevè un messaggio del generale Lanza. Questi che sin dal 28 aveva chiesto all'Ammiraglio inglese d'intromettersi per imporre una breve tregua, onde si potessero raccogliere i feriti e seppellire i morti, ma però senza trattare egli con Garibaldi; e dall'inglese aveva ricevuto in risposta che appunto a Garibaldi doveva rivolgersi: ora nel suo messaggio dava di Eccellenza al 'Filibustiere'! E gli chiedeva un armistizio di ventiquattr'ore, e lo invitava a un ritrovo con due suoi generali, per trattar d'altre cose. Designava per luogo la nave ammiraglia inglese. Garibaldi concesse subito l'armistizio, accettò l'invito al ritrovo, e da una parte e dall'altra fu subito dato l'ordine di cessare il fuoco.
Erano le undici antimeridiane. Il ritrovo doveva avvenire alle ore quattordici. Ma mentre Garibaldi trattava di queste cose nel Palazzo pretorio, e sottoscriveva l'armistizio col Colonnello messaggero del Generale nemico, gli giunse un grido di tradimento, propagato sia da Porta Termini, grido terribile di cui veniva interprete a lui, smaniando, quel prete Di Stefano che gli era apparso dei primi, il mattino del 27. Insomma a Porta Termini erano giunti a marcie forzate i cinque i seimila uomini del Von Mechel e del Bosco, quelli che dal dì 24, credendo di inseguir Garibaldi in fuga, erano andati fino a Corleone. Là, avendo alla fine saputo l'inganno in cui erano caduti, s'erano rivolti volando al ritorno; ed adesso erano lì alla porta stessa per cui Garibaldi era entrato in Palermo, furiosi, sguinzagliati dai loro comandanti come belve fuor di catena. Una mezz'ora prima che fossero sopravvenuti, entravano di lancio fino al Palazzo pretorio, perché da quella parte della città le barricate non erano quasi guardate. E chi sa? forse Garibaldi sarebbe finito davvero nella tragedia. Invano li avevano voluti arrestare combattendo gli accorsi al grido del loro arrivo; i Bavaresi avanzavano di barricata in barricata, erano già alla Fiera Vecchia.
Ma l'armistizio era firmato. Il Colonnello borbonico, messaggero che si trovò di fronte a Garibaldi, a sentirsi dare quasi di traditore, si offerse di andar egli stesso a fermare quella terribile colonna, e andò lealmente. Garibaldi seguì. Tra via incontrarono il colonnello Carini che veniva via di là, portato su d'una barella, ferito gravemente ad un omero, e gridava di accorrere, di accorrere, che se no era finita.
Alla vista del Colonnello borbonico che sventolava un fazzoletto bianco, i Bavaresi si fermarono come d'incanto. Ma i loro colonnelli Von Mechel e Bosco, quando seppero dell'armistizio, parvero lì per lì per andare in pezzi dall'ira. Ah quel Bosco! Egli siciliano, caro per certi liberi sentimenti a' suoi amici palermitani, aveva fiutato nell'aria che la fortuna stava per passargli vicino e, smesse le buone idee, si era preparato a pigliarla pei capelli. Quel Garibaldi cui, secondo che si diceva, si era vantato d'aver mandato a sfidare a duello, egli ora si era figurato d'averlo già nelle mani. Allora sarebbe divenuto il primo uomo del regno. Che sarebbe più contato rimpetto a lui Nunziante, Ischitella, Filangeri stesso e tutti insieme i vecchi servitori e salvatori della dinastia? Era giovane, bello, prode, d'ingegno, stava per valore, nell'esercito borbonico quasi come poi il colonnello Pallavicini stette in quello di Vittorio Emanuele; Francesco II avrebbe regnato di nome, egli di fatto, e nella reggia e nel Regno sarebbe stato più che re. Ma il gran miraggio gli si dileguò in quell'istante, ond'egli rimase là alla Fiera Vecchia tempestoso. Però nella sua collera, ispirava quasi ammirazione.
Cessato anche il fuoco alla Fiera Vecchia come già per tutta la città, non si udì più che qualche colpo di qualche mal disciplinato sperduto. Ma allora, peggior di quello del combattimento, cominciò lo strazio dei feriti e dei morti da cercare. Se ne trovaron dappertutto. Facevano grande pietà le donne, i vecchi, i fanciulli. Quanti destini infranti, quante lacrime da essi lasciate dietro!
E dal Palazzo pretorio fu subito dato l'ordine di riunire le Compagnie dei Cacciatori delle Alpi ciascuna a un punto designato, dove si dovevano raccogliere tutti coloro che non fossero impegnati alla guardia dei posti. Così oltre il numero dei morti, sarebbe stato possibile sapere il numero dei feriti ricoverati negli ospedali o nelle case dei cittadini. Allora avvennero gli incontri dei compagni che in qualche momento di quei tre giorni si erano perduti di vista fra loro, e nella confusione avevano partecipato ai fatti d'arme in punti diversi, dubitando reciprocamente della vita gli uni degli altri, o avendo ricevuto notizie vaghe di ferite e di morte. " E tu dove ti sei trovato? E tu cosa hai fatto, e dove eri la notte tale? dove hai mangiato, dormito, vissuto?" Ve n'erano di così storditi, di così disfatti dalle veglie, dalle fatiche, dalle emozioni, che non sapevano nemmen essi che dire. Ma parlava per loro il loro aspetto. Di alcuni che parevano riposati e pasciuti si mormorava. E così, alla grossa, si poté fare il conto delle morti. Non erano molte. La vittoria di Calatafimi era costata assai di più. Ma in Palermo le Compagnie avevano combattuto, governandosi ogni soldato quasi da sé, esponendosi appena quant'era necessario per far fuoco, e avanzando con quell'abilità naturale con cui si sa cogliere il destro a scansare i danni, a pigliarsi i vantaggi. Invece moltissimi erano i feriti, i più nel capo o nella parte superiore del torso. Le barricate avevano salvato il resto della persona. Ed era stata fortuna, perché i feriti nelle gambe morirono poi quasi tutti.
Molti più erano i morti borbonici. In certi luoghi, come al bastione di Porta Montalto, erano così fitti, che non si capiva chi ne avesse potuti uccidere tanti. Ma quasi nessun ufficiale tra loro. Di questi, in tutti i tre giorni, non ne morirono che quattro, misera testimonianza del valore di quella ufficialità, se pur non fu una manifestazione di sentimento già nato negli animi, almen dei giovani, quello dell'inutilità d'ogni sacrificio contro colui che, impersonando la milizia di un altro Re, rappresentava un'idea della quale sarebbero stati volentieri soldati.
In quel pomeriggio, tutti si misero a dar una ripulita alle armi; poi chi di qua chi di là, i più andarono a visitar i compagni feriti o a trovar le famiglie dalle quali erano capitati, durante quell'inferno dei tre giorni, per caso o per chiedere un tozzo o un sorso. E là erano accoglienze da principi. Ve ne furono che capitarono in casa di gente altolocata ma malveduta dal popolo, e che senza saperlo servirono di copertura agli ospiti da cui furono tenuti in casa come guardie. Altri furon visti accompagnar di qua e di là tra la folla famiglie sgomente che, così protette, si facevano condurre nei monasteri o alla marina, dove si imbarcavano per andare al sicuro su qualche nave, ad aspettare il resto della tragedia. Perché ventiquattr'ore di armistizio sarebbero presto passate.
Intanto allo Stato Maggiore, il Turr, il Sirtori, gli altri non perdevano il tempo, e tutto quel pomeriggio fu dato loro a fabbricar polvere, a ordinare un poco i 'Picciotti', a far mettere in batteria certi vecchi cannoni cavati fuori da dove erano stati nascosti nel 1849. Altri ne furono messi su, avuti in dono o comprati dai bastimenti mercantili che stavano in rada. E i 'Picciotti' vi facevano intorno la ronda, li lustravano e li coprivano di immagini sacre, improvvisavano fin delle laudi a quei bronzi, come se fossero eroi o santi. Il giorno appresso si sarebbe sentita la loro voce. Nei luoghi della città più affollati, sebbene l'andirivieni fosse più che mai vivo, bande musicali suonavano arie patriottiche dell'Attila, dei 'Due Foscari', dei 'Lombardi', o inni del Quarantotto; qualcuno suonava già anche "Si scopron le tombe..." E, cosa meravigliosa, invece di far adagiare gli animi nella speranza che la lotta non ricominciasse più, l'armistizio li aveva ancora concitati. Perciò si vedevano le gronde dei tetti, i balconi, le finestre, sempre più carichi di materiale da buttar giù; e tra la gente che lavorava a far sempre più alte le barricate, si sentiva dire con sicurezza che neppure centomila uomini avrebbero più potuto venir da fuori al Palazzo pretorio.

Queste erano esagerazioni battagliere. Ma cosa grande davvero, che passa l'immaginazione, fu sul tardi il ritorno di Garibaldi dal suo abboccamento coi generali borbonici Letizia e Chrétien, avvenuto a bordo della nave ammiraglia inglese. Egli vi era andato lasciando in angoscia indicibile chi lo sapeva. Ed essendo giunto a un luogo del porto detto la Sanità, proprio nel momento in cui vi giungevano i generali nemici, l'ufficiale della lancia inglese non sapendo che far di meglio, lo aveva imbarcato insieme con quei due. Come si sentissero in compagnia di quell'uomo in semplice camicia rossa essi tutti galloni, non è facile immaginare; ma narrava il capitano Cenni che parevano aver voglia di far l'altezzoso. E difatti nelle trattative, una volta a bordo e cominciata la conferenza, il general Letizia affettava di non rivolgersi a Garibaldi, e parlava con una certa alterigia. Ciò dispiacque all'ammiraglio Mundy e ai comandanti navali francese, americano e sardo, che egli aveva chiamati sulla sua nave, perché assistessero al colloquio. E questo si mutò presto quasi in un diverbio. Il Mundy, ospite, ebbe anzi un bel da fare onde Garibaldi, pur con ragione, non trascendesse. Il Letizia aveva tra l'altre cose osato chiedergli che la rappresentanza cittadina di Palermo facesse un atto di sottomissione al suo Re. E allora Garibaldi proruppe che la rappresentanza cittadina era in lui Dittatore, e rotta ogni trattativa si ritirò. Ma nel partirsi da bordo si rivolse al Comandante americano Palmer, confidandogli rapidamente e a bassa voce che in Palermo non aveva quasi più munizioni, e raccomandandosi a lui perché, se potesse, gliene mandasse. Così tornò a terra.
Ma nel breve tragitto dalla marina al Palazzo pretorio, ebbe uno di quei momenti nei quali gli eroi pagano, per dir così, il fio della loro grandezza. Lo pagano con la tempesta che si scatena loro nell'animo, come avvenne al Mazzini nel 1833, nell'ora terribile in cui si trovò a lottar tra l'idea sua, che egli chiamava dovere, e il sacrificio di tanti, che per quell'idea suscitata da lui, si offrivano alla rivoluzione, alla galera, alle forche. E così come narrò di sé il Mazzini, di sé e di quel suo momento narrò Garibaldi. "Confesso che non ero scoraggiato; ma considerando la potenza e il numero del nemico e la pochezza dei nostri mezzi, mi nacque un po' d'indecisione sulla risoluzione da prendersi, cioè se convenisse continuar la difesa della città, oppure rannodare tutte le nostre forze e ripigliar la campagna. Quest'ultima idea mi passò per la mente come un incubo, ma la allontanai da me con dispetto: trattavasi di abbandonar la città di Palermo alle devastazioni di una soldatesca sfrenata! Mi presentai quindi quasi indispettito con me stesso al bravo popolo dei Vespri."
Apparve di fatto dal balcone sinistro del Palazzo, nel lampo delle invetriate che, mentre si aprirono, scintillarono percosse dal sole già basso verso Monte Pellegrino, e a capo scoperto, come Ferruccio ai suoi, prima di Gavinana, parlò. Breve, pacato, con voce che suonò come un canto, disse che il nemico gli aveva fatto delle proposte ingiuriose per Palermo e che egli, sapendo il popolo pronto a farsi seppellire sotto le rovine della sua città, le aveva rifiutate.
V'è ancora qualcuno, vivo, al mondo, che, sebbene sia passato quasi mezzo secolo, si sente sempre nell'anima quella voce. E ancora vede ciò che vide in quell'ora. Vede quella moltitudine che non balenò neppur un istante, e che alle ultime parole di Garibaldi ruppe in un grido solo: "Sì! Sì! Grazie! Grazie!" con una levata di mani, di fronti, di cuori, tale da fare impallidire lui, pel sovrumano peso che gli imponeva, accettando l'onore di lasciarsi sacrificare. Egli guardò un poco, poi si tirò dentro '"ritemprato (lo narrò nelle sue 'memorie') e da quel momento ogni sintomo di timore, di titubanza, d'indecisione" gli sparve.
Il discorso di Garibaldi comparve poi subito stampato sotto forma di Proclama alle cantonate. Diceva così: "Il nemico mi ha proposto un armistizio. Io accettai quelle condizioni che l'umanità dettava di accettare, cioè ritirar le famiglie e i feriti: ma fra le richieste, una ve n'era ingiuriosa per la brava popolazione di Palermo, ed io la rigettai con disprezzo. Il risultato della mia conferenza d'oggi fu dunque di ripigliar le ostilità domani. Io e i miei compagni siamo festanti di poter combattere accanto ai figli dei Vespri una battaglia, che deve infrangere l'ultimo anello di catene con cui fu avvinta questa terra del genio e dell'eroismo."
Parrà forse dir troppo ma è verità. La sera di quel giorno, proprio come se ricorresse la sua festa di Santa Rosalia, Palermo si illuminò tutta. Lasciamo stare che i palazzi e le case dei ricchi nelle grandi vie fecero addirittura la luminaria; ma non vi fu casupola per quanto povera e nascosta ne' vicoli, che non avesse il suo lume a ogni finestra. E la notte passò in cene e canti e fino in danze. Per prepararsi alla ripresa della guerra, se guerra doveva ancora esservi, si avrebbe avuta poi tutta la mattinata appresso.
Ma quando fu mezzodì e i combattenti erano tornati tutti ai loro posti, pronti a ricominciare, fu fatto dire dappertutto che l'armistizio era prolungato di tre giorni. Allora entrò nei cuori che in quanto a Palermo i regi avevano finito. E tanto più crebbe l'idea quando si arrese la compagnia che custodiva il palazzo delle Finanze in piazza Marina, dove giaceva un tesoro di cinquanta milioni di ducati. Avevano messo il blocco al palazzo una ventina di Garibaldini e un nugolo di popolani, appostati intorno a distanza, vigili giorno e notte, e così il denaro della Sicilia, rimaneva in Sicilia.
Durante quell'armistizio, stettero le due parti ai loro posti, ognuna con le proprie sentinelle piantate a farsi guardia contro la nemica. E in certi punti della città, le sentinelle si trovavano a essere così vicine fra loro, che in quattro passi potevano gettarsi a zuffa l'una sull'altra. Perciò in quei luoghi insieme coi 'Picciotti', che dal grande odio non avrebbero saputo stare senza insultarsi o saltare addirittura sui napolitani, fu messo un gruppo di Garibaldini. E talvolta avveniva che dei soldati napolitani qualcuno o la sentinella stessa, da una parola all'altra, si lasciava tirare a conversare coi Garibaldini, perdeva la testa, dava indietro un'occhiata, tentennava un poco, e poi scattava via di lancio a rifugiarsi tra loro, abbracciato, baciato, portato via in trionfo per la città. Così, alla Fiera Vecchia, anche i Bavaresi disertarono a dozzine, ultime figure di mercenarii che avevano fatto quell'ultima apparizione in Italia.
Magnanimo veramente era stato il primo giorno Francesco Crispi che, appena sottoscritto l'armistizio, si era ricordato subito del Mosto e del Rivalta, rimasti in mano dei borbonici, nella ritirata dal Parco. Egli, segretario di Stato del Dittatore, corse a Castellamare per farne lo scambio con due ufficiali superiori nemici, prigionieri. Entrò nel forte superbamente, e chiese dei due Garibaldini. Di Garibaldini prigionieri non v'era che il Rivalta; dell'altro, quei del Castello non sapevano nulla. Il Rivalta sì, sapeva dove era il suo povero amico; ma non lo disse, temendo che il Crispi infuriasse, e tirasse fors'anche su di sé e su di lui la bestialità di alcuno di quei biechi soldati. Diceva il Comandante del Castello che il Mosto era forse dal generale Lanza nel Palazzo Reale. Il Crispi uscì per andarvi, ma tra via il Rivalta, gli narrò che il Mosto esile e stanco, nella ritirata dal Parco era caduto sfinito su per l'erta del monte e che sopraggiunti i Cacciatori era stato trafitto a baionettate. Egli, il Rivalta, aveva visto da pochi passi più in su morir l'amico a quel modo, e sarebbe toccata anche a lui la stessa sorte, se un giovane ufficiale non avesse persuasi i Cacciatori a serbarlo per averne informazioni su Garibaldi. Salvato così, lo avevano mandato al colonnello Bosco e poi a Palermo, dove era stato chiuso in una casamatta del Castello, e tra le minacce e gli insulti ivi tenuto sino a quel momento. Ma dalla mattina del 27, quando si era sentito sopra il capo tremar le volte al tuonar dei mortai, aveva sperato, gli si era allargato il cuore.
Sparsa la notizia tra i Carabinieri genovesi, andò al Parco Antonio Mosto con alcuni amici; e sul monte, ancora nel posto dov'era stato ucciso, trovò il suo fratello, dolce e gracile giovine, da otto giorni insepolto. E nello stesso posto lo seppellì.

*

Garibaldi, un di quei giorni, verso sera, fece una passeggiata a cavallo per la città, passando pei luoghi dove le barricate erano meno fitte. Dire che accoglienze gli faceva il popolo parrebbe ora poesia, ora che il mondo è tanto mutato. Miravano le turbe quella figura dolce, e non sapendo ben capire come ad essa convenisse il gran nome guerriero, chinavano religiosamente la fronte, o gli si protendevano come ad un essere sovrumano. Non era difficile immaginare le folle deliranti di certi altri paesi prostrate per voluttà di farsi schiacciare dai carri sacri. Egli correggeva con lo sguardo quei fanatismi.
Spirato quel termine di tre giorni, fu prolungato l'armistizio di altri tre. Si indovinava in ciò gli ondeggiamenti della Reggia di Napoli, dove il re mite e le donne fiere tenevano la questione sospesa tra i consigli di chi voleva che Palermo fosse tutta ridotta in rovine, e il vecchio saggio Filangeri che ammoniva il Re, supplicandolo di non si mettere da sé, con quell'eccidio, al bando di tutta l'Europa liberale. E il suo consiglio prevalse. Così al terzo armistizio seguì una convenzione, per la quale i regi si obbligavano a sgombrar Palermo, però con l'onore delle armi. Garibaldi concesse. Andassero pure onorati! Erano italiani anch'essi, e nel trattarli così, egli poteva dire di riportare un'altra vittoria.
E il giorno 8 giugno fu uno strano spettacolo. Al cospetto di molto popolo in festa, dinanzi a forse quattrocento Cacciatori delle Alpi raccolti per quella cerimonia, sfilarono i ventimila soldati dell'esercito regio, soldati di tutte le armi. Dove andavano, dove si sarebbero ancora incontrati a combattere con quei loro vincitori che, così pochi, avevano dietro di loro l'Italia Nuova? Non sapevano, ma pareva sentissero che il mondo abbandonava il loro sovrano. Tuttavia, se passavano senza fierezza, non avevano aria avvilita. I soldati avevano combattuto.
Allora Palermo festeggiò sé stessa magnificamente, e quelli che chiamava i suoi liberatori. Essi, in venticinque giorni dalla partenza da Genova, avevano vissuto quanto si può vivere in parecchi anni, e veduto e sentito quanto in un lungo viaggio, per terre di civiltà antiche e venerande. E avevano anche potuto meditare sugli effetti delle rivoluzioni compiutesi, durante l'ultimo secolo, nell'alta Italia, dove se le miserie della vita erano ancora molte, certa somma di beni s'era pur cumulata nelle città e nelle campagne, e di questi beni tutti ne avevano risentito. Ma là nell'Isola, rimasta nel silenzio e nella solitudine, senza essere stata toccata dalla rivoluzione francese, quasi tutto era ancora come doveva essere stato parecchi secoli indietro. Grandezze da principi in una classe ristretta; povertà, ignoranza e superstizione nella grossa moltitudine; e, salvo le grandi città, assenza quasi assoluta di quel ceto di mezzo colto, ricco, operoso, che nell'alta Italia teneva già sin da allora in pugno le sorti sociali. Però l'anima siciliana si rivelava pronta a liberarsi da quanto di troppo vecchio la impediva, e capace di rimettere in breve il gran tempo perduto. Ma queste eran cose da lasciarsi al poi. Per allora bastava che l'Italia spingesse avanti l'opera iniziata dai Siciliani e dai Mille. Questi si sarebbero modestamente confusi nell'onda grossa di volontari che essa avrebbe mandati, come infatti mandò.
Ma nei giorni che corsero tra lo sgombro dei regi e l'arrivo di quella che fu chiamata la seconda spedizione condotta dal Medici, le gioie che Palermo fece loro godere furono cose da novelle orientali. Banchetti e festini, uno che aspettava la fine dell'altro per cominciare. I Mille, smessi i panni borghesi, vi comparivano nelle loro fiammanti camicie rosse, mirabili le Guide nelle pittoresche divise tra ungheresi e francesi; mirabili i Carabinieri genovesi in un costume severo e quanto mai signorile.
Ogni tanto, però, si faceva qualche gran funerale di morti per ferite, perché grandiosa e solenne doveva essere in Palermo anche l'ospitalità della tomba. Così certi umili volontari che, morti nelle loro case, sarebbero stati accompagnati al cimitero da pochi umili come loro, ebbero esequie da grandi. Quelle di Adolfo Azzi morto il 4 giugno, quelle del colonnello Tukory morto il dì 8, furono apoteosi. Intanto alla gioia veniva a mescersi certa mestizia. Era di quella che le grandi cose lasciano nel cuore, quando sono compiute. Gli animi alacri e lieti della vigilia cambiano godimento nella tristezza di poi.
Quanto a quelli che avanzarono dopo Palermo, alcuni andarono a morir a Milazzo come Vincenzo Padula da Padula, Gaetano Erede da Genova e Giuseppe Poggi, il bello ed eroico Poggi, cui Garibaldi aveva ammirato a Calatafimi. Pilade Tagliapietra da Treviso, Giuseppe Profumo da Genova, Pietro Zenner da Vittorio e l'angelico Ernesto Belloni da Treviso, caddero a Reggio Calabria; Angelo Cereseto e Giovanni Battista Roggerone, Quirico e Pietro Traverso, tutt'e quattro genovesi, e Innocente Stella da Arsiero, morirono in battaglia sul Volturno, e a Villa Gualtieri, il 1° ottobre. Così in tutti, dei Mille, da Calatafimi al Volturno, quelli che morirono in quel grand'anno furono settantotto. Altri come il Nullo ed Elia Marchetti andarono presto a morir in Polonia cavalieri poeti della libertà; altri ancora come Raniero Taddei e Antonio Ottavi da Reggio Emilia e Stefano Messaggi milanese, morirono combattendo, ufficiali dell'esercito, a Custoza; o come Vincenzo Dalla Santa e Giuseppe Dilani camicie rosse, nel Trentino. Finirono a Mentana Vigo Pelizzari e Antonio Caretti; alcuni, come Giuseppe Gnecco da Genova e Luigi Perla da Bergamo, morirono in Francia, combattendo ne' Vosgi contro i Prussiani. Di morte naturale, nei primi dieci anni dopo il '60, morirono quelli che erano già quasi vecchi al tempo della spedizione, ma anche molti, massime dei più giovani, consumati dalla tisi. Non pochi finirono di malattie mentali; troppi si spensero da sé, non rimasti abbastanza forti alla vita.
Si dice che a Quarto sorgerà un giorno un monumento con su tutti i nomi dei Mille incisi nel marmo. Sarà cosa che onorerà la patria; ma lo scoglio da cui Garibaldi scese a imbarcarsi, è da sé monumento cui la poesia fece già più duraturo d'ogni marmo e d'ogni bronzo, essa che vince il silenzio dei secoli!

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