2° DISCORSO DI MOSÈ
4, 44 - 28, 68

INDICE

Introduzione
Lunga parenesi o discorso esortativo (5, 1 - 11, 32)

I 10 comandamenti
1. La proibizione ad avere altri déi oltre al Signore (Dt 5, 7; Es 20, 3)
2. La proibizione delle immagini (Dt 5, 8-10; Es 20, 4-6)
3. La proibizione dell'uso improprio del nome di Dio (Dt 5, 7; Es 20, 7)
4. L'osservanza del Sabato (Dt 5, 12-15; Es 20, 8-11)
5. L'onore dovuto ai genitori (Dt 5, 16; Es 20, 12)
6. La proibizione dell'omicidio (Dt 5, 17; Es. 20, 13)
7. La proibizione dell'adulterio (Es. 20, 14; De. 5, 18)
8. La proibizione del furto (Dt 5, 19; Es. 20, 15)
9. La proibizione della falsa testimonianza; (Dt 5, 20; Es 20, 16)
10. La proibizione della concupiscenza (Dt 5, 21; Es 20, 17)
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11

Introduzione

Il secondo discorso di Mosè è anche quello più lungo in quanto è compreso tra i versetti 4, 44 e 28, 68. È preceduto, come al solito, da una breve introduzione che ci fornisce alcune precisazioni sulla situazione storico-geografica (4, 44-49). Anche qui le espressioni «di là dal Giordano» del v. 46 e «la pianura oltre il Giordano» del v. 49 ci confermano che l’autore si trovava in Palestina quando scriveva questo libro e quindi non poteva essere Mosè, che non attraversò mai il Giordano.

Il discorso vero e proprio inizia al v. 5, 1 con le parole: « Ascolta, Israele, gli statuti ed i decreti . . . » e si può dividere come segue:

– Una lunga parenesi (discorso esortativo) (5, 1 - 11, 32) dove, dopo il richiamo alla legge fondamentale del Sinai, il decalogo (5, 6-21), del quale viene data una versione leggermente diversa da quella dell’Esodo (20, 2-17), si torna insistentemente sul dovere alla fedeltà a Dio da dimostrare attraverso l’osservanza del comandamento principale espresso in mille formulazioni (6, 5: 10, 12; 11, 1) e dei comandamenti particolari espressi con la formula ricorrente di «comandamenti o prescrizioni - statuti - decreti» (6, 1; 7, 11; 11, 1; ecc.).

– Il codice deuteronomico (cc. 12-26) dove vengono date norme riguardanti:

a) il culto e le cose sacre (12, 2 - 16, 17),
b) le strutture della teocrazia (ispettori e giudizi - re - sacerdoti leviti - profeti ; 16, 18 - 18, 22).
c) la legge penale (19, 1-21; 21, 1-9),
d) una miscellanea di altre leggi di varia indole (20, 1-2; 21, 10 -26, 15).

All’interno di questo codice è evidente lo sviluppo che ha subito la legislazione nei confronti del «codice dell’alleanza» del libro di Esodo (Es 21-23) e soprattutto il cambiamento di spirito e di genere letterario con l’appello al cuore e con un tono esortativo presenti nella formulazione giuridica.

– Una conclusione (26, 16 - 28, 68) che invita:
a) all’osservanza delle prescrizioni precedenti (26, 16-19),
b) all’erezione di tre grandi pietre sul monte Ebal, una volta passato il Giordano:
· con soprascritta la legge (27, 1-10),
· con l’enumerazione delle dodici maledizioni che dovranno pronunciare i leviti sul popolo come sanzione per i trasgressori (27, 11-26).

Il c. 28 raccoglie l’insieme delle benedizioni e delle maledizioni che conclude l’intero codice presentato come la clausola giuridica dell’alleanza contratta tra Dio ed Israele a Moab a completamento di quella stipulata nel Sinai (29, 1).

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Parte prima: lunga parenesi o discorso esortativo (5, 1 - 11, 32)

I dieci comandamenti (5, 6-21)

V. 1 Gli statuti ed i decreti che vengono proclamati da Mosè ad Israele nella pianura di Moab devono essere imparati, ma proprattutto Israele deve impegnarsi a metterli in pratica.

V. 2-3. Il patto o alleanza stabilita da Dio con il popolo ebraico in Horeb (Sinai) è un’alleanza tutt’ora valida. Anche se questa alleanza venne stabilita da Dio con persone che erano già tutte morte, essa rimane tutt’ora valida nei loro naturali discendenti. Il popolo ebraico nella terra promessa della Palestina aveva ben presto dimenticato questa alleanza, come un fatto storico accaduto ai loro padri in un lontano passato, che non li riguardava direttamente. Di conseguenza l’osservanza della legge si era affievolita e si faceva sempre più pressante l’influenza dei culti pagani dei popoli con i quali convivevano. Mosé pertanto ricorda al popolo ebraico che il patto stabilito in Horeb è ancora attuale e riguarda non tanto i loro padri, ormai morti, ma tutti coloro che erano ancora in vita, che rappresentavano in quel momento il popolo ebraico e che stavano per entrare nella terra promessa.

V. 4-5. L’identificazione dei padri con i figli viene ancora meglio ribadita nei vv. 4-5 dove Mosé ricorda come Dio si sia manifestato al popolo ebraico faccia a faccia sul monte in mezzo al fuoco. L’avvenimento viene ricordato come se fosse successo direttamente ai presenti, mentre in realtà la maggior parte di coloro che stavano ascoltando le parole di Mosè molto probabilmente non erano ancora nati in quell’occasione. Non bisogna infatti dimenticare che tutta la generazione del Sinai era morta durante la peregrinazione nel deserto e che nella pianura di Moab erano giunti soltanto i discendenti.

Dal versetto 6 al versetto 21 vengono quindi ripetuti i 10 comandamenti che erano già stati elencati in in Esodo 20. La nuova versione è sostanzialmente identica alla prima con alcune lievi variazioni che possiamo notare mettendo a confronto i due testi:
 

Deuteronomio 5
Esodo 20

1° comandamento

6. Io sono l’Eterno, il tuo DIO, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù.
7. Non avrai altri dèi davanti a me.
2. Io sono l’Eterno, il tuo DIO, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù.
3. Non avrai altri déi davanti a me.

2° comandamento

8. Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra
9. Non ti prostrerai davanti a loro e non le servirai, perché io, l’Eterno, il tuo DIO, sono un Dio geloso che punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano,
10. ma uso benignità a migliaia verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti
4. Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra.
5. Non ti prostrerai davanti a loro e non le servirai, perché io, l’Eterno, il tuo DIO, sono un Dio geloso che punisce l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano,
6. e uso benignità a migliaia, a quelli che amano e osservano i miei comandamenti.

3° comandamento

11. Non userai il nome dell’Eterno, il tuo DIO, invano, perché l’Eterno non lascerà impunito chi usa il suo nome invano. 7. Non userai il nome dell’Eterno, il tuo DIO, invano, perché l’Eterno non lascerà impunito chi usa il suo nome invano.

4° comandamento

12. Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come l’Eterno, il tuo DIO, ti ha comandato.
13. Lavorerai sei giorni e in essi farai ogni tuo lavoro,
14. ma il settimo giorno è sabato, sacro all’Eterno, il tuo DIO: non farai in esso alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo servo né la tua ser-va né il tuo bue né il tuo asino né alcuna delle tue bestie né il forestiero che sta dentro le tue porte, affinché il tuo servo e la tua serva si riposino come te.
15. E ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che l’Eterno, il tuo DIO, ti ha fatto uscire di là con mano potente e con braccio teso; perciò l’Eterno, il tuo DIO, ti ordina di osservare il giorno di sabato.
8. Ricordati del giorno di sabato per santificarlo.
9. Lavorerari sei giorni e in essi farai ogni tuo lavoro;
10. ma il settimo giorno è sabato, sacro all’Eterno, il tuo DIO; non farai in esso alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte;
11. poiché in sei giorni l’Eterno fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno si riposò; perciò l’Eterno ha benedetto il giorno di sabato e l’ha santificato
 
 
 

5° comandamento

16. Onorerai tuo padre e tua madre, come l’Eterno, il tuo DIO, ti ha comandato, affinché i tuoi giorni siano lunghi ed abbia prosperità sulla terra che l’Eterno il tuo DIO, ti dà. 12. Onorerai tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano lunghi sulla terra che l’Eterno. Il tuo DIO, ti dà.
 

6° comandamento

17. Non ucciderai. 13. Non ucciderai.

7° comandamento

18. Non commetterai adulterio. 14. Non commetterai adulterio.

8° comandamento

19. Non ruberai. 15. Non ruberai.

9° comandamento

20. Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo . 16. Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

10° comandamento

21. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, e non desidererai la casa del tuo prossimo né il suo campo né il suo servo né la sua serva né il suo bue né il suo asino né cosa alcuna che sia del tuo prossimo 17. Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo.
 

I Dieci Comandamenti sono le leggi fondamentali del Patto sancito fra Dio ed Israele al Monte Sinai (Horeb). Sebbene la data in cui essi sono stati stabiliti è incerta, i comandamenti possono essere fatti risalire nella prima parte del 13° secolo a. C.

In ebraico i Dieci Comandamenti sono chiamati "Le Dieci Parole" da cui deriva, per mezzo del greco, l'altro modo in cui essi vengono chiamati in italiano: Il Decalogo.

I comandamenti appaiono due volte nell'Antico Testamento: prima nella descrizione della formazione del Patto al Sinai (Esodo 20:2-17) e poi ripetuti nella descrizione del rinnovo del patto nelle pianure di Moab (De. 5:6-21).

La Bibbia descrive i comandamenti come scritti direttamente da Dio su due tavole di pietra (Dt 5, 22; Dt 4, 13; Es 24, 12; Es 31, 18; Es 32, 15-16; Es 34, 28; Dt 9, 9-11; Dt 1-5). Come abbiamo letto queste tavole erano incise davanti e nel retro. Alcuni pensano che le tavole erano due in quanto una veniva consegnata al popolo e l’altra rimaneva a Dio, affinché entrambi i contraenti del Patto ne avessero una copia. Questa deduzione, però, sembra del tutto infondata in quanto nulla ci viene detto in merito nei versetti che abbiamo letto. Anzi sembra chiaro che tutte e due le tavole siano state consegnate da Mosè al popolo ebraico. Sembra più logica la deduzione di alcuni i quali pensano che nella prima tavola fossero incisi i primi quattro comandamenti riguardanti i rapporti tra Dio ed Israele, mentre nella seconda tavola gli altri comandamenti riguardanti i rapporti fra gli esseri umani.

I Comandamenti devono essere interpretati inizialmente nel contesto del Patto del Sinai o Horeb, dove in effetti ebbe inizio uffcialmente il processo di formazione dello stato di Israele, che continuò durante tutto il tempo di Mosè e del suo successore, Giosuè.

In quanto Dio era Colui che aveva messo in grado Israele di diventare una nazione (agendo come loro Redentore) liberando il suo popolo eletto dalla schiavitù in Egitto, di conseguenza Egli doveva anche essere il vero Re di Israele. Come tale Egli aveva l'autorità di stabilire la legge di Israele, come viene reso chiaro dall'introduzione ai Comandamenti (Es 19, 5-6). I Comandamenti, così, erano inizialmente parte di una costituzione e servivano come legge di stato della nascente nazione di Israele.

Oltre che rappresentare lo statuto della nascente nazione ebraica, i Dieci Comandamenti contengono la legge morale che Dio ha impresso nel cuore di ogni creatura umana [una legge "scritta nei cuori"], e di cui la coscienza rende testimonianza (Rm. 2:14-16). Era necessario però che Dio codificasse questa legge a causa del peccato dell'uomo e perché il popolo eletto, dal quale doveva nascere il Messia, fosse preservato dalla contaminazione idolatrica degli altri popoli.

La legge morale è da distinguersi dalla legge cerimoniale e dalla legge civile, data da Dio ad Israele in diversi momenti della sua storia. Mentre la legge cerimoniale e la legge civile era riservata esclusivamente al popolo ebraico, la legge morale è invece patrimonio universale di tutti i popoli della terra, come viene testimoniato dalle diverse legislazioni. Gesù quindi con la sua venuta non ha inteso abrogare questa legge, ma anzi l’ha resa più perfetta spiritualizzandone il contenuto (Mt 5, 17-22 e ss).

Il principio fondamentale su cui si basa la legge morale contenuta nei 10 comandamente è quello dell'amore. Dio aveva scelto il Suo popolo e lo aveva liberato dalla schiavitù solo perché lo amava. Di conseguenza Egli esigeva fondamentalmente dal Suo popolo una cosa: che essi Lo amassero con la totalità del loro essere (Dt 6, 5-6) ed esprimessero amore verso gli altri (Lv 19, 18). Gesù stesso rileva infatti come l’essenza di tutta la legge sia sia riassumibile in due semplici comandamente: « Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente; e il tuo prossimo come te stesso » (Mt 22, 34-40). Anche l’apostolo Paolo richiama lo stesso concetto nella lettera ai Romani cap. 13, 8-10.

Come deve essere dunque adempiuto il comandamento di amare? I primi quattro comandamenti indicano la natura del rapporto con Dio, che è essenzialmente un rapporto di amore con Lui. Gli altri comandamenti vanno oltre ed indicano come l'amore per Dio implichi necessariamente l’amore verso coloro che condividono la nostra stessa natura umana (1 Gv 4, 20-21).

Dopo questa introduzione vediamo ora di esaminare più da vicino il decalogo per mettere in evidenza l’obiettivo principale di ciascun comandamento e la sua rilevanza nei nostri confronti:

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1. La proibizione ad avere altri déi oltre al Signore (Dt 5, 7; Es 20, 3)

Il primo comandamento [«Non avere altri déi davanti a me»], è in forma negativa ed espressamente proibisce agli israeliti di essere coinvolti nel culto di divinità straniere. Il significato di questo comandamento sta nella natura del Patto che lega il popolo a Dio. L'essenza del patto era un rapporto fra Dio e l’uomo, e l'essenza di questo rapporto era la fedeltà. La fedeltà di Dio al suo popolo era già stata dimostrata nell'Esodo, come viene indicato nella prefazione ai comandamenti (Es 19, 4-6; Dt 7, 7-10). A sua volta Dio richiedeva, più di qualsiasi altra cosa, la fedeltà del Suo popolo nei suoi rapporti con Lui. Questo comandamento, quindi, è pieno di implicazioni positive, e la sua posizione come primo fra dieci è significativa, perché stabilisce un principio, molto importante, di cui è impregnata tutta la legislazione ebraica.

Il significato attuale di questo comandamento può essere quindi visto nell’ambito della fedeltà del credente a Dio. Al centro stesso della vita umana vi deve essere il rapporto con Dio. Tutto ciò che nella vita disturbi o infranga questo rapporto primario infrange questo comandamento.

In positivo esso esige di conoscere e di riconoscere Dio come l'unico e vero Dio, e come il nostro Dio; nonché di adorarlo e di glorificarlo come tale. In ne-gativo esso proibisce il negare, oppure il non rendere il debito culto e gloria al ve-ro Dio come Dio, e come nostro Dio; e dare invece ad altri il culto e la gloria, che spettano solo a Lui.

Il primo comandamento riguarda la persona a cui si rivolge il vero culto: solo il Dio vero e vivente ne è degno. Questa è una pretesa esclusivista. Non si può affermare che "qualsiasi oggetto di culto vada bene purché si sia sinceri" (cf. 1 Co 8,5-6; Rm 11, 33-36; Cl 1, 16), e non basta credere astrattamente a "un dio" qualsiasi non meglio qualificato... Ci si immagina un dio a nostro comodo, ma Dio si è rivelato a noi con chiarezza, e la conoscenza di Lui non è un'opinione e non va secondo le nostre congetture o convenienze. La Bibbia ci dà di Dio una rivelazione sufficiente, ce lo definisce chiaramente e lo differenzia da tutte le false concezioni che noi possiamo farci di Lui.

Il primo comandamento, inoltre, richiede non solo di riconoscere il vero Dio, ma pure di glorificarlo nell'intera nostra vita. Dio non ammette una conoscenza indefinita di Lui o un servizio arbitrario, ma esige che Lo si riconosca così come si è chiaramente rivelato nella Bibbia e in Gesù Cristo.

Il primo comandamento, nell'affermare chiaramente la persona di Dio, come si è rivelata nella Bibbia, e i suoi legittimi diritti sulle sue creature umane, implica da parte nostra precise responsabilità nell'opporci a certe tendenze moderne che sono fondamentalmente atee e agnostiche. In un contesto di società 'laica' e 'neutrale' si cerca di intimidire chi osa professare apertamente la sua fede chiamandolo 'fanatico', o 'settario'. In questo clima di relativismo imperante i credenti possono essere tentati a considerare la propria fede come un'opzione religiosa fra le tante, mischiandola o 'armonizzandola' con altre. Si può quindi infrangere il primo comandamento anche conformandosi a questo modo di pensare prevalente dei nostri giorni.

Lo stesso avviene per chi trascura, i suoi doveri verso Dio e verso la comunità dei credenti, lasciandoli ai margini della propria vita. Dio ha pretese totalizzanti che mal si adattano alla mentalità moderna: il credente però, rifuggendo dal conformarsi a questo mondo, deve saper affermare con coraggio e con intelligenza la fede «una volta per sempre tramandata ai santi». Se è vero che c’è un solo Dio vivente, allora bisogna rendere il nostro culto solo a Lui. Se questo Dio si è fatto conoscere a noi tramite la sua Parola ispirata (la Bibbia), dovremmo fare attenzione a non confonderlo con altri concetti di divinità che sono stati costruiti dagli uomini e non rivelati da Dio stesso.

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2. La proibizione delle immagini (Dt 5, 8-10; Es 20, 4-6)

La possibilità di rendere il culto a divinità diverse dal Signore è già stata eliminata dal primo comandamento.
Il secondo comandamento proibisce agli israeliti di farsi immagini del Signore.
Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra Non ti prostrerai davanti a loro e non le servirai, perché io, l’Eterno, il tuo DIO, sono un Dio geloso che punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, ma uso benignità a migliaia verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti»].

Farsi un'immagine di Dio, a somiglianza di qualcosa di questo mondo, significa ridurre il Creatore a qualcosa di meno che la Sua creazione, e adorare una tale immagine è la cosa più assurda che potremmo fare. La tentazione di Israele di adorare Dio sotto forma di un'immagine doveva essere stata enorme, perché immagini ed idoli erano pratica corrente di tutte le religioni dell'antico Oriente. Il Dio di Israele, però, è un Dio trascendente ed infinito, e non può essere ridotto ai limiti di un'immagine simile alla creatura da lui creata.

Non sono proibite soltanto le sculture e le immagini dirette di Dio ma qualsiasi tipo di scultura od immagine sacra che in qualche modo ci richiami la divinità, come ad esempio la rappresentazione di persone od oggetti che possono fungere da tramite fra Dio ed il credente. Mi riferisco naturalmente alla raffigurazione di santi, madonne, croci e reliquie varie tramite le quali si dice che il credente possa avvicinarsi a Dio. Non solo queste sculture, queste immagini e queste reliquie sono vietate, ma è altresì vietato prostrarsi e pregare dinanzi ad esse come a degli strumenti attraverso i quali si possa arrivare a Dio.

Si è cercato in vari modi di giustificare il culto delle immagini e delle reliquie, assai diffuso nel cattolicesimo, sostenendo che il fedele prostrato dinanzi alla statua di un santo o della madonna o davanti ad una reliquia, non si rivolge in preghiera alla scultura o all’immagine per se stessa, ma alla persona che tale immagine raffigura. Ma anche in questo caso il comandamento viene infranto perché non possiamo rendere alcun tipo di culto ad altre persone, ma soltanto a Dio, come Gesù stesso ci insegna (Mt  4, 10). Anche gli apostoli hanno sempre rifiutato tale tipo di adorazione quando alcune persone si prostrarono ai loro piedi (At 10, 25-26; 14, 8-15).

Un ulteriore spiegazione per giustificare il culto dei santi, della madonna e delle reliquie, è stata quella di distinguere il culto di latria, di dulia e di iperdulia. Il culto di latria sarebbe riservato solo a Dio, mentre il culto di dulia sarebbe quello verso i santi e di iperdulia, quello rivolto alla madonna. Ma questa sottile distinzione non è certamente presente nel semplice fedele che si rivolge a Sant’Antonio, per esempio, per ricevere una grazia. Per lui in quel momento esiste solo il santo al quale si rivolge in preghiera fiducioso di ricevere la grazia richiesta. Per lui Dio è troppo lontano ed inaccessibile, l’idea che la sua preghiera al santo sia un culto di dulia anziché di latria non gli sfiora neppure la mente. La sua unica preoccupazione è quella di affidarsi totalmente alla bontà ed alla generosità di colui che ha compiuto tanti miracoli in vita e dopo morto. Perché non potrebbe compiere un miracolo anche per lui?

Il secondo comandamento non proibisce soltanto la costruzione materiale e l’adorazione di sculture e di immagini dirette di Dio, ma anche quando ci costruiamo nella nostra mente un concetto personale di Dio. Se usiamo delle parole su Dio dicendo: "Questo è esattamente ciò che è Dio e nulla di meno" (sottintendendo anche 'nulla di più'), e se elaboriamo in dettaglio la nostra comprensione di Dio, allora corriamo il rischio di formarci un'immagine di Dio non meno fissa e rigida di quelle di legno o di pietra. Naturalmente, non ci viene proibito di usare parole per riferirci a Dio, se no la religione sarebbe impossibile. Se però le parole vengono fissate in modo rigido e permanente come cemento, e la nostra comprensione di Dio si adatta a quelle parole, noi avremmo costruito un'immagine di Dio secondo i nostri desideri. Rendere il culto a Dio tramite questa immagine verbale, significa infrangere questo comandamento. Dio è trascendente ed infinito, ed è sempre più grande di qualsiasi parola che l'uomo possa usare a suo riguardo. In questo modo il secondo comandamento protegge la grandezza ultima del mistero di Dio.

Nel secondo comandamento in generale si prescrive così:
(a) di ricevere, osservare, e conservare puro ed integro, tutto il culto e le ordinanze che Dio ha stabilito nella Sua Parola
(b) si proibisce il culto di Dio attraverso immagini o attraverso qualsiasi altra cosa che non sia esplicitamente stabilita nella Sua Parola.
Le ragioni aggiunte al secondo comandamento sono: la sovranità di Dio su di noi, la sua proprietà su di noi, e lo zelo che lui dimostra verso tutto ciò che gli appartiene.

La Chiesa Romana e le Chiese Luterane trattano il 2° comandamento come se fosse parte del primo; così, per far tornare il numero 10, sdoppiano l'ultimo che tratta della concupiscenza. Questo però non è legittimo, perché il 2° comandamento ci dice come noi dobbiamo rendergli il culto che gli è dovuto. Difatti questo comandamento stabilisce che Egli debba essere onorato nei termini stab-liti dalla Sua volontà, bisogna cioè renderGli quel culto che Egli stesso comanda. Il vero culto consiste in quelle cose che Dio ha comandato nella Sua Parola. Ciò che Dio non ha comandato, è come se Egli lo avesse proibito.

Che cosa dice la Bibbia sugli elementi che devono caratterizzare il culto cristiano? Nella Bibbia si parla di lettura e predicazione della Scrittura, di cantare con il cuore e di salmeggiare, di celebrare la Cena del Signore, e di elevare a Dio delle preghiere spontanee. Il culto dunque deve essere semplice e spirituale.
Paramenti sacri, candele, croci, statue, processioni... tutte queste cose Dio non le ha stabilite ed è pertanto pericoloso introdurle, pensando magari di "abbellire" il culto, di renderlo più interessante, meno monotono, più ispirato facendo ricorso a forme, gesti, o immagini sensibili.

Il secondo comandamento trova riscontro anche nel Nuovo Testamento. Alla Samaritana che chiedeva dove era legittimo adorare Dio, se nel tempio di Gerusalemme oppure nel monte della Samaria, Gesù rispose: «Donna, credimi: l’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme adorerete il Padre . . . Ma l’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché tali sono gli adoratori che il Padre richiede. Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Gv 4, 21-24).

Anche l’apostolo Paolo rivolgendosi agli Ateniesi, dice: « Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi fatti da mani d’uomo, e non è servito dalle mani degli uomini come se avesse bisogno di qualcosa, essendo lui che dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa; or egli ha tratto da uno solo tutte le stirpi degli uomini, perché abitassero sopra tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche prestabilite e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore, se mai riuscissero a trovarlo come a tastoni, benché egli non sia lontano da ognuno di noi. Poiché in lui viviamo, ci muoviamo e siamo, come persino alcuni dei vostri poeti hanno detto: "Poiché siamo anche sua progenie". Essendo dunque noi progenie di Dio, non dobbiamo stimare che la deità sia simile all’oro o all’argento o alla pietra o alla scultura d’arte e d’invenzione umana» (At 17, 24-29).

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3. La proibizione dell'uso improprio del nome di Dio (Dt 5, 7; Es 20, 7)

Il terzo comandamento è: [«Non usare il Nome del Signore Iddio tuo invano, perché il Signore non terrà per innocente chi avrà usato il Suo Nome invano»]. Comunemente si pensa che il terzo comandamento abbia a che fare con la bestemmia; ma esso riguarda qualcosa di ancor più grave: l'uso che si fa del nome di Dio. Dio ha concesso ad Israele un privilegio straordinario: ha rivelato loro il suo nome personale. Il nome di Dio è rappresentato in ebraico con quattro lette-re; Y H W H . Nelle nostre Bibbie il nome di Dio viene reso in vari modi: Signore, Eterno, oppure Jahweh o Geova. Conoscere il nome di Dio era un privilegio, perché significava che Israele non adorava una divinità anonima e distante, ma un Essere di cui si conosceva il nome personale. Ciononostante questo privilegio era accompagnato da un pericolo, cioè che potesse essere abusata la conoscenza del nome personale di Dio. Nelle religioni dell'antico Oriente, la magia era una pratica comune, ed implicava l'uso del nome del dio, che si credeva potesse controllare il potere del dio stesso, in certi tipi di attività designati a manipolare il potere divino per usi umani. Il tipo di attività che proibisce il terzo comandamento è la magia, il tentativo di strumentalizzare il potere di Dio per scopi personali o futili. Dio può certo donare, ma non può essere manipolato oppure controllato.

Nel contesto del Cristianesimo il nome di Dio è ugualmente importante. É nel nome di Dio per esempio, che viene concesso nella preghiera accesso a Dio. L'abuso del privilegio della preghiera, quando si invoca il nome di Dio per scopi egoistici o di poco conto, equivale alla magia del mondo antico. In entrambi i casi si abusa del nome di Dio e si infrange il terzo comandamento. Il terzo comandamento rammenta positivamente l'enorme privilegio che ci è stato dato di conoscere il nome di Dio, un privilegio questo che non deve essere preso alla leggera od abusato.

Nel terzo comandamento si prescrive così l'uso santo e riverente dei nomi, titoli, attributi, ordinanze, Parola, ed opere di Dio, cioè tutto ciò per cui Egli si fa conoscere (Mt. 6, 9; Dt 28, 58; Sl 68, 4; Ap 15, 3-4; Ml. 1, 11-14; Sl 138, 1-2; Gb 36, 22-24); nel terzo comandamento si proibisce altresì qualsiasi discredito, offesa, profanazione od abuso di tutto ciò attraverso il quale Dio si fa conoscere (Ml 1:6-7.12; 2, 2; 3, 14).

Sebbene coloro che infrangono questo comandamento possono sfuggire alla punizione degli uomini, essi non sfuggiranno certamente al giusto giudizio di Dio (1 Sm 2:12-17.22.29; Dt 28,57-59).

Il secondo comandamento ci insegnava il modo in cui dobbiamo rendere a Dio il culto che Gli è dovuto; ora il terzo comandamento ci insegna quale deve esserne l'atteggiamento. «Ora dunque temete l'Eterno, e servitelo con integrità e fedeltà» (Gs 24, 14).

Il nome di Dio non è un semplice vocabolo, rappresenta ciò che Egli ha rivelato di Sé, la Sua Persona. Se siamo coscienti di chi Lui sia, è chiaro che non potremmo che avere sempre di Lui il massimo rispetto con il pensiero,  la parola e con il nostro agire. Dobbiamo vivere nella consapevolezza di essere sempre alla Sua presenza, e quindi tutto quello che facciamo, diciamo o pensiamo deve in ogni momento darGli gloria. Non è solo questione di pronunciare parole offensive, come ad esempio delle bestemmie, ma è tutto quello che noi siamo che non dovrà mai esserGli offensivo. Il comandamento ci esorta ad essere sempre coscienti del fatto che di fronte alla maestà del Dio Creatore, noi rimaniamo pur sempre delle creature limitate e salvate per Grazia, alle quali è rivolta una speciale chiamata. Il nostro compito è quindi quello di rispondere a questa chiamata con prontezza e con coerenza.

In questo comandamento viene condannato pure:

1) ogni tipo di formalismo religioso. «Poiché questo popolo si avvicina a me solo con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il loro timore di me è solo un comandamento insegnato da uomini» (Is 29, 13). « ...aventi l’apparenza della pietà, ma avendone rinnegata la potenza » (2 Ti 3, 5). Ciò che non nasce da profonda convinzione è soltanto un vuoto formalismo senza significato.

2) Lo stesso vale per il tradizionalismo. «Ma invano mi rendono un culto inse-gnando dottrine che sono precetti d'uomini... annullando così la Parola di Dio con la vostra tradizione che vi siete tramandata » (Mc 7:7.13). La tradizione umana spesso è in contrasto con la volontà di Dio. Questa tradizione infatti tende a promuovere l'idea che si è a posto facendo le cose che si sono sempre fatte, senza chiedersi se queste cose siano in armonia con la Parola di Dio.

3) Questo comandamento inoltre condanna il modernismo nel quale vogliamo comprendere qualsiasi tipo di deviazione che ci dà una falsa versione della fede cristiana. Il modernismo infatti prende le parole della fede cristiana storica e ne cambia completamente il significato. É la tendenza moderna a "reinterpretare", e ad "aggiornare" continuamente la fede cristiana adattandola alla morale corrente. Ma Gesù chiaramente dice: « Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetizzato in nome tuo, e in nome tuo cacciato démoni, e fatte in nome tuo molte opere potenti? E allora dichiarerò loro: Io non vi conobbi mai; dipartitevi da me voi tutti, operatori d'iniquità » (Mt 7,21-23).

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4. L'osservanza del Sabato (Dt 5, 12-15; Es 20, 8-11)
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Il quarto comandamento è: [«Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come l’Eterno, il tuo DIO, ti ha comandato. Lavorerai sei giorni e in essi farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è sabato, sacro all’Eterno, il tuo DIO: non farai in esso alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo servo né la tua serva né il tuo bue né il tuo asino né alcuna delle tue bestie né il forestiero che sta dentro le tue porte, affinché il tuo servo e la tua serva si riposino come te. E ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che l’Eterno, il tuo DIO, ti ha fatto uscire di là con mano potente e con braccio teso; perciò l’Eterno, il tuo DIO, ti ordina di osserva-re il giorno di sabato »].

Questo è il primo comandamento espresso in forma positiva, ma si tratta anche di una disposizione unica nel suo genere in quanto non esiste alcun parallelo, non solo nelle religioni dell’Antico Oriente, ma anche nelle legislazioni dei popoli antichi, prima di Cristo.

Il riposo settimanale, che è ormai diventato un dato acquisito della nostra civiltà moderna, affonda le sue radici nella legislazione ebraica. Se la gran parte della vita in Israele era caratterizzata dal lavoro, il settimo giorno doveva essere messo a parte. Il lavoro doveva cessare ed il giorno doveva essere considerato santo.

Due ne sono le ragioni che vengono date nella versione del decalogo in Esodo ed in Deuteronomio. Sebbene esse possano a prima vista sembrare diverse tra loro, c'è tuttavia un tema comune che le lega entrambe.

1) Nella prima versione (quella di Es 20, 11), il sabato va osservato in commemorazione della creazione: Dio ha creato il mondo in sei giorni e si è riposato il settimo giorno.

2) Nella seconda versione (Dt 5, 15), il sabato doveva essere osservato in commemorazione dell'Esodo dall'Egitto.

Il tema comune che collega queste due versioni è quello della creazione: Dio non crea solo il mondo, "crea" anche il Suo popolo, Israele, redimendolo dalla schiavitù in Egitto. Così il settimo giorno nello scorrere del tempo, doveva essere un giorno in cui il popolo di Dio rifletteva sulla creazione. Così facendo essi dovevano riflettere anche sul significato della loro stessa esistenza.

Il "sabato ebraico" è stato trasferito nel Cristianesimo non più come giorno da osservare, secondo alcune precise prescrizione, ma come concetto di "riposo" e di giorno da dedicare al culto.

Nel Cristianesimo il trasferimento del "sabato" alla Domenica è collegato ad un cambiamento nel pensiero cristiano, identificato nella risurrezione del Cristo, avvenuta appunto nel primo giorno della settimana e cioè di Domenica.

Questo cambiamento è conforme al concetto originale del "sabato ebraico" in quanto i cristiani ora riflettono ogni domenica sulla "nuova creazione", che ha avuto inizio con la risurrezione di Gesù Cristo dai morti.

Il quarto comandamento riguardante l’osservanza del sabato fa parte del decalogo che è un patto che Dio ha stabilito esclusivamente con il popolo ebraico, come viene detto esplicitamente in Dt 5, 3-4. Con la venuta di Cristo, Dio ha stabilito con il Suo popolo un nuovo patto, non più scritto su tavole di pietra, ma direttamente sul cuore delle persone (Eb 8). Questo nuovo patto che Dio ha stabilito con tutto il genere umano, ricalca sostanzialmente la legge morale dell’antico patto fatto con il popolo ebraico, ma sono profondamente cambiati i termini e lo spirito con cui Dio si rivolge al suo popolo. Non più una legge esteriore scritta da osservare, ma una legge d’amore che deve entrare nel patrimonio genetico di ogni credente (2 Co 3). In questo nuovo patto non ha più senso l’osservanza di leggi e di prescrizioni, ma quello che conta è il nuovo rapporto del credente con Dio, un rapporto di fedeltà e di amore che si esprime da parte nostra con il riconoscimento della nostra totale incapacità di osservare la legge e di redimere la nostra natura corrotta e quindi con il riconoscimento della necessità di una totale sottomissione a Dio che ci offre una via di salvezza per mezzo della Grazia.

L’apostolo Paolo esprime molto bene il cambiamento dei termini del nuovo patto in Cl 2, 6-17. Il sabato dunque, come veniva osservato dal popolo ebraico è soltanto l’ombra della nuova era inaugurata da Cristo che ci dà il vero riposo. Rivolgendosi alle folle Gesù diceva: « Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati, ed io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto ed umile di cuore, e voi troverete riposo per le vostre anime. Perché il mio giogo è dolce e il mio peso leggero » (Mt 11, 28-30).

Il riposo sabbatico è pertanto soltanto l’ombra o la figura di un riposo definitivo che Dio offre a tutti coloro che si affidano alla Sua misericordia (Eb 3, 1 - 4, 11).

I primi cristiani di origine ebraica continuarono ad osservare la legge mosaica e quindi anche il sabato, ma a differenza degli altri loro confratelli giudei, essi si radunavano anche il primo giorno della settimana per ricordare con la celebrazione della cena del Signore la morte e la resurrezione di Cristo, come viene ricordato nell’esempio di At 20, 7. Con la distruzione del tempio e di Gerusalemme, l’osservanza del sabato e di altri giorni del calendario ebraico andò via via estinguendosi, mentre prese sempre più consistenza l’uso di radunarsi il primo giorno della settimana (Domenica) per il culto. La Domenica ha preso così ben presto il posto del sabato ebraico, ma a differenza di quest’ultimo non è stata intesa come un particolare giorno da osservare, ma come un giorno in cui i credenti hanno l’occasione di radunarsi insieme come chiesa per esprimere il loro ringraziamento a Dio mediante la preghiera, il canto, la lettura della Parola ed il ricordo del sacrificio di Cristo. Nella chiesa di Roma vi erano alcuni cristiani, forse di origine giudaica, che avevano un particolare riguardo per alcuni giorni, mentre per altri tutti i giorni erano uguali (Rm 14, 5-6). Paolo non criminalizza nessuno dei due gruppi, dimostrando così ancora una volta che la nuova legge di Cristo non è una legge di imposizioni, ma una legge di libertà. Quello che contava, e conta tuttora, non è tanto l’osservanza di questa o quella prescrizione, o di questo o quel giorno, quanto piuttosto lo spirito con cui si deve intendere il rapporto fra Dio ed il credente che è prima di tutto un rapporto d’amore. Se si ama veramente Dio, si dedicherà a lui tutta la vita e non soltanto alcuni giorni.

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5. L'onore dovuto ai genitori (Dt 5, 16; Es 20, 12)

Il quinto comandamento è: [«Onorerai tuo padre e tua madre, come l’Eterno, il tuo DIO, ti ha comandato, affinché i tuoi giorni siano lunghi ed abbia prosperità sulla terra che l’Eterno il tuo DIO, ti dà.»].
Il quinto comandamento costituisce un ponte fra i primi quattro, che toccano i rapporti con Dio, e gli ultimi cinque, che toccano principalmente rapporti fra gli uomini. A prima vista, esso sembra riguardare solo i rapporti di famiglia: i figli devono onorare i propri genitori.

Sebbene il comandamento stabilisca un principio di onore e di rispetto nei rapporti familiari, esso probabilmente è collegato ad uno specifico interesse. È responsabilità dei genitori infatti istruire i propri figli nella fede del Patto (Dt 6, 7), affinché essa possa essere trasmessa da una generazione ad un'altra. L'istruzione nella fede, però, esige un atteggiamento di onore e di rispetto da parte di coloro che vengono istruiti. Il quinto comandamento, così, non si occupa solo dell'armonia familiare, ma pure della trasmissione della fede in Dio alle generazioni future.

Con il quinto comandamento non abbiamo problemi di applicazione nell'ambito moderno. In un secolo, però, in cui così tanta educazione avviene al di fuori del nucleo familiare, il comandamento serve egregiamente per rammentare non solo la necessità di una vita familiare armoniosa, ma pure le responsabilità riguardo all'educazione religiosa che gravano sia sui genitori che sui figli.

Nel quinto comandamento si prescrive in generale pure che venga preservato l'onore, e l'adempimento dei doveri, che spettano a ciascuno sia esso superiore, inferiore, od eguale (Ef 5, 21; 6, 1-4; 1 Pt 2,17; Rm 12, 10) e si proibisce la negligenza o qualunque cosa sia deleteria all'onore e al dovere che spetta a ciascuno nei diversi luoghi e rapporti (Mt 15, 4­6; Ez 34, 2­4; 1 Pt 5, 1-6;1 Ti 5. 17; Rm 13, 8). A tutti quelli che osservano questo comandamento viene fatta la promessa di una vita lunga e prospera (De. 5, 16; Ef 6, 2-3).

Incluso in questo comandamento è il dovere di accettare di buon grado e di obbedire alle legittime autorità. Ogni autorità legittima è data da Dio e il rispetto dell'autorità equivale a rispettare il Signore (Rm 13, 1-2). Quando Dio aveva creato l'uomo, era la famiglia ad essere l'unica istituzione di vita comune.
Dopo la caduta, però, sono state date due altre importanti istituzioni: la Chiesa e lo stato. Dio ha dato alla Chiesa il compito di insegnare l'Evangelo ed esercitare il governo spirituale su coloro che professano la fede in Cristo. La famiglia è il prototipo delle altre istituzioni e nella Bibbia le autorità spesso sono equiparate a padri e madri. Dio ha dato allo stato il compito di coordinare ed amministrare la società e di reprimere il crimine ed il male nel mondo. L'autorità però ha un limite costituito dalla sovranità di Dio. La promessa connessa all'obbedienza a questo comandamento sottolinea come si possa vivere bene solo quando si rispettano gli ordinamenti che Dio ha predisposto.

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6. La proibizione dell'omicidio (Dt 5, 17; Es. 20, 13)

Il sesto comandamento è: «Non uccidere ».

Questo comandamento, preso letteralmente, sembrerebbe proibire qualsiasi uccisione, ma il significato di questa parola si riferisce soltanto alla proibizione dell'omicidio. La parola usata in questo comandamento non ha rapporto diretto con l’uccidere in guerra o con la punizione capitale: entrambe queste questioni vengono regolate in altre parti della Legge mosaica. La parola "omicidio" potrebbe essere usata per designare tanto l'assassinio quanto l'omicidio. Dato però che l'omicidio implica l'uccisione accidentale, non avrebbe senso proibirlo. L’omicidio infatti viene trattato da una legislazione specifica (Dt 19, 1-13).

Il sesto comandamento dunque proibisce soltanto l'assassinio, che si consuma quando qualcuno toglie intenzionalmente la vita ad un altro per un motivo personale ed egoistico. In senso positivo questo comandamento garantisce a ciascun membro della comunità il diritto alla vita.

Nel mondo moderno una legge simile, che proibisce l'assassinio, esiste in quasi tutte le legislazioni civili ed è diventata legge dello stato, piuttosto che una legge puramente morale o religiosa.

Gesù nel Sermone sul Monte mette in evidenza il significato più profondo di questo comandamento. Egli non condanna infatti soltanto l’atto materiale di uccidere, ma anche il sentimento di odio che spinge l’uomo ad assassinare il proprio simile (Mt 5, 21-22).

Il sesto comandamento proibendo soltanto l’assassinio e non l’uccisione in guerra e la pena capitale impartita dall’autorità giudiziaria dello stato, dimostra in questo senso i limiti e la contingenza di una legge data ad un popolo in un certo periodo storico. Non possiamo pertanto trasferire  letteralmente questa legge ai nostri giorni in quanto con Gesù quel che vale oggi è la legge dell’amore e della non violenza.
L'essere umano è stato creato ad immagine di Dio, e perciò nessuno ha diritto di ledere o togliere la vita ad alcun essere umano (e nemmeno a sé stessi) per qualsiasi motivo sia esso di guerra o di giustizia.

Questo comandamento va quindi oggi rivisitato in base al superiore comandamento dell’amore predicato da Cristo e dai suoi apostoli. Questo insegnamento promuove il massimo rispetto per ogni essere umano, non vieta solo la violenza fisica, ma anche quella verbale e tutto ciò che rechi danno o renda difficile la vita di chiunque.

Possiamo quindi pensare che Dio abbia dato questa legge al popolo ebraico che vietava l’assassinio, ma non l’uccisione in guerra e la condanna capitale per motivi contingenti dovuti alla maturità del popolo ebraico di quell’epoca. In un certo senso qui si può applicare lo stesso principio della «durezza dei cuori» (Mt 19, 8) avanzato da Gesù in occasione del divorzio. In principio la vita creata da Dio era sacra e l’uomo non aveva alcun diritto a toglierla. In base a questo principio neppure Caino poteva essere ucciso (Ge 4, 15).

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7. La proibizione dell'adulterio (Es. 20, 14; De. 5, 18)

Il settimo comandamento è: «Non commettere adulterio ».

L'atto dell'adulterio è fondamentalmente un atto di infedeltà. Una o entrambi le persone nell'atto dell'adulterio sono infedeli al proprio partner. É per questa ragione che l'adulterio è incluso nei dieci comandamenti, mentre non lo sono altri peccati  di tipo sessuale. Di tutti questi peccati, il peggiore è l'infedeltà. Il settimo comandamento, quindi, è il parallelo sociale del primo. Proprio come il primo comandamento esige assoluta fedeltà nel rapporto con l'unico Iddio, così il settimo esige un simile rapporto di fedeltà nell'ambito del patto matrimoniale.

La rilevanza di questo comandamento è evidente, ma Gesù va anche oltre e rileva le implicazioni del comandamento nelle intenzioni oltre che nell’atto materiale in sé stesso (Mt 5, 27-28). Nel settimo comandamento si prescrive pure in generale la preservazione della castità propria e dell'altrui persona nel cuore, nel parlare e nel comportamento (1 Co. 7:2­5.34-36; Ef 5, 3-5; Cl 4, 6).

Non c'è nulla di male nel sesso, né è sbagliato soddisfare il proprio impulso sessuale nei limiti stabiliti da Dio. Il sesto comandamento proibisce:

(1) l'abuso e la perversione della sessualità, la soddisfazione illecita del proprio impulso sessuale. Questo comandamento quindi riguarda anche il rapporto sessuale fuori dal matrimonio (fornicazione). « Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, e l'afferra, e si giace con lei... ella sarà sua moglie, perché l'ha disonorata » (Dt 22, 28-29);

(2) l'adulterio vero e proprio, cioè l'avere rapporti sessuali con una persona sposata;

(3) ed ogni altro tipo di perversione sessuale compresa l'omosessualità, cioè avere rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso. « Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole» (Lv 18, 22).

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8. La proibizione del furto (Dt 5, 19; Es. 20, 15)

L'ottavo comandamento: «Non rubare ».

Questo comandamento stabilisce un principio nel contesto della comunità del Patto relativamente a ciò che uno possiede; una persona ha diritto a certe cose, che non possono essere violate da altri per proprio vantaggio personale. Sebbene però il comandamento abbia a che fare con la proprietà, il suo interesse fondamentale è quello della libertà. La forma peggiore di furto è quello che si compie a danno della persona (simile al moderno rapimento), cioè prendere una persona (presumibilmente con la forza) per venderla come schiava. Il crimine e la legge relativa sono previsti in Dt 24, 7. Il comandamento, quindi, non tocca solo la preservazione della proprietà privata, ma si interessa più in generale della preservazione della libertà umana e della libertà da situazioni di schiavitù e di esilio. Essa proibisce ad una persona il manipolare o sfruttare la vita di altri per guadagno personale. Proprio come il sesto comandamento proibisce l'assassinio, così l'ottavo proibisce quel che potrebbe essere chiamato assassinio sociale, il tagliare fuori un uomo o una donna da una vita libera nel contesto della comunità del popolo di Dio.

L'ottavo comandamento in generale prescrive che noi dobbiamo acquisire quanto ci serve per vivere e per il nostro e l'altrui benessere in modo onesto e legittimo (Ef 4, 28; 2° Te 3, 10-12; 1° Ti 5, 8; Lv 25, 35; Dt 22, 1­5; Es 23, 4-5; Ge 47, 14.20). L'ottavo comandamento proibisce tutto ciò che possa ingiustamente privare gli altri di quanto possiedono od ostacolare il loro diritto al lavoro, alla proprietà o al benessere. Il che include anche la negligenza nel lavoro che ci è utile per sostentare noi stessi e quanti dipendono da noi. Così il lavoratore autonomo dovrà compiere bene il proprio lavoro per non far mancare il necessario alla propria famiglia (Pr 12, 11; 28, 19) ed il lavoratore dipendente dovrà svolgere il proprio compito con diligenza come se servisse Cristo (Ef 6, 5-8). D’altra parte il datore di lavoro non dovrà maltrattare i propri dipendenti (Ef 6, 9), né sfruttarli non pagando loro il giusto salario (Gc 5, 4). È un furto anche evadere in parte o del tutto le tasse. Gesù stesso ci insegna di «dare a Cesare quel che è di Cesare» (Mt 22, 21). E l’apostolo Paolo insiste sul dovere del cristiano di pagare le tasse (Rm 13, 6-7).

La Bibbia insegna che Dio è proprietario ultimo di tutte le cose (Sl 89, 11), e l'essere umano, per il beneplacito di Dio, non è che un amministratore tenuto a render conto della sua amministrazione. É Dio che dà a ciascuno le capacità necessarie ad acquisire una certa misura di ricchezza ed è Lui che richiede di avvalersene. Il diritto alla proprietà privata non è vietato, altrimenti non ci sarebbe il comandamento di non rubare. Vi sono però dei modi legittimi di acquisire questa proprietà: essa può essere acquisita per donazione, per eredità o tramite un onesto lavoro. La ricchezza ottenuta in questi modi non è un furto. Non è il denaro la radice di tutti i mali, ma l'amore smodato per il denaro. Diventa quindi un furto ogni qualvolta noi acquisiamo la ricchezza in maniera illecita. Sotto questo profilo rientra quindi in questo comandamento anche la ricchezza acquistata tramite il gioco d’azzardo o altri mezzi illeciti che non siano il dono, l’eredità o un onesto lavoro.

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9. La proibizione della falsa testimonianza; (Dt 5, 20;Es 20, 16)

Il nono comandamento è: «Non dire falsa testimonianza contro al tuo prossimo».

Il comandamento non è tanto una proibizione generale contro le menzogne o le mezze verità. L'espressione originale pone il comandamento saldamente nel contesto del sistema legale di Israele. Proibisce lo spergiuro, la falsa testimonianza nel contesto dei procedimenti legali. Stabilisce quindi un principio di verità e comporta implicazioni riguardo alle affermazioni false in qualsiasi contesto.

In ogni nazione è essenziale che i tribunali giudichino sulla base di informazioni vere; se la legge non si basa sulla verità e sulla giustizia, allora sono minati i fondamenti stessi della vita e della libertà. Se la testimonianza legale non è verace, non vi potrà essere una giustizia autentica; se è falsa, viene perduta la più fondamentale delle libertà umana. Il comandamento, quindi, cercava di preservare l'integrità del sistema giudiziario di Israele ed era, al tempo stesso, una salvaguardia contro i casi in cui la libertà personale viene pregiudicata. Il principio viene mantenuto nella maggior parte dei moderni sistemi legali. È evidente, per esempio, nel giurare prima di rendere una testimonianza in tribunale.

In ultima analisi il comandamento si rivolge alla natura essenziale della veracità in tutti i rapporti umani. Nel nono comandamento, così, si prescrive il mantenimento e la difesa della verità nel contesto dei rapporti sociali, del buon nome nostro e del nostro prossimo (Zc 8, 16; Pr 14, 5.25). Nel nono comandamento si proibisce di compiere qualunque cosa sia pregiudizievole alla verità, oppure ingiuriosa al buon nome nostro o altrui. Viene così vietata la calunnia e la maldicenza, nonché la menzogna (Lv 19, 11.16; Sl 15, 2-3; Ef 4, 25; Cl 3, 8-9; 1 Ti 3, 11; Tt 2, 3; Gc 4, 11).

Il Dio della Bibbia è Dio di verità (Tt. 1:2), mentre il padre di tutte le menzogne è Satana (Gv. 8:44). Fintanto che l'uomo accettava la Parola di Dio e vi ubbidiva, egli conosceva e diceva solo la verità. Non aveva più detto però la verità quando, ingannato da Satana, aveva assunto sé stesso e la ragione come metro ultimo per giudicare la verità. La verità è dunque ciò che è in accordo con la mente di Dio, ed è solo la persona rigenerata, la persona che si è ravveduta e crede, che può di nuovo imparare a dire la verità. Certo il credente sbaglierà ancora, ma la verità deve essere il suo proposito ed obbiettivo.

La menzogna talora può essere giustificata? Talvolta si dice che le piccole menzogne, le menzogne di convenienza e le menzogne di necessità possono essere tranquillamente dette in certe circostanze in quanto non rappresentano un vero e proprio mentire. Questo nostro modo di pensare e di agire però non sembra essere conforme allo spirito della Parola di Dio ed a Dio stesso in quanto come dice Giovanni «nessuna menzogna proviene dalla verità» (1° Gv 2, 21).

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10. La proibizione della concupiscenza (Dt 5, 21; Es 20, 17)

Il decimo comandamento è: «Non concupire la casa del tuo prossimo; non concupire la moglie del tuo prossimo; né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo ».

Il decimo comandamento è curioso, almeno nel suo contesto iniziale. Proibisce la concupiscenza, o il desiderare persone o cose che appartengano al prossimo (cioè al concittadino israelita).

E' curioso trovare un tale comandamento in un codice di leggi sul crimine. I primi nove comandamenti proibiscono gli atti, ed un atto criminale può essere seguito dal procedimento giudiziario e penale (se l'atto viene scoperto). Il decimo comandamento, però, proibisce il desiderio, o desideri di concupiscenza. Sotto le leggi umane, non è possibile eseguire un procedimento giudiziario sulla base del desiderio solamente (sarebbe impossibile provarlo). Ciononostante la legge ebraica era più che un sistema umano.

C'erano allora senza dubbio tribunale, polizia, giudici ed avvocati. C'era però anche il Giudice supremo, cioè Dio. Il crimine a cui si riferisce il decimo comandamento non avrebbe potuto essere sottoposto ad un procedimento giudiziario nei limiti del sistema ebraico; era conosciuto però da Dio. Il genio del comandamento giace nella sua natura terapeutica. Non basta semplicemente prendersi cura del crimine una volta commesso; la legge deve pure estirpare la radice del crimine. La radice di quasi tutti i mali ed i crimini è nel cuore della persona, nel desiderio dell'individuo (Mt 15, 19). Per questo vengono proibiti i desideri malvagi. Se si comprende appieno il decimo comandamento, si comprenderà persino meglio il significato dei primi nove. Se si elimina gradualmente il desiderio illecito, allora il desiderio naturale radicato in ciascuna persona può essere diretto sempre di più verso Dio.

Nel decimo comandamento si prescrive in generale pure il dovere di accontentarci della condizione in cui ci si trova, con un atteggiamento giusto e caritatevole verso il nostro prossimo, e verso tutto ciò che gli appartiene (Eb. 13,5; 1°Ti 6, 6-8; Gc 4, 1-2).

La legge di Dio  più che al comportamento esteriore guarda alla santità ed alla rettitudine interiore del cuore di ogni persona. Magari esteriormente non abbiamo commesso alcun peccato, ma siamo altrettanto sicuri di non averli infranti nella nostra mente?

Il desiderio è la radice di tutti i mali (1 Ti 6, 10). La brama di ciò che altri possiedono comincia da un cuore insoddisfatto che si confronta con gli altri (Gc 1, 14-15).

L'accontentarsi di quello che Dio ci ha dato è la chiave per non commettere peccati dei quali poi ce ne dovremmo pentire. Questo non significa che non possiamo migliorare il nostro benessere e la nostra condizione esteriore: dobbiamo usare diligentemente le capacità che Dio ci ha dato. Dobbiamo però accontentarci dei limiti sia delle nostre capacità che delle nostre opportunità, senza lamentarci se qualcuno ha più di noi. C'è un senso in cui possiamo dire che non siamo stati creati tutti uguali. Come possiamo allora giungere ad essere soddisfatti di ciò che abbiamo? Non lo impareremo mai fintanto che Dio stesso non diventerà la nostra ricompensa. Quando noi troviamo in Dio il nostro tutto, cosa mai potremmo desiderare di più? Egli, e le ricchezze eterne conservate nel cielo, valgono più di tutto quanto potremmo mai conquistare qui sulla terra, e queste benedizioni sono nostre in Gesù Cristo (Mt 6, 19-21; 1 Pt 2, 1-3).

22. Queste parole disse l'Eterno a tutta la vostra assemblea sul monte, di mezzo al fuoco, alla nuvola e densa oscurità, con voce forte; e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e le diede a me .

Dopo aver pronunciato di fronte ad Israele, riunito in assemblea, con voce forte, i dieci comandamenti, Dio tace e non aggiunge altro a queste parole. La sua presenza, oltre che dalla voce era rivelata dalle solite manifestazioni che accompagnavano sempre le sue apparizioni: il fuoco, la nuvola e la densa oscurità. Dio quindi scrisse queste parole su due tavole di pietra e le diede a Mosè. Abbiamo già visto al versetto 4, 13 che Dio promulgò questo patto e scrisse questi dieci comandamenti su due tavole di pietra. Questo lo troviamo anche in Es 24, 12 e 31, 18, dove viene detto che queste tavole vengono scritte proprio col dito di Dio.

23. Quando voi udiste la voce di mezzo alle tenebre, mentre il monte era tutto in fiamme, voi vi avvicinaste a me, tutti i vostri capitribù e i vostri anziani.

In questo versetto ci viene detto chiaramente che il popolo ode la voce di Dio che proveniva dal monte avvolto nelle tenebre e nelle fiamme. All'udire questa voce i capitribù e gli anziani si avvicinano a Mosè con l'evidente intenzione di parlare con lui.

24. e diceste: "Ecco, l'Eterno, il nostro DIO, ci ha fatto vedere la sua gloria e la sua grandezza, e noi abbiamo udito la sua voce di mezzo al fuoco; oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l'uomo e l'uomo rimanere vivo.
25. Or dunque, perché dovremmo morire? Questo grande fuoco infatti ci consu-merà; se continueremo ad udire ancora la voce dell'Eterno, il nostro DIO, noi moriremo.
26. Perché chi è fra tutti i mortali che, come noi, abbia udito la voce del DIO vi-vente parlare di mezzo al fuoco e sia rimasto vivo?
27. Avvicinati tu ed ascolta tutto ciò che l'Eterno, il nostro DIO, ti dirà, e noi ascolteremo e lo faremo".

Gli anziani ed i capi tribù, rivolgendosi a Mosè, constatano con grande sorpresa di aver visto la grandezza e la gloria di Dio e di aver persino udito la sua voce, ma di essere ancora vivi. Per comprendere la loro meraviglia dobbiamo precisare che prima del peccato c'era una perfetta comunione fra Dio e l'uomo. Dio comunicava con l'uomo in un rapporto di fiduciosa ed intima amicizia. Il peccato ha interrotto questa perfetta comunione e l'approccio con Dio, da quel momento in poi, è sempre stato caratterizzato da un profondo terrore. Anche con lo stesso Abramo il contatto con Dio avveniva per lo più per mezzo di angeli che assumevano sembianze umane. Quando c'era il contatto diretto con Dio, questo era sempre caratterizzato dallo spavento e dall'oscurità e in uno stato di profondo sonno (Ge 15, 12). In quell'occasione invece Dio aveva parlato con il popolo ebraico faccia a faccia in maniera diretta (v. 4) e sebbene con gran timore il popolo aveva udito la voce di Dio. Era diffusa l'idea che nessuno potesse udire la voce di Dio e rimanere vivo, ma in quell'occasione essi constatarono che Dio può parlare con l'uomo e l'uomo rimanere vivo. Nonostante questo però il timore di questo contatto diretto con Dio continuava a terrorizzarli e temevano che se avessero continuato ad udire la voce di Dio sarebbero morti. Per questo motivo essi affidano a Mosè l'incarico di parlare direttamente con Dio, promettendogli che avrebbero ascoltato e messo in pratica le sue parole. Già Mosè, come ci aveva informato il v. 5 dello stesso capitolo, si trovava in una posizione intermedia fra Dio ed il popolo per riferire loro le parole dell'Eterno. Questa stessa situazione ci viene riferita anche dal libro dell'Esodo (20, 18-20). Le manifestazioni della presenza di Dio terrorizzano il popolo che non se la sente di continuare a sostenere questo confronto. Così l'incarico di fare da intermediario viene affidato a Mosè con l'impegno che il popolo avrebbe dato ascolto alle sue parole. Mosè cerca di rincuorare il popolo dicendo che questa speciale manifestazione di Dio aveva lo scopo di metterli alla prova, affinché essi avessero sempre presente questa scena ed il timore di Dio li inducesse a non peccare.

28. L'Eterno udì il suono delle vostre parole, mentre mi parlavate; così l'Eterno mi disse: "Io ho udito il suono delle parole che questo popolo ti ha rivolto; tutto ciò che hanno detto va bene.
29.   Ho, avessero sempre un tal cuore, da temermi e da osservare tutti i miei comandamenti, per avere sempre prosperità, loro e i loro figli!
30. Va e dì loro: Tornate alle vostre tende.
31. Ma tu rimani qui con me ed io ti indicherò tutti i comandamenti, tutti gli sta-tuti ed i decreti che insegnerai loro, perché li mettano in pratica nel paese che do loro in eredità"

L'Eterno ascolta le parole che gli anziani ed i capi tribù rivolgono a Mosè e si rivolge quindi a lui esprimendo il suo compiacimento per la buona disposizione d'animo del popolo nei suoi confronti. Preconoscendo però le infedeltà future di questo popolo, quasi con rammarico, Egli esclama: Magari essi avessero sempre questi buoni sentimenti nel loro cuore. Comanda perciò a Mosè di congedare il popolo permettendogli di tornare alle loro tende, mentre a lui ordina di rimanere perché doveva affidargli tutta una serie di comandamenti, di statuti e di decreti che Mosè avrebbe dovuto insegnare al popolo affinché fossero messi in pratica nel paese nel quale stavano per entrare.

Quello che salta qui agli occhi è il rapporto diretto che esiste fra Dio e Mosè. A differenza dei suoi connazionali egli non ha timore di parlare direttamente con Dio. Il suo rapporto speciale con Dio viene spiegato in Nm 12, 6-8. In seguito Dio ha fatto conoscere la sua Volontà al popolo per mezzo dei profeti. Ma fra loro non c'è mai stato un rapporto diretto e speciale con Dio come era avvenuto per Mosè (Dt 34, 10). Un rapporto così diretto Dio lo avrà soltanto con Cristo la cui venuta viene preannunziata in Dt 18, 15.18 (cf Gv 12, 49-50).

32. Abbiate dunque cura di far ciò che l'Eterno, il vostro Dio, vi ha comandato; non deviate né a destra né a sinistra.
33. camminate interamente nella via che l'Eterno, il vostro DIO, vi ha prescritto, perché viviate e siate prosperi e prolunghiate i vostri giorni nel paese che occuperete.

Dopo questa rievocazione Mosè non manca di esortare il popolo ad attenersi scrupolosamente ai comandamenti di Dio, usando un'espressione caratteristica: « non deviate né a destra né a sinistra» che troviamo anche in Gs 1, 7 e 23, 6 a dimostrazione che anche il libro di Giosuè fa parte del grande complesso della tradizione deuteronomistica.

Il camminare nella via prescritta da Dio è una metafora che troviamo spesso nella Bibbia. In questo caso Mosè dice che gli Ebrei dovevano aver cura di camminare « interamente», cioè completamente senza lasciare fuori nulla dei comandamenti, dei decreti e degli statuti che Dio aveva dato al popolo tramite lui.

Soltanto in questo modo, con l'osservanza scrupolosa della legge, essi avrebbero avuto una vita buona e prospera, prolungando il loro tempo nel paese di cui stavano prendendo possesso.

L'osservanza dei comandamenti come condizione di prosperità è il tema del capitolo 6. Nel quale le esortazioni e le raccomandazione ad osservare i comandamenti di Dio vengono continuamente ripetute.
Tale osservanza, però, non doveva avere un carattere legalistico soltanto. Il popolo era chiamato a questa osservanza con tutta il cuore, cioè con un sentimento di profondo amore e riconoscenza nei confronti dell'Eterno che aveva fatto con loro un patto speciale traendoli dalla schiavitù dell'Egitto e facendoli essere un popolo.

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Capitolo 6

1. Or questo è il comandamento, gli statuti e i decreti che l'Eterno, il vostro DIO, ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nel paese nel quale state per entrare per prenderne possesso;

L'insegnamento di Mosè non era semplicemente un'istruzione di carattere intellettuale fine a se stessa. Tale insegnamento doveva portare il popolo soprattutto a praticare i comandamenti, gli statuti ed i decreti nel paese in cui stavano per entrare per prenderne possesso.

2. affinché tu tema l'Eterno, il tuo DIO, osservando, per tutti i giorni della tua vita, tu, tuo figlio e il figlio di tuo figlio, tutti i suoi statuti e tutti i suoi comandamenti che io ti do, e affinché i tuoi giorni siano prolungati.

Molto spesso troviamo nella Bibbia l'espressione «timore di Dio». Non si tratta di un vago sentimento di paura nei confronti della divinità, ma di un sentimento di riverenza e di rispetto che l'uono deve avere nei confronti di Dio e che si traduce nella scrupolosa osservanza della sua legge in tutta la sua estensione. Tale osservanza conduce l'uomo sul sentiero di una vita ordinata e serena che contribuisce a prolungare i suo giorni in questa terra.

3. Ascolta dunque, Israele, e abbi cura di metterli in pratica, affinché tu prospe-ri e moltiplichiate grandemente nel paese dove scorre latte e miele, come l'Eterno, il DIO dei tuoi padri, ti ha detto.

Praticare con cura la legge dell'Eterno contribuisce alla pacifica convivenza civile di tutta la società che in tal modo progredisce nel benessere, nella prosperità e quindi anche nel numero. Tutto ciò è aiutato dal fatto che il paese in cui stavano per entrare, era un paese fertile e ricco di risorse dove appunto «scorre latte e miele», espressione caratteristiche che ricorre spesso per indicare la bontà della terra promessa.

4. Ascolta, Israele: l'Eterno, il nostro DIO, L'Eterno è uno.

A differenza della molteplicità delle divinità pagane, l'Eterno si distingue per la sua unicità: « l'Eterno è uno». Viene in un certo senso ribadito il primo comandamento che abbiamo già visto in  Dt 5, 6-7: «I o sono l'Eterno, il tuo DIO . . .  non avrai altri dèi davanti a me». Non vi può essere alcun dubbio sullo stretto monoteismo insegnato e praticato nella religione ebraica. Il monoteismo è quindi l'eredità che il cristianesimo ha ricevuto dall'ebraismo e tale eredità viene ribadita con forza dall'apostolo Paolo in 1 Co 8, 4 e in 1 Ti 2, 5, dove all'unicità di Dio viene collegata l'unicità della mediazione di Cristo.

5. Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo DIO, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza.
6. E queste parole che ora ti comando rimarranno nel tuo cuore;

L'unicità di Dio ha una prima implicazione per il popolo ebraico il quale deve amare il proprio Dio con tutto se stesso. Il cuore è la sede delle facoltà intellettuali e intime dell'essere umano, il centro dei suoi interessi più profondi. Ecco perché bisogna amare Dio con tutto il cuore. In un certo senso questo amore deve essere sempre presente nella propria mente. Gesù infatti disse: « dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore » (Mt 6, 21). L'anima è la sede della vita, quindi, amare Dio con tutta la propria anima significa dedicare a Dio tutta la propria vita. La forza rappresenta in un certo senso l'impegno, l'energia che si deve profondere in questo amore per Dio. Non si tratta di un semplice sentimento emotivo di trasporto perché altrimenti tutto si ridurrebbe ad un inutile pietismo fine a se stesso. Queste parole sono state scritte parecchi secoli fa, ma sono tuttora attuali e Gesù, nel rispondere ad un dottore della legge che gli chiedeva quale fosse l'essenza di tutta la legge, gli rispose usando proprio queste stesse parole (Mt 22, 37). Ad esse egli aggiunse anche un passo che si trova in Lv 19, 18 in cui viene detto di amare il prossimo come se stessi. L'amore verso Dio non può essere disgiunto dall'amore verso il prossimo (1 Gc 4, 20-21).

Il successivo versetto 6 dice che le parole di questa legge rimarranno nel tuo cuore nel senso che saranno sempre alla tua portata, presenti nella tua mente. In Dt 30, 14 in pratica viene detta la stessa cosa. Il comandamento di Dio non è troppo difficile né troppo lontano da noi, ma è un comandamento sempre alla portata dell'uomo e cioè nella sua bocca e nel suo cuore.

7. l e inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando sei seduto in casa tua, quando cammini per strada, quando sei coricato e quando ti alzi.

8. Le legherai come un segno alla mano, saranno come fasce tra gli occhi,

9. e le scriverai negli stipiti della tua casa e sulle tue porte.

Questi comandamenti dovevano essere insegnati ai figli e dovevano diventare l'argomento principale della conversazione in ogni momento della vita familiare. Una simile espressione la troviamo anche in Dt 11, 19. Il versetto 8 molto probabilmente allude alle cosiddette filatterie di cui troviamo una testimonianza in Mt 23, 5. Queste filatterie consistevano in strisce di pergamena recanti quattro passi della Scrittura nel seguente ordine: Dt 11, 13-22; Dt 6, 4-9; Es 13, 11-16: Es 13, 1-10. Ciascuna striscia veniva poi arrotolata e riposta in una scatoletta. Durante le preghiere, le filatterie venivano legate sulla fronte e sul braccio sinistro per essere così vicine al cuore, come per indicare che uno aveva a cuore i comandamenti e la legge del Signore. Nell'epoca del giudaismo i farisei avevano abusato di questa usanza dando ad essa un valore esclusivamente formale, per essere visti dagli uomini più che per esprimere un vero amore verso Dio. Per questo motivo Gesù li rimprovera accusandoli di ostentare la loro religiosità esclusivamente per essere ammirati dagli uomini. Oltre a ciò i Farisei allungavano anche le cosiddette frange dei loro vestiti. Quest'altra usanza trova il suo fondamento in Nm 15, 38-40 e Dt 22, 12. Essa mirava a ricordare agli Ebrei i comandamenti del Signore perché li mettessero in pratica. I Farisei allargavano le frange e le filatterie per essere ritenuti più santi, più zelanti e più osservanti della legge degli altri (Mt 23, 5), ma la loro era soltanto un'ostentazione che non trovava riscontro nei fatti, come Gesù fa notare nel suo discorso in cui censura la loro condotta. Oltre a ciò essi dovevano scrivere le parole dell'Eterno anche negli stipiti della casa e nelle porte. Era anche questo un sistema molto efficace per non dimenticare mai la legge del Signore. Con l'andar del tempo questo divenne un 'usanza religiosa formale. La religiosità di una persona veniva misurata su queste usanze più che sulla loro reale condotta.

torna al capitolo 11
10. Quando poi l'Eterno, il tuo DIO, ti avrà fatto entrare nel paese che giurò ai tuoi padri, ad Abrahamo, Isacco e Giacobbe, di darti grandi e belle città che tu non hai costruito,

11. e case piene di ogni bene che tu non hai riempito, pozzi scavati che tu non hai scavato, e vigne e uliveti che tu non hai piantato; quando dunque avrai mangiato e ti sarai saziato,

12. guardati dal dimenticare l'Eterno che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù.

A questo punto Mosè ricorda agli Ebrei che tutto ciò che essi avrebbero goduto nella terra promessa era un dono gratuito di Dio. Questo era un motivo in più per non dimenticare l'opera che Dio aveva compiuto nei loro confronti. Un passo simile lo troviamo anche in Gs 24, 13. Il benessere materiale e l'agiatezza sono spesso delle condizioni che ci inducono a dimenticare che ogni cosa proviene da Dio. La saggezza popolare aveva presente questa situazione, tanto è vero che viene anche ricordata in Pr 30, 8-9. Se gli Ebrei abitavano in città belle e grandi, in case piene di ogni ben di Dio, se avevano dei pozzi che fornivano loro l'acqua ed uliveti e vigneti, dovevano sempre ricordare che per tutte queste cose essi non avevano faticato, ma era il dono gratuito di Dio. Quindi una volta insediati nel territorio che Dio aveva concesso loro e dopo essersi saziati di tutti  quei beni di cui Dio aveva concesso loro gratuitamente la disponibilità, non avrebbero dovuto dimenticare la loro primitiva condizione di schiavi in Egitto e ciò che Dio aveva fatto per riscattarli e per farli abitare come popolo in un paese ricco e pieno di risorse.

13. Temerai l'Eterno, il tuo DIO, lo servirai e giurerai per il suo nome.

14. Non seguirete altri dèi, fra gli dèi dei popoli che vi circondano.

15. (perché l'Eterno, il tuo DIO, che sta in mezzo a te, è un Dio geloso); altrimenti l'ira dell'Eterno, del tuo DIO, si accenderebbe contro di te e ti farebbe scomparire dalla faccia della terra.

16. Non tenterete l'Eterno, il vostro DIO, come lo tentaste a Massa.

17. Osserverete diligentemente i comandamenti dell'Eterno, il vostro DIO, i suoi precetti e i suoi statuti che egli vi ha ordinato.

18. Perciò farai ciò che è giusto e buono agli occhi dell'Eterno, affinché tu pro-speri ed entri ad occupare il buon paese che l'Eterno giurò di dare ai tuoi padri,

19. scacciando tutti i tuoi nemici davanti a te, come l'Eterno ha promesso.

I versetti dal 13 al 19 sono un'ulteriore esortazione a temere l'Eterno, cioè ad osservare i suoi comandamenti ed a servirlo. Servirlo significava rendere un culto soltanto a lui. Giurare nel nome dell'Eterno, significa impegnarsi solennemente nei suoi confronti. Nel Sinai gli Ebrei avevano giurato solennemente di rispettare il patto che essi avevano fatto con l'Eterno. In questi tipo di giuramento sono compresi anche i voti che venivano fatti nei confronti dell'Eterno dal singolo ebreo. Tali voti come troviamo scritto in Nm 30, 2, non dovevano essere violati, tanto più che essi avevano per lo più un carattere di spontaneità (Dt 23, 21-23). Gesù contrappone al « Non giurare il falso; ma adempi le cose promesse con giuramento al Signore » il suo perentorio «non giurate affatto » « . . . ma il vostro parlare sia: Si, si, no, no; tutto ciò che va oltre questo, viene dal maligno » (Mt 5, 33-37). Come conciliare questo insegnamento di Gesù con quello di Deuteronomio che invita a giurare nel nome dell'Eterno? Molto probabilmente il «non giurate affatto » di Gesù si riferisce alle relazioni fra esseri umani, mentre in Deuteronomio si parla dell'impegno dell'uomo nei confronti di Dio. Nei confronti dei nostri simili non abbiamo bisogno di giurare in quanto siamo tenuti a non mentire ed a mantenere gli impegni assunti indipendentemente dal fatto che essi siano avallati o meno da un qualsiasi tipo di giuramento. In questo senso il giuramento diventa superfluo in quanto la parola data vale più di qualsiasi giuramento. Giurare nel nome dell'Eterno significa invece impegnarsi solennemente nei suoi confronti e questo mi sembra che Gesù non l'abbia mai smentito.

Temere Dio, servirlo e giurare per il suo nome ha come conseguenza fondamentale quella di astenersi dall'idolatria, dall'adorare altri dèi, dal farsi corrompere dai culti pagani dei popoli che li circondavano.
L'Eterno è un Dio geloso, esclusivo e pretende dal suo popolo un'assoluta fedeltà. Venir meno in questo campo poteva avere come conseguenza la scomparsa stessa del popolo, come popolo eletto e prediletto da Dio. Dio avrebbe potuto distogliere il suo sguardo e la sua attenzione da coloro che gli avessero girato le spalle tradendolo e riponendo la propria fiducia in altre divinità fasulle. La storia della salvezza è sempre stata in ogni momento caratterizzata dalla fede e dalla fedeltà al Dio unico e Creatore di tutte le cose. Egli si dimostra misericordioso e disponibile nei confronti dei peccati dell'umanità, ma nulla può fare se questa umanità gli gira le spalle e non lo riconosce come Dio. La lettera degli Ebrei stigmatizza con queste lapidarie parole l'importanza della fede, non una semplice adesione intellettuale, ma un abbandono fiducioso ed incondizionato: « Or senza fede è impossibile piacergli, perché chi si accosta a Dio deve credere che Egli è, e che è il rimuneratore di quelli che lo cercano» (Eb 11, 6).

Oltre ad astenersi dall'idolatria c'è anche l'esortazione di non tentare Dio con comportamenti non coerenti con la nostra fiducia nei suoi confronti o con richieste che mettano alla prova la sua fedeltà nei nostri confronti, come era avvenuto in occasione dell'episodio di Massa. Sia Massa, che significa tentazione, prova, che Meriba, che ha il significato di provocazione, contesa, sono due località nei pressi di Refedim (Es 17, 1-7), dove il popolo contese e mormorò contro Mosè per mancanza d'acqua e dove Dio fece sgorgare l'acqua dalla roccia.

Viene quindi ulteriormente ripetuta l'esortazione ad osservare con diligenza i comandamenti di Dio, con l'aggiunta di fare ciò che è giusto e buono ai suoi occhi. Quest'ultima è un'espressione caratteristica che viene usata spesso nel libro dei Re per giudicare l'operato di ciascun re succedutosi nel trono sia del regno del nord che di quello del sud.

Infine l'osservanza dei comandamenti era dovuta a Dio dal suo popolo in quanto Dio aveva mantenuto le sue promesse: aveva dato al popolo la terra promessa ai suoi padri ed aveva scacciato davanti a loro i nemici che avrebbero potuto ostacolare l'adempimento di questa promessa.

20. Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: "Che significano questi precetti, statuti e decreti, che l'Eterno, il nostro DIO, vi ha comandato?",

21. tu risponderai a tuo figlio: "Eravamo schiavi del Faraone in Egitto e l'Eterno ci fece uscire dall'Egitto con mano potente.

22. Inoltre l'Eterno operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e tremendi contro l'Egitto, contro il Faraone e contro tutta la sua casa.

23.   E ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato di dare ai nostri padri.

24. Così l'Eterno ci comandò di mettere in pratica tutti i suoi statuti, temendo l'Eterno, il nostro DIO, per avere sempre prosperità e perché egli ci conservasse in vita, come è oggi.

25. E questa sarà la nostra giustizia, se abbiamo cura di mettere in pratica tutti questi comandamenti davanti all'Eterno, il nostro DIO, come egli ci ha ordinato"

L'esortazione di questo capitolo si conclude con la raccomandazione ad istruire le generazioni future affinché la fede nel Dio che li aveva fatti uscire dall'Egitto non scomparisse completamente. Queste parole ricalcano su per giù la confessione che il buon israelita doveva pronunciare nel tempio di fronte al sacerdote offrendo le primizie dei frutti del suolo (Dt 26, 1-15). Evidentemente questa stessa confessione doveva essere ripetuta anche in ambito familiare fra le mura domestiche per l'istruzione dei figli. Da quanto ci viene detto dal libro dei Giudici, sembra che il popolo ebraico abbia disatteso questa raccomandazione e le conseguenze di questa disattenzione nell'istruire le generazioni future non si fece attendere, come possiamo constatare leggendo il libro dei Giudici (2, 10-13).

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Capitolo 7

1. Quando l'Eterno, il tui DIO, ti avrà introdotto nel paese in cui entri per prenderne possesso, e avrai scacciato davanti a te molte nazioni: gli Hittei, i Ghirgasei, gli Amorei, i Cananei, i Perezei, gli Hivvei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te,

Troviamo un altro elenco di questi popoli, con l'ordine di votarli a completo sterminio, anche più avanti al cap. 20 v. 17 e in Es 3, 8 dove però mancano i Ghirgasei. Che si trattasse di sette nazioni ci viene comunque confermato anche dal discorso pronunciato da Paolo nella sinagoga di Antiochia di Psidia (At 13, 19).

2. e quando l'Eterno, il tuo DIO, le avrà date in tuo potere tu le sconfiggerai e le voterai al completo sterminio; non farai con esse alleanza, ne userai con loro alcuna misericordia.

Per quanto riguarda le guerre di sterminio si rimanda a quanto è già stato detto a proposito di esse nel precedente primo discorso di Mosè. Qui viene aggiunta la raccomandazione di non fare alleanza e di non usare nei loro confronti alcuna misericordia. Può sembrare un discorso molto duro da parte di Dio, ma esso va inquadrato nel contesto di quei tempi in cui lo sterminio dei popoli vinti era una pratica comune. In più va detto che Israele rappresentava per questi popoli il giusto giudizio di Dio per la loro iniquità. Infatti, come come Dio stesso disse ad Abramo, fu permesso agli Ebrei di prendere possesso della loro terra e di distruggerli soltanto quando la loro iniquità avesse raggiunto il colmo (Ge 15, 16). Il politeismo praticato da questi popoli inoltre rappresentava un serio pericolo per la fedeltà a Dio del popolo eletto e pertanto era necessario prendere nei loro confronti delle misure che impedissero qualsiasi tipo di contaminazione idolatrica. Come possiamo leggere nei successivi libri di Giosuè e di Samuele, l'ordine di sterminare le popolazioni conquistate fu effettivamente eseguito, specialmente  nei confronti di quelle popolazioni che si opposero con le armi all'insediamento degli Ebrei (Gs 10, 28; 11, 21; 1 Sm 15, 3). Da quanto viene detto però nei successivi versetti dello stesso capitolo, sembra che questo sterminio non fosse totale, tanto è vero che gli Ebrei convissero con quelle popolazioni che rimasero dopo le guerre di sterminio, pur adottando nei loro confronti delle cautele che, come vedremo, furono necessarie per preservare l'integrità del popolo eletto.

3. Non contrarrai matrimonio con loro. Non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli,

4.   perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me per servire altri dèi, e l'ira dell'Eterno si accenderebbe contro di voi e vi distruggerebbe subito.

5. Ma con loro vi comporterete così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro colonne sacre, abbatterete i loro Ascerim e darete alle fiamme le loro immagini scolpite.

Una di queste cautele fu la proibizione dei matrimoni misti perché questo connubio o imparentamento avrebbe inevitabilmente introdotto nel popolo eletto le usanze dei popoli vinti e sarebbero stati coinvolti nei loro culti profani. In tal caso l'ira di Dio si sarebbe scatenata anche contro di loro e sarebbero stati anch'essi distrutti. Una tale prospettiva era già stata avanzata in Es 34, 11-16 e quindi viene ancora ripetuta da Mosè nel suo secondo discorso quando il popolo si trovava nella pianura di Moab in procinto di entrare nella Terra Promessa.

Non solo essi avrebbero dovuto evitare i matrimoni misti, ma avrebbero dovuto concretamente darsi da fare per distruggere quelli che erano i capisaldi del culto idolatrico e cioè dovevano distruggere gli altari, spezzare le colonne sacre, abbattere gli Ascerim e dare alle fiamme le immagini scolpite. Con il termine Ascerim si intende Ashtaroth (plurale di Ashtoreth), una divinità femminile che assume vari nomi e connotazioni, in riferimento a tempi e luoghi diversi. Tra i Fenici era chiamata Ashtoreth ed era venerata a Sidone (1 Re 11, 5.33; 2 Re 23, 13). Tra i Cananei era chiamata Ascerah (plur. Ascerotho, Ascerim) e rappresentava la consorte di El (padre di Baal), la più alta divinità cananea. In Babilonia era chiamata Ishtar e in Aram Athart. Dai Greci era chiamata Astarte o Afrodite, e dai Romani Venere.

A secondo dei posti era considerata la dea dell'amore sensuale, della maternità e della fertilità (Babilonia), la dea della guerra e del sesso (Cananei), e la dea dell'amore erotico (Greci e Romani).
Il culto di questa divinità era associato alla prostituzione sacra e a pratiche oscene e immorali (1 Re 14, 24; 2 Re 23, 7). Gli Israeliti furono adescati dal culto di questa divinità già subito dopo la morte di Giosuè (Gdc 2, 13). Salomone stesso cadde in questo laccio (1 Re 11, 5 e 2 Re 23, 13).
In Canaan c'era la tendenza ad usare la forma plurale della divinità invece del singolare (e così Ashtaroth invece di Astoreth e Asceroth o Ascerim invece di Ascerah), per indicare le varie manifestazioni o rappresentazioni di questa divinità.

6. Poiché tu sei un popolo consacrato all'Eterno, il tuo DIO; l'Eterno il tuo DIO, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra.

7. L'Eterno non ha riposto il suo amore su di voi né vi ha scelto, perché eravate più numerosi al alcun altro popolo; eravate infatti il più piccolo di tutti i popoli;

8. ma perché l'Eterno vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l'Eterno vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati dalla casa di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d'Egitto.

In questi versetti vengono esposti i motivi per cui il popolo doveva fare attenzione a non contaminarsi con i culti pagani delle popolazioni cananee. Anzitutto Israele era stato consacrato all'Eterno. Consacrato all'Eterno significa che era stato messo da parte per essere dedicato esclusivamente a Dio. La frase successiva spiega ancora meglio il valore di questa consacrazione. Israele era stato scelto da Dio per essere il suo tesoro fra tutti i popoli. In altre parole qui si dice che Dio aveva un occhio particolare per questo popolo che veniva da Lui considerato come qualcosa di più prezioso rispetto a tutti gli altri popoli.

Ma Israele aveva forse qualche dote speciale per essersi meritato questa particolare attenzione da parte di Dio? No. Esso non era nemmeno il popolo più numeroso, ma il più piccolo fra tutti i popoli; anzi addirittura non era neppure un popolo quando Dio posò gli occhi su di lui, in quanto si trovava schiavo in Egitto. L'elezione da parte di Dio non avviene secondo parametri umani. Secondo questi parametri Israele sarebbe stato escluso, ma. come dice anche l'apostolo Paolo: «Dio ha scelto le cose stolte del mondo per svergognare le savie; e Dio ha scelto le cose deboli del mondi per svergognare le forti; e Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose spregevoli e le cose che non sono per ridurre al niente quelle che sono, affinché nessuna carne si glori alla sua presenza » (1 Co 1, 27-29). Ciò che l'apostolo Paolo esprime nella sua lettera ai Corinzi era già stato anticipato dal libro del Deuteronomio. La grazia di Dio è completamente gratuita, egli non sceglie le persone ed i popoli per i loro meriti particolari, ma esercita la sua imperscritabile e sovrana volontà in piena libertà senza essere condizionato da alcun ragionamento di tipo umano. La libertà assoluta con cui Dio compie le sue scelte viene spiegata da Paolo nel capitolo 9 della sua lettera ai Romani.

Comunque il libro del Deuteronomio ci dà una spiegazione della scelta compiuta da Dio nei confronti di Israele. Anzitutto ciò che ha mosso Dio a scegliere questo popolo anziché un altro è stato il suo amore per lui, ma anche perché egli aveva fatto in precedenza un giuramento particolare con i loro padri. La scelta di Abramo sta a monte della scelta del popolo ebraico. Ad Abramo egli infatti aveva promesso che i suoi discendenti avrebbero ereditato la terra che egli stava calpestando. Naturalmente Dio, nel suo disegno divino, aveva fatto ad Abramo anche altre promesse che avrebbero coinvolto non solo il popolo ebraico, ma l'intera umanità « in te saranno benedette tutte le famiglie della terra » (Ge 12, 3). Ma questo per il momento esula dalle prospettive del Deuteronomio. L'universalismo del piano divino di salvezza dell'umanità è già presente in forma germinale nella scelta di Abramo, ma sarà sviluppato in maniera piena e completa dalla rivelazione di Dio soltanto in epoca successiva.

9. Riconosci dunque che l'Eterno, il tuo DIO, è DIO, il Dio fedele, che mantiene il suo patto e la sua benignità fino alla millesima generazione verso quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti,

10. ma rende prontamente a quelli che lo odiano facendoli perire; egli non ritarderà, ma renderà prontamente a chi lo odia.

11. Osserva dunque i comandamenti, gli statuti e i decreti che oggi ti do, mettendoli in pratica.

La naturale conseguenza di quanto detto precedentemente è che il buon Israelita deve riconoscere che l'Eterno è Dio, un Dio fedele che mantiene il patto ed usa benignità fino alla millesima generazione, cioè per sempre, verso coloro che lo amano ed osservano i suoi comandamanti. Per contro egli fa perire coloro che lo odiano, cioè non l'ascoltano. Questo Dio non ritarderà nell'emettere prontamente il suo giudizio di condanna nei confronti di chi non dà ascolto alla Sua Parola.
La pericope si chiude con un'ulteriore esortazione ad osservare i comandamenti, gli statuti ed i decreti, soprattutto per metterli in pratica. Nel Deuteronomio questa esortazione ad osservare i comandamenti, pur con toni diversi, si ripete continuamente. E' un ritornello che che ricorre spesso.

12. Così se voi darete ascolto a queste leggi, e le osserverete e metterete in pratica, l'Eterno, il vostro DIO, manterrà con te il patto e la benignità che ha giurato ai tuoi padri.

13. Egli ti amerà, ti benedirà e ti moltiplicherà, e benedirà il frutto del tuo grembo e il frutto del tuo suolo, il tuo frumento, il tuo mosto e il tuo olio, i parti delle tue vacche e delle tue pecore nel paese che giurò ai tuoi padri di darti.

14. Tu sarai benedetto più di tutti i popoli e non ci sarà in mezzo a te né uomo né donna sterile, neppure fra il tuo bestiame.

15. L'Eterno allontanerà da te ogni malattia e non manderà su di te alcuno di questi funesti malanni dell'Egitto che hai conosciuto, ma li manderà su tutti quelli che ti odiano.

Dare ascolto alle leggi del Signore, osservarle e metterle in pratica comporta tutta una serie di benedizioni che vengono elencate dal v. 12 al v. 15. Le benedizioni riguardano anzitutto la discendenza che sarà moltiplicata in quanto verrà benedetto il loro grembo e saranno quindi molto prolifici. Per gli Ebrei di quel tempo la prole numerosa rappresentava una grande benedizione, perché attraverso la prole essi perpetuavano la loro razza. Non era ancora presente nella mentalità ebraica l'immortalità dopo la morte, ma ritenevano che la loro vita continuasse nei propri figli. Per questo motivo la sterilità sia maschile che femminile veniva vissuta come una vergogna e quasi come una maledizione. Alle benedizioni sulla prolificità si aggiungono anche le benedizioni del suolo. La terra già ricca e fertile di per sé, perché vi scorreva latte e mile, avrebbe prodotto ancora più in abbondanza i suoi frutti: il frumento, il vino, l'olio ed il bestiame stesso ne avrebbe beneficiato partecipando a questa generale abbondanza con nuove nascite. Ma non finisce qui. Le malattie che colpivano tutti gli altri popoli avrebbero risparmiato Israele.

16. Sterminerai dunque tutti i popoli che l'Eterno, il tuo DIO, sta per dare in tuo potere; il tuo occhio non abbia pietà di loro, e non servire i loro dèi, perché ciò sarebbe per te un laccio.

17. In cuore tuo potresti dire: "Queste nazioni sono più numerose di me;come riuscirò io a scacciarle?"

18. Non temerle, ma ricordati di ciò che l'Eterno, il tuo DIO, fece al Faraone e a tutti gli Egiziani;

19. ricordati delle grandi prove che vedesti con i tuoi occhi, dei segni e dei prodigi, , della mano potente e del braccio steso con i quali l'Eterno, il tuo DIO, ti fece uscire dall'Egitto; così farà l'Eterno, il tuo DIO, a tutti i popoli dei quali hai paura.

20. Inoltre, l'Eterno, il tuo DIO, manderà contro di loro i calabroni, finché quelli che sono rimasti e quelli che si sono nascosti per paura di te siano periti.

21. Non spaventarti di loro, perché l'Eterno, il tuo DIO, è in mezzo a te, un Dio grande e terribile.

22. L'Eterno, il tuo DIO, scaccerà a poco a poco queste nazioni davanti a te; tu non riuscirai a distruggerle subito, perché altrimenti le fiere della campagna diventerebbero troppo numerose per te;

23. ma l'Eterno, il tuo DIO, le darà in tuo potere, e le getterà in grande confusione finché siano sterminate.

24. Ti darò nelle mani i loro re e ti farai scomparire i loro nomi di sotto ai cieli; nessuno potrà resistere davanti a te, finché tu le abbia distrutte.

25. Darai alle fiamme le immagini scolpite dei loro dèi; non desidererai l'oro e l'argento che è su di esse e non lo prenderai per te, altrimenti saresti preso nel laccio da questo, perché è una cosa abominevole per l'Eterno, il tuo DIO;

26. e non introdurrai cosa abominevole in casa tua, perché saresti condannato alla distruzione come essa; la detesterai e l'abominerai totalmente, perché è una cosa votata alla distruzione.

L'ultima parte di questo capitolo è un'esortazione a portare fino in fondo la conquista della terra promessa, provvedendo allo sterminio dei popoli che l'abitavano senza avere alcuna pietà di loro, ma nello stesso tempo essi dovevano fare attenzione a non compromettersi con il culto dei loro dèi. L'impresa che Israele stava per compiere non era facile. Le popolazioni che essi dovevano conquistare e scacciare erano più forti e numerose di loro. E' naturale quindi che il popolo fosse piuttosto dubbioso sulla riuscita di questa impresa.
Ma Dio li esorta a non temere ricordando loro ciò che era avvenuto al Faraone e agli Egiziani e come l'Eterno con segni e prodigi, li avesse fatti uscire dall'Egitto. Altrettanto egli avrebbe fatto nei confronti di quei popoli di cui gli Ebrei paventavano la forza ed il numero.
Si parla anche di calamità naturali, come l'invasione di calabroni, che avrebbero contribuito a disorientare e sconfiggere le popolazioni. Di questi calabroni si parla anche in Es 23, 28 e Gs 24, 12.
Rinnovando l'invito a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà dell'impresa, Dio ricorda agli Israeliti che lui è in mezzo a loro come un Dio grande e terribile. Non riusciranno a sconfiggere subito queste popolazioni, ma la conquista avverrà provvidenzialmente un poco alla volta. Il v. 22 ci lascia intendere che una sconfitta troppo repentina potrebbe lasciare la zona deserta ed abbandonata a se stessa ed essi si sarebbero trovati di fronte ad un territorio inselvatichito ed invaso dalle fiere della campagna. La conquista avverrà gradualmente in modo che il popolo ebraico possa sostituirsi un po' alla volta alle popolazioni residenti, le quali saranno colte dal disorientamento e diverranno una facile preda.
Al v, 28 ritorna la raccomandazione di non contaminarsi con le pratiche idolatriche di quelle popolazioni. Le immagini scolpite dei loro idoli dovevano essere date alle fiamme, ma non dovevano appropriarsi dell'oro e dell'argento di cui erano rivestite. Questa avidità sarebbe stata considerata come un'abominazione agli occhi dell'Eterno e nessuna cosa abominevole doveva contaminare le loro case, altrimenti anch'essi sarebbero stati distrutti.

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Capitolo 8

1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate ad occupare il paese che l'Eterno giurò di dare ai vostri padri.

Il discorso di Mosè continua con toni sempre più accorati. Per l'ennesima volta viene ripetuta la raccomandazione di mettere in pratica i comandamenti che avevano ricevuto. L'espressione «abbiate cura » ci fa capire che non si tratta di un ordine, ma di una raccomandazione. Infatti per l'osservanza di questi comandamenti vengono dati tre buoni motivi: a) affinché viviate, b) vi moltiplichiate e c) entriate ad occupare il paese che l'Eterno giurò di dare ai vostri padri. Il « vivere» naturalmente qui ha un senso esclusivamente materiale. L'alternativa a questo « vivere », come vedremo ai versetti 19 e 20, sarebbe stato il « perire ». Un perire in senso materiale: « come le nazioni che l'Eterno fa perire davanti a voi » (v. 20). Era ancora del tutto assente dalla mentalità del popolo ebraico una vita oltre questa vita terrena. Dobbiamo arrivare, infatti, nell'epoca del giudaismo, in Daniele 12 per poter parlare di resurrezione vera e propria. Oltre al vivere in senso materiale c'era anche la promessa, già fatta a suo tempo ad Abramo, che il popolo di Israele si sarebbe moltiplicato enormemente (Ge 12, 1; 15, 5: 22, 17; 32, 12) e che sarebbe entrato ad occupare il paese che l'Eterno aveva giurato di dare ai discendenti di Abramo (Ge 15, 13-21)

2. Ricordati di tutta la strada che l'Eterno, il tuo DIO, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che era nel tuo cuore e se tu osserveresti o no i suoi comandamenti.

A questo punto, per dare maggior sostegno al suo ragionamento, Mosè rievoca i quarant'anni di peregrinazioni nel deserto sostenendo che sono stati un periodo di umiliazione, ma anche di prova per sondare la profondità del cuore del popolo e capire se sarebbe stato in grado di osservare i suoi comandamenti. Se diamo uno sguardo alla Bibbia, ci accorgiamo che nella storia della salvezza l'elezione è sempre seguita dalla prova. Così è avvenuto per Abramo, così è anche avvenuto per Cristo, il quale è stato anche lui sottoposto ad un periodo di prova nel deserto per quaranta giorni e quaranta notti per essere tentato dal Diavolo (Mt 4, 1-2).

3. Così egli ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna che tu non conoscevi e che neppure i tuoi padri avevano mai conosciuto, per farti comprendere che l'uomo non vive soltanto di pane, ma vive di ogni parola che procede dalla bocca dell'Eterno.

In questo versetto viene spiegato meglio il senso dell'umiliazione a cui doveva essere sottoposto il popolo durante le sue peregrinazioni nel deserto. Non si è trattato di un'umiliazione fine se stessa, ma di un'umiliazione che doveva servire a dare al popolo la consapevolezza della sua dipendenza da Dio. Gli ha fatto provare la fame e poi lo ha nutrito con la manna, un cibo del tutto sconosciuto che proveniva direttamente dal cielo, per fargli capire che l'uomo non vive soltanto di cibo materiale, «ma vive di ogni parola che procede dalla bocca di Dio ». La profondità di questa lezione spirituale viene ripresa anche da Gesù, il quale, sottoposto alla tentazione della fame, risponde al Diavolo usando le stesse parole (Mt 4, 4). Molto spesso le necessità della vita portano gli uomini a ricercare la soddisfazione le proprie esigenze materiali, più che quelle spirituali. Gesù, essendosi accorto che le folle lo seguivano perchè le aveva sfamate con la moltiplicazione dei pani, Le esorta ad adoperarsi per il cibo che non perisce (Gv 6, 26-27). La discesa della manna è stato comunque un episodio che è rimasto impresso nella memoria del popolo ebraico. Alcuni Giudei lo ricordano a Gesù ed egli approfitta di questa occasione per presentarsi come il vero pane della vita (Gv 6, 31-53).

4. Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi qurant'anni.

5. Riconosci dunque nel tuo cuore che, come un uomo corregge suo figlio, così l'Eterno, il tuo DIO, corregge te.

L'espressione « il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato» significa che dopo tutto un questi quarant'anni te la sei sempre cavata, in quanto Dio è intervenuto direttamente in tutte le emergenze per fare in modo che il suo popolo sopravvivesse nonostante le numerose difficoltà e pericoli. Israele doveva quindi riconoscere che Dio è stato per lui come un padre che corregge il proprio figlio.

6. Perciò osserva i comandamenti dell'Eterno, il tuo DIO, camminando nelle sue vie e temendolo;

Per questo motivo Israele doveva osservare i comandamenti di Dio e camminare nelle sue vie temendolo.

7. perché l'Eterno, il tuo DIO, sta per farti entrare in un buon paese, un paese di corsi d'acqua, di fonti e di sorgenti che sgorgano dalle valli e dai monti.;

8. un paese di frumento e di orzo, di vigne, di fichi e di melograni, un paese di ulivi da olio e di miele;

9. un paese dove mangerai pane a volontà, deve non ti mancherà nulla; un paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai rame.

10. Mangerai dunque e ti sazierai, e benedirai l'Eterno, il tuo DIO, a motivo del buon paese che ti ha dato.

In questi versetti abbiamo una nuova descrizione della bontà del paese in cui dovevano entrare. Viene omessa la solita formula « Il paese dove scorre latte e miele», mentre vengono descritte dettagliatamente tutte le risorse. Si tratta di un paese dove ci sono diversi corsi d'acqua, fonti e sorgenti che sgorgano dalle valli e dai monti. Vi cresce il frumento l'orzo, i fichi i melograni e gli ulivi, mentre le apo producono il miele. Oltre alle risorse di tipo alimentare, qui per la prima volta vengono ricordate anche le risorse minerarie. C'è il ferro ed il rame. Si tratta quindi di un paese fertile e ricco di minerali, dove il popolo potrà mangiare il pane fino alla sazietà e dove non gli mancherà nulla. Israele quindi non deve fare altro che mangiare e saziarsi, ma deve anche benedire l'Eterno per tanta abbondanza.

11. Guardati bene dal dimenticare l'Eterno, il tuo DIO, giungendo a non osservare i suoi comandamenti, i suoi decreti e i suoi statuti che oggi ti do;

12. perché non avvenga, dopo aver mangiato a sazietà e aver costruito e abitato belle case,

13. dopo aver visto le tue mandrie e le tue greggi moltiplicare, e il tuo argento e il tuo oro aumentare, e tutti i tuoi beni crescere,

14. che il tuo cuore si innalzi e tu dimentichi l'Eterno, il tuo DIO, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù;

L'unico pericolo da cui Israele doveva guardarsi era quello di dimenticarsi di Dio e non osservare i suoi comandamenti. Si trattava di un pericolo reale in quanto la sazietà e l'abbondanza potevano indurre gli Israeliti ad inorgoglirsi e quindi dimenticare che tutto quannto avevano era un dono di Dio il quale li aveva fatti uscire dall'Egitto liberandoli dalla schiavitù

15. che ti ha condotto attraverso questo grande e terribile deserto, luogo di serpenti ardenti e di scorpioni, terra arida e sen'acqua; che ha fatti sgorgare per te l'acqua dalla roccia durissima;

16. che nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non conoscevano, per umiliarti e per provarti e per farti alla fine del bene.

17. Guardati dunque dal dire nel tuo cuore: «la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze».

18. Ma ricordati dell'Eterno, il tuo DIO, perché è lui che ti dà la forza per acquistare ricchezze, per mantenere il patto che giurò ai tuoi padri come è oggi.

Dio non si era limitato soltanto a liberarli dall'Egitto, ma li aveva anche aiutati ad attraversare un terribile deserto pieno di insidie e privo di acqua. Dio aveva fatto sgorgare l'acqua apposta per loro dalla roccia durissima e li aveva nutriti con la manna discesa dal cielo. Tutto questo era avvenuto per metterli alla prova, per fare in modo che non si inorgoglissero. Pur nella durezza della prova, tutto questo era stato fatto da Dio per il loro bene. Essi quindi non dovevano assolutamente pensare che la ricchezza e l'abbondanza che ora possedevano fossero il frutto delle loro fatiche. E' Dio che ha dato loro la forza di procurarsi queste ricchezze perché egli voleva mantenere il patto fatto con i loro padri.

19. Ma se tu dimentiche l'Eterno, il tuo DIO, per seguire altri dèi e per servirli e prostrarti davanti a loro, io dichiaro solennemente contro di voi quest'oggi che per certo perirete.

20. Perirete come le nazioni che l'Eterno fa perire davanti a voi, perché non avete ascoltato la voce dell'Eterno, il vostri DIO.

Se, nonostante tutto questo, Israele si fosse dimenticato del suo Dio rivolgendosi ad altri dèi e prostrandosi davanti a loro, la condanna non sarebbe mancata. Il popolo ebraico sarebbe inevitabilmente perito come tutte le altre nazioni che Dio aveva fatto perire davanti a loro.

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Capitolo 9

Canaan è data ad Israele non per la sua giustizia, ma per la malvagità dei Cananei

1. Ascolta, Israele! Oggi tu stai per passare il Giordano, per entrare ad occupare nazioni più grandi e più potenti di te, città grandi e fortificate fino al cielo,

2. un popolo grande e alto di statura, i discendenti degli Anakim che tu conosci, e dei quali hai sentito dire: "Chi può far fronte ai discendenti di Anak?"

3. Sappi dunque oggi che l'Eterno, il tuo DIO, è colui che marcerà davanti a te, come un fuoco divorante; egli li distruggerà e li abbatterà davanti a te; così tu li scaccerai e li farai perire in fretta, come l'Eterno ti ha detto.

4. Quando l'Eterno, il tuo Dio, li avrà scacciati davanti a te, non dire nel tuo cuore: "E' per la mia giustizia che l'Eterno mi ha fatto entrare in possesso di questo paese". E' invece per la malvagità di queste nazioni che l'Eterno le scaccerà davanti a te.

5. No, non è per la tua giustizia né per la rettitudine del tuo cuore che tu entri ad occupare il loro paese, ma è per la malvagità di queste nazioni che l'Eterno, il tuo DIO, le sta per scacciare davanti a te, e per adempiere la parola giurata ai tuoi padri, ad Abrahamo, a Isacco, a Giacobbe.

6. Sappi dunque che non è per la tua giustizia che l'Eterno, il tuo DIO, ti dà in possesso questo buon paese, poiché tu sei un popolo dal collo duro.

Mosè continua il suo discorso ricordando agli Israeliti che stavano per attraversare il Giordano e per prendere possesso di un territorio dove già vivevano delle nazioni molto più forti di loro, che abitavano in città fortificate. Mosè si rivolge al popolo con la classica espressione «Ascolta, Israele! », caratteristica del libro del Deuteronomio, che abbiamo già trovato in Dt 5, 1; 6, 4 e che troveremo ancora più avanti in Dt 20, 3 e 27, 9. Si tratta di un'espressione che dà una particolare solennità al discorso e che introduce delle comunicazioni importanti. In Dt 5, 1 serve ad introdurre i 10 comandamenti; in Dt 6, 4 si dice che l'Eterno è uno e che pertanto gli Israeliti dovevano amarlo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la forza, e dovevano conservare le Sue parole nel loro cuore.

Nel capitolo 9 questa espressione serve ad introdurre un discorso che riguarda in modo particolare la scelta da parte di Dio del popolo ebraico. Abbiamo già visto come questa scelta sia caduta su Israele, non perche' questo popolo avesse qualche merito particolare di fronte a Dio. Non si trattava di un popolo particolarmente numeroso, anzi ci viene detto in in Dt 7, 7 che era il più piccolo di tutti i popoli. Nel capitolo 9 il discorso si allarga ancora di più; non solo questo popolo non era particolarmente numeroso da giustificare in qualche modo l'attenzione particolare riservatagli da Dio, ma anche dal punto di vista morale e religioso, Israele non si distingueva dagli altri popoli per la sua giustizia e per la sua rettitudine.

Il discorso, sviluppato in questi primi 6 versetti del capitolo 9, si articola molto bene. Nei primi due versetti sono presentate le difficoltà dell'impresa che Israele doveva compiere: si trattava di nazioni molto potenti che abitavano in città fortificate; si trattava di un popolo grande ed alto di statura che discendeva dai famosi  Anakim , di cui abbiamo già parlato, quando abbiamo esaminato il primo discorso di Mosè al capitolo 1 versetto 28. Il versetto 3 del capitolo 9 è in parallelo con i versetto 29 e 30 del capitolo 1: Israele non sarebbe stato in grado con le proprie forze di compiere da solo un'impresa così difficile, ma, dice Mosè, « L'Eterno, il tuo DIO, è colui che marcerà davanti a te, come un fuoco divorante ». Questo tema della presenza di Dio in mezzo al popolo, che cammina alla sua testa, è un tema ricorrente, non solo nel Deuteronomio, ma anche in tutta la storia del popolo ebraico. L'insistenza con la quale questa presenza di Dio viene ricordata e ribadita serve ad incoraggiare gli Israeliti a compiere quelle imprese che potevano sembrare a prima vista impossibili. Così alla fine del libro, in Dt 31, 3-6, troviamo ancora questo incoraggiamento.

Nel versetto 3 del capitolo 9, la presenza di Dio che, come un fuoco divorante, distruggerà ed abbatterà le popolazioni forti e potenti della Palestina, serve ad introdurre il tema centrale dei versetti 4, 5 e 6. Una volta distrutte ed abbattue le nazioni potenti con l'aiuto di Dio, Israele avrebbe potuto pensare: E' per la mia giustizia che l'Eterno mi concede di prendere possesso del paese. Nulla di più errato! Non è per la tua giustizia, ma per la malvagità delle nazioni che saranno scacciate, che Dio ti permetterà di prendere possesso del paese. Ma al versetto 5 viene aggiunta ancora qualcosa di più: non è per la tua giustizia né per la tua rettitudione, ma perché Dio stava adempiendo le promesse fatte ai loro padri. Israele dunque non aveva alcun merito particolare, né come popolo forte e numeroso né come popolo particolarmente giusto e retto agli occhi di Dio. Israele, amato da Dio in maniera tale da essere considerato il suo tesoro particolare fra tutti i popoli, era pur sempre stato scelto da Dio non per i suoi meriti, ma perché Dio attraverso lui portava a compimento il suo piano di redenzione. Il versetto 6 ribadisce questo concetto ed anzi rincara la dose: non per la tua giustizia, perché tu sei un popolo dal collo duro, cioè testardo nel seguire le tue vie.

Il concetto dell'esclusione dei meriti nelle scelte di Dio verrà ripreso e ribadito dall'apostolo Paolo, come concetto qualificante del messaggio evangelico in Ef 2, 1-10. Ancora una volta il Deuteronomio dimostra la sua profonda spiritualità anticipando i tempi e rivelando il suo carattere universale di Parola di Dio che oltrepassa i confini del tempo e dello spazio.

I successivi versetti dal 7 al 29 sono la rievocazione dei tradimenti e delle ribellioni che testimoniano il verdetto di Dio su Israele, popolo dal collo duro.

Il vitello d'oro e le ribellioni d'Israele nel deserto

7. Ricordati e non dimenticare come hai provocato ad ira l'Eterno, il tuo DIO, nel deserto. Dal giorno che usciste dal paese d'Egitto, fino al vostro arrivo in questo luogo, siete stati ribelli all'Eterno.

La durezza di collo degli Israeliti si manifestava nella continua ribellione all'Eterno, in pratica nella disubbidienza, che ha accompagnato il popolo durante tutta la traversata del deserto. Mosè conosceva bene questa durezza di collo del suo popolo e sapeva che dopo la sua morte essi avrebbero ancor più continuato su questa strada. Per questo motivo, prima di morire, vuole mettere in guardia gli anziani delle tribù e gli ufficiali (Dt 31, 27-29).

8. Anche ad Horeb provocaste ad ira l'Eterno; e l'Eterno si adirò contro di voi al punto di volervi distruggere.

9. Quando salii sul monte per ricevere le tavole di pietra, le tavole del patto che l'Eterno aveva fatto con voi, io rimasi sul monte quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiare pane né bere acqua;

10. e l'Eterno mi diede le due tavole di pietra, scritte con il dito di Dio, sulle quali erano tutte le parole che l'Eterno vi aveva detto sul monte, di mezzo al fuoco, nel giorno dell'assemblea.

11. E fu alla fine dei quaranta giorni e delle quaranta notti che l'Eterno mi diede le due tavole di pietra, le tavole del patto.

12. Poi l'Eterno mi disse: "Levati, scendi in fretta di qui, perché il tuo popolo che hai fatto uscire dall'Egitto si è corrotto; hanno presto deviato dalla via che io avevo loro ordinato di seguire e si sono fatti una immagine di metallo fuso".

13. L'Eterno mi parlò ancora, dicendo: "Io ho visto questo popolo; ecco è un popolo dal collo duro;

14. lascia che li distrugga e cancelli il loro nome di sotto i cieli, e farò di te una nazione più potente e più grande di loro"

La prima e più grande disubbidienza del popolo avvenne proprio nell' Horeb o Sinai subito dopo che Dio aveva stipulato con Israele un patto solenne in occasione del quale aveva comunicato a viva voce la Sua legge fondamentale, i 10 comandamenti, a tutta l'assemblea riunita per l'occasione. Questa legge doveva ora essere messa per iscritto e consegnata al popolo perché l'osservasse. Senonché gli Israeliti erano rimasti intimoriti dalla voce di Dio e, temendo che non sarebbero sopravvissuti ad un ulteriore contatto con la divinità, incaricarono Mosé di recarsi al loro posto da Dio per ricevere la legge scritta, con la promessa che avrebbero dato ascolto a questa legge e l'avrebbero osservata.

Mosé quindi sale sul Monte dell'Eterno e vi rimane quaranta giorni e quaranta notti digiunando. Al termine del digiuno, Dio gli consegna le parole della legge scritte direttamente da Lui su due tavole di pietra. Nel frattempo, però, vedendo che Mosé tardava a ritornare e temendo che gli fosse accaduto qualcosa di male, il popolo cominciò ad agitarsi ed a radurnarsi attorno ad Aronne per proporgli di costruire loro un altro Dio che li avrebbe guidati al posto di Mosé. Il racconto di questa prima deviazione di Israele lo troviamo in Es 32, 1-6. C'è veramente da chiedersi a questo punto come mai il popolo ebraico si sia così presto fatto sviare fino a praticare addirittura l'idolatria. Evidentemente, nonostante il prodigioso intervento di Dio per liberarli dalla schiavitù d'Egitto, i germi del paganesimo non erano ancora del tutto scomparsi. Essi come tutti i popoli pagani dell'Oriente sentivano la necessità di vedere e toccare la divinità, di accativarsela con i propri riti e di porla quindi al proprio servizio. Allora non trovarono nulla di meglio che costruirsi questo vitello d'oro, forse una lontana reminiscenza dei culti pagani praticati dai loro padri nella terra dei Caldei, da cui provenivano.

Naturalmente Dio si adira per questo tradimento e comunica a Mosé la sua intenzione di distruggere dalla faccia della terra un popolo dal collo duro che si era così presto allontanato da Lui per dedicarsi al culto idolatrico.

15. Così mi voltai e scesi dal monte, mentre il monte ardeva col fuoco; e le due tavole del patto erano nelle mie mani.

16. Guardai, ed ecco che avevate peccato contro l'Eterno, il vostro DIO, e vi eravate fatto un vitello di metallo fuso. Avevate ben presto lasciata la via che l'Eterno vi aveva ordinato di seguire.

17. Allora afferrai le due tavole, le scagliai dalle mie mani e le spezzai sotto i vostri occhi.

18. Poi mi gettai davanti all'Eterno, come la prima volta, per quaranta giorni e per quaranta notti; non mangiai pane né bevvi acqua, a motivo di tutti i vostri peccati che avevate commesso, facendo ciò che è male agli occhi dell'Eterno, per provocarlo ad ira.

19. Poiché io avevo paura dell'ira e del furore con cui l'Eterno era acceso contro di voi, al punto di volervi distruggere. Ma l'Eterno mi esaudì anche quella volta.

20. L'Eterno si adirò pure grandemente contro Aaronne, al punto di volerlo distruggere; così quella volta io pregai anche per Aaronne.

21. Poi presi l'oggetto del vostro peccato, il vitello che che avevate fatto, lo bruciai col fuoco, e lo frantumai e macinai in minuscoli frammenti, fino a ridurlo in polvere minuta, e ne gettai la polvere nel torrente che scende dal monte.

Mosé, informato da Dio di quanto era accaduto fra il popolo durante la sua assenza, si precipita giù dal monte e constata il peccato di Israele che aveva forgiato un vitello nel metallo fuso. Resosi conto che il popolo aveva così presto abbandonata la via che l'Eterno gli aveva comandato di seguire,  Mosè è colto da un improvviso furore e scaglia le tavole che aveva in mano, spezzandole davanti agli occhi degli Israeliti. Non si limita a questo, ma si prostra anche davanti all'Eterno e digiuna ancora per altri quaranta giorni e quaranta notti, implorando il perdono dei peccati commessi dal popolo, perché temeva che nella sua ira Dio lo avrebbe distrutto. Ma Dio esaudisce Mosè anche quella volta ed acconsente a perdonare il peccato sia del popolo che di Aaronne che si era macchiato della stessa colpa. Infine Mosè provvede alla rimozione ed alla distruzione dell'oggetto del peccato, riducendo il vitello in piccoli pezzi fino a polverizzarlo ed a gettarne la polvere in un torrente che scendava dal monte.

Naturalmente nel Deuteronomio abbiamo un breve riassunto di questi avvenimenti, ma nel libro dell'Esodo possiamo trovare un racconto più dettagliato che penso valga la pena di leggere: Es 32, 7-35 ed Es 33.

Fin qui abbiamo la descrizione del peccato del vitello d'oro, ma Mosè vuole ricordare al popolo anche le altre ribellioni avvenute durante la marcia nel deserto. I versetti dal 22 al 29 contengono pertanto la rievocazione di questi altri tradimenti del popolo e la preghiera di intercessione fatta da Mosè a Dio affinché desistesse dal suo proposito di distruzione.

22. Anche a Teberah, a Massa, e a Kibroth-Attaavah voi provocaste ad ira l'Eterno.

23. Quando poi l'Eterno vi mandò fuori da Kadesh-Barnea dicendo: "Salite e impossessatevi del paese che vi ho dato", vi ribellaste all'ordine dell'Eterno, il vostro DIO, non gli credeste e non ubbidiste alla sua voce.

24. Siete stati ribelli all'Eterno, dal giorno che vi conobbi.

Tralasciamo la ribellione di Kadesh-Barnea , che abbiamo abbondantemente esaminato in occasione del primo discorso di Mosè e soffermiamoci invece sulle altre località nominate al versetto 22. Taberah viene ricordato dal libro dei Numeri (Nm 11, 1-3). Massa viene invece ricordata in Esodo 17, 1-7 Kibroth-Attaavah in Numeri 11, 4-34.
Mosè conclude dicendo: «siete stati ribelli all'Eterno, dal giorno che vi riconobbi». E' interessante a questo proposito leggere il salmo 106 che è un riassunto delle infedeltà di Israele e delle liberazioni del Signore.

Dal versetto 25 al 29 abbiamo la preghiera di intercessione di Mosè per il popolo:

25. Così rimasi prostrato davanti all'Eterno quaranta giorni e quaranta notti; e feci questo perché l'Eterno aveva detto di volervi distruggere.

26. E pregai l'Eterno così: "O Signore, o Eterno, non distruggere il tuo popolo e la tua eredità, che hai redento con la tua grandezza, che hai fatto uscire dall'Egitto con mano potente.

27. Ricordati dei tuoi servi, Abrahamo, Isacco e Giacobbe; non guardare alla caparbietà di questo popolo, o alla sua malvagità o al suo peccato,

28. affinché il paese da cui ci hai fatto uscire non dica: Poiché l'Eterno non era capace di farli entrare nella terra che aveva loro promesso e poiché li odiava, li ha fatti uscire per farli morire nel deserto.

29 . Tuttavia essi sono il tuo popolo e la tua eredità, che tu facesti uscire dall'Egitto con la tua grande potenza e con il tuo braccio steso"

Le parole di questa preghiera sono particolarmente toccanti. Mosè implora Dio di non distruggere il suo popolo facendo appello alla redenzione da Lui operata in Egitto ed alla promessa fatta a suo tempo ad Abrahano, Isacco e Giacabbe. Inoltre un'eventuale distruzione di Israele nel deserto avrebbe fatto pensare agli Egiziani che Dio non era stato in grado di portare a termine le sue promesse. Mosè  implora dunque Dio di dimenticare l'ostinazione, la malvagità ed il peccato di Israele perché in fin dei conti si tratta pur sempre del suo popolo e della sua eredità. Per la prima volta in questa preghiera compaiono i concetti di redenzione e di eredità che saranno sviluppati e diventeranno fondamentali nel cristianesimo.

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Capitolo 10

Le nuove tavole del patto

1. In quel tempo, l'Eterno mi disse: "Tagliati due tavole di pietra simili alle prime sali da me sul monte; fatti anche un'arca di legno.

2. Io scriverò sulle tavole le parole che erano sulle prime tavole che tu spezzasti, e tu le metterai nell'arca.

3. Così feci un'arca di legno d'acacia e tagliai due tavole di pietra simili alle prime; poi salii sul monte con le due tavole in mano.

4. E l'Eterno sulle sulle tavole ciò che aveva scritto la prima volta, cioè i dieci comandamenti che l'Eterno aveva proclamato per voi sul monte, di mezzo al fuoco, il giorno dell'assemblea. Quindi l'Eterno me le consegnò.

5. Allora mi voltai e discesi dal monte; misi le tavole nell'arca che avevo fatto; e là esse rimangono, come l'Eterno mi aveva ordinato.

Le prime tavole di pietra, in cui Dio aveva scritto i dieci comandamenti, erano state spezzate da Mosè in un momento d'ira, quando si era accorto che il popolo aveva costruito un vitello d'oro e si era dato all'idolatria. Erano pertanto necessarie altre due tavole in cui Dio avrebbe riscritto la legge fondamentale. Così l'Eterno ordina a Mosè di tagliare altre due pietre e di salire di nuovo sul monte. Troviamo questo racconto, quasi con le stesse parole anche in Es 34, 1-2. Questa volta però c'è una novità, oltre alle nuove tavole di pietra, Dio ordina a Mosè di costruire anche un'arca di legno d'acacia. Abbiamo una descrizione abbastanza dettagliata di quest'arca in Es 25, 10-16. Un'altra descrizione la troviamo anche in Es 37, 1-5. In quest'ultimo passo ci viene detto che l'arca è costruita da un esperto, un certo Betsaleel, di cui si parla in Es 35, 30-35. Mentre in Dt 10, 3 sembra che l'arca sia stata costruita direttamente da Mosè, qui si dice che fu opera di questo abile artigiano. Siccome in Deuteronomio abbiamo soltanto un riassunto dei fatti, dove non vengono riportati tutti i particolari, si può pensare che Mosè, dovendo costruire l'arca, ne abbia affidato l'incarico ad un esperto. Notiamo che l'arca viene costruita in modo tale da poter essere trasportata con due stanghe; essa conteneva la testimonianza, cioè le due tavole di pietra in cui erano scritti i dieci comandamanti (Dt 31, 26; 1 Re 8, 9). Quando si spostavano nel deserto da una tappa all'altra, l'arca veniva trasportata alla testa del popolo, quasi a simboleggiare la presenza di Dio stesso alla guida del suo popolo. L'arca viene portata anche in occasione della marcia del popolo attorno alle mure di Gerico per sei giorni (Gs 6, 1-6); al settimo giorno le mura crollano e la città viene conquistata. Durante un combattimento, però, i Filistei si impadroniscono dell'arca (1 Sm 4, 11) e la collocano nel  tempio del dio Dagon nella città di Ashdod, ma la statua del dio viene trovata riversa e priva di braccia e di gambe, mentre gli abitanti vengono colpiti da malattie. L'arca viene quindi spostata in altre città della Filistea: prima a Gath e poi ad Ekron, dove accadono sempre le stesse sventure (1 Sm 5). Alla fine, dopo aver consultato i loro indovini, i Filistei decidono di restituire l'arca ad Israele, assieme ad un'offerta di riparazione, e la portano nell'accampamanto israeliano di Beth-Shemesc (1 Sm 6). Da quella località fu poi trasportata nella casa di Abinadab a Kiriath-Jearim, dove vi rimase per vent'anni. Da quel posto Davide la fece trasportare prima nella casa di Obed-Edom di Gath (2 Sm 6, 10) e infine a Gerusalemme (2 Sm 6, 12). Dopo la costruzione del tempio ad opera di Salomone, l'arca fu posta nel santuario del tempio, nel luogo santissimo (1 Re 8, 6)

6. (Ora i figli di Israele partirono dai pozzi dei figli di Jakan per Moserath. La Aronne morì e là fu sepolto; ed Eleazar, suo figlio, divenne sacerdote al suo posto.

7. Di là partirono alla volta di Gudgodah alla volta di Jotbathah, paese di corsi d'acqua.

8. In quel tempo l'Eterno separò la tribù di Levi per portare l'arca del patto dell'Eterno, per stare davanti all'Eterno e servirlo e per benedire nel suo nome fino al giorno d'oggi.

9. Perciò Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli; l'Eterno è la sua eredità, come l'Eterno il tuo DIO gli aveva promesso).

In questi versetti fra parentesi  abbiamo una nota del redattore, il quale riporta alcuni riferimenti geografici che però non concordano con il libro dei Numeri. La morte di Aronne ci viene descritta in Nm 20, 22-29 ed avvenne nel monte Hor, dopo la tappa di Kadesh-Barnea, come confermato anche da Nm 33, 38-39. Al suo posto venne fatto sacerdote il figlio Eleazar. Oltre a questo la nota del redattore ci informa che «In quel tempo l'Eterno separò la tribù di Levi ». Si tratta di un'espressione particolare con la quale si intende dire che la tribù di Levi viene consacrata all'ufficio sacerdotale, già esercitato da Aronne e dal figlio Eleazar. Essi infatti dovevano svolgere tutti quei compiti che erano propri della classe sacerdotale e che consistevano nel portare l'arca del patto, stare davanti all'Eterno e servirlo e benedire il popolo nel suo nome. Abbiamo nel libro dei Numeri alcuni accenni ai Leviti (Nm 1, 47-53; Nm 3, 12-13; Nm 6, 22-27). Questo è il motivo per cui la tribù di Levi non ricevette in eredità alcun territorio della Palestina. Essi dovevano vivere in mezzo alle altre tribù ed esercitare il loro ufficio di sacerdoti, vivendo con le offerte che venivano fatte dalle altre tribù. (Dt 18, 1-8; Nm 18, 20-24; Gs 13, 14.33)

10. Io rimasi sul nonte, come la prima volta, quaranta giorni e quaranta notti; l'Eterno mi ascoltò anche questa volta, e l'Eterno acconsentì a non distruggerti.

11. Allora l'Eterno mi disse: "Levati, mettiti in cammino alla testa del popolo, perché essi entrino ad occupare il paese che giurai ai loro padri di dar loro".

Qui abbiamo una ripetizione di quanto già detto precedentemente. Mosè sale nuovamente sul monte con le nuove tavole e vi rimane, come la prima volta, quaranta giorni e quaranta notti, durante i quali implora l'Eterno di non distruggere Israele. L'Eterno lo esaudisce ancora una volta e gli ordina di mettersi alla testa del popolo per condurlo ad occupare la Terra Promessa che l'Eterno aveva giurato ai loro padri di dare a loro.

Invito a temere l'Eterno e a osservare i suoi comandamenti

12. E ora, o Israele, che cosa richiede da te l'Eterno, il tuo DIO, di camminare in tutte le sue vie, di amarlo, e di servire l'Eterno, il tuo DIO, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua,

13. e di osservare per il tuo bene i comandamenti dell'Eterno e i suoi statuti che oggi ti comando?

Qui Mosè sembra dire: In fin dei conti cos'è che Dio ti chiede? Egli non ti sta chiedendo delle cose impossibili da fare. Ti chiede soltanto di camminare in tutte le sue vie, cioè di osservare la sua legge. Ma l'osservanza di questa legge non deve essere soltanto un fatto meccanico, devi farlo con trasporto, devi amare e servire Dio con tutto il tuo cuore e la tua anima, cioè con tutto il tuo essere, perché l'osservanza dei comandamenti alla fine è per il tuo stesso bene. Più avanti in Dt 30, 11-16 Mosè ritorna nuovamente su questo argomento affermando che l'osservanza della legge non è una cosa difficile da realizzare in quanto questa legge è alla portata di Israele, è nella bocca e nel cuore di ciascun Israelita; essa procura molte benedizioni.

14. Ecco, all'Eterno il tuo DIO, appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e tutto quanto essa contiene;

15. ma l'Eterno pose il suo diletto unicamente nei tuoi padri e li amò; e dopo di loro fra tutti i popoli scelse la loro discendenza, cioè voi, com'è oggi.

16. Circonciderete perciò il prepuzio del vostro cuore e non indurite più il vostro collo;

17. poiché l'Eterno, il vostro DIO, è il DIO degli dèi, Il Signore dei signori, il Dio grande, forte e tremendo, che non usa alcuna parzialità e non accetta regali,

18. che fa giustizia all'orfano e alla vedova, che ama lo straniero dandogli pane e vestito.

19. Amate dunque lo straniero, perché anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto.

Se esaminiamo bene questi versetti dal punto di vista letterario, possiamo notare che si tratta di un coppia di tre versetti ciascuno in cui è evidente il seguente schema:
a) cio che Dio è
b) ciò che Dio ha fatto
c) ciò che Israele doveva fare
Nella prima terzina (v. 14, 15, 16) al v. 14 viene messa in evidenza la sovranità di Dio su tutto il creato, sia esso di carattere materiale che spirituale. Dio può fare ogni cosa perché ogni cosa gli appartiene. In Es 19, 5 egli, rivolgendosi ad Israele, dice che lo ha scelto come un tesoro particolare fra tutti i popoli, perché la terra è sua, gli appartiene e quindi può disporne come meglio crede. Il Salmo 24 esalta questa sovranità di Dio sul creato.
v. 15: Nella sua incontrastata ed incondizionata sovranità, Dio non era tenuto a farlo e tuttavia ha rivolto il suo sguardo verso i padri di Israele (i patriarchi), anzi si è compiaciuto di loro e li ha amati al punto da scegliere fra tutti i popoli la loro discendenza, cioè Israele, che oggi sta per prendere possesso dell'eredità a loro promessa.
v. 16: Che cosa dovevano fare gli Israeliti di fronte alla benignità di Dio nei loro confronti? Dovevano circoncidere il loro cuore e non irrigidire ancora il loro collo. Si tratta di due espressioni metaforiche che vengono usate da Mosè per incoraggiare il popolo a ravvedersi, ad avere una buona disposizione d'animo nei confronti di Dio e non ribellarsi ulteriormente ai suoi comandamenti. La circoncisione non doveva essere soltanto un segno materiale, esterno, impresso nella carne, ma uno stato d'animo interiore che doveva spingerli al ravvedimento e a guidare la loro condotta. La stessa espressione la troviamo anche nel profeta Geremia che esorta Israele a ritornare a Dio (Gr 4, 1-4). Anche l'apostolo Paolo, scrivendo ai Romani, parla della vera circoncisione, quella interiore del cuore (Rm 2, 25-29). Ciò che conta, dice Paolo scrivendo ai Galati, non è tanto la circoncisione o la non circoncisione quanto piuttosto la fede che opera per mezzo dell'amore (Gl 5, 6) e l'essere una nuova creatura, cioè essere nati di nuovo (Gl 6, 15). Il Deuteronomio ha il grande merito di aver dato inizio e di aver anticipato quel processo di interiorizzazione che troverà la sua più completa realizzazione in Cristo. Non basta osservare meccanicamente ed esteriormente la legge di Dio, ma dobbiamo avvicinarci a Lui con la fede e per mezzo di un rinnovamento interiore.

Nella seconda terzina (vv. 17, 18, 19) al v. 17 abbiamo l'esaltazione di Dio che viene definito come DIO degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e tremendo. Con l'espressione DIO degli dèi e Signore dei signori si vuole affermare la signoria di Dio su tutte le forze spirituali, siano esse angeli o dèmoni. l'appellativo « DIO degli dèi» lo troviamo anche nel Salmo 136, 2, mentre quello di « Signore dei Signori» lo troviamo in Ap 17, 14 a 19, 16, attribuito a Cristo. Che Cristo sia il Signore dei Signori ci viene confermato anche da Paolo quando scrivendo agli Efesini dice che è stato posto «al di sopra di ogni principato, potestà, potenza, signoria e di ogni nome che si nomina non solo in questa età, ma anche in quella futura » (Ef 1, 21). Pietro afferma che a Cristo sono sottoposti angeli, potestà e potenze (1 Pt 3, 22). L'espressione « il Dio grande, forte e tremendo» allude nel contempo all'onnipotenza di Dio ed alla sua giustizia. Egli infatti non usa alcuna parzialità e non si lascia corrompere e addomesticare dai riti e dalle offerte dell'uomo, ma agisce verso tutti allo stesso modo, siano essi grandi o piccoli. L'imparzialità del giudizio di Dio nei confronti degli uomini viene ribadito da Paolo ai Romani (Rm 2, 11-12) e riconosciuta anche da Pietro (At 10, 34-35).
Al v. 18 ci viene detto che Dio, pur essendo così grande, non manca di interessarsi ai più umili ed ai più derelitti. Egli infatti rende giustizia alla vedova e all'orfano e provvede per il sostentamento dello straniero. L'orfano, la vedova e lo straniero sono coloro che vengono indicati nella Bibbia come le persone più bisognose di essere aiutate. Ecco allora che nei profeti ma anche nel Nuovo Testamento la religiosità di una persona viene misurata non tanto dall'atto di adorazione verso la divinità quanto piuttosto dall'aiuto che egli offre a queste persone umili e bisognose (Is 1, 17; Gc 1, 27).
Al 19 c'è dunque l'invito ad Israele a fare altrettanto, soprattutto nei confronti dello straniero, perché anch'egli ha patito come straniero nel paese d'Egitto.

20. Temerai l'Eterno, il tuo DIO, a lui servirai, rimarrai stretto a lui e giurerai nel suo nome.

21. Egli è la tua lode, egli è il tuo DIO, che ha fatto per te cose grandi e tremende che i tuoi occhi hanno visto.

22. I tuoi padri scesero in Egitto in numero di settanta persone; e ora l'Eterno, il tuo DIO, ti ha reso numeroso come le stelle del cielo.

La naturale conseguenza di tutto il discorso è che Israele deve manifestare la sua riconoscenza a Dio per tutte le cose «grandi e tremende » che egli ha fatto sotto i suoi occhi. Da un piccolo gruppo di persone che era, quando giunse in Egitto, è diventato un popolo « numeroso come le stelle del cielo» . Dio rappresenta quindi per Israele la sua lode e questa lode deve essere manifestata temendolo e servendolo.

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Capitolo 11

1. Ama dunque l'Eterno, il tuo DIO, e osserva sempre le sue prescrizioni, i suoi statuti, i suoi decreti e i suoi comandamenti.

Il capitolo si apre e si chiude con il solito insistente invito, espresso in diverse forme, ad osservare le prescrizioni, gli statuti, i decreti ed i comandamanti di Dio ( vedi v. 32). Si tratta di un'espediente letterario, detto "inclusione", che troviamo spesso in tutta la Bibbia, con il quale gli antichi scrittori semiti ed ebraici in particolare, delimitavano i loro scritti. È in pratica il titolo di un nuovo capitolo, una specie di sommario, dopo il quale iniziava un discorso. Quando il lettore trovava ripetute quasi le stesse parole, questo significava che quella parte del discorso si era conclusa. Arrivati ormai al capitolo 11, abbiamo acquisito una certa familiarità con il linguaggio e le espressioni del Deuteronomio. Non ci soprprende pertanto di trovare anche qui, all'inizio del capitolo 11, nuovamente l'invito ad amare l'Eterno. Lo stesso invito l'abbiamo trovato anche in Dt 6, 5 e lo troveremo ancora, alla fine del libro, in Dt 30, 16.20. Il rapporto fra l'Eterno ed il popolo eletto non doveva essere un rapporto impersonale e distaccato, ma un rapporto d'amore. Israele non doveva ubbidire alla legge del suo Dio come ad un'imposizione, ma doveva ubbidire perché sospinto da un rapporto di amore e di riconoscenza nei confronti di un Dio che li veva liberati dalla schiavitù d'Egitto e li aveva condotti per mano lungo il difficile cammino del deserto.

2. Riconoscete oggi (poiché non parlo ai vostri figli che non hanno conosciuto né hanno visto la disciplina dell'Eterno, il vostro DIO) la sua grandezza, la sua mano potente e il suo braccio steso,

Nella versione della Nuova Diodati la parola «Riconoscete » è contrassegnata da un asterisco che ci rimanda al glossario. Ciò significa che questo termine ha una particolare valenza teologica in quanto viene assimilato all'omonimo « confessare» del Nuovo Testamento. Confessare in senso biblico infatti non significa confidare i propri peccati ad una persona con lo scopo di ottenerne il perdono, ma nel Nuovo Testamento, questo termine, corrispondente al greco omologheo, ha soprattutto due particolari significati:
1. Ammettere apertamente sia particolari situazioni (come nel caso di Ebrei 11, 13), sia i propri peccati davanti al Signore (come nel caso di 1 Gv 1, 9), o pubblicamente (come in Mt 3, 6; cfr anche At 19, 18).
2. Dichiarare apertamente e solennemente la propria fede in Gesù, il quale a sua volta riconoscerà apertamente tale fede davanti al Padre celeste o agli angeli del cielo (come in Mt 10, 32 e in Lc 12, 8). In altri casi significa riconoscere e dichiarare apertamente Gesù: come il Messia, il Cristo (come in Gv 9, 22 e in 1 Gv 2, 23), o come il Signore (Rm 10, 9-10).
Confessione nel Nuovo Testamento (in greco omologhia) significa sempre una professione o dichiarazione aperta e solenne del Vangelo di Cristo (come in 2 Co 9, 13), della speranza del credente (come in Eb 10, 23) e più spesso di fede nella Parola di Dio (come in 1 Ti 6, 12-13; Eb 3, 1; 4, 14).
« Riconoscete» pertanto, nel contesto del Deuteronomio, è l'invito rivolto al popolo ebraico di confessare la propria fede nella grandezza di Dio che li aveva liberati dalla schiavitù d'Egitto con «la sua mano potente ed il suo braccio steso», espressione metaforica della potenza dell'opera divina.

La frase posta fra parentesi «(poiché non parlo ai vostri figli che non hanno conosciuto né hanno visto la disciplina dell'Eterno, il vostro DIO)» è un'annotazione che sottolinea la posizione privilegiata della generazione che aveva vissuto personalmente gli avvenimenti dell'esodo (Dt 5, 3). Quanto essa ha visto con i propri occhi, l'ha portata a credere e la sua testimonianza è il fondamento grazie al quale dovranno credere a loro volta le generazioni future (cfr Gv 20, 29). Tuttavia anche Abramo, Isacco e Giacobbe sono dei privilegiati, e ogni generazione ebraica è considerata anch'essa oggetto di un'elezione. In Dt 4, 31 abbiamo visto come Dio non dimentica l'alleanza fatta con i padri. Infatti è proprio perché amava i padri, che Dio ha poi eletto e liberato anche Israle, legandosi a loro e facendo con essi un'alleanza. Questa alleanza impegna l'intera progenie dei padri e si rinnova personalmente con ciascuna generazione ebraica futura (Dt 10, 15)

3. i suoi segni e le sue opere che fece in mezzo all'Egitto contro il Faraone, re d'Egitto, e contro il suo paese,

4. ciò che fece all'esercito d'Egitto, ai suoi cavalli ed ai suoi carri, riversando su di loro le acque del Mar Rosso mentre essi vi inseguivano, e come l'Eterno li distrusse per sempre;

5. ciò che fece per voi nel deserto, fino al vostro arrivo in questo luogo;

6. e ciò che fece a Dathan a Abiram, figli di Eliab, figlio di Ruben; come la terra spalancò la sua bocca e li inghiottiì con le loro famiglie, le loro tende ed ogni cosa vivente che li seguiva, in mezzo a tutto Israele.

7. Ma i vostri occhi hanno visto le grandi cose che l'Eterno ha fatto.

Quanto abbiamo detto circa il valore teologico del termine « Riconoscete», trova la sua conferma in quanto segue. Dal v. 3 al v. 6 abbiamo, infatti, un'esplicita confessione di fede sotto forma di inno in cui vengono ricapitolati quattro grandi fatti della pedagogia divina: le piaghe d'Egitto (v. 3), il miracolo del mare (v. 4), le tappe attraverso il deserto (v. 5) e la punizione dei ribelli Dathan e Abiram (v. 6). Proprio perché Dio si era manifestato sovrano e terribile, questi eventi proclamano tutta la serietà del suo appello alla fede e all'obbedienza. L'episodio di Dathan e Abiram ci viene narrato con maggiori particolari in Nm 16, 1-33. Si tratta molto probabilmente di una confessione di fede tratta direttamente dalla liturgia e di cui abbiamo altri esempi nel Deuteronomio (Dt 26, 5-10)

8. Osservate dunque tutti i comandamenti che oggi vi prescrivo, affinché siate forti e possiate occupare il paese di cui state per entrare in possesso,

9. e affinché prolunghiate i vostri giorni nel paese che l'Eterno giurò di dare ai vostri padri e alla loro discendenza, paese dove scorre latte e miele.

Abbiamo nuovamente un ulteriore invito ad osservare tutti i comandamenti che avevano ricevuto da Dio. Questa osservanza avrebbe reso forte il popolo ed avrebbe prolungato il suo soggiorno nel paese che stavano per occupare. Viene perciò ribadito quanto già detto in Dt 4, 40. Viene anche aggiunta nuovamente l'espressione caratteristica il «paese dove scorre latte e miele», vista precedentemente, e che serve ad introdurre nuove considerazioni sulla fertilità naturale di questo paese.

10. Poiché il paese che stai per entrare ad occupare non è come il paese d'Egitto da cui siete usciti, dove seminavi la tua semente e poi la irrigavi con il tuo piede come per un orto di erbaggi;

11. ma il paese che stai per entrare ad occupare è un paese di monti e di valli, che beve l'acqua della pioggia che viene dal cielo;

12. un paese del quale l'Eterno, il tuo Dio, ha cura e sul quale stanno del continuo gli occhi dell'Eterno, il tuo Dio, dall'inizio dell'anno fino alla fine.

13. Or se ubbidirete diligentemente ai miei comandamenti che oggi vi prescrivo, amando l'Eterno, il vostro Dio, e servendolo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima,

14. avverrà che io darò al vostro paese la pioggia a suo tempo, la prima pioggia e l'ultima pioggia, perché tu possa raccogliere il tuo grano, il tuo vino e il tuo olio;

15. e farò pure crescere dell'erba nei tuoi campi per il tuo bestiame, e tu mangerai e sarai saziato.

Il paese che Israele si accingeva ad occupare era molto diverso dal paese d'Egitto, dove il terreno doveva essere regolarmente irrigato come un orto, in quanto non c'erano delle piogge periodiche. Nel versetto 10 si allude alle tecniche egiziane di irrigazione del suolo: i canali fra i solchi erano aperti o chiusi con un piede. Viceversa il paese in cui stavano per entrare era formato da valli e da monti ed era bagnato regolarmente da piogge periodiche per cui non aveva bisogno di essere irrigato per produrre i suoi frutti. Per di più era particolarmente benedetto da Dio il quale vigilava continuamente su di esso « dall'inizio dell'anno fino alla fine». Quindi se Israele avesse ubbidito diligentemente ai comandamanti ed avesse onorato l'Eterno servendolo con tutto il cuore e con tutta l'anima, Dio avrebbe provveduto ad inviare la pioggia al momento opportuno, la prima pioggia e l'ultima pioggia, affinché il popolo potesse raccogliere i frutti del suolo: il grano, il vino e l'olio, mentre i campi avrebbero spontaneamente prodotto l'erba necessaria per nutrire il bestiame. La prima pioggia a cui si allude qui è la pioggia d'autunno che in Israele cadeva in concomitanza con la semina del grano alla fine di ottobre, e in novembre e dicembre, perché il grano seminato potesse attecchire bene e mettere radici. L'ultima pioggia è la pioggia di primavera che cadeva all'inizio di aprile; era molto importante per portare il grano a maturazione prima della mietitura. In quei paesi l'acqua era considerata quasi come un tesoro di cui Dio disponeva in cielo. Se le piogge cadevano al momento opportuno, il raccolto sarebbe stato abbondante, viceversa se le pioggie tardavano a venire o addirittura mancavano, ci sarebbe stato un periodo di carestia. La particolare provvidenza di Dio nei confronti di Israele è messa in risalto anche in Dt 28, 12 ed è strettamente legata all'ubbidienza da parte del popolo (Lv 26, 3-5; Gr 5, 24). Il profeta Gioele invita gli isrealiti a gioire per la particolare cura che Dio ha nei confronti del suolo della Palestina (Gl 2, 23-24). L'immagine dell'agricoltore che attende pazientemente la prima e l'ultima pioggia, viene ripresa anche da Giacomo, per invitare i cristiani ad attendere pazientemente la venuta del Signore. Come il Signore provvede ad inviare la pioggia della prima e dell'ultima stagione, così Egli non mancherà di portare a termine le sue promesse con il ritorno di Cristo. (Gc 5, 7).

16. State in guardia affinché il vostro cuore non sia sedotto e non vi sviate, servendo altri dèi e prostrandovi davanti a loro;

17. poiché allora si accenderebbe contro di voi l'ira dell'Eterno e chiuderebbe i cieli e non vi sarebbe più pioggia, e la terra non darebbe più i suoi prodotti e voi presto perireste nel buon paese che l'Eterno vi dà.

Naturalmente questa provvidenza di Dio era condizionata dal comportamento del popolo ebraico. Se il popolo si fosse sviato correndo dietro ad altri dèi, servendoli e prostrandosi davanti alloro, allora avrebbe scatenato la giusta ira di Dio, il quale avrebbe chiuso i cieli non facendo più scendere la pioggia al momento opportuno. Il terreno non avrebbe più prodotto i suoi frutti ed il popolo sarebbe perito proprio nel buon paese che l'Eterno stava per dargli. Tutto quindi era strettamente ed indissolubilmente legato all'osservanza dei comandamenti, degli statuti e dei decreti dell'Eterno.

18. Metterete dunque queste mie parole nel vostro cuore e nella vostra mente, le legherete come un segno alla mano e saranno come frontali fra gli occhi;

19. le insegnerete ai vostri figli, parlando quando sei seduto in casa tua, quando cammini per strada, quando sei coricato e quando ti alzi;

20. e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte,

Siccome tutto era legato all'osservanza della legge di Dio, allora il popolo avrebbe dovuto tenere questa legge sempre presente ed in grande considerazione. Avrebbe anzitutto dovuto conservare le parole dell'Eterno nel proprio cuore e nella propria mente. Questo significa che queste parole avrebbero dovuto avere la precedenza su ogni altro interesse e avrebbero dovuto essere studiate e meditate continuamente. Per non dimenticarle, esse avrebbero dovuto essere scritte su delle particolari strisce da portare con sé come un segno nelle proprie mani e nella propria fronte. Avrebbero dovuto essere insegnate ai propri figli e se ne doveva parlare in ogni momento e circostanza della propria vita quotidiana e domestica, quando si era seduti in casa, quando si camminava per strada e perfino prima di andare a letto, la legge doveva essere l'ultimo pensiero prima di addormentarsi ed il primo al momento del risveglio. Doveva essere scritta sugli stipiti della casa e sulle porte, in modo di averla sempre presente. Su questa usanza del popolo ebraico rimandiamo a quanto è già stato detto in occasione del commento di Dt 6, 7.8.9

21. affinché i vostri giorni e i giorni dei vostri figli, nel paese che l'Eterno giurò ai vostri padri di dar loro, siano numerosi come i giorni dei cieli sopra la terra.

22. Poiché, se osservate diligentemente tutti questi comandamenti che io vi ordino di mettere in pratica, amando l'Eterno, il vostro DIO, camminando in tutte le sue vie e tenendovi stretti a lui,

23. l'Eterno scaccerà davanti a voi tutte quelle nazioni e voi vi impadronirete di nazioni più grandi e più potenti di voi.

24. Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà, sarà vostro, i vostri confini si estenderanno dal deserto fino al Libano, e dal fiume, il fiume Eufrate, fino al mare occidentale.

25. Nessuno sarà in grado di resistervi; l'Eterno, il vostro DIO, come vi ha detto, spanderà la paura ed il terrore di voi per tutto il paese che voi calcherete.

Se gli Ebrei avessero realmente osservato e messo in pratica la legge dell'Eterno, come già detto altre volte, i loro giorni ed i giorni dei loro figli nella Terra Promessa sarebbero stati prolungati. Questa promessa viene ribadita nuovamente anche in questa occasione, ma questa volta viene introdotto un elemento sorprendente di novità che va al di là del semplice soggiorno degli Israeliti nella terra di Canaan. Viene detto infatti che che i loro giorni sarebbero stati «numerosi come i giorni dei cieli sopra la terra». Se noi andiamo al Salmo 89, 29, vediamo che, parlando del trono di Davide, viene detto: « Renderò pure la sua progenie eterna e il suo trono come i giorni dei cieli ». In base alla regola del parallelismo « i giorni dei cieli » sono assimilabili all'aggettivo « eterno ». Dobbiamo quindi concludere che anche in Dt 11, 21 l'espressione « i giorni dei cieli » abbia lo stesso significato del Salmo 89. Se questo è vero, allora per la prima volta ci troviamo in presenza di una nuova prospettiva, non più legata alla vita materiale in questa terra, ma proiettata verso un possibile spiraglio di eternità, che lascia in secondo piano ogni altra promessa.

Comunque la stretta osservanza dei comandamenti, il camminare nella via di Dio, il rimenere stretti a lui, avrebbe anche favorito gli Ebrei dal punto di vista della conquista della terra promessa. Il Signore avrebbe scacciato davanti a loro nazioni più grandi e potenti, l'eco delle loro vittorie si sarebbe sparso fra quelle genti e le avrebbe riempite di paura e di terrore. ogni luogo che il loro piede poteva calcare sarebbe caduto nelle loro mani. Nel versetto 24 abbiamo una nuova indicazione dei confini della terra che sarebbe stata conquistata da Israele. In tutta la sua estensione da sud a nord essa andava dal deserto del Neghev fino al Libano ed in larghezza dal grande fiume Eufrate fino al mare occidentale, cioè fino al Mediterraneo. In realtà questa estensione di territorio sarà pienamente raggiunta soltanto durante i regni di Davide e di Salomone.

26. Guardate, io pongo oggi davanti a voi la benedizione e la maledizione:

27. la benedizione se ubbidite ai comandamenti dell'Eterno, il vostro DIO, che oggi vi prescrivo;

28. la maledizione, se non ubbidite ai comandamenti dell'Eterno, il vostro Dio, e se vi allontanate dalla via che oggi vi prescrivo, per seguire altri dèi che non avete mai conosciuto.

29. E avverrà che quando l'Eterno, il tuo DIO, ti avrà introdotto nel paese che vai ad occupare, tu porrai la benedizione sul monte Gherizim e la maledizione sul monte Ebal.

30. Non sono essi al di là del Giordano, ad ovest della strada dove il sole tramonta; nel paese dei Cananei che abitano nell'Arabah di fronte a Ghilgal, presso la quercia di Moreh?

Qui abbiamo un'anticipazione di quanto verrà detto in maniera più particolareggiata nel capitolo 28, Dio pone Israele di fronte ad un'alternativa. Egli poteva scegliere tra la vita e la morte, tra la benedizione e la maledizione (Dt 30, 19). Se avesse scelto l'ubbidienza, tutte le benedizioni di Dio avrebbero raggiunto il popolo (Dt 28, 1); viceversa, se avesse scelto la disubbidienza, tutte le maledizioni di Dio si sarebbero riversate su di lui (Dt 28, 15). A ricordo perenne per le generazioni future l'elenco delle benedizioni dovevano essere poste sul monte Gherizim, mentre l'elenco delle maledizioni sul monte Ebal (Dt 27, 12-13). Questi monti vi trovano al di là del Giordano ad ovest della strada dove il sole tramonta e cioè nel paese dei Cananei che abitano nell'Arabah di fronte a Ghilgal, presso la quercia di Moreh. La quercia di Moreh è la prima località della Palestina in cui Dio appare ad Abramo ed in cui il patriarca costruisce un altare all'Eterno (Ge 12, 6-7). Queste indicazioni geografiche sono la testimonianza che le promesse fatte da Dio ad Abramo trovano la loro prima realizzazione

31. Poiché voi state per passare il Giordano per entrare ad occupare il paese, che l'Eterno, il vostro DIO, vi dà; voi lo possederete e vi abiterete.

32. Abbiate dunque cura di mettere in pratica tutti gli statuti e i decreti, che oggi io pongo davanti a voi.

Alla fine Mosè ricorda nuovamente al popolo che stavano per attraversare il Giordano e per occupare il paese del quale dovevano prendere possesso per abitarvi. Quindi il discorso si chiude quasi con le stesse parole con il quale era iniziato e cioè con la ripetizione dell'invito a mettere in pratica tutti gli statuti ed i decreti che l'Eterno poneva davanti al popolo. Con queste parole si conclude anche il lungo discorso di carattere esortativo, mentre dal capitolo 12 inizia un'altra parte del discorso di Mosè che riguarda in modo particolare il codice deuteronomico vero e proprio con tutta una serie di prescrizioni relative al culto ed alle istituzioni civili e religiose ebraiche.

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